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BENEDETTO XVI: LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080910_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 settembre 2008

San Paolo (4)

LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.

 

DISCORSO DI S. PAOLO ALL’AREOPAGO:

http://www.rivistazetesis.it/Sordi_SanPaolo.htm

DISCORSO DI S. PAOLO ALL’AREOPAGO:

PRIMO DOCUMENTO DELL’INCONTRO TRA MONDO GRECO E ANNUNCIO CRISTIANO.

Marta Sordi

Il primo incontro tra mondo greco e cristiani ci è documentato dal cap. 17 degli Atti degli Apostoli: da una parte ci sono filosofi stoici ed epicurei, i dotti del tempo che, sentendo San Paolo discutere ogni giorno sulla piazza con. quelli che incontrava, si chiedono: « Cosa vuoi dire questo spe?µat?????? (ciarlatano)? ». E lo condussero all’Areopago.
Dall’altra parte c’è San Paolo che, originario di Tarso, luogo di incontro tra cultura greca e mondo ebraico, doveva ben conoscere il poeta e filosofo stoico Arato che cita nel rispondere al dotto pubblico ateniese. Di questo poeta, tipico rappresentante della cultura ellenistica, Paolo assume il linguaggio, le categorie, i concetti, ma caricando ogni sua parola di una valenza nuova ed estranea a Stoici ed Epicurei, della novità portata dal fatto di Cristo.
Il pubblico ateniese lo segue senza interromperlo finché San Paolo parla di Resurrezione. A questo punto alcuni ridono, altri si allontanano, altri gli dicono :  » Di questo ti ascolteremo un’altra volta ». Pochissimi si unirono a lui e Paolo lasciò Atene per dirigersi a Corinto.

Paolo di Tarso
San Paolo originario di Tarso doveva ben conoscere quel poeta e filosofo stoico o stoicizzante Arato di Soli che cita nella prima parte del suo discorso. A Tarso, infatti, lo stoicismo ebbe seguaci e maestri, e Tarso, come ha rnesso in evidenza lo Scarpat [1], fu un sicuro punto di contatto tra cultura greca e mondo ebraico.
La prima parte del discorso di Paolo, che prende spunto da una iscrizione al « Dio ignoto » da lui vista nelle vie di Atene, è una lettura in chiave giudaico-cristiara dei primi 19 versi (il cosiddetto Inno a Zeus) dei Phaenomena di Arato. E Paolo in effetti deriva da Arato non solo la citazione esplicita (Atti 17,28) del v. 5, ma anche l’immagine del Dìo provvidente che fissa agli uomini i tempi prestabiliti. In Arato – v. 10 sgg. – si tratta degli astri e dei segni nel cielo che distinguono il corso dell ‘ anno e delle stagioni.

Paolo davanti all’Areopago
Il viaggio di Paolo ad Atene è collocabile verso la fine del 49 e gli inizi del 50: esso precede infatti il soggiorno a Corinto che inizia appunto ai primi del 50 [2] e termina nell’estate del 51 poco dopo l’arrivo del nuovo proconsole Gallione [3].
Al tempo di Paolo, nel I sec. d.C., Atene era ormai soltanto una fiorente città turistica e universitaria: già alla fine del IV sec. a.C., decaduta dalla sua antica potenza militare e politica, Atene aveva assunto un atteggiamento filoromano, e fin dal tempo delle guerre macedoniche e dopo l’annessione della Grecia alla provincia di Macedonia nel 146, era rimasta civitas libera et foederata. Sotto il controllo romano aveva ottenuto prosperità e privilegi e ricambiato i romani con una costante fedeltà. Solo nell’88 a.C., al tempo dell’invasione della Grecia da parte di Mitridate, Atene aveva defezionato; riconquistata da Silla era stata perdonata in nome dei suoi antenati [4] e aveva ottenuto nuovamente quella libertà e quell’autonomia che secondo Stradone conservava ancora all’epoca di Augusto.
In realtà sembra che l’intervento di Silla abbia corretto in senso oligarchico la costituzione ateniese, alimentando in modo particolare i poteri della Bulé [5] e dell’Areopago [6].
Quest’ultimo appare in effetti nelle iscrizioni e nelle fonti letterarie del I sec. a.C. il consiglio per eccellenza dello stato ateniese: oltre ai poteri giudiziari che esercita ancora per lo meno nel 17 d.C. [7], l’Areopago onora gli stranieri e sorveglia i costumi. Una particolare sorveglianza l’Areopago sembra aver esercitato sugli insegnamenti riservati alla gioventù. Sono queste competenze dell’Areopago che spiegano la decisione degli ascoltatori di Paolo di condurlo davanti all’Areopago [8] per dar ragione della nuova dottrina da lui insegnata. E’ dunque possibile che il discorso di Paolo sia stato tenuto veramente in mezzo all’Areopago e che non si tratti di una finzione letteraria, come alcuni credono, anche se il discorso non sembra comportare una seduta formale del consiglio areopagitico: la presenza di una donna tra gli ascoltatori di Paolo – Damaride – rivela infatti il carattere informale dell’assemblea.

Rapporti tra Paolo e gli Stoici di Roma
Il dialogo di Paolo con gli Stoici, interrotto bruscamente ad Atene, sembra essere stato ripreso a Roma dove lo stoicismo era la filosofia dominante. Esso era presente come dottrina morale e politica più che come spiegazione teoretica della realtà, e appariva perciò connaturale alla mentalità vetero-romana della classe dirigente.
Un clima di rapporti e dialogo tra stoici romani e cristiani è attestato da una serie di fatti:
- dalla stima che il martire Giustino (II sec.) mostra per il filosofo stoico Musonio Rufo vissuto il secolo precedente e da lui chiamato martire inconsapevole di Cristo, e dal giudizio di Tertulliano su Seneca, che chiama saepe noster.
- dalla concordanza che lo stesso Giustino rileva a più riprese nelle sue apologie tra morale stoica e morale cristiana Giustino rileva a più riprese nelle sue apologie tra morale stoica e morale cristiana.
- dall’accordo esistente tra la concezione politica degli Stoici e in particolare il loro concetto di libertas e 1′atteggiamento dei Cristiani verso lo Stato così come ci è rivelato dalla I lettera di Pietro e dalla lettera ai Romani di San Paolo.
- dalla quasi coincidenza negli stessi anni della persecuzione contro i Cristiani e contro gli Stoici sotto Nerone e Domiziano. In questi anni infatti Cristiani e Sroici caddero vittime dell’incomprensione e dell’impopolarità delle folle.
Ma alcuni elementi in particolare permettono di dare fondamento alla tradizione di un’amicizia tra il filosofo stoico Seneca e Paolo, che trova la sua esplicitazione nell’epistolario a loro attribuito:
- Seneca era fratello di Gallione, con cui Paolo aveva avuto rapporti a Corinto, ed era amico di Burro, prefetto del pretorio al tempo della prima prigionia romana di Paolo. Lo stesso Burro fu responsabile del trattamento liberale riservato a Paolo (gli Atti insistono sulla parresia, la libertà di parola con cui Paolo poté durante questa prigionia predicare il Vangelo) e con ogni probabilità responsabile della sua assoluzione.
– Lo Scarpat [9] osserva che l’uso del termine caro (“carne”) in Seneca è affine a quello paolino di s??? (“carne”) e di probabile influenza giudeo-ellenistica. Un’ulteriore conferma si ha in un altro stoico romano contemporaneo di Paolo, il poeta Persio, che ricorda con lo stesso significato paolino di “carne” la pulpa scelerata che impedisce agli uomini una retta e pura pratica religiosa, e sembra anche in altri passi riecheggiare concetti della predicazione cristiana.
Possiamo quindi concludere che Paolo ebbe contatti con lo stoicismo romano e quasi certamente conobbe Seneca.

[1] G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977, p.74
[2] Subito dopo l’espulsione degli Ebrei da Roma nel 49: Suet. Claud. 25
[3] Il governo di Gallione in Acaia durò dall’estate del 51 al 52.
[4] App. Mitr. 38
[5] Bulé: consiglio cittadino dell’antica polis
[6] Areopago: sede del più antico tribunale di Atene su una collinetta presso l’acropoli.
[7] Tac. Ann. II, 55
[8] Atti 17, 19
[9] Op. cit.p. 77 sgg.

 

LO SBARCO DI SAN PAOLO A POZZUOLI

http://www.santamariapozzuoli.it/Paolo.html

LO SBARCO DI SAN PAOLO A POZZUOLI - 

CENNI STORICI SU POZZUOLI E LO SBARCO DI SAN PAOLO

(ci sono delle immagini, ma piccole)

Pozzuoli
Emporio della potente Cuma, soltanto con l’arrivo di fuggiaschi di Samo (530 a.c.), che dettero alla località il nome augurale di Dicearchia (giusto governo), fu incrementata la crescita economica e urbanistica della città.
Nel 421 a.c., l’intera zona flegrea cadde sotto il dominio delle popolazioni campane e, nel 338, sotto quello di Roma, che capì l’importanza commerciale e militare del golfo Flegreo solo dopo il tentativo di conquista di Annibale (215 a.c.).
Puteoli, (piccoli pozzi), divenne l’approdo più importante del Mediterraneo, tanto da essere appellata Delus minor e litora mundi hospita.
Le arti del vetro, della ceramica, dei profumi, dei tessuti, dei colori e del ferro trovarono larga diffusione, per la presenza di maestranze locali educate a tradizione fenice, ellenistiche ed egiziane. La città prosperò fino a quando il porto rispose alle esigenze del commercio romano, ma subì un duro colpo con l’apertura di quello di Ostia. Con l’accentuazione del bradisismo discendente, che sommerse le opere portuali, e con la caduta di Roma, Puteoli divenne piccolo centro di pescatori e, nel Medio Evo, i Campi Flegrei furono solamente meta di soggiorni termali. Soltanto dopo l’eruzione del Monte Nuovo (1538), Pozzuoli iniziò una lenta ripresa socio economico-urbanistica, per opera del viceré spagnolo don Pedro Alvarez de Toledo.

Lo Sbarco di san Paolo a Pozzuoli
Il Cristianesimo penetrò a Puteoli, mentre erano ancora in vita i maggiori artefici dell’evangelizzazione dell’Occidente, testimoni diretti della predicazione di Gesù.
La notissima testimonianza degli Atti degli Apostoli è la più nobile ed esaltante:
« Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. Partimmo quindi alla volta di Roma »

Atti degli Apostoli 28, 13-14
Paolo sbarca a Pozzuoli nel 61 d. C. da una nave oneraria di Alessandra. Condotto al carcere da Festo, governatore della Giudea, si era appellato al tribunale di Nerone. Dopo vari scali e un naufragio a Malta, la nave aveva toccato Reggio e si era diretta verso il litorale campano. Entrando nel golfo partenopeo attraverso le Bocche di Capri, Paolo poté ammirare la mole della villa Jovis e delle altre residenze imperiali di Augusto e di Tiberio.
Il molo di Pozzuoli era affollato di curiosi e perditempo: così lo descriveva Seneca a Lucillo.
La nave trasportava assieme alle consuete svariate mercanzie un gruppo di prigionieri. L’Apostolo era atteso da un gruppo di amici, più propriamente “fratelli », i cristiani di Pozzuoli.
Luca non fornisce particolari su quel soggiorno né qualche nome dei fratelli di fede presenti all’incontro, ma si trattenne con i cristiani di Pozzuoli sette giorni, durante i quali li raffermò nella fede e li esortò a resistere al male.
Sul molo del porto di Pozzuoli, sulla parte esterna dell’abside, della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, si ammirano due lapidi: una, del 1918, ricorda l’approdo di Paolo di Tarso a Puteoli, con i simboli dell’apostolo, e l’altra la sosta di papa Giovanni Paolo II avvenuta, proprio nei pressi, il 12 novembre 1990. Tra le due epigrafi giganteggia la maiolica di Giuseppe La Mura, raffigurante l’arrivo di san Paolo sul molo puteolano, inaugurata il 29 giugno 1991.

