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LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE (Divo Barsotti, Paolo)

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DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.

LA DOTTRINA E LA PRATICA:

LA GLORIA DEL SIGNORE

(Paolo)

Uno dei testi più grandi di San Paolo è il capitolo dell’Ora di sesta, alla festa della Trasfigurazione: ‘Noi tutti a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore siamo trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza come dallo Spirito del Signore’. È uno dei testi più belli di tutto il Nuovo Testamento, è uno dei testi più densi di dottrina, e uno dei testi soprattutto più importanti per il cristiano. In questo testo di fatto vi è tutto il programma della sua vita, se la vita cristiana è vita di fede, è vita di preghiera e di contemplazione. E la contemplazione, nel Cristianesimo, è transformante. Per questo, nella misura che noi contempliamo la luce ci trasformiamo nella luce, di gloria in gloria, in un processo che per la potenza dello Spirito sempre più ci assimila a Cristo e in Cristo a Dio. Il testo richiama due volte la gloria: l’uomo contempla la gloria per irraggiarla da sè. Prima di tutto l’anima vive nella presenza di Dio, vive nella sua luce, ma contemplando la gloria ineffabile di Dio diviene essa stessa luce, così, come un cristallo, illuminato dal sole, deviene egli stesso sorgente di luce. Il primo dovere è quello di vivere in questa presenza, di vivere in questo visione, di contemplare Dio, di essere illuminati dalla luce del Signore. Il secondo dovere che deriva necessariamente dal primo, è essere segno per gli altri: nella misura che contempliamo, noi stessi siamo illuminati, ed essendo illuminati diveniamo per li altri il segno della gloria. Ogni cristiano deve essere rivelatore del Padre, come Cristo; segno di una presenza, come Gesù. Egli si è reso invisibile agli uomini, Lui che ha detto a Filippo: ‘Chi vede Me, vede il Padre’, perchè vuol rendersi visibile in ciascuno di noi. Il Cristo deve farsi presente nelle sue membre, in noi stessi. Noi ci siamo chiesti quale rapporto hanno la festa dell’Epifania e la festa della Trasfigurazione in quanto feste della gloria? La risposta a questa domanda implica una qualche nozione della gloria. Come si manifesta la gloria? Quale rapporto vi è fra la manifestazione delle gloria nell’Epifania e nella Trasfigurazione di Cristo? Accenniamo che cosa dobbiamo intendere per la ‘gloria’. Credo che lo intuiamo senza poterlo definire chiaramente, come avviene sempre nel Cristianesimo in cui la verità è posseduta prima di esser formulata. Ogni elaborazione teologica non è che la traduzione concettuale di una realtà vissuta, di un mistero presente al quale il fedele partecipa. Quello che un teologo insegna non è mai totalmente nuovo per coloro che ascoltano. Anche se coloro che ascoltano fino a quel momento non avrebbero mai saputo esprimere quanto il teologo insegna. All’infallibilità del magistero della Chiesa risponde l’infallibilità del popolo cristiano, il quale può assentire all’insegnamento proposto in quanto ‘sente’ in quello che gli è proposto la traduzione di quanto già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già aderisce misteriosamente ‘a tutta la verità’. Definire che cos’è la gloria, in realtà è ben difficile. Intanto dobbiamo ricordare che quando si parlar di ‘gloria’ ci si riferisce a ‘qualcosa’ che appartiene esclusivamente al dominio della Rivelazione. Per i greci non esiste la realtà che questa parola esprime: ‘doxa’ in greco vuol dire opinione, e nella lingua del nuovo testamento ‘doxa’ vuol dire gloria. Il Cristianesimo e prima ancora l’Ebraismo, ha dato un contenuto nuovo a dei termini vecchi. Se per gloria, come dice San Tommaso, noi intendiamo soltanto ‘una chiara notizia’, lo splendore che porta con sè la bellezza, la potenza, la vita, questo concetto forse si potrebbe trovare anche nella lingua greca, ma non è esattamente questo il contenuto del termine biblico. Nella rivelazione ebraico-cristiana ‘gloria’ ha prima di tutto un significato oggetivo: è il peso dell’essere, è l’essere trascendente di Dio che non ha alcuna proporzione con l’essere creato e che nella sua manifestazione, si direbbe, dissolve tutte le cose. Le creature non sopportano il peso di Dio. La gloria è in rapporto col peso. Anche San Paolo nella lettera ai Corinzi parla del ‘pondus gloriae’. ‘Non vi è paragone, – egli dice, – fra le sofference del tempo presente e il peso di gloria che ci aspetta nella vita futura’. La gloria è un ‘peso’. È la presenza di un Essere che pesa, che schiaccia. Dio ha tale forza, tale grandezza che nella sua presenza vien meno la creazione intera. La gloria di Dio, prima di tutto, si direbbe che uccide e distrugge tale è la sproporzione tra l’essere creato e il Creatore. La creazione stessa si dissolve come fumo alla presenza di Dio. ‘Nessuno può vedermi e vivere’, dice Dio stesso nell’Antico Testamento. Com’è possibile allora che questa gloria si manifesti, se la sua manifestazione di fatto distrugge le cose? Il peso di Dio, in Sè medesimo, non è ancora la gloria. La gloria di Dio è ‘questo Essere divino’ che, facendosi presente dà alla creatura il senso della Sua pienezza, della Sua forza, della Sua trascendenza, del Suo peso. Distrugge la creatura ma perchè la trasforma. La gloria di Dio implica una visione, una comunicazione di Dio….: la gloria è Dio che si dona ma proprio perchè il dono è reale e non vi è proporzione tra l’essere creato e Dio, l’essere creato non può sopportare il peso di Dio, non può accoglierlo che venendo meno in qualche modo a se stesso. La creatura vien meno, per risorgere in Dio. Per la gloria la creazione entra nel mistero di Dio: Dio è incomunicabile, ma nella sua gloria Egli si comunica al mondo. E il mondo che entra in rapporto con Dio per la gloria, tanto più partecipa alla gloria di Dio quanto più entra nel suo mistero. Proprio perchè DIO è un’altra Realtà nei confronti della realtà creata, nella misura che Dio si manifesta, coloro a cui si manifesta, entrano nella invisibilità di Dio, entrano nel segreto di Dio, scendono nel silenzio, precipitano e spariscono nella luce divina, affondano in Dio e sono sommersi. Vi è un rapporto di continuità fra la grazia e la gloria – così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere anche quaggiù la grazia già ti trasferisce nel seno di Dio ma non totalmente; così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere quaggiù in una condizione ei esilio, di lontananza, di estraneità al mondo divino. Ma già la grazia è la comunicazione che Dio fa di Se stesso, comunicazione per la quale Egli trae le creature, che aveva solevato dal nulla, nel suo stesso mistero. Dio l’ha stabilita nell’essere, ma per Iddio l’averla creata è soltanto condizione per poi trarla nel suo segreto, nel suo mistero, nel suo intimo Seno. Questo processo onde la creature è tratta nel segreto di Dio è il cammino della vita religiosa, è il cammino stesso della rivelazione divina, il cammino perciò della gloria. Questo processo termina con la morte, perciò con la morte l’uomo esce definitivemente da questa realtà creata e precipita nella Realtà divina: questo è l’ultimo atto di una comunicazione che Dio mi fa di Se stesso, comunicazione che esige precisamente la fine della condizione di vita che è propria della creatura come tale. All’inizio Dio si rivela, si direbbe, nel modo più clamoroso. La trascendenza di Dio si svela agli uomini nei fenomeni più straordinari, negli avvenimenti cosmici, nella creazione intera. Avanti di Abramo e anche dopo nelle religioni che non hanno acceduto alla rivelazione profetica, Dio è conosciuto attraverso i grandi avvenimenti del cosmo: le stagioni, l’uragano, il terramoto, l’immensità dei mari… sono manifestazioni di Dio. Dio esce nella sua gloria dal suo segreto: e attraverso questi avvenimenti l’uomo è chiamato a percipire un’altra Realtà, a rendersi conto del peso di un altro mistero di cui questi avvenimenti sono il segno soltanto. Nella religione cosmica il rapporto con Dio si stabilisce attraverso questi avvenimenti straordinari di una imponenza magnifica che schiacciano l’uomo, lo atteriscono, tuttavia principalmente sul piano fisico. L’uomo si sente minacciato e sgomento. Dio non si fa vicino all’uomo che suscitando lo sgomento della morte. Quando Dio si fa più vicino, la rivelazione si fa meno impressionante sul piano esterno e l’uomo è sollecitato ad entrare finalmente nel mistero di Dio. Mentre nella rivelazione cosmica Dio rimane lontano, nella rivelazione profetica Egli si fa vicino all’uomo, entra nella sua storia. La manifestazione della gloria di Dio non ha più un legame soltanto con gli avvenimenti del cosmo, ha un legame con la storia dell’uomo. Dio si è fatto più vicino all’uomo e l’uomo Lo scopre, ora, nella sua medesima vita, nella sua medesima storia. Ma la rivelazione ultima è quella del Cristo: Dio non soltanto si fa vicino ma veramente si dona e si comunica nell’umiltà più profonda di una vita comune. Via via che Dio si avvicina all’uomo e la rivelazione divina si fa più piena, ma anche più intima all’uomo, anche l’uomo procede in un cammino di libertà e di responsabilità. All’inizio quando Dio gli parlava attraverso la natura era difficile e quasi impossibile per l’uomo poter sottrarsi alla sua luce, allora l’umanità poteva essere idolatra, ma era religiosa; oggi, al contrario, ci si domanda se è possibile che permanga la fede senza la religione. Sembra che l’umanità proceda verso una età che non avra più religione. Forse è esagerato, anzi forse è del tutto impossibile che l’umanità si incammini verso questa età. Tuttavia è vero che il processo della rivelazione divina terminando nel Cristo non riconosce più nella natura il ‘segno’ più alto di Dio. Il ‘segno’ più alto di Dio è l’uomo. Ma l’uomo può negarsi ad essere segno. Di qui il carattere di maggiore discontinuità che ha il fenomeno religioso per il mondo di oggi. La fede che l’uomo presta a Dio diviene sempre più un atto libero – non si fonda più sul rapporto necessario che l’uomo ha con una natura ancora sacra e rivelatrice di Dio. In questo cammino se Dio dunque si fa più intimo all’uomo, anche più si nasconde. La ‘secolarità’ del mondo moderno di cui spesso si parla, è ambigua – può essere la testimonianza più alta di un’esperienza di Dio non pero ‘altro’ dall’uomo ma divenuto veramente uno con lui nel primo fulgore della rivelazione cristiana, ma può essere anche l’essenza vera di Dio, può essere per l’uomo ‘la morte di Dio’. È estremamente difficile vivere il Cristianesimo: noi siamo ancora dei primitivi, nella nostra religione ancora si avverte più Dio nel terremoto o nell’immensità del mare, di quanto non si avverta nel Cristo, di quanto non si avverta e non si comunichi con Lui nel Mistero eucaristico. Siamo estranei ancora al mistero di Dio. In realtà la gloria più alta di cui l’uomo abbia mai avuto esperienza quaggiù è stata ed è la rivelazione che Dio ci ha fatto di Sè, nell’umiltà di Gesù. La rivelazione della gloria nell’umiltà di Gesù è veramente per l’uomo un discendere, un entrare proprio nell’intimo seno della divinità. In Cristo infatti veramente la natura umana è stata assunta da Dio. La gloria di Dio non più come nella rivelazione cosmica manifesta Dio nel peso di uno sgomento di morte, la gloria ha invece il peso di un amore che l’uomo non riesce a concepire e a contenere in sè. La creatura non saprà mai credere pienamente a questo amore. Anche per i Santi la cosa più difficile è credere all’amore di Dio nel Cristo. Credere cioè che l’Infinito, l’Immenso in tal modo ci abbia amato da farsi davvero nostro fratello, da divenire veramente figlio dll’uomo così che l’uomo lo possa portare sulle braccia, lo possa stringere al cuore. Altro il peso della grandezza divina che ti minaccia di morte nel terremoto, altra la rivelazione dell’amore di Dio nell’umiltà di Gesù! L’umiltà, la debolezza dell’infanzia del Cristo è qualche cosa che non ha proporzione assolutamente nè con tutta la creazione nè con tutta la storia del mondo. È un abisso, una immensità infinitamente più vasta di ogni tuo spirito. Come non vi è proporzione fra la materia e lo spirito, così non vi è proporzione fra una gloria che si manifesta nella potenza degli avvenimenti del cosmo e la rivelazione della gloria che si manifesta invece nella delicatezza, nell’umiltà di un amore che si spoglia di tutto per tutto donarsi. La rivelazione suprema di Dio è questo ‘sparire’ di Dio nella umiltà del Cristo. E questo ‘sparire’ di Dio nell’umiltà del Cristo accenna e prepara il totale sparire di Dio come ‘altro da te’ nella vita futura. Nella vita futura la gloria è semplicemente il superamento della dualità: Dio non è più ‘altro da te’, rimane la distinzione della creatura da Dio, ma la distinzione sussiste nella unità: tu non dici che Dio, tu non sei più che Dio, tu sei la sua santità, la sua vita. Non puoi cercare al di fuori di te una visione di Dio: la visione beatifica si identifica al possesso di Dio, si identifica alla tua ‘Unità’ con Lui alla tua trasformazione in Dio stesso. Rimane la distinzione ma nella unità. In questa unità non è soltanto l’uomo che sparisce come altro da Dio, è anche Dio che ‘sparisce’ come altro dall’uomo. Sparisce come ‘altro’ da te. Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà. È il cammino infatti onde l’uomo entra sempre più nell’abisso di Dio e sparisce e non rimane più che la luce divina. Dio si comunica in tal modo all’uomo che l’uomo non lo può trovare più al di fuori di sè. Prima lo vedeva nel cosmo, poi lo riconosceva nella sua medesima storia, poi Dio entrava nella sua medesima vita finchè Egli diveniva Uomo diveniva lui stesso. Di fatto, nella misura che Dio rimane ‘altro’ dall’uomo l’uomo è nell’inferno. L’inferno è la divisione. (Non la distinzione perchè la distinzione rimane eterna, ma la divisione). È per noi estremamente difficile vivere la festa della gloria nel seno del Cristianesimo. Per noi Dio sembra manifestarsi di più nella luce di un tramonto o nella solennità del silenzio dei monti, che nella nostra umile vita, che nei nostri poveri sentimenti umani. Di fatto tuttavia, l’atto supremo di una comunicazione di Dio nella vita presente è la semplicità di una Comunione Eucaristica. L’atto supremo della gloria quaggiù è perciò una comunione onde Dio si dona a te ed entra in te e tu Lo possiedi nella umiltà di un suo nascondimento totale, che implica anche un tuo nascondimento in Lui. In tanto Egli di fatto si manifesta nel suo nascondimento e tu Lo ricevi in quanto tu stesso entri nel suo occultamento divino. La rivelazione suprema della gloria non potrà mai avvenire, comunque, nella vita presente, ma avviene con la morte, perchè è precisamente con la morte che l’uomo precipita definitivamente nel silenzio di Dio. Così la gloria d’identifica al silenzio e alla morte. Ma è nel Cristo ora che Dio si rivela (e non è detto che anche domani non debba essere il Cristo, ma domani in quanto in Lui io sono già trasformato, oggi in quanto il Cristo ancora mi parla come fosse altro da me) ‘Filippo chi vede me, vede il Padre’. Proprio per questo la gloria di Dio è sollecitata oggi dell’uomo nel mistero della Epifania e della Trasfigurazione. Nell’Epifania è Dio che si rivela al ‘mondo’. L’accento vien posto su Dio. Nella Trasfigurazione è l’uomo ‘il mondo di quiaggiù’, che sia pur furtivamente, entra nella gloria divina. L’accento vien posto sull’uomo. È la medesima gloria, ma noi la contempliamo in due misteri distinti: nell’atto onde Dio si rivela agli uomini, nell’atto onde gli uomini entrano in questa gloria. Nella prima festa la Chiesa celebra l’Epifania di Dio nella debolezza e nella impotenza di Gesù Bambino, nella seconda, al contrario, celebra la Trasfigurazione dell’Uomo Gesù investito della gloria di Dio. La gloria di Dio si manifesta nella debolezza dell’infanzia perchè questa debolezza non suppone alcuna collaborazione dell’Umanità di Gesù alla manifestazione della gloria: nella sua debolezza, nella sua impotenza Egli è la Gloria. Il Vangelo insiste in modo particolarissimo nel farci riconoscere nei misteri dell’infanzia la manifestazione della gloria. Il Verbo non ha bisogno di particolari atti compiuti dalla sua Umanità per riverlarsi al mondo: nel suo stato di debolezza, di umana impotenza, di umiltà, Egli è la Gloria. ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli’, hanno cantato gli Angeli sopra la grotta di Betlem. Da adulto la gloria si rivela in Cristo attraverso una collaborazione della sua Umanità all’azione di Dio che si comunica al mondo. Così il mistero della Trasfigurazione è legato, nei Vangeli sinottici, alla Passione. Nella Trasfigurazione è veramente l’Umanità che entra nella gloria ed è trasfigurata da Dio, ma vi entra attraverso una partecipazione, una collaborazione, consapevole, libera e piena di amore. Nella misura che l’uomo è quello che è, povero, debole, impotente, Dio già lo fa segno della sua presenza, perchè Egli l’ha assunto e ne ha fatto lo strumento e il sacramento della sua gloria immensa. Ma l’uomo deve anche entrare progressivamente in questa luce collaborando all’azione stessa di Dio. Così il mistero dell’Epifania e quello della Trasfigurazione sono celebrati proprio perchè la celebrazione è anche partecipazione al mistero. Ognuno di noi è segno già di una presenza di Dio, lo è non nella misura che è grande, che è potente, ma nella misura della sua impotenza, della sua debolezza, della sua umiltà. Dio che ha assunto la natura umana in Cristo per rivelarsi in questa natura, in atto primo ha assunto anche ogni uomo. E tu devi riconoscere il segno di Dio nella umiliazione dell’uomo, nella sua povertà. Così insegna giustamente la spiritualità ortodossa e specialmente russa. Ecco come noi dovremmo avvicinarci (perchè altrimenti non sapremmo riconoscere in Gesù bambino il Figlio di Dio) ai poveri, ai sofferenti, agli umili; a questi uomini che sembrano non valere, non essere nulla agli occhi del mondo: essi sono il segno di Dio. Dio non si rivela più tanto negli avvenimenti cosmici e nemmeno negli avvenimenti storici, ma nella debolezza di un Bambino che non sa parlare, si rivela nell’impotenza di un Bambino che ha bisogno di difesa, si revala null’umiltà di un Bambino deposto su una mangiatoia. La gloria di Dio non si rivela nei miracoli del Cristo come si rivela in questa sua debolezza ed impotenza. Proprio nella misura che Dio si fa presente, riduce l’apparato della sua grandezza. E ogni uomo participa del mistero della gloria di Dio che si rivela nell’impotenza, nell’umiltà di Gesù bambino, nella misura che ogni uomo è povero, debole come Lui, nella misura che è quello che è, una povera creature. Non potremo avere una rivelazione più alta della gloria divina che di saperci, di sentirci il termine di un Amore immenso. E la nostra povertà che potrebbe sembrarci un ostacolo insuperabile è il segno precisamente della più meravigliosa rivelazione dell’amore divino; proprio perchè siamo poveri si manifesta più grande l’amore di Dio in noi. Noi non possiamo che aprirci a uno stupore senza fine nel saperci amati, nel sentirci amati per nulla. È proprio la povertà dell’uomo che dice l’incommensurabilità dell’amore divino; è proprio la nostra debolezza che dice l’insondabile ricchezza della misericordia infinita. Dio si rivela precisamente in questo come Dio, per il fatto che ci ama, per il fatto che si dona a noi, per il fatto che Egli ha voluto esser una cosa sola con noi, non scegliendo la grandezza umana, ma scegliendo la nature umana spoglia di qualsiasi valore che non fosse la sua debolezza e la povertà di creatura. Realizzare tutto questo vuol dire vivere veramente il nostro cristianesimo nel senso più pieno e più vero. Per il mistero della Trasfigurazione l’uomo partecipa alla gloria attraverso una sua collaborazione umana. Ma la collaborazione è sempre ben povera cosa. Se l’atto supremo onde l’uomo entra nella gloria è la morte, il sottrarsi definitivo dell’uomo alla vita presente, tuttavia la morte non può mai che essere accettata dall’uomo. La collaborazione che Dio chiede all’uomo non sarà che l’impegno di una volontà che si libera, si scioglie da ogni legame e si offre puramente a Dio. Non si vuole appartenere più, si lascia investire da Dio, si lascia possedere da Lui, si strappa a se stessa per abbandonarsi all’amore di Dio come alla morte. * * *