DOPO TRE MESI SALPAMMO (DA MALTA)
SU UNA NAVE DI ALESSANDRIA
CHE AVEVA SVERNATO NELL’ISOLA,
RECANTE L’INSEGNA DEI DIOSCURI.
APPRODAMMO A SIRACUSA.
DOVE RIMANEMMO TRE GIORNI
E DI QUI, COSTEGGIANDO,
GIUNGEMMO A REGGIO.
IL GIORNO SEGUENTE
SI LEVO’ LO SCIROCCO
E COSI’ L’INDOMANI
ARRIVAMMO A POZZUOLI.
QUI TROVAMMO ALCUNI FRATELLI
I QUALI CI INVITARONO A RESTARE
CON LORO UNA SETTIMANA.
PARTIMMO QUINDI
ALLA VOLTA DI ROMA.

(Atti degli Apostoli, 28, 11- 14)

 

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO – Gianfranco Ravasi

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/Ravasi_Paolo.pdf

Un saggio sul pensiero dell’Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

Di Gianfranco Ravasi

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davanti all’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999. Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo,
isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale. La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo
appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte
che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro
saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e
Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto».
Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei.

Giuseppe Barbaglio
Il pensare dell’apostolo Paolo

COME PAOLO GENERA LA COMUNITÀ

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/DiocesiCEI/objects/obj_14160/files/archivio_verona/2009_01.doc.

CORSO RESIDENZIALE PER IL CLERO – VERONA 2009

COME PAOLO GENERA LA COMUNITÀ

d. Lorenzo Zani

Premessa
Sappiamo quanto sia ricco il pensiero di Paolo. Perciò è importante individuare il punto di partenza della sua teologia. La persona di Gesù sta assolutamente al centro dell’esperienza di Paolo e del suo messaggio. Ma è opportuno chiederci quale aspetto della vita di Gesù ha conquistato Paolo, con quali sottolineature egli lo propone: di tutto l’abbondante materiale riferito dai vangeli circa la vita pubblica di Gesù, Paolo riporta solo piccoli frammenti. L’intonazione all’intera vita e teologia di Paolo è data dall’evento pasquale di Gesù, dall’evento salvifico della sua morte e della sua risurre-zione. Paolo prescinde dalle motivazioni storiche della morte di Gesù e va subito a coglierne il valo-re teologico e antropologico: quella morte rivela l’amore di Dio e ci procura la salvezza dal peccato, dalla legge e dalla morte. Di conseguenza, tutto il discorso su Dio, sull’uomo, sul mondo è ricondot-to da Paolo nell’ottica della pasqua.
In questo incontro cerchiamo di capire come l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo ha spinto l’apostolo Paolo a generare nuove comunità cristiane e come ha svolto in diverse città la plantatio ecclesiae, come ha generato la Chiesa nelle diverse città. La riflessione si articola in cin-que punti.
Anzitutto cerchiamo di focalizzare come Paolo è stato afferrato dall’amore, dalla sollecitudine di Dio per l’uomo peccatore.
In secondo luogo cerchiamo di vedere come è nata in Paolo e come è stata vissuta da lui la tensione ad annunciare il vangelo fino ai confini della terra.
In terzo luogo analizziamo l’altra tensione che ha incalzato l’apostolo: il senso del tempo che è stato portato a pienezza da Gesù Cristo.
In quarto luogo analizziamo l’apertura globale, cosmica alla quale Cristo ha reso attento l’apostolo: Paolo ha percepito che il Risorto opera anche fuori della Chiesa e che tutto il cosmo viene ricondot-to a lui.
Infine cerchiamo di vedere come la sollecitudine organizzativa, istituzionale ha portato l’apostolo a visitare in vari modi le comunità da lui generate e a valorizzare i carismi e i ministeri che Dio di-spensa ai fedeli.

I. « L’amore del Cristo ci possiede » (2Cor 5,14)
Per Paolo il modo di concepire Dio e di concepire l’uomo sono strettamente collegati. Basta ricorda-re la frase: « Dio è per noi »! (Rm 8,31). In 2Cor 5,14 l’apostolo afferma che l’amore del Cristo ci possiede, ci avvolge, ci spinge (synechei). Questo verbo ha vari significati; uno è circolare: « avvol-gere, tenere insieme, abbracciare, stringere »; un altro è lineare: « stimolare, spingere, urgere », un ter-zo è quasi costrittivo: « contenere, catturare, possedere, violentare ». L’amore di Dio e di Cristo per noi è la fonte segreta del modo di pensare e di agire di Paolo, da qualcuno giudicato come fuori di senno, del suo nuovo modo di rapportarsi a Dio e agli uomini. Paolo ha sperimentato che l’amore di Cristo è così potente, così straordinario che non possiamo resistergli, quando lo incontriamo vera-mente.
1. Dio e l’uomo vanno visti in stretta relazione
L’amore di Dio e di Cristo ha fatto diventare Paolo nuova creatura, strappata da un vecchio modo di vivere, di giudicare. Avvolto dall’amore di Cristo, non conosce più se stesso e gli uomini secondo categorie terrene, basate sull’egoismo, sull’orgoglio o sulla paura della morte. Sperimentando la gratuità con cui è amato, la filiazione divina ricevuta in dono, Paolo capisce che tutti hanno bisogno e diritto di sentire questa lieta notizia che trasforma la vita. Paolo parte dalla situazione concreta, spesso drammatica, in cui vive l’uomo senza Cristo per annunciargli quella nuova, donata da Dio, e che noi riceviamo mediante la fede in Cristo, Figlio di Dio.
Questo comportamento di Paolo ci ricorda che per testimoniare il vangelo dobbiamo sempre tenere presente anche la condizione degli uomini nel nostro mondo. Siamo in un’epoca di profondo muta-mento sociale: tutto questo produce smarrimento, perché non permette di ancorarsi a delle abitudini, a riferimenti precisi. Viviamo in un diffuso pluralismo e questo rende sempre più difficile l’orientarsi. Il nostro mondo occidentale è improntato al consumismo: i tanti beni a disposizione all’inizio procurano soddisfazioni anche lecite, ma che poi condizionano. Forse la caratteristica più diffusa e più tipica della coscienza contemporanea è il gusto della opposizione. Non si accetta la su-premazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dell’unità sul plura-lismo, dell’eternità sulla temporalità. La conseguenza è il gonfiarsi canceroso della soggettività e della libertà.
Questa situazione non è del tutto negativa, non è solo un ostacolo. Il vangelo ha la possibilità di mo-strare meglio il suo carattere di sfida, di realismo, di dono, di esercizio della vera libertà, di religio-ne legata alla vita del corpo e non solo a quella della mente; il cristianesimo appare più vicino all’uomo, più bello, più vero; il mistero dell’amore trinitario appare come fonte di significato per la vita, luce per comprendere il mistero dell’esistenza umana, per trovare risposta al bisogno di rela-zioni e di compassione che tutti sperimentiamo.
Approfondiamo come Paolo parte dalla condizione umana per annunciare la salvezza compiuta da Dio in Gesù Cristo accostando tre testi: Rm 1,18-3,31 (lo completiamo con un accenno a Rm 5,1-5); Gal 4,1-7; Ef 2,11-21. In tutti e tre i testi Paolo sottolinea, anche grammaticalmente, la svolta realiz-zata da Dio in Gesù Cristo: in Rm 3,21 e in Ef 2,13 usa l’espressione avversativa « ora invece », in Gal 4,4 usa la congiunzione avversativa « ma ».