Per noi cristiani, la gloria di Dio dunque non è più (anche se non è esclusa) la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso la creazione e non nemmeno più la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso una storia in cui Egli stesso interviene: è l’uomo che Egli ha assunto in unità di persona. A una prima visione sembrerebbe che la gloria di Dio, nella sua manifestazione, vada diminuendo. Da una manifestazione di avvenimenti cosmici a una manifestazione di umiltà; da una manifestazione di potenza ad una manifestazione che si riduce quasi al nulla. In realtà se noi siamo scandalizzati da questo processo, lo siamo perchè noi rimaniamo estranei al processo stesso, non abbiamo cioè camminato con Dio. Se tu rimani estraneo a Dio, Dio, per te, si occulta sempre di più. Se invece ti lasci prendere da Lui, tu stesso entri nel segreto divino, tu stesso entri in Dio. L’occultamento di Dio allora è il to stesso occultamento in Lui. Non è perchè Egli ti è estraneo che rimane nascosto, è al contrario perchè tu stesso ti assimili a Lui e quasi in Lui stesso ti perdi. Per chi rimane al di fuori di Dio, certo, il Bambino Gesù non sembra più nulla. Mentre nessuno può rimanere indifferente a uno sconvolgimento cosmico, molti possono rimanere indifferenti di fronte al sorriso di un bambino. Se noi non rimaniamo indifferenti ad una rivelazione che ci colpisce dall’esterno (appunto perchè viviamo all’esterno) possiamo rimanere invece indifferenti ad un rivelazione che si fa soltanto nell’intimo. Proprio perchè Dio si è comunicato più intensamente, più personalmente, questa comunicazione di Dio non avviene più in tal modo da colpirti dall’esterno: deve invece realizzarsi nel più intimo del cuore. Se tu rimani fuori di te, nessuna rivelazione si compie per te: Dio si fa vicino ma tu non ti incontri con Lui. È proprio avvicinandosi all’uomo che Dio gli diviene sempre più estraneo se l’uomo non entra in se stesso, non lo cerca nel suo intimo cuore. La maggior parte, anche degli uomini sente ancora la presenza di Dio più dinanzi all’immensità dei mari che in una piccola cappella odorante di incenso. Così avenne anche fra i popoli in mezzo ai quali viveva Israele: Israele sapeva riconoscere Dio nella sua storia, gli altri popoli no. Ma soprattutto, così è avvenuto per la maggior parte degli uomini quando Dio si è fatto uomo: pochissimi seppero riconoscerlo. Perfino agli Apostoli, che erano vissuti con Lui per tanto tempo, Gesù deve dire: ‘Filippo, da tanto tempo io sono con voi e ancora non me avete conosciuto. Filippo, chi vede me, vede il Padre’. L rivelazione suprema implica l’occultamento più grande. Quanto più la nostra vita religiosa diviene profonda, tanto più, non solo diviene segreta, ma divience semplice, perde ogni apparato esterno, si spoglia, si fa pura come la luce. Non è’ così la vita di Maria SS? Forse la stessa Annunciazione si è compiuta in una ispirazione interiore (e san Luca, forse, ha dovuto descriverla in termini di visione, perchè altrimenti noi non avremmo capito): Maria SS. che viveva nell’intimità più profonda sapeva discernere la venuta di Dio, anzi viveva più grandemente la visione della gloria quanto più la visione era intima e segreta. Veramente quanto più Dio si comunica all’uomo e l’uomo entra nella gloria divina, tanto più rimane nascosto da questa medesima luce. La realtà dello spirito è più proporzionata a Dio della realtà fisica. È questa realtà che perciò è maggiormente significativa di Dio. La visione della gloria è più pura e più grande quanto più è spirituale. Più che nei grandi avvenimenti, è nel piano personale di una comunione di amore che si manifesta la gloria di Dio. La suprema manifestazione della gloria è l’amore di un Dio che muore per l’uomo. È il dono dello Spirito onde Dio si fa intimo all’uomo. Mai nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe potuto immaginare una cosa simile. La fede cristiana veramente sconcerta, scandalizza e sgomenta. E se noi non siamo sgomenti e sconcertati è perchè noi ripetiamo sì le formule del catechismo, ma non ci preoccupiamo di realizzare quello che esse vogliono dire per noi. Vorrei dirvi quello che ho provato ieri, per due minuti, forse anche meno, durante la mia adorazione della sera: sentivo che il mio atto era tutta la vita, tutta la realtà: Dio si comunicava a me nella umiltà di quella mia esperienza umana, di quel mio vivere l’istante: Cristo era in me. E non esisteva più nulla al di fuori di me. Come potrei di fatto ricevere il Cristo, come potrebbe il Cristo communicarsi a me, se io non vivessi in quell’atto tutta la vita? Non è il Cristo tutto Dio e tutto l’uomo? Così al di fuori di quell’atto non c’era più nulla, e io vivevo in quell’atto la mia comunione col Cristo. Eppure com’è difficile per noi vivere questo! Come pochi sono sensibili a Dio nella rivelazione cristiana! La rivelazione suprema di Dio si realizza per l’uomo quando egli si sottrae a tutto il visibile e precipita per sempre nella luce infinita: la morte. Allora davvero non rimane più che Dio. Dio si è comunicato finalmente all’uomo, così da divenire per l’uomo tutta la vita e tutta la realtà, così da non esistere più per l’uomo che Dio. Parliamo con un linguaggio più semplice e più diretto: in che modo noi viviamo il nostro rapporto con Dio? sappiamo riconoscere Dio nella nostra umile vita, nella nostra esistenza reale? Come viviamo la nostra comunione con Lui? Dobbiamo essere sensibili ad una divina presenza, ad una presenza che dà al minimo atto dell’uomo una grandezza che ha le misure stesse di Dio, perchè nell’atto dell’uomo, se l’uomo ha fede, confluisce nell’istante tutto il bene divino. S’impone per me, non soltanto vivere nella presenza di Dio, come comunemente s’intende, quasi nel sentimento di una infinità nella quale sono sommerso, si tratta di vivere l’imensità di un amore che ha per termine me! che ha per termine questo mio istante di vita sul quale pesa l’immenso peso di gloria e di amore: Dio che mi ama! La testimonianze che sembrano anche le più alte di una mistica religiosa non cristiana, sono ben povera cosa nei confronti di una vita cristiana. Fuori del Cristianesimo non è mai realizzata da impazzire di gioia se noi veramente vivessimo questa esperienza: Dio, cioè, che si comunica a ciascuno e tanto più si manifesta quanto più si manifesta come Amore che ha per termine nessun altro che l’uomo, ogni uomo cui totalmente Egli si dona. Ma noi siamo come ciechi, viviamo immersi in questa luce, siamo l’oggetto di questa tenerezza infinita e ne rimaniamo come estranei, come estranei erano alla presenza del Cristo coloro che vivevano con Lui, i suoi ‘fratelli’; i suoi discepoli stessi durante la sua vita mortale. A noi, ora, si dona anche di più di quando Egli viveva nella sua vita mortale. Nel dono del suo Spirito ora Egli è veramente presente a ciascuno, ora veramente Egli si è fatto cibo dell’uomo per vivere in lui e per assumerlo in Sè. Veramente nel dono del suo Spirito Dio si comunica intimamente agli uomini e fa sì che gli uomini che lo ricevono, oggi e qui, possano vivere una vita divina! È proprio per questo che il mistero dell’Epifania non è soltanto il mistero di una manifestazione della gloria di Dio nell’umanità di Gesù. È anche il mistero della manifestazione della presenza di Dio nell’umiltà del Cristo. E Cristo siamo tutti noi che siamo le sue membra. E Dio si rivela proprio nelle nostra povertà, e Dio vuole veramente esser presente e vive nella nostra umiltà; si rivela ed è presente, non a noi ma in noi e per noi al mondo. Ognuno di noi, se è cristiano, è epifania del Signore. Essere cristiani vuol dire così essere della famiglia di Dio, vuol dire esser già entrati nel segreto di Dio, perchè, se Dio ci ha donato il suo Spirito, Dio in qualche modo ma realmente non è più senza di noi nè noi siamo senza di Lui. E noi siamo nella gloria; non vediamo semplicemente la gloria, in questa gloria già siamo in qualche modo trasformati. Di qui nasce l’obbligo fondamentale della vita cristiana: la glorificazione di Dio. È il dovere che praticamente riassume tutta la legge del cristiano: essere la lode, essere la gloria di Dio. E vuol dire lasciarsi investire, lasciarsi possedere da Dio. Altra gloria non puoi dare a Lui che quella di manifestarLo in te, che quella onde Lo riveli. Il Verbo di Dio è la gloria sostanziale del Padre precisamente perchè il Padre tutto si comunica al Figlio e, nel Figlio, tutto Egli possiede. Così il cristiano tanto glorifica Dio quanto si lascia investire da Dio finchè egli non riveli più se non Dio solo. La glorificazione dell’uomo non è l’atto dell’uomo ma di Dio, è come un essere consumati dal fuoco della Divinità, così che nell’uomo non viva più che la Sua luce, non si faccia presente che la sua volontà. Certo, l’uomo rimane, ma rimane per attestare Dio. L’uomo rimane ma non dice più che Lui. La vocazione dell’uomo è quella di essere Dio. L’uomo realizza se stesso soltanto se muore a una sua indipendenza, a una sua autonomoia nei confronti del Creatore e, lasciandosi investire dalla sua presenza, fa sì che Dio vive attraverso di lui, Dio si esprima, Dio si manifesti, Dio si riveli, Dio dica Se stesso attrverso l’essere creato.