2. Il vangelo della giustizia salvifica o dell’amore di Dio (Rm 1,18-3,31; 5,1-5)
In Rm 1,16-17 Paolo espone la tesi principale di tutta la Lettera ai Romani: « Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del gre-co. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà median-te la fede ». In questa frase risaltano solo termini positivi: potenza, salvezza, fede, giustizia, vita. Il vangelo consiste essenzialmente nell’annuncio di ciò che Dio ha compiuto in favore dell’uomo: egli sta dalla parte dell’uomo per promuoverne la dignità e, in quanto perduta, per restituirgliela appieno. L’evangelo è incentrato sulla realtà operata da Dio in Cristo.
Per Paolo la giustizia di Dio non è retributiva, ma è salvifica, indica il suo intervento fatto di miseri-cordia, di grazia, di bontà, di benedizione, con il quale nell’uomo avviene un trasferimento di signo-ria: non è più né sotto il peccato, né sotto la legge, né sotto la morte, ma è in Cristo, crocifisso e ri-sorto. Paolo sa che non è facile parlare della giustizia o della misericordia di Dio nei confronti dell’uomo: da un lato l’amore di Dio può venir banalizzato con espressioni retoriche che lo riduco-no a formule; dall’altro lato questo amore sembra negato dai problemi e dai dolori della vita. Per questo motivo prima di parlare della giustizia di Dio, Paolo parla dell’ira di Dio per la condizione negativa di coloro che vivono nel dramma del rifiuto di Dio (Rm 1,18-31) e per la condizione del credente che approfitta per così dire della sua fede per sentirsi a posto e per condannare gli altri, quindi per usurpare il posto di Dio e per comportarsi in modo ateo (Rm 2,1-3,8). In Rm 3,9-20 Pao-lo tira le conclusioni, espresse in maniera perentoria sia nella frase iniziale (« tutti sono sotto il do-minio del peccato »: Rm 3,9) come in quella finale (« nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio »: Rm 3,20). Paolo fa una constatazione amara sulla drammatica situazione di peccato in cui si trova tutta l’umanità.
L’apostolo parte dal riconoscimento della comune condizione di peccato che tocca tutti gli uomini per proclamare e far comprendere l’incommensurabile dono della grazia che Dio ci fa in Gesù Cri-sto. Infatti, dopo aver evidenziato in Rm 1,18-3,20 la situazione di peccato in cui si trovano tutti gli uomini, Paolo presenta la giustizia o la fedeltà di Dio, realizzata per mezzo di Gesù Cristo a nostro vantaggio (Rm 3,21-26). L’uomo si trova in un cumulo di lacunosità e di insufficienze: è peccatore, non riesce a essere se stesso, a realizzarsi. Ma Dio non rimane indifferente a questa situazione, non accetta la degradazione nella quale l’uomo si colloca, non lo abbandona. Per testimoniarci concre-tamente la sua fedeltà, Dio ci dona il Figlio, diventato eguale a noi, morto e risorto per noi. Donan-doci il Figlio, il Padre continua a donare se stesso al mondo. Gesù ha preso su di sé tutto il peccato che pesa sull’umanità; nella sua obbedienza e nel suo amore tutti i comandamenti sono adempiuti, perciò in quell’obbedienza e in quell’amore si apre un nuovo orizzonte all’esistenza umana. La mor-te di Gesù, accolta con fiducia, libera l’uomo dalle sue scelte sbagliate, annulla il suo peccato. La risurrezione di Gesù irrobustisce e moltiplica i germi di bene, che sono nel cuore dell’uomo.
Per presentare l’opera realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo l’apostolo ricorre a un triplice vo-cabolario: a quello commerciale del riscatto o della redenzione, a quello cultuale dell’espiazione, a quello delle relazioni interpersonali, espresso con la parola riconciliazione.
Il vocabolario commerciale della redenzione è adoperato in Rm 3,24: tutti quelli che credono « sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù ». Alla base di questo vocabolario commerciale c’è un riferimento alla liberazione d’Israele dall’Egitto, come si legge in Es 15,13: « Guidasti con il tuo amore questo popolo che hai riscattato ». Paolo non dice mai che il proprietario precedente dell’uomo era il diavolo, ma indica questo proprietario con termini impersonali, come la carne, la legge, il peccato, la maledizione, la paura: sono le condizioni negative che schiavizzano l’uomo e da esse Gesù Cristo con la sua morte lo ha liberato, lo ha sot-tratto, riscattato, prosciolto. Per riscattare gli uomini dal peccato, dalla maledizione della legge, Cri-sto ha pagato un caro prezzo: il versamento del suo sangue sulla croce (1Cor 6,20).
In Rm 3,25 Paolo passa al linguaggio cultuale dell’espiazione: « Dio ha stabilito apertamente Gesù come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giu-stizia per la remissione dei peccati passati ». Lo strumento di espiazione fa riferimento al propiziato-rio, cioè al coperchio d’oro dell’arca dell’alleanza, considerato segno, luogo della misteriosa pre-senza di Dio e del suo perdono (Es 25,17). Lì nel giorno del kippur con il sangue degli animali i peccati venivano gettati nella misericordia divina e veniva ristabilito il rapporto di alleanza con Dio infranto dai peccati. « Paolo accenna a questo rito, espressione del desiderio che si potessero real-mente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue degli animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana e amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio ve-ro di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in sé tutta la nostra colpa. Egli è il luogo di contatto tra mi-seria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male, compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito » (Benedetto XVI). L’espiazione, cioè il totale perdono dei peccati, è data da Dio non più per mezzo dell’effusione di sangue animale versato sul coperchio dell’arca dell’alleanza, ma esclusivamente per mezzo del sangue versato da Gesù Cristo.
In Rm 5,10-11 l’apostolo descrive l’amore di Dio e la nostra salvezza ricorrendo al vocabolario del-la riconciliazione: « Se quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della mor-te del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non so-lo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora ab-biamo ricevuto la riconciliazione ». Anche in 2Cor 5,18-20 Paolo usa cinque volte la terminologia della riconciliazione: tre volte adopera il verbo riconciliare, due volte il sostantivo riconciliazione. La riconciliazione non è solo la normalizzazione dei rapporti dopo un litigio, ma comporta il supe-ramento di una eterogeneità. Le scelte sbagliate rendono l’uomo peccatore e lo mettono in un disa-gio oscuro rispetto a Dio, proprio come se ci fosse stato un litigio. In questo senso l’uomo che pecca è nemico di Dio che invece vuole la reciprocità. La morte del Figlio di Dio libera l’uomo dalla sua eterogeneità e lo colloca in uno stato di faccia a faccia amichevole con Dio. Questo passaggio a una reciprocità tra l’uomo e Dio è chiamato da Paolo riconciliazione. Noi ora possediamo l’inizio della riconciliazione, ma ci troviamo nell’ambito operativo del mistero pasquale di Cristo e la vitalità del Risorto ci porterà alla salvezza intesa come riconciliazione piena, definitiva. Perciò possiamo dav-vero vantarci, cioè porre la fiducia, in Dio e sperare: Dio sta davanti a noi in un atteggiamento di re-ciprocità amorosa; questa situazione ci fa sfiorare l’assoluto della trascendenza, ci riempie di entu-siasmi, ci permette di gloriarci in Dio.
Per quanto riguarda la redenzione, l’espiazione e la riconciliazione noi di solito pensiamo a uno schema ascendente, riteniamo che Cristo ha pagato al Padre al nostro posto e che espiare e riconci-liarsi con Dio significa accattivarsi Dio, renderlo favorevole, portarlo dalla propria parte. Paolo pen-sa invece sempre secondo uno schema discendente. Noi pensiamo di dover riparare un torto fatto a Dio, mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione. Paolo è convinto che dalla croce scaturi-sce l’infinita grandezza dell’amore di Dio e di Cristo per noi. La croce di Cristo non è il parafulmine nella tempesta dell’ira di Dio, ma è la rivelazione del folle amore di Dio per tutti, senza distinzioni razziali, religiose o sessuali. Paolo è evangelizzatore dell’azione con cui Dio misericordioso purifica l’uomo cancellando il suo peccato, rendendolo capace di crescere come figlio suo; Paolo annuncia che Dio ha preso l’iniziativa di realizzare la nuova alleanza, di ricomporre in modo nuovo e defini-tivo il rapporto degli uomini con lui. Dio è misericordioso senza limiti e senza ragioni: la nostra sal-vezza non sta nella nostra riparazione del peccato, ma nell’accoglienza dell’amore divino. Dobbia-mo accettare questa rivoluzione copernicana annunciata da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. La giustificazione, la redenzione, l’espiazione, la riconciliazione è pura grazia divina.
Il messaggio di Paolo sulla iniziativa gratuita di Dio può sembrare rischioso, perché può condurre a un’etica passiva. Tuttavia è un rischio che bisogna correre, perché prima di tutto va annunciato il dono che viene da Dio: è stato lui a riconciliarci con sé nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Dopo che Gesù ha rivelato sulla croce l’amore di Dio, il mondo appare nella sua profonda verità e nella sua validità. Per vivere in modo adeguato, occorre essere coscienti della misericordia di Dio, della gratuità nella quale siamo immersi, occorre anzitutto immedesimarsi in ogni istante nella mi-sericordia di Dio e porsi dal fondo dell’anima a sua disposizione.
Per capire in che senso noi siamo ministri della riconciliazione possiamo tenere presenti diversi modelli. Questo ministero può essere compreso in senso teologico, alla luce di chi è Dio, delle Per-sone divine: è sostenuto dal modello dell’amore trinitario. Può essere inteso in senso antropologico o soteriologico: è per la salvezza degli uomini, è sostenuto dalla passione per gli uomini. Può venir inteso come una realtà ecclesiologica: la Chiesa è sacramento dell’incontro di Dio con gli uomini e degli uomini tra loro. Può venir inteso in senso escatologico: il mondo è il luogo delle promesse di Dio e va portato allo shalom biblico, al regno, che è anticipato dove c’è la rivelazione di Dio come Abbà e si vive la comunione fraterna. Ognuno di questi modelli dice che la riconciliazione e il suo annuncio investono tutta la coscienza e la fede cristiana.
Con la sua vita, morte e risurrezione il Figlio ci riconduce al Padre, noi possiamo diventare come Dio ci voleva, possiamo conoscere e accogliere il suo amore e vivere in pace con lui, aperti a un fu-turo di gloria. Perché la pace tra noi e Dio sia stabile, perché il suo amore venga sempre più apprez-zato e accolto, perché noi ci sentiamo continuamente raggiunti, sostenuti e ricreati dal suo amore, il Padre effonde con abbondanza e continuità nei nostri cuori il suo Spirito, in modo che pervada tutta la nostra vita (Rm 5,1-5). Dio non si limita, quindi, a qualche atto di benevolenza; Dio ci dona il meglio di sé: assieme al Figlio ci dona il suo Spirito. L’amore di Dio non è una cosa che egli regala all’uomo, ma è lo stesso Spirito Santo.
Grazie alla presenza dello Spirito, Dio ama in noi, il suo amore diventa il nostro amore: la nostra vi-ta è alimentata dall’amore di Dio. L’amore di Dio non ci esenta dalle contraddizioni che lacerano la storia personale e di tutti gli uomini. Ma Dio non ci lascia soli: il suo Spirito opera in noi soprattutto nel momento della prova, in tutte le circostanze che disturbano la nostra vita, impedisce che le sof-ferenze nelle loro varie forme ci portino a dubitare dell’amore di Dio, a rifiutarlo; lo Spirito ci assi-cura interiormente che il Padre ci ama e perciò ci permette di vivere anche le situazioni difficili, ac-cettando la loro severa pedagogia, facendole diventare momenti che irrobustiscono la nostra fede, che verificano e consolidano la nostra speranza. Restiamo deboli, ma lo Spirito di Dio ci dà energie sufficienti per abbandonarci a Dio e gloriarci in lui, per porre cioè in lui il nostro appoggio.
3. Nella pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio per liberarci dalla legge e renderci figli suoi (Gal 4,1-7)
Nella Lettera ai Galati l’apostolo Paolo qualifica il tempo che precede la venuta di Gesù Cristo co-me quello dell’età minorile, aggiungendo che era il periodo della schiavitù dell’uomo agli elementi del mondo, cioè alle energie, ai poteri interni ed esterni che lo ingabbiano (possono essere le leggi biologiche, psicologiche, economiche, sociali, politiche, le presunte leggi astrali), al legalismo che lo tiene quasi in carcere e come sotto tutela (Gal 4,1-3).
Quando è giunto il momento da lui fissato, Dio ha dato pienezza al tempo mediante due missioni complementari: ha mandato il proprio Figlio e ha mandato lo Spirito del Figlio suo.
Anzitutto ha mandato il proprio Figlio. L’invio del Figlio comporta un duplice movimento: discen-dente e ascendente. Il movimento discendente è espresso dalle due caratteristiche della venuta di Gesù: è nato da donna ed è nato sotto la legge. È entrato nel mondo come ogni altro essere umano, attraverso il grembo di una donna. L’espressione « nato da donna » connota la fragilità: il Figlio di Dio è divenuto fragile, mortale, ha preso un corpo nel grembo di una donna. L’espressione « nato sotto la legge » sottolinea che è nato come membro del popolo ebraico, in una condizione di suddi-tanza alla legge che caratterizza l’erede minorenne. Con due « affinché » Paolo esprime la finalità di questo invio del Figlio, cioè il dono fatto agli uomini di poter compiere un movimento ascendente. In primo luogo il Figlio è venuto per riscattarci, per liberarci dalla sudditanza della legge, vissuta come una schiavitù e come pretesa di autosalvezza e diventata perciò fonte di peccato. La seconda finalità completa la prima: il Figlio è venuto, è disceso tra noi per darci il dono massimo, per farci diventare figli di Dio.
Poi Paolo parla della seconda missione fatta da Dio Padre: il nostro essere figli di Dio è testimoniato dallo Spirito Santo ed è opera dello Spirito Santo. Il dono dello Spirito coincide con il fine della na-scita di Gesù, della sua vita e specialmente della sua pasqua. Lo Spirito agisce prima nel Figlio e poi in ciascuno noi, nei nostri cuori, operando in noi a partire dal battesimo una creazione nuova che ci conforma al Figlio di Dio, ci fa entrare nella sua relazione filiale, spingendoci a gridare con amore e fiducia: « Abbà! Padre! ». Lo Spirito Santo è donato dal Padre a Gesù e da lui passa nel credente per-ché possa ripetere col cuore la stessa preghiera filiale al Padre. Lo scopo dello Spirito in Gesù e in noi è costituire e manifestare la condizione di figli: in senso proprio o naturale in Gesù, in senso a-dottivo in noi. Il paradosso che Paolo annuncia è questo: un Dio che si fa uomo per rendere divini gli umani. « Una funzione importante – se non la principale – del paradosso è quella di provocare meraviglia e stupore di fronte a un Dio che si rivela in maniera eccedente rispetto alle attese umane » (E. Bosetti).
Essere liberati dalla sudditanza alla legge non significa essere senza legge, ma essere guidati dalla legge dello Spirito. In Gal 4,7 Paolo presenta la conclusione: « Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio ». Per Paolo siamo nel tempo della filialità. In questo passo Paolo pone in risalto l’attualità del dono portato da Gesù, il nostro essere già figli di Dio. In Rm 8,18-30 Paolo parla del gemito di chi aspetta ancora il compimento della nostra filiazione divi-na che consiste non nella liberazione dal corpo, ma nella redenzione del corpo, nel riscatto definiti-vo dell’esistenza corporea, cioè nella risurrezione.