Questo avviene nel Cristo. La natura umana in tal modo è stata assunta dal Verbo che il Verbo ora ‘si esprime’ attraverso questa natura creata che è l’uomo. L’uomo singolo che nacque dalla Vergine e tuttavia ogni uomo in cui in qualche modo si estende l’incarnazione divina. Quello che è avvenuto nell’uomo Gesù, questo deve avvenire così in ciascuno di noi. È vero che noi siamo persone distinte dalla Persona del Verbo, ma è anche vero che noi viviamo la nostra vocazione personale in quanto ci doniamo al Cristo e siamo posseduti da Lui sì da divenire con Lui un solo corpo, uno spirito solo. Che cosa vuol dire glorificare Dio? Vuol dire lasciarsi investire da questa presenza in tal modo che tutto quello che in noi è ‘proprio’ sia consumato come ruggine dal fuoco e non rimanga che l’amore onde Egli ci ama e ci fa suoi. Questa è la gloria che l’uomo deve dare a Dio: un lasciarsi possedere, investire, trasformare da Lui così che al termine Lui solo rimanga. Ricordo che un amico mi fece leggere alcune pagine di un romanzo di cui non ricordo più il titolo. L’autore americano, Huxley mi sembra, imposta il suo romanzo a Firenze. Il suo protagonista è un libertino che, quando muore precipita nella Realtà. L’autore ci descrive l’esperienze di quest’anima che vuole difendersi dall’invasione della luce divina. Quest’anima sfugge a questa luce, ma pian piano questa luce (l’autore pensa che l’inferno non c’è) nonostante la resistenza dell’uomo, lo invade, lo trasforma e lo assimila a sè. Secondo l’autore la vita del cielo è questa luce pura, senza ombra alla quale domani ogni anima si dovrà identificare. Non possiamo dire che ogni anima si identifica a Dio, questa identificazione sarebbe un processo che dovrebbe escludere la responsabilità personale dell’uomo ed escluderebbe anche l’amore personale di Dio. Una concezione come quella di Huxley più che cristiana è gnostica. Tuttavia c’è qualcosa di vero in quello che egli dice. Mantenendo fermo che l’amore dell’uomo a Dio è un amore personale, libero, che implica una nostra responsibilità (Dio aspetta da noi una risposta); mantenendo fermo che l’amore di Dio ugualmente è un amore personale e non è una necessità di natura, possiamo accettarlo veramente: non vi è possibilità di un incontro fra l’uomo e Dio che se cessa il senso della dualità: Dio è l’Unico. L »Advaita’ degli indù non è ancora per sè il monismo assoluto: la ‘non dualità’ non è ancora l’unità in qui scompare ogni distinzione di Dio e della creatura ma è il riconoscimento dell’unità nella loro distinzione eterna. Dio non più comunicarsi a te e divenire una ‘tua’ richezza, una ‘tua’ vita (sarebbe un negare Dio che Egli possa essere qualcosa e non tutto, possa essere qualcosa e non l’unico). Se Dio è Egli è tutto. Tu non puoi riceverlo che in quanto in Lui ti trasformi. Qual è la gloria che tu puoi dare a Dio? Lasciarti possedere da Lui. Che Lui sia. Che Dio sia Dio. In queste parole è la nostra risposta. Che Dio sia Dio, è già ora la nostra preghiera. Perchè questo avvenga, si direbbe, che Dio nell’avvicinarsi all’uomo debba in qualche modo sparire, perchè anche l’uomo sparisca in Dio. È veramente un processo di amore. Nell’amore ognuno che ama vuole l’altro prima di sè. Dio, che ama, tanto più si avvicina tanto più si fa povero, diviene quasi nulla: il Dio creatore ‘diviene’ il Dio creature, il Dio Bambino. Ma anche l’uomo, nella misura che ama, l’uomo peccatore, che contro la volontà di Dio difende una sua libertà e vuole affermare se stesso anche contro Dio, rinunzia a ogni ‘suo’ volere, a ogni ‘sua proprietà’ per abbandonarsi come la Vergine Maria e si lascia possedere e non vive più una sua vita finchè non vive più che la sua morte. Non vivendo più che l’amore non vive più di fatto che la morte, perchè l’amore è la morte, è la morte di sè. Tanto da una parte che dall’altra è un processo di umiltà e di morte. Ma Dio muore per vivere in te, e tu muori per vivere in Lui. Ed ecco che Dio, ora, non è più in Se stesso ma in te e tu, non vivi più in te stesso ma in Lui. Così come il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre. Non cercare più Dio fuori di te, Egli ora è soltanto in te, perchè Egli ti ama. Se fosse al di fuori di te non sarebbe l’Amore. Ma anche tu, se tu ami, non puoi trovarti più in te stesso, non ti ritrovi più che in Dio, non vivi più che in Lui solo.

“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.

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“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.

Il motto “ora et labora” ormai viene attribuito, anche nei discorsi ufficiali degli ultimi Sommi Pontefici, a san Benedetto.
Leggendo, però, la sua Regola non troviamo mai il motto in questione, né l’accostamento immediato tra preghiera e lavoro.
Storicamente, dobbiamo risalire indietro nel tempo e andare agli inizi stessi del monachesimo, per trovare nella biografia di sant’Antonio Abate, scritta da sant’Atanasio, la vera origine di questo binomio.
Nella Vita di Antonio è narrato l’episodio nel quale un Angelo, alternando preghiera e lavoro, consegna al grande Anacoreta e al monachesimo cristiano “la Regola” che supera l’apparente contraddizione tra il comando divino: «Mangerai il tuo pane solo dopo avertelo sudato con un duro lavoro» (Gen 3,19), e l’invito di Gesù a «pregare sempre, senza stancarci» (Lc 18,1).
Prima di Antonio, l’apostolo Paolo aveva già risolto questo dilemma, scrivendo ai suoi discepoli di Tessalonica motivato dal fatto che alcuni di essi avevano stravolto, in modo strumentale, il suo invito a «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17) e, con questa scusa, «vivevano disordinatamente, senza far nulla», pretendendo di essere mantenuti dalla Comunità.
L’Apostolo si ribella a tale interpretazione, ed «esorta tutti nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il pane, lavorando in pace» (2Ts 3,11-12).
San Paolo dichiara che questa è la “Regola” che lui ha consegnato ai suoi discepoli, insieme al “suo vangelo”. Tutti devono osservarla, perché, conclude in modo perentorio: «Chi non vuole lavorare, non dovrebbe neanche mangiare» (3,10).
Dell’osservanza di questa “Regola” e di come l’Apostolo, prima di proporla agli altri, l’abbia lui stesso vissuta, ci parla Luca negli Atti degli Apostoli, quando ci ricorda che Paolo, a Corinto, prese alloggio nella casa di Aquila e Priscilla «dove lavorava insieme a loro, perché faceva lo stesso mestiere di fabbricante di tende» (At 18,3); perciò, nel discorso d’addio agli Anziani di Efeso, egli può dire di se stesso, senza falsa umiltà: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,34-35).
Forse san Benedetto si è ispirato a questi testi paolini quando, nell’eventualità che i monaci «si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli», li invita a non lamentarsi, anzi a vedere in ciò un dono della divina Provvidenza, «perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri Padri e gli Apostoli» (RB, 48,7-8).
E, a proposito dei “Padri” (monastici) a cui ci rimanda il fondatore di Montecassino: nei “Detti dei Padri del deserto” ce n’è uno attribuito all’abate Lucio, dove si smonta, con sottile ironia, l’eresia monastica dei messaliani, i quali presumevano di poter attuare alla lettera il comando paolino di «pregare senza interruzione».
Il saggio Anziano non interrompendo neppure per la mensa la preghiera dei suoi ospiti – che di questo si lamentarono con lui – fece loro capire come il lavoro manuale, accettato per il proprio mantenimento e per poter aiutare i poveri, permetta al monaco d’imitare l’Apostolo e lo stesso Signore Gesù, che a Nazaret, fino all’età di trent’anni, così visse.
Il monaco che sa unire la preghiera al lavoro, arriva, di fatto, alla “preghiera ininterrotta”, perché con l’elemosina, frutto del suo stesso lavoro, egli troverà dei poveri che, per riconoscenza, pregheranno per lui quando egli, fisicamente, non potrà farlo. Il “detto” sembra la riproposizione letterale di ciò che disse Paolo agli Anziani di Efeso.
Anche in questo caso potremmo constatare come “ci sia più gioia nel dare (ai poveri il frutto del proprio lavoro), che nel ricevere (da Dio ciò che gli chiediamo con la nostra povera preghiera)”.