4. Cristo è la nostra pace (Ef 2,11-22)
La situazione in cui si trovano gli uomini, lasciati a se stessi, e l’opera di salvezza realizzata da Ge-sù Cristo sono descritte anche in Ef 2,12-22. Anzitutto l’autore dice che gli uomini lasciati a se stes-si sono al di fuori di Cristo, vivono spiritualmente separati da lui. Subito dopo elenca le carenze che caratterizzano quella lontananza: sono « esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa »; sono « senza speranza e senza Dio »; poi alla fine la loro situazione è riassunta con le pa-role « nel mondo ». La svolta è stata resa possibile solo mediante Cristo, anzi, « in Cristo Gesù », « gra-zie al sangue di Cristo »: « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diven-tati vicini, grazie al sangue di Cristo » (Ef 2,13).
Gesù Cristo ha annullato la distanza abissale che ci separava da Dio. Egli ha creato in se stesso un solo uomo nuovo. Perciò in Cristo si realizza la pace, anzi, egli è la nostra pace, in quanto ci ha ri-conciliati tutti in un solo corpo. Questa riconciliazione avviene in un solo corpo. Alcuni ritengono che quel solo corpo nel quale avviene la nostra riconciliazione è il corpo del Cristo crocifisso. Se-condo altri, l’espressione « in un solo corpo » indica la Chiesa. « Paolo ha capito che con Cristo il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro tra Israele e i pagani non è più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e contro tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con Dio e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità del-le culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cri-sto, è lui che ci fa giusti. E questo basta. Non sono necessarie altre osservanze » (Benedetto XVI).
Poi Paolo specifica che la pace consiste nella possibilità di accedere al Padre (Ef 2,18). L’accesso (prosagoge) è un termine tecnico e indica la dimensione cultuale, sacerdotale della vita, l’essere ac-colti nella vita trinitaria, il poter incamminarci verso il Padre assieme al Figlio con la forza dello Spirito. Nella parte finale del brano (Ef 2,19-22) viene descritta la nostra nuova situazione ricorren-do a due immagini: la prima è presa dall’ambito familiare e sociale (siamo concittadini dei santi e familiari di Dio), la seconda dalla sfera dell’architettura (siamo l’edificio, il tempio santo nel Signo-re, l’abitazione di Dio). Dio per mezzo del suo Spirito raccoglie attorno a sé la sua famiglia.
5. Sintesi: il lieto annuncio dell’amore di Dio in Gesù Cristo genera e purifica la Chiesa
Raccogliamo il messaggio di Paolo sull’amore di Dio ascoltando tre frasi contenute nella Lettera ai Romani. All’inizio, dopo essersi qualificato come servo e apostolo, specifica che si rivolge « a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata » (Rm 1,7): lui è totalmente posto al ser-vizio di Gesù Cristo e del suo vangelo; loro insieme a lui appartengono a un originale vincolo di amore proveniente da Dio e per questo si trovano in una condizione di santità gratuitamente donata. Poi Paolo dice che « l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5): è Dio che per primo ci ama e mette nei nostri cuori la potenza di amo-re dello Spirito Santo. Così ci rende capaci di amarlo con un amore autentico che cambia la nostra esistenza. La terza parola che Paolo pronuncia sull’amore di Dio ci riporta all’aspetto più quotidiano e più realistico della nostra esistenza, costituito dalla sofferenza. L’apostolo elenca esemplificati-vamente sette difficoltà della vita (tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spa-da) e afferma che « in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né po-tenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cri-sto Gesù, nostro Signore » (Rm 8,37-39).
Per questo, quando interviene a correggere i fedeli di Corinto per le divisioni sorte nella comunità, Paolo ricorda loro la centralità del mistero di Cristo, cioè la centralità della sua croce, del suo amore (1Cor 1,10-2,16). Paolo si rende conto che non basta rivolgere un’esortazione alla concordia, alla carità, ma occorre aiutarli a riflettere sul nucleo della fede: la salvezza viene non dai nostri sforzi o dal nostro sapere o dai ministri, ma da Dio che si è rivelato e donato a noi nella croce di Gesù Cri-sto. Anche quando esorta i fedeli di Filippi a una maggior carità fraterna, Paolo li invita a far pro-prio il cammino di Gesù (Fil 2,5-11). Non si superano le divisioni confrontandosi a vicenda, perché questo troppe volte esaspera i conflitti; si superano le divisioni guardando tutti a Gesù. Finché ci si misura l’un l’altro e si stilano elenchi di virtù e di carismi personali, le differenze si approfondisco-no, mentre il riferimento comune a Gesù, in particolare al suo mistero pasquale, costituisce una rea-le alternativa al protagonismo ecclesiale.
6. Come presentare oggi il messaggio di Paolo?
Il vocabolario della redenzione usato da Paolo (giustizia, redenzione, espiazione, riconciliazione) cerca di esprimere l’amore di Dio per noi ed è il cemento che unifica tutte le tessere costituite dalle varie affermazioni della nostra fede: circa la Trinità, la cristologia, la Chiesa che è mistero di comu-nione, l’antropologia, i sacramenti, il tempo, l’al di là (compreso il purgatorio che non è un inferno ridotto, ma è piuttosto paragonabile a un corso di esercizi spirituali). Occorre tenere sempre presente la realtà dell’amore di Dio per noi: nell’annuncio e specialmente nel sacramento della riconciliazio-ne.
II. La tensione missionaria dell’apostolo Paolo
L’amore di Dio è il vangelo che a Paolo è stato rivelato e che lo ha sostenuto. Paolo si è sentito an-che chiamato ad annunciarlo agli altri: ha sperimentato la tensione missionaria già al momento della sua esperienza sulla via di Damasco, come testimoniano gli Atti degli Apostoli, quando narrano quell’evento (At 9,15; 22,15; 26,16-18), e come testimonia lui stesso, quando afferma che Dio ha rivelato in lui il Figlio suo perché lo annunciasse in mezzo alle genti (Gal 1,14-15). Paolo è apostolo per chiamata divina; non vuole che la grazia della chiamata sia vana, perciò esclama: « Guai a me se non annuncio il vangelo! » (1Cor 9,16-17).
1. La testimonianza degli Atti degli Apostoli
La tensione missionaria di Paolo è testimoniata negli Atti degli Apostoli che descrivono il cammino della parola di Dio da Gerusalemme a Roma per opera soprattutto di questo apostolo. Presentano il cosiddetto primo viaggio missionario di Paolo come « l’opera » che lo Spirito gli ha affidato (la paro-la « opera » ricorre all’inizio, al centro e alla fine di quel viaggio: At 13,2.41; 14,26). Dio per mezzo dell’apostolo apre ai pagani la porta della fede, la porta della salvezza mediante la fede (At 14,27). La parola « opera » ritorna in At 15,38. Il ruolo dello Spirito Santo, anzi di tutta la Trinità, nell’opera missionaria di Paolo emerge chiaramente in At 16,6-10, dove si descrive perché l’annuncio cristiano è stato portato dall’apostolo in Europa: per due volte le Spirito è intervenuto a muovere Paolo e i suoi compagni verso l’Europa. A indirizzare Paolo nel suo cammino missionario è lo Spirito Santo, è lo Spirito di Gesù, e poi è lo stesso Dio Padre. Questa esperienza trinitaria dell’apostolo ci dice che noi operiamo in un terreno già preparato da Dio: prima che arrivi la nostra persona, la nostra pa-rola o il nostro esempio, lo Spirito di Gesù è già là ad aprire le porte. Occorre però esercitarci nel di-scernimento della sua presenza e della sua opera.
2. Paolo è stato chiamato a diffondere il profumo della nuova alleanza (2Cor 2,14-3,6)
Nella seconda Lettera ai Corinzi Paolo presenta se stesso come uno che vive l’umiliazione, speri-mentata dai prigionieri che erano costretti a partecipare alla sfilata nel corteo del vincitore (2Cor 2,14-17). Un po’ più avanti Paolo dirà: « Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù » (2Cor 4,11); in Fil 3,12 si definisce « conquistato da Gesù Cristo »: è uno schiavo che annuncia il vangelo come una necessità che gli è stata imposta (1Cor 9,16). Il vincitore di Paolo è Dio in Cristo.
Dall’immagine del corteo trionfale, Paolo passa a quella del profumo della conoscenza di Dio: la predicazione del vangelo è un profumo che dà vita anzitutto all’apostolo e per mezzo di lui la vita si diffonde nella comunità e nel mondo. L’immagine del profumo può indicare la diffusione della vera sapienza (in Sir 24,15 la Sapienza dice: « Come cinnamomo e balsamo di aromi, come mirra scelta ho sparso profumo »). L’immagine del profumo può avere anche un significato sacrificale: « Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo » (Gen 8,20-21); « Quando vi avrò liberati dai popoli e vi avrò radunati dai paesi nei quali foste dispersi, io vi accetterò come soave profumo, mi mostrerò santo in voi agli occhi delle nazio-ni » (Ez 20,41; cf. Sir 35,5; 38,11). Subito dopo Paolo presenta non solo la predicazione del vangelo, ma anche se stesso come il profumo di Cristo: il suo impegno è un sacrificio profumato, cioè gradito a Dio. La morte di Gesù è il sacrificio di soave odore gradito a Dio (Ef 5,2). Paolo si presenta come l’aroma di questo sacrificio, in quanto ne è l’annunciatore con la parola e con tutta la sua vita.
Anche in Rm 15,16 Paolo interpreta la sua attività missionaria come azione sacerdotale, come un atto cultuale: la definisce un essere ministro (leitourgos) di Gesù Cristo tra le genti, adempiendo il sacro ministero (hierourgein), cioè il servizio sacerdotale, perché i pagani diventino un’offerta gra-dita (prosphora), santificata dallo Spirito. « Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missio-naria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è un’azione « sacerdotale ». L’apostolo del vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sa-crificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, « oblazione gradita, santificata nello Spirito ». L’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comu-nione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa come tutti desideriamo: specchio dell’amore divino » (Benedetto XVI).
La predicazione apostolica è « per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita » (2Cor 2,16): porta vita a coloro che accolgono la forza liberatrice del vangelo, porta morte a coloro che persistono nella schiavitù della legge o di altre realtà che promettono salvezza, senza po-terla dare. L’apostolo è consapevole della sua grande responsabilità: il suo ministero determina la sorte degli ascoltatori per il presente e per tutta l’eternità, perciò si chiede: « E chi è mai all’altezza di questi compiti? » (2Cor 2,16). Poco dopo risponde: « La nostra capacità viene da Dio, il quale an-che ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; per-ché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita » (2Cor 3,5-6). La coscienza che Paolo ha del suo mi-nistero va alla radice: è cosciente della sua chiamata e del suo servizio, perché è soprattutto coscien-te della realtà della nuova alleanza, vergata con lo Spirito del Dio vivente, scritta su tavole che sono i cuori di carne. Egli sa che la nuova alleanza ha come prima caratteristica Dio stesso che nel Figlio suo riconcilia a sé l’uomo, lo istruisce, lo muove, lo riscalda, lo anima, lo riempie di entusiasmo e di buona volontà mediante il suo Spirito. Paolo si sente servitore di quest’alleanza nuova.
3. Lo sforzo di inculturazione fatto da Paolo: « tutto a tutti » (1Cor 9)
In 1Cor 9 Paolo ci offre la regola della sua esistenza missionaria e lo fa con tono appassionato, me-diante diciotto domande. Paolo è stato chiamato da Dio, perciò si sente libero da tutti. Tuttavia vive questa libertà rinunciando a molti diritti, per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo (1Cor 9,12), facendosi servo di tutti. Si è fatto come giudeo per i giudei, come sotto la legge per i proseliti, come senza legge per i pagani, debole per i deboli, tutto a tutti per guadagnare a Cristo il maggior numero di persone, per diventare partecipe del vangelo (1Cor 9,19-23). Paolo si configura all’atteggiamento di Gesù: anche Gesù, per salvarci, ha rinunciato a dei privilegi che gli competevano, ha usato la condiscendenza o la solidarietà nei nostri confronti (la liturgia parla di admirabile commercium): « Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, per-ché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2Cor 8,9); « Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso… a gloria di Dio Padre » (Fil 2,6-11); « Colui che non aveva co-nosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giusti-zia di Dio » (2Cor 5,21). L’amore di Gesù Cristo ha portato Paolo ad abbracciare « la legge di Cristo » (1Cor 9,21). Sentiamo qui l’anticipo delle parole che ricorrono nell’elogio della carità: « tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » (1Cor 13,7). Contemplando Cristo, Paolo ha capito che l’altro non è uno che diminuisce la libertà, ma è una condizione positiva e necessaria per vivere la propria libertà in maniera incarnata; la vera libertà, infatti, non è una autonomia slegata, ma è servi-zio.