Possiamo, dunque, dire che il motto “ora et labora” più che benedettino è paolino.
Dall’Apostolo, infatti, impariamo a vivere bene i due momenti, non come contrapposti, ma come complementari l’uno all’altro.
Non a caso la «continua agitazione» (1Ts 3,12) che egli rimprovera agli oranti “fannulloni” di Tessalonica, Gesù ha cercato di correggerla nell’ospitale e “laboriosa” sua amica, Marta (Lc 10,41).
Con questi insegnamenti, noi dovremmo vivere senza agitazione, perciò con «con tranquillità» (2Ts 3,12), sia il momento della “preghiera” (che ha la giusta priorità nella RB, in quanto riguarda il nostro rapporto interpersonale con Dio), e sia il tempo del “lavoro” (anch’esso necessario perché è attuazione pratica dell’amore verso il prossimo).
È significativo che in greco san Paolo ci chieda di lavorare «µet? ?s???a?» (2Ts 3,12); una parola: l’esichia, che nell’Oriente cristiano indica “la preghiera del cuore” e la pace interiore che da essa proviene. Dunque:“Ora et labora” ma sempre con esichia.

p. Salvatore Piga

IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

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IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

Questa voce è stata pubblicata il 16 dicembre, 2008, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo.

di Paolo Sacchi

Articolo originariamente apparso in “Bibbia e Oriente” 12 (1970 / 4-5), pp. 199-211, col titolo Appunti per una storia della crisi della Legge nel giudaismo del tempo di Gesù. La suddivisione in paragrafi è nostra.

1. PAOLO E LA LEGGE Quando Paolo [1], poco dopo il 50 d.C., spinto dalle molteplici necessità del suo stesso ministero cominciava con la lettera ai Galati a dare sistemazione organica al proprio pensiero, meditando sulla storia eccezionale del suo popolo e sulla esperienza unica della sua vita [2], portava a formulazione chiara un dramma del pensiero ebraico derivante dalla coesistenza contraddittoria di alcuni elementi della sua ideologia, i quali tuttavia risultavano tutti e da tempo bene affermati nella coscienza della gente ebraica: da un lato l’onnipotenza divina sempre più sottolineata con lo scorrere dei secoli, non solo di fronte alla natura, ma anche di fronte alla storia [3], dall’altro la libertà umana assoluta, che è presupposto fondamentale, perché si possa avere una salvezza attraverso la Legge [4]. Il problema della libertà umana, intesa come capacità dell’uomo di scegliere sempre, in totale responsabilità, fra il bene e il male, non esiste, in Israele, come problema a sé stante, ma solo come problema riflesso di quello della via della salvezza, che è tema centrale, credo, dell’ebraismo che va dai Maccabei a Paolo, o ancora oltre, e che in questo scritto chiameremo convenzionalmente “ tardo giudaismo” [5]. Paolo afferma che la Legge non può salvare; la giustificazione, indispensabile per la salvezza, è dono gratuito di Dio (Rom 3,28; Gal 3,18). La legge ha, sì, un grande valore per Paolo, che, come ebreo, non poteva non sentire di quella tutta la grandezza; ma questo valore nell’interpretazione di Paolo si fa puramente storico: la Legge è il pedagogo che ci ha condotti, già condotti, a Cristo (Gal 3,24). Dio è onnipotente e nella sua azione, volta a realizzare i suoi piani misteriosi, Egli sceglie chi vuole. Anche Giovanni insisterà su questo punto: non noi scegliamo Dio, ma Dio sceglie noi. Paolo indaga su questo punto: quali leggi può avere la scelta di Dio? Nessuna, almeno di carattere umano. Si veda Rom 9,11 ss.: Che cosa può avere determinato la scelta divina di Giacobbe, se essa fu fatta quando i due bambini erano ancora nel seno della madre e quindi non potevano ancora assolutamente avere agito? Dio è onnipotente ed elegge chi vuole; non resta che rimettersi al mistero della sua volontà (Rom 11,32). Non è assolutamente pensabile che Dio abbia scelto in base alle opere. È interessante notare che Paolo si riferisce all’episodio narrato in Gen 25,19 ss. non direttamente, ma attraverso le parole di Malachia (1,2-3): «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù». Nel racconto quale si ha nella Genesi, non si parla né di odio né di amore di Dio: Dio si limita a decretare una sorte: “il maggiore servirà al minore”, ma il perché non è detto. È solo di epoca più tarda, posteriore all’esilio, porsi il problema perché Dio abbia agito così. E se la risposta non si può dare sulla base di un ragionamento etico, non resta che cercare i motivi dell’azione divina al di là dell’umano, in una sorta di amore e di odio divino. Paolo riprende con molto maggiore sofferenza il problema e ne cerca la soluzione nella stessa direzione voluta da Malachia, anche se per lui le parole “odio” e “amore” sono una semplice citazione: tutto per Paolo sprofonda nel mistero insondabile della volontà divina. E in ciò è sulla linea della tradizione cosiddetta sapienziale. Strettamente legata a questa concezione della Legge e della elezione [6] divina, deve essere considerata la concezione che Paolo ebbe dell’uomo. L’uomo non è pienamente libero di fare il bene che forse vorrebbe e che comunque riconosce tale (Rom 7,13 ss.). Perché si possa credere nella salvezza proveniente dalla Legge, bisogna credere in una libertà umana di scelta assoluta fra bene e male. Altrimenti Dio avrebbe posto in mano all’uomo uno strumento perfetto, ma tale che l’uomo non potrà mai adoperare [7] Paolo nega che la salvezza venga dalle opere della Legge, ma nega anche che l’uomo sia interamente libero davanti al male. Fra la sua volontà e la sua azione interviene un quid per cui egli può fare l’opposto di ciò che vuole. Ci deve insomma essere nell’uomo qualcosa che si pone come ostacolo alla volontà fino a divenire principio d’azione [8]. Il cristianesimo si avvia così a riconoscere l’esistenza di un peccato originale. Queste varie concezioni di Paolo sono, come si vede, strettamente legate l’una all’altra. Paolo avvertì l’interdipendenza di queste concezioni e la necessità di sistemarle in un rapporto organico. Ma questo non significa che la loro interdipendenza si faccia sentire solo a livello della coscienza e in una mente di eccezione, come quella di Paolo: erano problemi che dovevano essere ampiamente sentiti. La fermezza, per esempio, con cui i rabbini insisteranno sulla piena libertà dell’uomo di fronte al male, oppure lo sforzo con cui qualcuno cercherà di far rientrare perfino lo jetzer hara‘, nello schema generale della bontà della creazione, una parte, anzi il perfezionamento dello jetzer hattob [9] mostrano che, sia pure con una certa lentezza, il mondo ebraico avvertiva la necessità di una organizzazione del proprio pensiero. Per poter continuare a credere nella salvezza ad opera della Legge, bisognava confutare uno per uno tutti i punti prima toccati da Paolo. Non solo, ma è evidente che quell’ebreo che avesse avvertito il senso della propria impotenza di fronte al male in termini affini a quelli di Paolo sarebbe stato portato ad accettare il punto chiave dell’insegnamento di Paolo circa la Legge; e lo stesso dicasi per quell’ebreo che già si fosse posto il problema del rapporto fra azione umana e azione divina nella storia e avesse risolto il problema nel senso di una sottolineatura della onnipotenza divina agente liberamente nella storia, non più legata dalla concezione rimuneratrice. 2. POSIZIONE DELLE VARIE CORRENTI AL TEMPO DI PAOLO Fra tutti i vari problemi su ricordati, particolarmente vivo al tempo di Paolo doveva essere quello dei limiti delle possibilità della libertà umana. Esso è particolarmente sofferto da Paolo, ma anche Flavio Giuseppe, quando vuole presentare al mondo occidentale le tre sette principali del mondo ebraico e desidera caratterizzarle rapidamente ed efficacemente, non trova niente di meglio che tracciare brevemente e schematicamente l’atteggiamento di ciascuna di esse di fronte al problema della libertà dell’uomo davanti all’azione di Dio [10]. «I sadducei – dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. 11,8,164) – sopprimono assolutamente il destino, e pongono Dio fuori della possibilità di fare alcunché di male o anche solo di scorgerlo; essi dicono che è in potere dell’uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ognuno avviene l’ima o l’altra delle due cose…». Con la parola “destino” Flavio Giuseppe intende qui, certamente, il gôral, la sorte fausta o infausta che Dio talora assegna alle cose degli uomini nell’Antico Testamento. I sadducei credono nell’uomo e nella sua capacità di forgiarsi un destino qui sulla terra [11]. All’opposto dei sadducei stanno gli esseni: essi credono che tutto venga da Dio, unico autore della storia. Nelle Ant. Iud. (VIII,l, §5), Flavio Giuseppe inizia la sua notizia sugli esseni con queste parole: «Gli esseni insegnano soprattutto a rimettersi per ogni cosa a Dio». Se qualche dubbio può esserci circa l’esatto valore di quel “rimettersi a Dio”, esso viene fugato da un passo analogo delle Ant. Iud. (XIII,5,9, §172): «La setta degli esseni afferma che il destino è padrone di tutto e che niente accade agli uomini diversamente da quanto esso ha stabilito». Ricordando che cosa può voler dire “destino” per un ebreo, non restano dubbi circa il pensiero essenico. Comunque la migliore documentazione di questa convinzione degli esseni, che tutto nel mondo e nella storia è rigidamente predeterminato da Dio, è fornita da un passo del Manuale di disciplina (1QS, III,14 ss.): il passo mostra fino a quali limiti tutto fosse sentito come determinato da Dio (perfino i pensieri degli uomini) e come cogliesse nel giusto Flavio Giuseppe nel caratterizzare le tre sette nel modo che fece. «Dal Dio della conoscenza proviene tutto ciò che è e che sarà. Prima che gli esseri siano, Egli ha fissato tutti i loro pensieri, e quando essi vengono all’esistenza, vivono secondo ciò che di loro è stato fissato. Essi compiranno le loro azioni secondo il pensiero della Sua gloria, senza che nessun cambiamento si possa apportare (ai piani divini)». Così, dunque, gli esseni. Più o meno intermedia fra le altre due è la posizione dei farisei, che in seguito cercheremo di valutare con maggiore precisione. Attribuiscono, dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. II, 8,14, §§ 162-163), ogni cosa al destino e a Dio, ma ritengono che l’operare giustamente o no dipenda in massima parte dall’uomo; però il destino coopera in ciascuna azione. Sembra che la posizione farisaica desideri in qualche modo salvare due posizioni attestate entrambe nell’Antico Testamento e apparentemente inconciliabili, da un lato la piena responsabilità umana, dall’altro l’azione di Dio nella storia in tutta la sua onnipotenza. Questa concezione farisaica di una indipendenza reciproca fra l’azione di Dio e la libertà umana, è veramente una concezione nuova ed autonoma rispetto alle altre due, o, pur nella sua personalità, si avvicina più ad una discostandosi dall’altra? La posizione farisaica appare di fatto una semplice variante della posizione sadducea. Se un abisso dovesse essere disegnato a marcare una separazione, questo abisso andrebbe posto fra l’essenismo e il resto delle sette ebraiche. Nel fariseismo in definitiva tutto dipende dall’uomo come nel sadduceismo e se la dottrina farisaica della libertà umana ha avuto uno sviluppo in senso etico, ignoto al sadduceismo, ciò è dipeso da tutta una serie di concezioni religiose proprie del fariseismo e ignote al sadduceismo, e che esamineremo fra breve. Ora basti osservare che se nel fariseismo quale è tratteggiato da Flavio Giuseppe e quale probabilmente era al tempo in cui Flavio Giuseppe si trovava in Palestina (prima della guerra con Roma) c’è qualche incrinatura in questo senso della libertà dell’uomo, essa è attestata da quell’“in massima parte”, che egli aggiunge all’affermazione per cui i farisei «ritengono che l’operare giustamente o no dipenda dall’uomo». È la spia di un’incrinatura che i rabbini delle età seguenti cercheranno di far scomparire del tutto: essi avvertivano perfettamente che la concezione farisaica della Legge era possibile solo a patto che l’uomo fosse non “massimamente”, ma interamente libero e autonomo. 3. ORIGINI DEL PROBLEMA Ma torniamo alla posizione farisaica in rapporto a quella sadducea ed essenica. È un antico motivo veterotestamentario che Dio protegge Israele, quando questo osserva la Legge, e lo abbandona, quando questo tradisce la Legge. Dio interviene allora per punire il popolo ebraico. La storia diviene così la storia delle punizioni di Israele, ma è facile notare che la libertà di Dio è concepibile solo nei limiti in cui sceglie una pena. Dio altrimenti è chiamato in causa da Israele stesso che lo costringe ad agire, perché ristabilisca l’ordine turbato. Insomma l’azione di Dio è determinata da un certo comportamento etico dell’uomo e l’uomo è padrone del suo comportamento etico. Niente di strano perciò che questa concezione farisaica abbia finito con l’arrivare fino a posizioni del tipo di alcune, oggi assai diffuse, per cui il messia finisce con l’essere Israele stesso; o comunque è Israele che preparerà la venuta del messia, tanto che questa finirà solo con l’essere un segno o una conseguenza della giustizia di Israele. Scrive oggi il rabbino Sierra: «Israele, quale collettività consacrata ed impegnata ad una particolare disciplina di vita, si considera al servizio dell’umanità per precederla e preparare con essa il Regno di Dio sulla terra». Se la testimonianza di Flavio Giuseppe lascia intravvedere la possibilità che nel I sec. d.C. sussistesse qualche dubbio all’interno dello stesso mondo farisaico circa la totale libertà dell’uomo di fronte al male (cosa che bene spiega la problematica di Paolo), nei secoli seguenti i rabbini hanno preso posizione nettissima in favore della libertà morale dell’uomo. Nella seconda metà del II secolo d.C. il grande rabbino Aqiba (Abot, 5,15ss.) aveva detto che tutto è previsto (e quindi determinato da Dio), ma la libertà morale è lasciata all’uomo. Intorno al 300 r. Hanina ben Papa spiegava la sua concezione di una libertà morale assoluta dell’uomo col racconto dell’angelo della notte preposto da Dio ai concepimenti (Niddâ 16b). L’angelo chiede a Dio come dovrà essere l’uomo che sta per essere concepito: Dio determinerà tutto, tutto fuorché la sua libertà; l’angelo domanda se l’uomo dovrà essere debole o forte, saggio o stolto, ma deliberatamente non domanda se dovrà essere giusto, o ingiusto, poiché ciò dipende solo dall’uomo. La tradizione non ricorda, che io sappia, dispute circa questa libertà umana all’interno del rabbanismo. È chiaro che queste affermazioni di R. Aqiba e di R. Hanina servono a chiarire il pensiero rabbanita contro attacchi esterni. Non c’è disputa all’interno. Ma il problema della libertà umana e dei suoi limiti non è nato né al tempo di Paolo e di Flavio Giuseppe, né a quello di Gesù. Ricordo Sir. 15,15, in cui è detto: «Se vuoi, puoi osservare i comandamenti…» [12] Il Siracide afferma cosa che è certamente nella tradizione veterotestamentaria. Poteva avere in mente un passo come Deut. 30,15: «Guarda, io pongo oggi, davanti a te, la vita e il bene, la morte e il male… Se ascolti gli ordini, …vivrai» [13]. Ma l’espressione del Siracide mostra che egli era sollecitato da un problema da cui non era toccato l’autore del Deuteronomio e lo risolve in un certo modo. Si è visto, dunque, che, dal secolo II a.C. fino al 300 d.C., si hanno nel mondo ebraico alcune prese di posizione in favore della libertà morale dell’uomo. È chiaro dal loro tono che queste affermazioni si fanno sempre più nette col passare degli anni. Ciò dipende dal fatto che parallelamente alla corrente farisaica si dovevano essere sviluppate nel mondo ebraico altre correnti che predicavano cose diverse e che dovevano essere sembrate pericolose al farisaismo, se questo prese posizione. Ci si può pertanto domandare se questa disperazione della Legge, da cui nasce il cristianesimo di Paolo come corrente di pensiero marcata da una ideologia ben precisa, risalga solo a Paolo o non abbia nell’ebraismo radici più antiche, non sia cioè una componente della cultura ebraica che, tenuta quasi in disparte perché temuta, ha finito con l’imporsi con l’evidenza di una realtà indiscutibile, quando si è presentato all’uomo la possibilità di inquadrare in nuove sistemazioni ideologiche una concezione così temuta. Prima di guardare i testi qumranici, giova porsi ancora un problema riguardo a Paolo. Abbiamo visto come il mondo ebraico del tempo, grosso modo, di Gesù appare diviso circa il grave problema della libertà umana, o meglio dei limiti e delle possibilità della libertà umana. È certo che Paolo ebbe la sensazione precisa dei limiti di questa libertà e ne abbiamo già parlato. Si pone il problema se questa concezione limitata della libertà umana si possa considerare in Paolo nata con la conversione, oppure rappresenti uno stato d’animo dell’uomo radicato da tempo nella coscienza di Saulo. In altri termini, ci si domanda se quell’incrinatura nella concezione farisaica della libertà che appare nella versione che ce ne ha lasciato Flavio Giuseppe e di cui abbiamo già parlato, non possa ritrovarsi anche in Saulo. Quando Paolo guarda la Legge, da qualunque parte la guardi, trova sempre la sua inutilità, almeno per l’uomo del suo tempo. Può darsi che Paolo sia così disilluso della Legge, proprio perché le chiede di più di quanto essa possa dare; ma questa richiesta alla Legge non può essere invenzione di Paolo; deve essere un’opinio communis abbastanza diffusa. Per esempio, in Gal 3,21 Paolo dice che per credere a una giustificazione dalla Legge, bisognerebbe che Dio avesse dato agli uomini una Legge che dà la vita. Un modo di ragionare di questo genere svela un discreto lembo dell’animo di Saulo, che aspirava alla Vita e che sentiva che fra lui e la Vita c’era sempre la barriera rappresentata dal peccato, a lui presentato proprio dalla Legge con ogni evidenza. C’è in fondo all’anima di Paolo un anelito in direzione di una libertà dalle cose, che difficilmente è nato con la conversione. La conversione gli avrà piuttosto indicato la via per superare certe aporie della sua cultura in una visione organica del mondo. Si rilegga Gal 4,1 ss.: l’uomo senza Cristo è schiavo degli elementi del cosmo e degli astri; la fede in Cristo ha liberato Paolo ed ora si sentirebbe forse più grande dell’umano, se Dio non gli avesse dato, per non farlo salire in superbia, un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse [14]. «Nessun uomo è giusto davanti a te» (Sal 143,2) aveva cantato un salmista e la saggezza ebraica aveva riecheggiato questo tema; e se nessuno è giusto, che senso ha attendere la salvezza dalla propria giustizia? Si veda Gal 2,15 ss. dove è detto: «Noi, giudei di nascita… sapendo che non è giustificato nessuno per le opere della Legge…». Mi sembra che Paolo sottolinei il nesso che c’è fra l’essere ebreo e il sapere che nessuno è giusto. In questa luce, lo stesso senso del Patto ancorato alle clausole della Torah si sfalda, perché l’uomo tradisce inesorabilmente il patto [15]. Quando fu data la Legge ci fu un mediatore, anzi fu consegnata al mediatore stesso attraverso mani angeliche: la funzione della Legge è quindi puramente contingente, storica, come diciamo noi? Solo la promessa ha valore universale, perché soltanto nella promessa Dio agisce solo, senza collaborazione umana, destinata di per sé a produrre il fallimento. Idee di questo genere, come la Legge data da Dio agli uomini per mezzo di angeli, mostrano di non derivare dalla fede cristiana, ma da un ambiente colto, le cui idee assorbite da Paolo sono state da questo svolte in funzione cristiana. E chiunque, fariseo o no, sapesse che la Legge era stata data a Mosè attraverso mani angeliche non poteva non sentire una certa umanità della Legge, una sua svalorizzazione di fronte a chi la sentiva come ipostasi divina, o qualcosa del genere. 4. CONFRONTO CON GLI SCRITTI DI QUMRAN Guardiamo ora se nell’ebraismo precristiano si trovano già tracce di quella disperazione della Legge che viene con Paolo alla sua più lucida e drammatica formulazione. Compito di questo articolo è di dare uno sguardo a quel gruppo di testi detti di Qumran, dal luogo del loro ritrovamento, i quali, anche se non esprimono tutti idee necessariamente omogenee di uno stesso gruppo, tuttavia è certo che esprimono idee ebraiche. Quelli comunque di cui ci serviremo in questo articolo appartengono certamente alla setta di tipo essenico, nota come setta di Qumran. A rigore assoluto, non è certo nemmeno che tutti i testi siano anteriori a Gesù, perché l’unico dato veramente certo è quello fornito dall’archeologia, per cui si può affermare solo che si tratta di testi copiati prima del 70 d.C. Credo comunque, che con la maggior parte degli autori i testi si possano ritenere scritti fra il II e il I sec. a.C. Essi ci mostrano pertanto squarci di ideologie ebraiche anteriori di un certo tempo al cristianesimo nascente, all’ingrosso un secolo. Non stupirà trovare a Qumran una grande esaltazione della Legge, che è concepita come il pernio di tutta la vita sociale. Coloro infatti che entrano nell’alleanza, formano una comunità incardinata innanzi tutto sulla Legge: lhjwt ljhd btwrh wbhwn, «per essere una comunità nella Legge e nel patrimonio» (1QS V,l ss.). Era dunque una comunanza di beni spirituali e materiali, e la comunanza di beni spirituali è indicata dal più grande di essi, la Legge. La Legge avrà pieno vigore nell’Israele vero (lQSa 1,11); intanto essa è già il paradigma assoluto per valutare ogni condotta umana (1QS 5,21). Quando infatti si esamina un adepto, per vedere se è degno di divenire membro dell’alleanza, si dovrà esaminare quale è la sua parte in ciascuno dei due spiriti che dalla creazione del mondo si contendono l’uomo; ma per far questo, in pratica, si dovrà solo esaminare la comprensione che l’adepto ha della Legge e la sua capacità di osservarla: lpj sklw wm‘sjw btwrh. Così con la Legge l’uomo può dare giudizi estremamente sicuri. Chiunque poi non osservi la Legge non può restare a far parte della comunità e viene scacciato (1QS 8,22). È chiaro che la Legge rappresenta un perfetto paradigma di giudizio, cosa fondamentale per una comunità, in cui la necessità di giudicare è incessantemente presente, che ogni anno (1QS 5,24) devono essere giudicati tutti i membri prima dell’attribuzione delle nuove cariche. Ma oltre che questo paradigma di giudizio, la Legge può anche essere uno strumento pratico per la salvezza? In questi termini il quesito non fu posto a Qumran, né poteva esserlo. Se il problema fosse stato posto, probabilmente avrebbe provocato turbamenti. A noi interessa solo stabilire quale funzione di fatto la Legge aveva nel pensiero qumranico. In 1QS 8,14 si spiega il passo di Isaia 41,3: «Nel deserto spianate le vie del Signore». L’interpretazione qumranica è che bisogna studiare la Legge per aprire la via all’avvento di Dio. Però l’avvento divino non è determinato dallo studio della Legge, ma al contrario si dovrà iniziare questo studio tutto speciale della Legge solo quando vi saranno nell’aria i segni della prossima venuta del Messia. Allora essi si separeranno dagli altri Ebrei e andranno nel deserto come è scritto. Qui essi, sempre per realizzare la profezia, indagheranno sulla Legge. È chiaro che lo studio della Legge non ha la funzione di provocare la venuta del regno di Dio, come è nella più elaborata concezione rabbinica, ma solo quella di realizzare una profezia. L’azione divina è manifestamente indipendente da ogni contingenza storica. Questo atteggiamento può essere simile a quello di chi vede la possibilità di un acceleramento, ma solo di un acceleramento dei tempi della parusia [16]. Qualcosa ancora di più si ricava da 1QS 9,17. In questo passo si stanno dando norme per il maskil, perché possa degnamente guidare coloro che gli sono stati affidati. Fra l’altro è fatto divieto al maskil di disputare con gli altri ebrei, detti in linea generale “uomini della fossa”. Il motivo di questo rifiuto è che egli deve tener nascosto a tutti coloro che non siano membri della setta ’t ‘st htwrh btwk ’nšj h‘wl, consilium legis inter malos. È chiaro che non si tratta dei comandamenti della Legge scritta, perché tutti gli Ebrei li conoscevano benissimo. Si doveva trattare di comandamenti segreti, nascosti (o della loro interpretazione segreta), e tali, se trasgrediti, da provocare la vendetta di Dio [17]. Per salvarsi, dunque, non basta la Legge, ma ci vuole qualcosa di più, qualcosa che possiede solo la setta e che tiene segreto. Questo qualcosa è l’esatta interpretazione della Legge, quella che Enoc dice di attendere solo dal messia. Si veda Enoc 49,2: «II messia sarà potente in tutti i segreti della giustizia». Si tratta di un passo contemporaneo degli scritti della setta di Qumran, forse anche anteriore, dato che dovrebbe appartenere alla fine del sec. II a.C. Enoc, come l’anonimo autore del Manuale di Disciplina, hanno la percezione di una insufficienza della Legge che può essere colmata sia per l’uno come per l’altro solo da un supplemento di rivelazione, che Enoc proietta senz’altro al tempo del messia, mentre l’autore del Manuale di Disciplina pensa a una ispirazione di Dio già avvenuta e riservata alla Setta. Ma su un punto sono d’accordo: la Legge scritta o le sue interpretazioni umane non bastano. Questa tôrâ della setta è una vera e propria tôrâ rivelata. L’autore di una hôdajâ (IV, 10) ricorda di aver difeso la purezza di questa rivelazione contro gli uomini di Belial che cercavano di costringerlo a «cambiare la Tôrâ che hai scolpito nel mio cuore». Šinnanta, “hai scolpito”, riprende Deut 7,6; ma qui l’uomo deve tramandare i comandamenti di Dio scolpendoli nei figli, mentre a Qumran l’azione di tramandare l’insegnamento è interamente assorbita dall’ispirazione divina. È Dio che scolpisce direttamente e per Sua scelta la Sua Legge nel cuore dell’autore della hôdajâ. La Legge, sia scritta sia orale, è pertanto svalutata. Essa non può salvare, perché non è adeguatamente interpretata [18], ma questa interpretazione esatta che permette la salvezza non è opera dell’uomo: Enoc proietta questa interpretazione definitiva della Legge nell’éschaton. Essa sarà un segno dell’avvento del messia. È interessante notare che Gesù, almeno nell’interpretazione di Matteo, si presenta come interprete assoluto della Legge. L’autore della hôdajâ in questione sa di possedere un’interpretazione nuova della Legge, ma questa interpretazione non ha origine umana: è stata rivelata a lui come la Legge fu rivelata a tutti gli Ebrei. L’autore della hôdajâ è messo in salvo da Dio che lo nasconde agli occhi dei suoi nemici (5,11), ma in lui ha nascosto e la Sua Legge, che resterà nascosta fino alla rivelazione della Sua salvezza. È questa la Legge che ha la capacità di salvare, la Legge segreta e nascosta, non quella che si chiama Tôrâ; e questa Legge che salva non uscirà dal cuore dell’autore della hôdajâ che quando Dio realizzerà il Suo regno. Toccherà all’uomo produrla. In questo contesto di idee è chiaro che l’origine della salvezza è sentita come solamente divina: la Legge che è stata data all’autore della hôdajâ ha una capacità salvifica che si rivelerà solo quando Dio lo vorrà; essa ha più l’aspetto di un segno che non di uno strumento, come è, al contrario, nella concezione farisaica. Un altro passo ancora mostra come la salvezza di Dio non sia, nell’ideologia qumranica, la giustizia di Israele. È pHab. 8,1. Vi è rammentato il versetto di Abacuc «Il giusto vivrà per mezzo della fede». Il versetto è così interpretato : «Questo riguarda tutti coloro che nella casa di Giuda osservano la Legge (certamente la vera Legge); Dio li salverà dal giudizio (mbjt hmšpt) per riguardo alla loro sofferenza e alla fiducia che hanno avuto nel Maestro di giustizia». Da queste parole risulta chiaro che la salvezza riguarda coloro che osservano la Legge, ma non perché la osservano. Dio salva il suo popolo, perché ha pietà delle sue sofferenze e perché (e questo è un elemento nuovo nell’ebraismo) ha avuto una certa fiducia in qualcuno che era stato inviato Dio. È inutile sottolineare le differenze che ci sono fra la concezione cristiana della fede e questa concezione qumranica [19] Ciò che qui interessa non è la differenza fra le due “fedi”; interessa rilevare che nel mondo ebraico è detto con sufficiente chiarezza che la salvezza non deriva dall’aver praticato la Legge, ma da un’altra cosa, che forse non era ben chiara nemmeno alla coscienza dei qumranici stessi. Del resto l’idea che l‘swt htwrh, “fare la Legge”, non è sufficiente a salvare l’uomo è sottintesa anche dall’insistenza con cui i qumranici sottolineano non solo la natura genericamente peccatrice dell’uomo, ma anche la colpa del singolo (1QS 11,9 ss. e Hod., passim). La loro giustizia (tzdqh, dikaiosyne) è talmente un dono di Dio, da essere identificata con Dio stesso, anche nella sua accezione di virtù umana. Penso a quel meraviglioso passo che è 1QS 10,12, in cui l’autore dice, rivolto a Dio: «Tu sei la mia giustizia». Non si può certo pensare che questa tzdqh sia frutto della Legge! Essa è data a coloro che Egli ha scelto ab aeterno, perché ab aeterno li ha amati [20]. Dio tutto ha destinato fino da prima del tempo e per realizzare i Suoi piani si serve di due spiriti, il principe della Luce e il principe delle tenebre. Ma le azioni, perfino i pensieri dei singoli sono stati incrollabilmente fissati ab aeterno, senza che niente da parte di nessuno possa essere cambiato dei piani divini. Allora che funzione ha la Legge per i qumranici? Altissima, ma di segno più che di strumento: segno destinato a distinguere gli eletti, che solo così possono vivere la loro elezione, esserne coscienti.