Paolo ha capito che il vangelo attraversa tutte le culture, perché non è riducibile solo a cultura, ma è di un ordine diverso, è metaculturale. Perciò l’apostolo si è dimostrato totalmente disponibile verso le varie culture, ha sempre cercato di annunciare il vangelo in un linguaggio vicino alla sensibilità, alla comprensione degli uditori. In questo farsi tutto a tutti Paolo non giudica il kerigma in base alla cultura, ma fa sempre il cammino opposto: pone il kerigma della Chiesa sulla morte e risurrezione di Gesù Cristo come criterio fondamentale per valutare la realtà, per far maturare o per modificare la cultura.
Paolo sa che esiste anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso da quella sal-vezza che ha portato agli altri. Illustra questo con l’esempio delle gare atletiche che si svolgevano proprio a Corinto (1Cor 9,24-27): prendere parte a una gara non garantisce il premio; tra gara e premio non c’è connessione automatica, e non c’è nemmeno tra l’essere diventati cristiani e il con-seguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a molte priva-zioni per non essere egli stesso squalificato in quella gara che è la vita missionaria cristiana e per ot-tenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna.
4. L’adattamento agli uditori nei discorsi di Paolo riportati negli Atti degli Apostoli
L’esempio della capacità di Paolo di adattare l’annuncio del vangelo agli uditori, restando fedele al kerigma, è offerto dai suoi tre discorsi riportati negli Atti degli Apostoli: quello rivolto ai giudei di Antiochia di Pisidia (At 13,16-48), quello tenuto davanti a un pubblico pagano nell’areopago di A-tene (At 17,16-34), quello rivolto agli anziani della Chiesa di Efeso, convocati a Mileto, dove fa un bilancio della propria vita: è l’unico discorso rivolto ad ascoltatori cristiani riportato negli Atti de-gli Apostoli (At 20,17-38).
Il discorso ai giudei di Antiochia di Pisidia è una riflessione midrashica o un commento attualizzan-te della promessa fatta dal profeta Natan al re Davide (2Sam 7,6-16). Nel discorso gli uditori sono interpellati tre volte: dapprima come « uomini israeliti » (At 13,16) e due volte come « fratelli » (At 13,26.38). Perciò il discorso può essere diviso in tre parti: la prima ricorda la promessa fatta ai padri (At 13,16-25), la seconda annuncia che la promessa si è adempiuta per i figli (At 13,26-37), la terza contiene l’invito alla fede (At 13,38-41). La profezia di Natan ruotava intorno alla parola « casa » e giocava sul duplice significato di questo termine (edificio o casato); il discorso di Paolo ruota intor-no al verbo « far alzare », che pure ha due significati, in quanto può significare anche « risuscitare ». L’evento Gesù appare non come un beneficio che si aggiunge a quelli di cui Dio aveva gratificato Israele, ma come il beneficio che dà compimento in maniera assolutamente gratuita e insuperabile alla vicenda storica iniziata nell’Antico Testamento, quando Dio ha scelto i padri e il popolo. Dio non offre più un giudice o un re, ma un salvatore. Nella parte centrale del discorso per tre volte si dice che questo salvatore è stato risuscitato e glorificato da Dio (At 13,30.33.37). La risurrezione di Gesù costituisce la sua intronizzazione: egli è il Figlio che realizza il Sal 2,7. La risurrezione è quindi il primo passo dell’adempimento delle promesse: è la condizione perché si realizzi l’azione salvifica del Signore glorificato nei confronti di tutti. In virtù della sua risurrezione Gesù possiede il potere di rimettere i peccati e di donare la giustificazione e la risurrezione a tutti coloro che credono in lui. Sfuggire alla corruzione e condividere il cammino di Gesù, risuscitato dai morti, è la speranza che può pervadere ogni uomo. Accogliere questa speranza significa rinunciare a qualsiasi pretesa di giustizia, ricevere la salvezza dall’unico salvatore che ha il potere di rimettere i peccati. Si può dire che, partendo dalla profezia di Natan, Paolo parla di Gesù risorto facendo una lettura unitaria della Scrittura. L’esegesi e la lectio divina ci abituano di solito a una lettura analitica di un testo biblico, tuttavia è importante presentare anche una visione di insieme. Dobbiamo saper fare anche una sinte-si che permetta di familiarizzarsi con le tappe principali della storia della salvezza che trova sempre in Gesù, crocifisso e risorto, il suo compimento.
Ad Atene la buona notizia inaugura ufficialmente il suo cammino fra le nazioni. Paolo si rivolge a-gli ateniesi, molto sensibili alla religione come dimostrano le molte statue, e nello stesso tempo ca-paci di confessare una certa ignoranza in materia religiosa, al punto che hanno elevato una statua a un dio sconosciuto. Paolo non si propone di far loro conoscere razionalmente questo Dio ignoto, ma annuncia questo Dio per portarli alla conversione a lui: annuncia il Dio che ha creato gli uomini e tutte le cose e che mantiene in ogni creatura il dinamismo vitale. Quindi c’è una certa parentela tra Dio e gli uomini, come hanno intuito anche i poeti, dicendo: « di lui anche noi siamo stirpe » (At 17,28). Se Dio ha creato il mondo e tutti gli uomini, il mondo e la storia umana sono le due strade da percorrere per dare senso e fondamento all’esistenza e per incontrare Dio, lasciandosi aiutare an-che dai poeti. Pure in Rm 1,20 Paolo dice che le perfezioni invisibili di Dio si possono contemplare mediante le opere da lui compiute. La molteplicità degli idoli manifesta che l’uomo non è stato ca-pace di percorrere rettamente queste due strade per mettersi in giusta relazione con Dio e ha preferi-to adorare le opere delle proprie mani. L’annuncio cristiano mette fine a questa situazione e procla-ma che la storia umana sta sotto il segno del giudizio. Dio offre la conversione e il perdono tramite un giudice che è un uomo, ma accreditato a questo compito, in quanto Dio lo ha fatto passare attra-verso la morte, donandogli la risurrezione. Questa parola incontra resistenza tra i pagani di Atene come la parola di Gesù aveva incontrato resistenza presso gli abitanti ebrei di Nazaret. Per gli ebrei lo scandalo è costituito soprattutto dalla morte del Messia, per i pagani è costituito anche dalla sua risurrezione.
Focalizzando i punti principali del discorso, tenuto da Paolo ad Atene, possiamo tirare quattro con-clusioni.
Anzitutto Paolo non indulge verso la pratica religiosa dei pagani: il culto degli idoli non ha niente di autentico, non è onorare Dio in modo implicito, anzi in qualche modo questo culto lo offende e quindi è necessaria la conversione. In secondo luogo, Paolo riconosce che gli uomini possono arri-vare a comprendere che c’è un Dio ignoto: questo riconoscimento può essere un punto di inizio, una disposizione d’animo per una ulteriore ricerca, per l’accoglienza del messaggio cristiano. In terzo luogo, Paolo è conscio che l’annuncio cristiano va portato ai pagani in termini che siano il più pos-sibile accettabili; perciò presenta i temi fondamentali della fede di Israele, come la creazione e la pa-rentela degli uomini con Dio, senza narrare la storia di questo popolo. Infine, Paolo accetta gli arric-chimenti che vengono dalla cultura pagana, proclamando un Dio nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17,28): un giudeo, preoccupato di salvaguardare la trascendenza di Dio, difficilmente avrebbe osato fare questa affermazione. Il dialogo con la cultura pagana è arricchente, tuttavia resta difficile, perché incontra lo scoglio della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, costituito da Dio salvatore di tutti gli uomini.
Il terzo discorso, quello rivolto da Paolo agli anziani di Efeso, ha un carattere parenetico, diverso da quello kerigmatico che propone il primo annuncio cristiano. Il discorso parenetico era abituale per Paolo, quando prendeva commiato da una comunità, dopo un certo periodo di attività pastorale (At 16,4-5; 18,23; 20,1.2). Se Paolo si sente chiamato a consolare o esortare è segno che i fedeli si tro-vavano in una situazione di fragilità: di fronte a quella fragilità l’apostolo non si meraviglia, non cerca capri espiatori, ma ricorre all’opera di incoraggiamento, di rianimazione. Dopo aver dato uno sguardo al suo impegno missionario e avere espresso la sua coscienza del presente e di ciò che lo at-tende, Paolo rivolge ai presbiteri la sua esortazione. Domanda loro di vegliare su loro stessi e su tut-to il gregge (At 20,28); al v. 31 domanderà di vigilare. Il fatto che sono usati due verbi diversi sotto-linea l’importanza della vigilanza. Vegliare nell’attesa del Signore è l’atteggiamento dell’uomo del-la speranza, che non si appiattisce su sicurezze presenti, ma è proteso verso il futuro.
L’apostolo non raccomanda agli anziani di vegliare soltanto su loro stessi o soltanto sul gregge, ma su entrambi: devono attendere a se stessi e insieme a tutto il gregge. Non lascia quindi spazio per una sovrapposizione ideologica di chi pensa che curando se stessi si cura anche il gregge oppure che badando al gregge si bada anche a se stessi. Siamo davanti a una dialettica ineliminabile. Un presbi-tero che non prega, che non trova il tempo per la lettura, per la sua vita spirituale non può addurre a scusa l’incessante servizio alla gente: in quel caso veglia sul gregge, ma non su di sé. Parimenti non può disinteressarsi dei fedeli, dicendo che dedica le sue giornate alla preghiera, alla lettura, allo stu-dio della teologia: in tal modo veglia su di sé, ma non sul gregge. Le due realtà si richiamano e si ar-ricchiscono vicendevolmente, si completano, ma non si confondono. Siamo sempre tentati di elimi-nare il bipolarismo che Paolo sottolinea con molta semplicità.
I motivi che Paolo porta per esortare i presbiteri alla vigilanza sono due. Da un lato la natura trinita-ria del loro ministero pastorale e della Chiesa: i presbiteri sono stati costituiti dallo Spirito Santo a pascere la Chiesa di Dio che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio (At 20,28), e dall’altro lato i pericoli incombenti, rappresentati dai lupi rapaci che verranno dall’interno e proporranno di non accontentarsi della sola mediazione di Cristo (At 20,29-30).
5. Paolo lavora in equipe, non senza difficoltà
Paolo vive la tensione missionaria in una rete di relazioni, di collaborazione fraterna. Il numero di coloro che collaborarono quotidianamente con lui per l’espansione del vangelo, per la crescita delle comunità cristiane è molto elevato. Nella seconda Lettera a Timoteo sono nominate quattordici per-sone che fanno da sfondo all’amicizia tra Paolo e Timoteo; nella Lettera ai Romani l’apostolo ricor-da trentasei persone con delle qualifiche che indicano l’intensità di rapporti. Il successo missionario di Paolo non sarebbe stato possibile senza questi legami di collaborazione.
Il lavoro in equipe non si è svolto sempre senza qualche intoppo o incidente. Nell’esperienza mis-sionaria e pastorale di Paolo ci sono state anche relazioni venute meno: basta leggere At 15,39 (la rottura con Barnaba), 2Tm 1,15 (questa indicazione fa capire che era faticoso seguire l’esempio di Paolo), 2Tm 4,9-10 (Dema a un certo punto ha preferito il secolo presente: nessuno è esente dalla tentazione), 2Tm 4,14-15 (in 1Tm 1,19 Alessandro è collocato tra coloro che hanno fatto naufragio nella fede, dopo aver collaborato nel ministero apostolico), 2Tm 4,16 (quelli che hanno abbandona-to Paolo si sono spaventati dei rischi, delle difficoltà che avrebbero potuto incontrare). Ci sono state anche relazioni perdute e poi ritrovate e tra queste basta ricordare quella con Marco (2Tm 4,11). La fraternità, il sostegno degli altri è un elemento indispensabile nel ministero, specialmente nei giorni difficili.