NOTE [1] L’individuazione dell’esistenza nel mondo ebraico del tempo di Gesù (dai Maccabei ai Tannaim) di una certa crisi della Legge parte da certe affermazioni di Paolo. Questo naturalmente non significa che queste affermazioni contengano tutto il pensiero di Paolo, e non lo significa anche se così qualcuno lo ha interpretato, come Marcione, Lutero, Harnack, Barth. Specialmente i cattolici tendono a sdrammatizzare certe espressioni, inserendole in tutta la complessa ideologia paolina. Si veda per esempio un classico come F. Prat, La théologie de Saint Paul, I, Parigi 1961 (43a edizione), pp. 243-45, dove fra l’altro è scritto: «L’esatta interpretazione di questo passo (Rom 3,21-26) è subordinata ad altri problemi…». Compito di queste pagine non è stabilire quale sia la portata di certe affermazioni di Paolo in seno alla sua stessa ideologia, ma solo di seguire lo sviluppo di idee, la cui importanza è sottolineata dal loro ricorrere a grande distanza nel tempo coi nomi sopra ricordati, da Marcione fino a oggi. Sul problema del valore della Legge in Paolo ricordo il recente lavoro di R. Bring, Christus und das Gesetz, Leida 1969. [2] Su questa impostazione del pensiero di Paolo come strettamente legato alle sue vicende di uomo ebreo, che ha vissuto il dramma di una conversione radicale e ha sentito il dramma della storia del suo popolo, si veda C.H. Dodd, The Epistle of Paul to the Romans, Londra 1960 (14a edizione), p. XXXII. Sulla drammaticità (lutte douloureuse) paolina si veda Prat, op. cit., I, p. 16. [3] Già in testi antichi si dice, per esempio, che Dio indurì il cuore di Faraone (Es 7,3-4): «Farò ostinare Faraone e moltiplicherò i mie prodigi… Tuttavia Faraone non vi darà ascolto». Un passo particolarmente notevole per mostrare questa capacità divina di intervenire nella storia fino a farle prendere una via diametralmente opposta a quello che vorrebbe la logica umana dei fatti si ha nel cantico di Anna. «L’arco dei forti è spezzato, i deboli si son cinti di forza». Si veda sul passo P. Sacchi, in “Rivista degli Studi Orientali”. Sulla datazione del Cantico di Anna ci sono molti dubbi e problemi, raccolti dal Bressan in “Biblica” 32 (1951), pp. 503-521, e 33 (1952), pp. 67-89. Pare escluso che possa essere del II sec. a.C. come taluno vorrebbe, per quanto alcune idee di questo secolo trovino una loro corrispondenza nel Cantico. Comunque deve trattarsi di opera posteriore all’esilio (diversamente le conclusioni del Bressan). Ricordo ancora Sal 139,4-5 e Qohelet, che insiste come tutto nella vita sia dono di Dio (2,25-26; 3,13; 5,18), il quale ad alcuni concede di godere delle loro fatiche e ad altri lo nega, ma non certo per punire e ricompensare (8,10). [4] Che la religione ebraica postesilica (il giudaismo) sia religione essenzialmente etica, è luogo comune. Rimando a G. Ricciotti, Storia di Israele, II, Torino 1969 (2a edizione), pp. 77 ss., dove sono riportati brani che mostrano come Israele riconosca causa della propria rovina il proprio peccato e veda la salvezza nel ritorno alla Legge. [5] Il problema del rapporto fra l’azione di Dio e quella dell’uomo e della responsabilità di quest’ultimo è stato drammaticamente sentito più volte nella storia. Ricordo S. Agostino. Si noti però che Agostino (per esempio, De Civitate Dei, V) imposta il problema sulle tracce di Cicerone, seguendo la problematica del suo tempo e della sua civiltà. I termini del problema nel mondo tardo-giudaico sono diversi. Qui i termini del problema non sono prescienza divina e libertà umana, ma elezione divina e funzione umana nella storia. Il termine che riguarda Dio, nelle due problematiche, è diverso. [6] Gv 15,16: «Non voi avete scelto me, ma io ho eletto voi e vi ho destinati…»; e con tanto maggiore umanità: 1Gv 4,10: «Non noi abbiamo amato Dio, ma Lui ha amato noi». 7] Sulla Legge intesa nel tardo giudaismo come unità assoluta si veda M. Noth, in Gesammelte Studien zum Alten Testament, Monaco 1957, p. 129. Al tempo di Gesù la Legge si andava ipostatizzando. Paolo dice che l’ebreo, in quanto possiede la Legge, ha ten mórphosin tês gnoseos kaì tês aletheías en tô-i nómo (Rom 2,20). La Legge, già identificata con la Sapienza (Sir 24,22-23), nel pensiero rabbinico (Berešit rabba VII, 2) diventa il paradigma eterno della creazione, dotata di una sua personalità, per cui essa sa e conosce; ma l’uomo non deve tentare di indagare i segreti di là dal limite della creazione. La coscienza infatti di possedere in qualche modo lo strumento stesso della creazione era tale da indurre alla superbia e l’equilibrio rabbanita supera la difficoltà secondo il principio di Sir 3,17 ss.: «Tu non devi occuparti…». Ma è sempre un limite che si pone l’uomo. È chiaro che nel mondo ebraico, molto probabilmente per influsso dell’ellenismo greco, si produce un “gonfiamento” della Legge, che cresce da norma morale umana data da Dio fino a paradigma divino della creazione. Essa diviene l’oggettivazione e rivelazione storica dell’idea di bene. È evidente che la crisi della Legge è legata anche a questo “gonfiamento”. Quanto più essa è posta in alto, quanto più essa è avvicinata, anche ontologicamente, a Dio, tanto più da essa ci si attende. Quanto più grande l’attesa, tanto più amara la disillusione. Questo fenomeno poi del “gonfiamento” della Legge è legato alla credenza nell’immortalità, che nel mondo ebraico si andava affermando nel tempo di cui ci occupiamo. Una frase come quella di Lev 18,5, hà koiesas ho ánthropos resetéi en autoîs cambia ormai di significato. Chi legge non capisce più ciò che fu scritto secoli prima. Chi scrisse pensava che attraverso l’osservanza dei comandamenti si sarebbe avuto una buona, lunga vita. Chi legge ora, intende che chi aderisce alla Legge avrà la vita eterna. [8] Cfr. A. Viard, Epître aux Romains (La Sainte Bible, curata da L. Pirot e A. Clamer), Parigi 1951, p. 91, nota a 7,15. [9] Cfr. Berešit Rabba IX. Intorno alla metà del sec. III R. Semuel b. Nahman insegnava a proposito dell’espressione di Gen 1,31 «molto buono», che essa si riferiva non solo allo jetzer tob, ma anche allo jetzer hara‘. «Infatti, se lo jetzer hara‘ non ci fosse, nessun uomo si costruirebbe una casa, si sposerebbe, genererebbe figli, eserciterebbe un’attività». Circa un secolo prima R. Meir aveva insegnato, a proposito di lbb di Deut 6,5 (scritto con due b) che la cosa andava spiegata col fatto che l’uomo doveva onorare Dio sia con lo jetzer buono, sia con quello cattivo. (T. Berakhot 7,7). In genere però il problema sembra piuttosto turbare i rabbini che spesso insegnano che Dio si pentì di aver creato lo jetzer hara‘. Si veda sul problema l’Excursus di P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament…, Monaco 1928, IV, pp. 466-483, dal quale sono tratte le citazioni di questa nota.

[10] Cfr. Bellum Judaicum II, 8, § 162 ss. per quanto riguarda i farisei e i sadducei; Antiquitates Judaicae XVIII, I, 5, § 18; XIII, 5, 9, § 172.