6. Paolo annuncia un modo diverso di stare insieme, reso possibile dalla filiazione divina
L’annuncio missionario di Paolo nelle città dell’impero romano ha avuto un notevole successo. Que-sto è dovuto a due motivi. Un primo è stato il contenuto del vangelo, cioè la gratuità dell’amore di Dio. Il secondo è dovuto al fatto che il vangelo, oltre a mettere in giusta relazione filiale con Dio, comporta anche un modo nuovo di stare insieme. Paolo riconosce subito a tutti i cristiani di ogni lo-calità il titolo di Chiesa di Dio. Poi afferma che Gesù è il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Dalla loro unione con Gesù deriva che i cristiani sono chiamati ad amarsi gli uni gli altri con affetto fraterno, a gareggiare nello stimarsi a vicenda, a non cercare il proprio interesse, ma quello degli altri (Rm 12,10-16; Fil 2,3-4).
Il testo forse più significativo a questo proposito si trova in Gal 3,26-28: « Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestititi di Cristo. Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù ». Paolo nega non l’esistenza, ma l’efficacia di tre distinzioni su cui si fondava la società al suo tempo: la prima riguarda il piano religioso o razziale (giudeo e greco), la seconda il piano della vita civile o sociale (schiavo e libero), la terza il piano della vita sessuale (uo-mo e donna). In Cristo si costituisce una realtà nuova: la Chiesa che è il luogo dell’affratellamento, in cui vengono eliminati la separazione e l’isolamento. In Cristo risorto non c’è e non c’è mai stato giudeo né greco, schiavo né libero. In Cristo risorto ogni credente gode della piena dignità di figlio di Dio. In Cristo non c’è maschio e femmina. Paolo sa che il battesimo non sopprime i sessi e che i co-niugi credenti hanno il diritto e il dovere di avere rapporti sessuali. Ma al livello più profondo dell’esistenza cristiana non c’è posto per una discriminazione sessuale, non esiste una superiorità dell’uomo sulla donna.
Al tempo di Paolo si distinguevano religioni di liberi e di schiavi, di maschi e di donne, di giudei e di greci: ognuno aveva la propria religione, ma in stretta dipendenza del ceto di appartenenza. Paolo af-ferma che in Cristo le differenze religiose, civili, sessuali vengono ridimensionate e relativizzate: per se stesse non salvano e non condannano. Cristo con la sua morte in croce ci ha liberati e perciò i cri-stiani, anziché identificarsi mediante un rapporto di opposizione, che rende estranei nei confronti de-gli altri, si identificano mediante la loro unione con Cristo e la loro relazione vicendevole; quello che conta non è ciò che diversifica, ma il Cristo che unisce. Tutti, infatti, siamo « uno solo » (heis è ma-schile) in Gesù Cristo. Contemplando Cristo, Paolo ha capito che la libertà donata da lui non è indi-pendenza, non è un’autonomia slegata, ma è la possibilità di mettersi a servizio dello Spirito il cui frutto è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà (Gal 5,22). Il soggetto principale della libertà cristiana non è la persona umana, ma è Gesù Cristo che mediante la sua morte ha riscattato i credenti. La libertà è lasciare disporre di sé. La morte di Cristo in croce genera l’unità ecclesiale, la spiega e la esige. È specialmente nella liturgia che i cristiani fanno esperienza di questa profonda comunione con Cristo e tra loro.
Per presentare questa comunione ecclesiale Paolo ricorre alle due categorie di popolo di Dio e di cor-po di Cristo. La categoria di popolo di Dio richiama maggiormente la storia, ha una connotazione diacronica. Nella categoria del corpo è più evidente l’articolarsi attuale, la connotazione sincronica e l’idea della donazione di sé. Popolo e corpo indicano rispettivamente le due coordinate del tempo e dello spazio, ed entrambe sono indispensabili perché la Chiesa sia nel mondo. Cristo, con la sua morte e risurrezione, è all’origine di questo corpo e nello stesso tempo è la forza che lo fa crescere nella storia come popolo fino alla sua pienezza. A differenza della società civile, in cui tutto separa-va gli uomini, i credenti in Gesù Cristo si riconoscono reciprocamente come fratelli e sorelle, cioè come figli davanti a Dio. La diffusione del cristianesimo nelle città fu dovuta alla sua capacità di te-nere insieme una minoranza di ricchi e una maggioranza di persone considerate marginali. Le comu-nità cristiane radunavano ciò che la società urbana separava e divideva in categorie impermeabili, permettevano una vita conviviale, il pregare insieme, il profetizzare insieme, l’assumere diaconie ar-ticolate, necessarie per la vita ecclesiale. Tutto questo non aveva equivalenti nella società civile.
III. La tensione temporale
In Paolo c’era anche un’altra tensione, quella temporale, c’era cioè la consapevolezza del nuovo senso del tempo che è stato portato a pienezza da Dio in Gesù Cristo. Paolo sa che i cristiani sono « consapevoli del tempo » (Rm 13,11) e che sono chiamati a riscattare il tempo presente, a farne buon uso (Col 4,5; Ef 5,16). L’invio del Figlio di Dio ha contrassegnato il tempo, facendolo pieno, cioè denso, maturo, senza ulteriore bisogno di integrazioni sostanziali (Gal 4,4): con la venuta di Gesù il tempo da chronos (tempo che scorre e che segna tutti inesorabilmente) per noi è diventato kairos (momento favorevole, tempo opportuno e decisivo). In Cristo la storia ha toccato il proprio culmine, il vertice che regge e che dà significato all’insieme dei tempi nuovi (Ef 1,10). Paolo è convinto che nella morte e risurrezione di Gesù Cristo il tempo si è fatto breve, è stato raccorciato (1Cor 7,29), nel senso che si è compiuto tutto ciò che lo ha preceduto e che è stato anticipato tutto ciò che dovrà ancora avvenire.
Ai nostri giorni si parla molto di ecologia, ma non è altrettanto diffusa l’attenzione per un rapporto corretto con il tempo. L’uomo occidentale si trova spesso schiavo del tempo o in cattiva relazione con esso. L’idea del tempo, della sua fuga, della sua irreversibilità è continuamente presente nella coscienza dell’uomo frettoloso di oggi. È strano che, proprio nella società caratterizzata dal « tempo libero », nessuno ha più tempo. Dall’altro lato spesso l’uomo prova un senso di noia o di vuoto per il tempo che sembra troppo lento e allora cerca di evadere in vari modi dal tempo.
1. La riflessione di Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi
La necessità di chiarire in che cosa consiste e che cosa comporta la tensione temporale verso il com-pimento finale sta alla base del primo scritto di Paolo giunto a noi, cioè della prima Lettera ai Tessa-lonicesi, che probabilmente costituisce anche il primo scritto del Nuovo Testamento. Mentre gli e-vangelisti a partire dalla pasqua leggono tutta la precedente vita di Gesù, Paolo a partire dalla pa-squa legge in modo nuovo la conclusione del tempo o la parusia verso la quale tutti siamo incammi-nati. Nella prima Lettera ai Tessalonicesi l’apostolo tocca più volte il tema della parusia o della ve-nuta del Signore (1Ts 1,9; 2,11-12.16.19; 3,13) e nella seconda parte dello scritto dedica due sezioni a questo argomento (1Ts 4,13-18 e 5,1-11). Possiamo cogliere due pensieri del messaggio di Paolo: il fatto che noi siamo « figli del giorno » e il valore del lavoro o dell’impegno nelle realtà terrene.
Per quanto riguarda l’ora finale i credenti hanno una certezza e una incertezza. La certezza è che la storia è in cammino verso il compimento. Gesù Cristo risorto è il paradigma, la caparra del trionfo di Dio sulla morte, Cristo risorto è anche il mediatore del nostro trionfo sulla morte. La risurrezione di Gesù implica quella dei credenti e la parusia di Gesù implica che i credenti sono chiamati a essere partecipi della sua vittoria, membri del suo corteo trionfale. Paolo ricorda che questa certezza deve diventare fonte di consolazione e di incoraggiamento vicendevole per tutti.
L’incertezza riguarda la data. Il giorno del Signore viene di notte, come i grandi eventi salvifici (la creazione del mondo, il passaggio del mar Rosso, la risurrezione di Cristo) che si sono realizzati di notte, portando nella storia il trionfo della luce divina, del bene. I cristiani sanno che sono figli della luce e che sono figli del giorno. L’espressione « figli della luce » è tradizionale nell’ebraismo (Lc 10,6; 16,8; Gv 12,36): gli ebrei sanno che il mondo non poggia sul male o sul peccato, ma sulla primogenitura della luce, che è stata la prima realtà creata, sanno che sono chiamati a essere testi-moni della luce, a orientarsi e a orientare verso la luce, a sperare e a infondere speranza. Invece l’espressione « figli del giorno » è nuova, è stata coniata da Paolo: i cristiani sono figli del giorno del-la risurrezione di Gesù e sono anche figli del giorno della sua venuta finale; quel giorno, inteso in entrambi i sensi, li ha generati e opera in loro, a quel giorno appartengono. Perciò sono in grado di indossare l’armatura necessaria per non farsi sorprendere alla venuta del Signore. Questa armatura è costituita dalle tre virtù teologali.
Sappiamo che Paolo ritorna di frequente sul tema della risurrezione dei morti, come frutto della ri-surrezione di Gesù Cristo. Il testo più noto è 1Cor 15. Paolo proclama che Cristo risorto è primizia di coloro che sono morti: se tutti muoiono in Adamo, tutti riceveranno la vita in Cristo. Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo porta a compimento la sua promessa di vita piena e definitiva. Cristo è il prototipo, il capostipite della nuova umanità: egli è l’uomo celeste, è diventato spirito vivificante, in grado di rendere l’uomo pienamente capax Dei, in modo che Dio, fonte della vita, sia tutto in tutti. La speranza nella risurrezione ci permette di accettare il limite creaturale della morte: attraverso es-sa diventiamo disponibili all’azione vivificante di Dio in Gesù Cristo, ci apriamo alla realizzazione piena della nostra eredità filiale. È significativo che la prima Lettera ai Corinzi inizia parlando della croce di Cristo e delle sue conseguenze e termina parlando della risurrezione di Gesù Cristo e delle sue conseguenze. I due momenti dell’evento pasquale vanno costantemente tenuti presenti: su di es-si si basa la fede e la vita cristiana.
La riflessione sul tempo porta poi Paolo a esortare cristiani di Tessalonica a lavorare con le proprie mani. Egli basa la sua esortazione su due motivi: condurre una vita decorosa di fronte ai non creden-ti e non aver bisogno di nessuno (1Ts 4,12). Da un lato non si può perdere la buona reputazione agli occhi di quelli che si vuole convincere della verità della propria fede; il lavoro, l’impegno nelle real-tà terrene rappresenta perciò un importante prerequisito della evangelizzazione. Dall’altro lato il la-voro costituisce un modo per progredire nell’amore fraterno, per concretizzarlo, evitando almeno di essere di peso agli altri. Paolo lega il dovere del lavoro a quella che noi chiameremmo « antropologia sociale ». Per Paolo la fuga dal lavoro crea uno squilibrio nel tessuto sociale: da una parte crea la pretesa di un diritto ingiusto e dall’altra crea un dovere altrettanto ingiusto: mentre qualcuno non la-vora, qualche altro deve lavorare per lui. Il lavoro è dunque un nome diverso per dire giustizia, ri-spetto, amore fraterno. « La speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terre-ni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della loro attuazione » (Gaudium et Spes, 21).
2. Il vivere è Cristo e il morire è un guadagno (Fil 1,21)
Il valore del tempo emerge anche in Fil 1,21. Paolo afferma anzitutto che per lui il vivere è Cristo e in questa visuale anche la morte perde i suoi connotati negativi. L’espressione « per me il vivere è Cristo » dice che Cristo è la ragione profonda del suo vivere. Questa espressione può avere due si-gnificati. Da un lato indica che per Paolo vivere è essere sempre in piena comunione con Cristo ri-sorto, ma più verosimilmente ha un secondo significato e indica che per lui il vivere è annunciare, testimoniare Cristo. Il morire è un guadagno non nel senso che è la liberazione dal tedio di una vita faticosa, ma nel senso che è un più rispetto alla vita terrena, è un potenziamento della vita autentica e vera che è Gesù Cristo dentro di noi. Cristo abbraccia la vita terrena, ma nello stesso tempo la tra-scende.
3. Tutto è vostro… Vivere come se (1Cor 3,21; 7,29-31)
Anche nella prima Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo ritorna sul significato del tempo. Ai cristiani di Corinto dice: « Tutto è vostro » (1Cor 3,21). L’intera realtà, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto appartiene a loro. Però subito dopo Paolo aggiunge: « Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio »: il fondamento della sovranità, della libertà dei credenti sta nel loro rapporto con Gesù Cristo. Il cre-dente è libero di disporre di tutto, alla condizione di essere disponibile al Signore. Tutto è vostro, a condizione che voi siate di Cristo e tramite lui veniate orientati a Dio. Poiché è di Cristo, il cristiano è chiamato anche a non assolutizzare nessuno dei vari ambiti della vita, a rendersi conto della relati-vità della loro configurazione, a vivere come se tutto non fosse definitivamente suo. Perciò, sempre ai cristiani di Corinto, Paolo scrive: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non pianges-sero e quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! » (1Cor 7,29-31). Tutto è dei credenti in Cristo, ma lo è come se non lo fosse. Nessu-no di questi due aspetti deve prevaricare sull’altro. L’equilibrio tra questi due aspetti è sempre diffi-cile, ma è il rischio del cristiano. La salvezza del cristiano è attuale, presente, nella storia, ma è una salvezza che comporta anche un elemento di attesa, di tensione verso un compimento futuro.
In 1Cor 7,29-31 Paolo non proibisce il matrimonio e nemmeno i rapporti coniugali (li ha espressa-mente raccomandati in 1Cor 7,1-7), non proibisce di piangere, di gioire, di comprare, di possedere, di usare i beni di questo mondo (in 1Cor 7,17.20.24 ha ripetuto tre volte che ciascuno deve vivere nella condizione in cui si trovava quando Dio lo ha chiamato alla fede). Però Paolo ricorda che tutta la realtà terrestre, anche se voluta da Dio e accompagnata dalla sua benedizione, appartiene a un or-dine che passa. Analogamente agli altri uomini, il cristiano piange, gioisce, si sposa, acquista, tutta-via non lo fa come gli altri che non hanno fede, poiché tutte queste attività umane cessano di essere per lui un fine e diventano un mezzo per vivere già qui la vita dell’amore a Dio e ai fratelli. « Vivere come se » significa impegnarsi nei compiti terreni con discernimento evangelico, inserendoli nell’orizzonte dell’attesa della venuta di Cristo. Occorre tenere sulla storia uno sguardo che ne rico-nosce la provvisorietà, la finitezza e soprattutto l’attesa del compimento escatologico. Ciò che fa l’uomo grande è la capacità di rendersi conto di avere un futuro che abbraccia la morte e che va ol-tre la morte. Abramo e Ulisse incarnano l’etica del viaggio, in compagnia dell’ignoto e dell’imprevisto, ma anche in compagnia della divinità. Però per Ulisse la meta è il ritorno a casa, al passato, la nostalgia; il simbolo del viaggio di Ulisse è il cerchio, completo, finito, logico. Abramo, invece, si mette in viaggio per non ritornare, senza meta terrena, verso un futuro, perché sa che la vita vera è oltre il mondo tangibile: il viaggio di Abramo non ha come simbolo il cerchio, ma il per-corso di una freccia che annuncia che la nostra meta è oltre noi.
4. La verginità è segno dei tempi escatologici
Paolo propone il carisma della verginità come segno particolarmente eloquente del nuovo significa-to del tempo (1Cor 7,32-35). La verginità è una tensione totale, senza distrazioni alla comunione con il Signore, è la via più conveniente per essere totalmente uniti a lui. La verginità è anche una dedizione totale, senza distrazioni anche alla missione. Comunione e missione sono due strutture fondamentali dell’esperienza fatta dai primi discepoli di Gesù. La verginità costituisce la condizione ideale per il cristiano, annuncia la secondarietà di ciò che è terrestre e il primato assoluto del Signo-re: dell’incontro con lui e dell’annuncio del suo vangelo. La persona vergine è tutta del Signore e in lui ama in modo nuovo le persone e le cose. Decisivo per la scelta della verginità è perciò il motivo cristologico che spinge Paolo a preferire questo stato di vita e a consigliare di rimanere liberi dal vincolo coniugale. La verginità nasce dal fatto che qualcosa di definitivo ha fatto irruzione in una persona e questo qualcuno è Gesù.
La verginità non è disprezzo dei sentimenti e degli affetti che compongono la nostra umanità, ma è il loro incanalamento in Dio. La verginità è una vita di amore, riempita dall’unico amore di Cristo in modo totale. La verginità si connota così non solo di sponsalità, ma anche come un’oblazione cul-tuale: la verginità è vissuta per piacere al Signore, per essere santi nel corpo e nello spirito, cioè per appartenergli con tutta la persona. Essere santi nel corpo e nello spirito significa essere consacrati, essere totalmente riservati al Signore. La vocazione verginale porta nel corpo stesso la dimensione dell’attesa, del desiderio, della distanza, porta nel corpo quel misterioso vuoto che grida un’assenza, ma che nello stesso tempo preannuncia una pregnante presenza.
La verginità degli uomini e delle donne trova nella verginità di Gesù la sua sorgente, la sua custodia, la sua ispirazione. Gesù ha parlato di uomini che sono celibi per il regno (Mt 19,11-12); l’espressione « per il regno » (dia ten basileian) può avere due significati: causale (a causa del regno, perché il regno opera in loro) o finale (in vista del regno); a sua volta il senso finale può venir inteso nel senso duplice di servire il regno o di disporsi ad entrarvi. I due significati, cioè quello causale e quello finale, non si escludono. Forse si può specificare ulteriormente dicendo che il regno, più che lo scopo della verginità, è la sua sorgente. La verginità è generata dal regno, si è vergini per mezzo del regno. La verginità va letta prima di tutto come consacrazione all’amore del Signore, non come stile di vita che permette di donarsi di più agli altri. Donarsi agli altri è il fiore, il frutto, non la radi-ce. Perché il fiore e il frutto resista in tutte le stagioni, dobbiamo badare alla radice che è l’amore di Gesù fino alla morte di croce, è sentirsi amati e perdonati da Gesù per poi riamarlo sopra ogni cosa e amare la gente con la forza di amore che lui ci dona.
5. La riflessione nella Lettera a Tito (Tt 2,11-14)
Nella Lettera a Tito l’apostolo ci dice quale è la fonte dalla quale il cristiano attinge energia e ispira-zione per il suo comportamento: « È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrie-tà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni ini-quità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone » (Tt 2,11-14). La vita nuova alla quale tutti aspiriamo è frutto della grazia di Dio che è apparsa tra noi per ap-portare salvezza a tutti gli uomini. L’amore di Dio inserito nella storia ci insegna a rinnegare l’empietà, la irreligiosità, il vivere come se Dio non ci fosse, in un vuoto di valori, senza di riferi-menti ultimi. Ci insegna a rinnegare i desideri mondani, il porre come idolo ultimo e unico le cose e se stessi. Ci insegna a vivere in questo mondo, dentro la nostra storia la sobrietà, cioè la temperan-za, il saggio uso dei beni di questo mondo; ci insegna a vivere la giustizia, ad agire secondo la vo-lontà di Dio nella correttezza dei rapporti con gli altri, diventando trasparenza della fedeltà, della te-nerezza, della misericordia di Dio; ci insegna a vivere la pietà, ad aver Dio familiare, a sentirne con gusto la vicinanza.