[11] Si veda la rapida, ma efficace rappresentazione dell’ideologia sadducea di I. Epstein, Il Giudaismo, Milano 1967, pp. 83 ss. Sul destino, si veda poi tutta la produzione del Festugière. L’uomo ellenistico avvertiva la necessità di liberarsi da questa forza oscura dalla quale si sentiva schiacciato, in qualunque cosa la identificasse. Credo che la liberazione dagli elementi del mondo di cui parla Paolo vada inquadrata in questa spiritualità. Si veda specialmente L’idéal religieux des Grecs et l’évangile, Parigi 1932, pp. 101-115. [12] Cfr. anche il testo ebraico: edizione recente di F. Vattioni, Ecclesiastico, Napoli 1968. [13] D’altra parte il Deuteronomio stesso sviluppa, e con una coscienza del problema che in queste parole è assente, anche il motivo opposto. Cfr. 9,5, dove è detto che Israele entra in possesso della Palestina, non per la sua giustizia, ma solo perché Dio è fedele alla promessa e a causa della malvagità degli indigeni. La incapacità di avvertire la contraddizione, o, se si vuole, la capacità di non essere legati a ogni aspetto del principio di non contraddizione, in favore di un’osservazione immediata del reale, seguita da un giudizio morale, ha permesso all’ebraismo una grande ricchezza di sviluppi. [14] Se il giudaismo, diciamo così, classico, sorge dall’interpretazione della propria storia in termini rigidamente etici (Dio ha punito il suo popolo con la distruzione del tempio e con la deportazione, perché non ha rispettato la Sua Legge), nel giudaismo più tardo la sventura del popolo non è più sentita come conseguenza della inosservanza della Legge, o almeno qualche voce si alza in tal senso. L’osservazione è del Renan (Vie de Jésus, Parigi 1863, p. 52), che attribuiva questa atmosfera all’epoca maccabaica. Non so su che cosa si fondasse: forse sul Sal 44,23-27. Si veda su ciò A. Jaubert, La notion d’alliance dans le judaïsme aux abords de l’ère chrétienne, Parigi 1963, p. 78. Anche se la data del passo in questione dovesse essere un po’ più alta del sec. II a.C, la cosa non avrebbe importanza per la storia della cultura. Sul problema della datazione del Salmo 44, cfr. G. Castellino, Libro dei Salmi, Torino 1955, p. 298 ss. [15] Sulla concezione di “patto” presso i Qumranici, cfr. Jaubert, La notion d’alliance…, cit. Le sue conclusioni (p. 137) bene si accordano con la tesi generale di questo mio scritto: «A che serviva, dunque, per un giudeo essere figlio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, figlio della circoncisione, se in pratica era necessaria una elezione particolare (choix préalable) da parte di Dio…?». [16] Cfr. 2Pt 3,12. [17] Sui comandamenti segreti e la loro importanza nel giudaismo, cfr. N. Wieder, The Judean Scrolls and Karaism, Londra 1962, pp. 53 ss. [18] Su questa inadeguatezza della interpretazione della Legge, W. Davies, The Setting of the Sermon on the Mount, Cambridge 1964, p. 155. [19] Cfr. J. Carmignac, Les textes de Qumran traduits et annotés (Interprétations de prophétes), Parigi 1963, p. 107, nota n. 4. In maniera diametralmente opposta il Dupont-Sommer, Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Parigi 1964 (3a edizione), p. 275, nota n. 6. Quanto all’interpretazione del Davies, op. cit., p. 217, che la salvezza, secondo questo passo qumranico, sarebbe attraverso le opere della Legge, si può dire che essa mostra solo una notevole distorsione del testo: «È chiaro che i membri della Setta saranno salvati da Dio in quanto “facitori della Legge”, e per le loro sofferenze».

G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

http://gpcentofanti.wordpress.com/2014/01/20/g-ravasi-san-paolo-su-anima-e-corpo/

G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

Di Pmartucci

Come spesso gli accadeva, san Girolamo era stato sbrigativo: san Paolo «non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto», “non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato”. Questo può essere vero per lo stile, meno per l’uso della lingua greca che egli aveva in realtà assunto e plasmato con molta originalità, assegnando a vari termini nuove e originali accezioni. Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte. A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo. A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato. Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8,16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5,16-17). L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia. Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1,27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15,49). Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento. Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale. Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere. Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44). Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la suapsyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino. Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata. È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).  

Gianfranco Ravasi

SAN PAOLO E MARIA

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SAN PAOLO E MARIA

(volevo mettere qualcosa per la memoria della Madonna di Lourdes, riguardo San Paolo ho trovato questa Omelia in data 13.5.2009, non riesco a ricostruire le letture della liturgia del giorno, ma mi sembra il commento a Galati 4,4 come è scritto sotto)

Quello che è stato proclamato come prima lettura è l’unico brano in san Paolo in cui si parla di Maria santissima. Le tredici lettere di san Paolo contano 2029 versetti, di essi solo uno è dedicato alla persona della Madre di Gesù, questo, il numero 4 del capitolo quarto della lettera ai Galati: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge”. La madre del Signore non viene nemmeno chiamata per nome, ma solo menzionata come di passaggio. Stando così le cose, sembra che a san Paolo la figura di Maria interessi minimamente e che dunque sia inutile interrogarci sull’apporto dell’Apostolo delle genti alla nostra devozione per la Madre del Signore. Prima però di abbandonare delusi la nostra ricerca e di tirare della conclusioni indebite soffermiamoci un attimo almeno su questo frammento. Potremmo scoprirvi delle ricchezze inaspettate e rivalutare anche il messaggio di san Paolo a riguardo dell’umanità di Gesù e del mistero della sua venuta nel mondo. Anzitutto la frase citata del versetto quattro si conclude solo nel versetto seguente, il cinque: ”Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.” Notiamo subito che ci sono alcuni termini che ritornano. Si può stabilire un collegamento tra la prima parte della frase e l’ultima: “Dio mandò il suo Figlio… perché ricevessimo l’adozione a figli.” Similmente sono parallele le due espressioni centrali: “(il Figlio di Dio…) nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge”. Resta in sospeso proprio l’espressione “nato da donna” che viene ad interrompere il collegamento fra figliolanza e sottomissione alla legge. In sintesi il ragionamento di san Paolo si può schematizzare così: nascendo in un mondo segnato dalla corruzione del peccato anche se frenato nella sua decadenza verso il male dalla legge ricevuta sul Sinai, il Figlio di Dio si sottopose volontariamente alle dure esigenze della legge di Mosè perché noi avessimo anche la gioia di sentirci figli di Dio. San Paolo aveva appena finito di dire che la Legge, anche la migliore possibile come quella dell’Antico Testamento, non è sufficiente per dare la salvezza. La funzione della legge è quella di un argine o di un paracarro: segnala un limite da non superare, ma non conduce alla mèta. Rende più difficile la trasgressione, ma non aiuta con nessuna spinta in avanti né attira con la forza della persuasione. Solo la fede in Gesù salva. La legge di Mosè dunque è servita come una preparazione e una guida in vista dell’incontro con Cristo. Riprendendo un esempio dei suoi tempi san Paolo dice anche che quando si entra nella maggiore età non si ha più bisogno di precettori e pedadoghi. Tutori e amministratori esercitano il loro ufficio finché uno non entra nel pieno possesso dei suoi diritti, poi essi devono cedere il campo. Alla stessa maniera non è più necessario seguire alla lettera le norme contenute nella legge di Mosè perché Gesù ci ha elevati alla dignità di figli di Dio con tutti i privilegi conseguenti. È un tema centrale nella predicazione di san Paolo, che egli svilupperà qualche anno più tardi nella lettera ai Romani. Per intanto ne traccia come un abbozzo, indotto a questo dal cambiamento di condotta intervenuto presso i Galati. Essi avevano aderito con entusiasmo al Vangelo di Gesù Cristo, ma dopo qualche tempo avevano lasciato spazio ad alcuni predicatori Giudei. Pensando di far bene si erano convinti così della necessità di osservare tutte le norme in uso presso gli Ebrei. San Paolo reagisce e ricorda ai Galati che la fede è immensamente superiore alle opere: “Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne (cioè con la materialità delle opere)? Tante esperienze le avete fatte invano? Se almeno fosse invano! Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?” È dunque in un contesto polemico che san Paolo cita la madre di Gesù, come un’oasi di pace, in mezzo a tante angustie. Anche se l’espressione “nato da donna” sembra qualcosa in più che interrompe la linearità del ragionamento, san Paolo inserisce lo stesso questo inciso a cui evidentemente attribuisce un valore particolare. Non c’è stata solo la Legge che ha accolto Gesù nel mondo, quella legge in nome della quale ad un certo punto sarebbe stato condannato. Gesù, il Figlio di Dio, è venuto nel mondo, nascendo da una donna. Il solo fatto di essere la Madre del Figlio di Dio rende questa donna particolare. Non ci dobbiamo meravigliare che san Paolo non approfondisca il punto e non aggiunga dettagli alla sua perentoria affermazione. Non dobbiamo cercare nelle lettere di san Paolo quello che troviamo contenuto così ampiamente nei Vangeli, ossia la descrizione della vita di Gesù. Non solo san Paolo omette il nome di Maria, ma non racconta di nessuna parabola, né miracolo del Signore. Se la nostra conoscenza fosse limitata a quello che ci ha lasciato per iscritto Paolo, ignoreremmo le beatitudini e quasi ogni altro detto del Signore. San Paolo non fu spettatore degli avvenimenti capitati nei tre anni della vita pubblica del Signore e perciò ne lascia il compito del resoconto ad altri, primi fra tutti al suo discepolo Luca. È interessante questa cosa, perché nel terzo Vangelo noi troviamo le informazioni più ampie che abbiamo nel Nuovo Testamento sulla figura di Maria; ma, come dice lui stesso, san Luca si decise a scrivere un racconto della vita di Gesù solo dopo avere fatto accurate ricerche in proposito e avere interrogato i testimoni diretti. L’espressione “nato da donna” dunque è come un concentrato di tutto quello che san Paolo ha da dire su Maria. Vale la pena di spiegarla seppure brevemente. Anzitutto l’attribuzione a Gesù della qualifica “nato da donna” serve a ribadire la concretezza dell’incarnazione del Figlio di Dio, che attraverso Maria diventa veramente compartecipe della nostra condizione umana, compresa la sua peculiare fragilità. Giobbe si esprime così: “L’uomo nato da donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce”. L’assenza di un padre umano per Gesù viene appena accennata, l’importante per san Paolo è che vi sia stata una madre. In quanto figlio di Maria Gesù appartiene al popolo eletto e alla discendenza del Re Davide. Essa assicura quindi il compimento delle promesse sul Messia salvatore. Non solo ma sviluppando l’intuizione contenuta nella lettera ai Romani in cui san Paolo stabilisce un confronto fra Adamo e Gesù è possibile stabilire un paragone fra Eva e Maria. La dicitura “donna” quindi richiamerebbe anche la prima donna. Come Eva fu la madre di tutti i viventi, così Maria a motivo del suo Figlio diventa la Madre di tutti i rendenti. Scrive san Paolo: “Come la disobbedienza di un solo uomo (Adamo) ha reso tutti peccatori, così l’obbedienza di uno solo (Gesù Cristo) renderà tutti giusti » e sant’Ireneo fa eco: « Ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la sua fede » Eva si lasciò sedurre e disobbedì, questa si lasciò persuadere e ubbidì. In tal modo la vergine Maria poté divenire avvocata della vergine Eva. “Il nemico infatti” dice ancora sant’Ireneo “non sarebbe stato sconfitto secondo giustizia, se il vittorioso non fosse stato un uomo nato da donna, poiché fin dall’inizio della storia il demonio ha dominato sull »uomo per mezzo di una donna, opponendosi a lui col suo potere. Per questo si proclama Figlio dell’uomo, egli che ricapitola in sé l’uomo primordiale, dal quale venne la prima donna e, attraverso questa, l’umanità. Il genere umano era sprofondato nella morte causa dell’uomo sconfitto. Ora risaliva alla vita a causa dell’uomo vittorioso.” Da San Paolo dunque possiamo imparare che la devozione a Maria è strettamente collegata alla fede nel suo Figlio e nostro Salvatore e che al contrario di essere una pratica confinata ai margini del nostro credo la nostra preghiera a Maria abbraccia l’intera storia del mondo, come anche la Madonna stessa apparendo a Fatima ci ha fatto capire…

COME SI SCRIVEVA AI TEMPI DI PAOLO, DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.gliscritti.it/blog/entry/464

COME SI SCRIVEVA AI TEMPI DI PAOLO, DI GIANFRANCO RAVASI

Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /06 /2010

Riprendiamo dal volume Sulle orme di Paolo, III, pp. 86-91, allegato alla rivista “Jesus”2009, un articolo di Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2010)

Ora leggiamo le Lettere di Paolo tradotte e stampate nelle varie lingue. Ma vediamo come nascevano in originale, scritte a mano in lingua greca su fogli di papiro, più di venti secoli fa. Nel 1933 veniva pubblicata un’opera molto dettagliata di un autore tedesco, O. Roller, sul Formulario delle lettere paoline, in cui lo studioso affrontava per la prima volta in maniera sistematica la questione: come materialmente venivano stesi gli scritti paolini? Era un’operazione molto più complessa di quanto si possa oggi immaginare. Secondo Roller, Paolo avrebbe dettato a uno scrivano (il librarius latino) alcune lettere: precisamente, la seconda ai Tessalonicesi, la prima ai Corinzi, quella ai Galati, il biglietto a Filemone e l’ultima parte della Lettera ai Colossesi; a questi scritti egli avrebbe poi apposto la firma autografa, per autenticarli. E gli autografi sono: « Il saluto è di mia mano, di Paolo» (1Corinzi 16,21); «Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo » (Colossesi 4,18); «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così» (2Tessalonicesi 3,17). Il biglietto a Filemone è stato scritto probabilmente tutto da Paolo (« di mio pugno», leggiamo al versetto 19), mentre nella Lettera ai Galati troviamo questa curiosa annotazione: « Osservate con che grossi caratteri vi scrivo di mio pugno» (6,11). [...] Per le altre lettere, invece, Roller introduceva un’ipotesi piuttosto azzardata, dicendo in sostanza: esse non sono state scritte né dettate da Paolo, il quale ne abbozzava l’argomento, la struttura e le idee fondamentali, affidandone poi la stesura effettiva a un segretario, lo scriba vero e proprio, un uomo libero, preparato, spesso assunto anche come funzionario statale, archivista, contabile, eccetera. (Negli Atti si ricorda l’opera mediatrice di uno di questi scribi, durante il tumulto degli argentieri contro Paolo a Efeso). Lo scriba, dunque, sempre secondo Roller. sviluppava il testo creando una composizione completa, che poi veniva sottoposta al giudizio e alla firma di Paolo. Uno di questi segretari usati dall’Apostolo emerge dall’anonimato nella Lettera ai Romani (16,22) annotando: «Io, Terzo, che ho scritto la lettera vi saluto nel Signore». Questa tesi dello studioso tedesco, tuttavia, fu rifiutata dalla maggior parte degli altri studiosi paolini, i quali ancora oggi sostengono che le lettere venivano dettate da Paolo e munite poi del suo avallo autografo finale; forse si potrebbe ammettere l’intervento di uno scriba-segretario per il gruppo di lettere dette « pastorali », sensibilmente diverse per stile e impostazione ideologica dalle altre. (Inoltre, […] per questo gruppo di lettere si pensa anche all’opera di discepoli dell’Apostolo, di una « scuola » paolina che le avrebbe redatte, avvalorandole con il suo nome). Dettatura, dunque. E qui bisogna tener presente che a quel tempo erano già noti e praticati sistemi di scrittura veloce, di stenografia. Orazio, per esempio, ci riferisce che Lucilio riusciva a dettare in una sola ora ben duecento versi, mentre Cicerone (secondo Plutarco) in una notte ne dettava cinquecento. E la bravura, evidentemente, era di chi scriveva con quei ritmi. Il materiale sul quale normalmente si scriveva era il papiro, ricavato dall’omonima pianta, importato soprattutto dall’ Egitto. Il nome, come si sa, è restato fino ai nostri giorni per indicare la carta nell’inglese paper, nel tedesco papier e nel francese papier. Il foglio o rotolo di papiro aveva la forma standard di 11 metri di lunghezza per 3 di altezza e veniva più volte piegato, tagliato e arrotolato infine attorno a un’asta dalla quale veniva « svolto » per la scrittura e la lettura. L’asta era chiamata « capitolo » e ad essa probabilmente allude Paolo nella Lettera agli Efesini, quando parla del «disegno di Dio di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (1,10). Nell’antico Egitto, però, si usavano fogli di papiro lunghi sino a 42 metri e alti 5. La preparazione del papiro avveniva asportando la corteccia dell’albero omonimo e tagliando a strisce il midollo. Le strisce venivano disposte in file leggermente sovrapposte l’una sull’altra, così da congiungersi reciprocamente, mentre un altro strato di strisce veniva disteso sul primo, ma in file orizzontali. Il foglio risultante veniva battuto e compresso: seccato e amalgamato, era pronto per l’uso. Tra i papiri antichi giunti fino a noi celebre è quello cosiddetto « di Ryland », scoperto nell’oasi egiziana del Fayyum: contiene i versetti 31-38, dal capitolo 18 del quarto Vangelo, quello di Giovanni, ed è databile attorno al 125-150. Com’è ovvio, si tratta di un documento prezioso per la ricostruzione di quel testo evangelico. l papiro – materiale economico e perciò di largo uso – era scritto solo su una facciata, non su tutt’e due. (Nell’Apocalisse, all’inizio del capitolo 5, si parla di «un rotolo scritto sul lato interno e su quello esterno», proprio per indicare il carattere eccezionale di quel documento). I testi erano redatti in colonne rigorosamente allineate, con una scrittura che attorno al III secolo dopo Cristo si differenzierà in letteraria-maiuscola (più raffinata) e corsiva. Nel II secolo a.C. l’Egitto mise l’embargo sulle esportazioni di papiro; allora – stando almeno alle informazioni di Plinio il Vecchio – il re Eumene II di Pergamo (197-159 a.C.) inventò quella che sarebbe divenuta poi la pergamena. Questo era un materiale assai più resistente del papiro, ma anche più costoso. (La più antica pergamena è stata trovata a Dura-Europos sull’Eufrate ed è del II secolo a.C.). Materia prima della pergamena è la pelle di pecora. Essa veniva innanzitutto lavata, privata dei peli, immersa nella calce, tesa poi su un telaio, raschiata, inumidita, strofinata con calce in polvere e lisciata con pomice. Alla fine di questa complessa e lunga preparazione era pronta per l’uso. La pergamena teneva l’inchiostro e aveva un altro vantaggio: era possibile cancellarvi un testo raschiandolo via e scriverne un altro; i fogli di pergamena cancellati e riscritti si chiamarono « palinsesti », che vuoi dire appunto « raschiato di nuovo ». Nelle grotte di Qumran si sono trovati testi scritti anche su cuoio. Paolo, oltre al papiro (il cui uso però durerà fino al IV secolo d.C.), conosceva anche la pergamena, come attesta la seconda Lettera a Timoteo, a cui l’Apostolo chiede di «portargli da Troade i libri e soprattutto le pergamene» (4,13). A partire dal II secolo d.C. avvenne una grande svolta nella tecnica editoriale, con l’invenzione del codex, il libro moderno che ben presto soppiantò il rotolo. Secondo alcuni studiosi, gli inventori del codice sarebbero stati proprio i cristiani, perché ci sono giunti quasi esclusivamente codici cristiani contenenti la Bibbia in greco (pensiamo ai preziosi codici Vaticano, Sinaitico e Alessandrino del IV secolo d.C.). Il codice non era più un rotolo, ma un vero e proprio fascicolo, fatto con fogli di papiro o di pergamena scritti su entrambe le facciate, alti solitamente 35 centimetri e larghi 25, ottenuti piegando più volte i rotoli. Sul papiro e sulla pergamena si scriveva con il calamo (un termine greco che signifìca « canna ») ricordato anche dalla terza Lettera di Giovanni: «Molte cose avrei da scrivervi, ma non voglio farlo con inchiostro e penna» (v. 13). Si trattava di una cannuccia tagliata obliquamente all’estremità, così da formare una punta destinata a trattenere e a far affluire progressivamente l’inchiostro. Ogni scriba portava con sé varie penne e un temperino per aguzzarle (leggiamo in Geremia 36,23: «Ora, quando Iudi aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava col temperino da scriba e le gettava nel fuoco»). L’inchiostro (in greco melan, cioè « nero »; in latino encaustum, « bruciato ») era noto in Egitto fin dalla prima dinastia (2850 a.c.) e anticamente lo si ricavava dal combusto, sciogliendone la fuliggine in una soluzione di colla. Infatti Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, ricorda che i Romani usavano un liquido per scrivere, prodotto anche in colori diversi, realizzati soprattutto con elementi vegetali; il rosso però si otteneva dal cinabro, un minerale di mercurio. E già nel III secolo a.C. Filone di Bisanzio parlava dell’inchiostro simpatico, cioè incolore, a base di un estratto di noci di Galla. Lo scrittoio spesso poteva essere una tavoletta portatile legata alla cintura. Su di esso si ponevano i calamai. Sugli scrittoi del « monastero » giudaico di Qumran – usati per copiare i manoscritti biblici salvati poi dalla distruzione romana nelle grotte circostanti – sono stati trovati calamai che contenevano ancora fondi secchi di inchiostro. Paolo, proprio partendo dal simbolo di una lettera scritta con inchiostro, stende nella 2Corinzi (3,2-3) uno splendido elogio.

L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

http://letterepaoline.net/2010/03/31/l%E2%80%99apostolo-senza-frontiere/

L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

Questa voce è stata pubblicata il 31 marzo, 2010, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo. di Franco Cardini

Testo tratto dal numero speciale di “Luoghi dell’infinito” (supplemento mensile del quotidiano “Avvenire”) dedicato all’Anno Paolino (n. 7, luglio 2008, pp. 16-23).

«Io non Enea, io non Paolo sono»: così Dante, al principio della Commedia (Inferno, II, 32), dichiara la sua indegnità e impossibilità di ascendere al cielo, come invece avevano fatto, per speciale grazia divina, sia il progenitore del fondatore di Roma, sia il vas electionis, Paolo di Tarso, com’egli testimonia nella Seconda lettera ai Corinti (12,2-5). Delle narrazioni che hanno per tema le ascese al cielo, l’Alighieri tace quella – nella quale non credeva, ma di cui aveva pur notizia – del profeta Muhammad, attestata in quel Kitab al-Miraj, il Libro della Scala arabo-ispanico, che potrebbe essere tra le fonti del grandioso poema. In materia di viaggi di Paolo, sarebbe bello poter cominciare da quello arcano e ineffabile che lo lasciò turbato e impaurito, e del quale non osava parlare se non in terza persona: «So di un uomo del Cristo, quattordici anni fa – fu nel corpo, non lo so, oppure fuori del corpo, non lo so, Dio lo sa – il quale venne rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – fosse nel corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa – venne rapito nel Paradiso e udì parole indicibili, che è proibito a un uomo dire. Di quest’uomo mi vanterò, ma non mi vanterò di me stesso…». Non è però all’ineffabile che ci volgeremo. L’uomo che Agostino definì “il gran leone di Dio” e che Antonio Gramsci vedeva – in una prosperava, ai suoi occhi, sommamente laudatoria – come “il Lenin del cristianesimo”, era un indomabile genio dell’azione. Nacque in una data che gli specialisti non sono stati in grado di fissare e che continua a oscillare fra il 5 e il 15 d.C. Il fariseo Saul di Tarso in Cilicia, della tribù di Beniamino, allievo di rabbi Gamaliele, era ebreo di formazione rigorosissima eppure fiero della versione latina del suo nome, Paulus, che ne sottolineava la cittadinanza romana conferita agli abitanti di Tarso già da Marco Antonio. Era stato educato a Gerusalemme, dove aveva appreso il mestiere di tessitore di tende, tipico della gente della sua regione. In Gerusalemme guidò la lotta con i primi nuclei cristiani e fu, a quanto sembra, ispiratore o istigatore della lapidazione del protomartire Stefano. Poteva avere dai 23 ai 33 anni allorché, nel 38, quel misterioso incidente sulla via di Damasco lo mutò per sempre. Se già prima di allora si era dimostrato instancabile, dopo il battesimo ricevuto nella metropoli siriaca da Anania lo fu ancora di più. Dev’esser chiaro che di lui non abbiamo notizie storiche extrascritturali: ne sappiamo solo quel po’ che ci dicono gli Atti degli Apostoli, attribuiti all’evangelista Luca, medico amico e collaboratore di Paolo, e le Lettere paoline. La critica lavora sulle corrispondenze tra i dati storici che possiamo trarre dai testi .neotestamentari e quello che sappiamo con documentata certezza: gli esiti di tale confronto sono obiettivamente esigui e non consentono di replicare con certezza a chi propende per l’ipotesi che Atti e Lettere siano stati abilmente redatti da autori posteriori ai fatti narrati, i quali avrebbero costruito un castello di architettate corrispondenze storiche. Sul piano della ragione e della critica, la questione resta aperta. Il cristiano non deve dimenticare che la veridicità di alcuni dati storici relativi alla fede è garantita non già dalla documentabile realtà storica bensì dal dogma: il Simbolo elaborato dal concilio di Nicea del 325, cioè il Credo, fonda come materia di fede quanto riguarda la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, quindi il nucleo del racconto evangelico e del magistero paolino. La critica storica, che appartiene alla ragione, non può sostituirsi alla fede: ed è in forza di questa che noi sappiamo essere Verità anche ciò che alla luce di quella non può essere affermato con certezza razionale. Come sottolinea egli stesso nella Prima lettera ai Galati (1,1), Paolo era profondamente convinto di aver ricevuto la sua missione apostolica «non da parte di uomini… bensi per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre». Ciò non significa tuttavia ch’egli non tenesse nel massimo conto il suo rapporto con la Mater Ecclesiarum, la comunità gerosolimitana, e i suoi capi Pietro, Giacomo e Giovanni dal 45 al 65. Ma furono essi stessi a riconoscere che il suo territorio missionario era non già il popolo eletto, bensì quello delle gentes, ovvero tutte le “nazioni” escluso Israele. Non che questo avvenisse facilmente. Al contrario. I pareri secondo i quali la Buona Novella era riservata agli ebrei, e non era possibile se non una Ecclesia e circumcisione (cioè destinata a chi fosse ebreo e in quanto tale esclusivo destinatario della Rivelazione), erano forti e in un primo momento prevalenti. Solo dopo quello che è stato definito il “primo viaggio missionario”, iniziato secondo gli Atti degli Apostoli (13-14) verso il 45, e il fondamentale contatto con la comunità antiochena che pare avesse già accolto degli incirconcisi, la legittimazione di una Ecclesia e gentibus cominciò a prendere piede. Ciò si verificò approssimativamente nel triennio 45-48, allorché Paolo, con Barnaba e Marco, visitò l’Asia Minore, quell’Anatolia ch’era la terra della sua stessa natia Tarso, fondando comunità aperte a fedeli di estrazione pagana. Non si può al riguardo minimizzare la tensione, se non l’esplicito contrasto, soprattutto con Pietro, al quale Paolo rimprovera la perdurante discriminazione tra fedeli d’origine ebraica e fedeli d’estrazione “gentile” (Galati 2,11-14). Gli Atti sorvolano su questa specie di braccio di ferro, ma le Lettere paoline non danno adito a dubbi.

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