6. Conclusione: sintesi tra trascendentale e categoriale
Riflettendo sulla risurrezione di Gesù e sul suo ritorno, Paolo aiuta i cristiani a fare una sintesi, a trovare il giusto equilibrio, come direbbe K. Rahner, tra il trascendentale e il categoriale, tra il quali-tativo e il quantitativo. Il trascendentale è costituito dai grandi ideali, dai grandi temi della vita, dall’essere fatti per tendere a qualcosa di grande, per parlare con Dio. Il categoriale è il luogo della quotidianità, sono le mille cose da fare e i mille impegni da assolvere, sono le realtà quotidiane nelle quali di solito si butta l’uomo, dimenticando le altre. Paolo vuole portare i cristiani a una sintesi tra il trascendentale e il categoriale, a vedere come il categoriale è avvolto dal trascendentale, a non di-menticare le cose quotidiane, però a vederle alla luce dell’eterno. La storia è giudicata dal suo fine, dall’eternità. L’eternità non è qualcosa di lontano, di esterno, ma è qualcosa che ci avvolge.
Quasi adducendo come scusa il fatto che i primi cristiani per una certa fretta, per un errore di pro-spettiva ritenevano imminente il ritorno di Cristo, noi abbiamo lasciato largamente il passo alla de-lusione, all’indifferenza, alla diffidenza e abbiamo lasciato affievolire il senso dell’attesa. La morte individuale tiene certamente desto in ciascuno il senso della fine, ma si tratta di un fatto piuttosto personale; preghiamo certamente perché venga il regno di Dio, ma se guardiamo il nostro desiderio più profondo è che esso venga il più tardi possibile, che non ci sia subito la fine di tutto. La nostal-gia del ritorno di Cristo dovrebbe equilibrare le sollecitudini per gli interessi umani. Molti, forse, ad essere sinceri, non aspettano più nulla.
IV. La tensione cosmica: Gesù risorto è il capo della Chiesa e del cosmo
Nelle sue prime Lettere Paolo ha sottolineato la libertà dalla legge e questo ha contribuito alla rottu-ra tra i cristiani e la maggior parte del popolo di Israele. Questo fatto doloroso ha avuto anche con-seguenze positive, quali l’affermazione del primato di Gesù Cristo e della grazia, la convinzione profonda che la sola cosa necessaria è la fede. C’è stata anche un’altra conseguenza positiva: la comprensione di quello che Paolo chiama « il mistero », cioè la comprensione dell’unità del disegno salvifico di Dio sulle sorti dell’uomo, dei popoli e del mondo. « Non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in per-sona, in cui il « mistero » si incarna e può essere tangibilmente percepito » (Benedetto XVI). In lui prende forma la multiforme sapienza di Dio, il mistero che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3,10.19). Questo pensiero è sviluppato specialmente nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini. Come conse-guenza della risurrezione di Cristo, Paolo in queste Lettere non pone in primo piano il suo ritorno glorioso, ma la sua opera efficace nella creazione e di conseguenza in tutta la storia. L’autore di queste lettere si allarga a una visione sapienziale dell’intera storia umana, del mistero nascosto da secoli e ora rivelato in Gesù Cristo (Col 1,26-27; 2,2; 4,3; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19). Nasce così una più profonda comprensione della Chiesa, che è il corpo del Cristo, e del ruolo di Gesù Cristo verso di lei e sul mondo intero.
1. La Chiesa è il Corpo di Cristo da amare
Gesù Cristo, crocifisso e risorto, è il centro, il capo della Chiesa non solo nel senso che ha autorità su di essa, la guida (Col 1,18), ma anche nel senso che la vivifica, la innerva, le dà la forza di agire in modo retto, ne favorisce la crescita come avviene in un organismo vivente: essa è il suo corpo (Ef 4,14-16). Nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini la parola Chiesa non indica più la singola comuni-tà locale, come di solito avviene nelle prime Lettere di Paolo (in queste egli si rivolge alla Chiesa dei Tessalonicesi, alla Chiesa di Corinto, alla Chiesa di Roma, alle Chiese della Galazia). La Chiesa indica ormai la totalità dei cristiani, considerati unitariamente come una grande comunità. La Chiesa è più che l’aggregato delle singole Chiese locali, è più che una realtà terrena: è il corpo di Cristo ri-sorto, è il corpo del quale Cristo è il Capo, il Signore, il Salvatore, lo Sposo (Ef 1,22-23; 5,21-33). La Chiesa vive della vita di Cristo stesso. Cristo l’ha amata, ha dato se stesso per lei (Ef 5,25), la nutre e la cura incessantemente (Ef 5,29). La Chiesa è divenuta il fine della morte di Gesù Cristo: è morto per santificarla, per purificarla, per farla sua sposa, « tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5,27). Il mistero del piano nascosto di Dio coinvolge l’amore di Cristo per la Chiesa: i due diventano uno (Ef 5,31-32), in modo che la Chiesa può essere identificata con il regno di Cristo nel quale i cristiani sono stati trasferiti per partecipare alla sorte dei santi (Col 1,12).
La Chiesa, in quanto è corpo di Cristo, appartiene a lui in modo specialissimo, è il luogo dove la re-galità di Cristo si esprime nel modo più puro, dove viene riconosciuta e annunciata. La Chiesa è la pienezza, il pleroma di Cristo (Ef 1,22-23), cioè l’ambito pienamente riempito dalla sua presenza, dalla sua grazia, dalla sua forza, dai suoi doni. La Chiesa è il pleroma di Cristo anche nel senso che dona a Cristo la sua pienezza, rendendolo, per così dire, completo. Insieme con Cristo, la Chiesa viene a formare quello che potremmo chiamare il Cristo totale. Di conseguenza, se Paolo descriveva se stesso come ministro di Dio (2Cor 6,4), di Gesù Cristo (Rm 1,1), della nuova alleanza (2Cor 3,6), ora si definisce servo, ministro della Chiesa (Col 1,24). Se Cristo ha dato se stesso per la Chiesa, al-trettanto è disposto a fare l’apostolo. Proprio perché è profondamente unita a Cristo al punto da co-stituire il suo corpo, la Chiesa è una realtà da amare, una realtà per la quale si è disposti a dare la vi-ta, una realtà che suscita la generosità di generazione in generazione.
2. Il progetto di Dio Padre è ricondurre al Cristo tutte le cose
Gesù è anche il Signore di tutte le cose: « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16). La risurrezione permette di cogliere la presenza del Cristo nell’atto creatore come mediatore universale, come centro, modello e fine di tutto il creato, come fonte e meta ultima di tut-to ciò che esiste. Dio vuole che tutto il creato abbia un rapporto con il Cristo risorto. Dio, creando il mondo e l’uomo, si ispira a Cristo risorto. Fin dall’inizio del mondo il Padre guarda a lui come al modello e alla meta della sua opera; il Padre crea il mondo a immagine del Figlio, anzi lo ha già con sé come autore dell’intera creazione. Tutte le creature fin dall’inizio sono orientate al Cristo risorto e tendono a lui per essere veramente se stesse.
Il Risorto è anche il capo delle potenze angeliche e del cosmo (Col 2,10.15). I principati e le potenze hanno un potere che svanisce nei confronti di quello di Cristo. Quindi essi non possono più incutere timore, hanno un potere debole, perché Gesù ha trionfato su di loro. Possiamo interpretare questo linguaggio vedendo nei principati e nelle potenze tutte quelle strutture culturali, politiche, religiose, sociali, ideologiche e persino psichiche che rischiano di condizionare l’uomo e addirittura di schia-vizzarlo. Mentre l’immagine di Cristo capo riferita alla Chiesa sottolinea una omogeneità, nel senso che la nutre e la cura, l’immagine di Cristo capo riferita al mondo esprime piuttosto la sudditanza del cosmo a lui. Cristo ha privato i principati e le potestà della loro forza (Col 2,15), perché è al di sopra di ogni potenza e dominazione (Ef 1,21). « Cristo non ha da temere nessun eventuale concor-rente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l’uomo. Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò si-gnifica dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa! » (Benedetto XVI).
Il Padre vuole ricapitolare ogni cosa in Gesù Cristo, il Figlio unigenito, fatto uomo, crocifisso e ri-sorto (Ef 1,10). Per mezzo di lui il Padre conferisce ad ogni cosa la perfezione e il senso definitivo. Il verbo ricapitolare suggerisce due idee importanti e complementari. Una viene dal significato di ricapitolare, compendiare, sintetizzare, nel senso di raccogliere gli elementi sparsi e unificarli: Cri-sto riconduce a unità ciò che nel mondo appare frammentato, diviso e lacerato. Egli assolve la fun-zione che nella Bibbia ha la Sapienza. L’altro significato è suggerito dal fatto che Cristo è colui che sta sopra, è il preposto di tutte le cose ed esse tendono a convergere verso di lui come verso il pro-prio capo. Ricapitolare esprime quindi l’idea di dare un nuovo capo, di intestare, di poter dominare. Tutto è chiamato a divenire unità nel Cristo, ogni cosa ha questa ragion d’essere. Solo situando il cosmo in questa visione complessiva, possiamo coglierne il significato decisivo. Quando abbiamo questa chiave di lettura, possiamo anche chinare il capo di fronte a tanti misteri della storia, di fron-te a tante sofferenze del cosmo e dell’umanità, di fronte a tante catastrofi naturali che ci lasciano sconvolti e sopraffatti.
Questo pensiero è riassunto stupendamente nell’inno cristologico con il quale l’apostolo apre la Let-tera ai Colossesi (Col 1,15-20). L’inno si compone di due strofe nelle quali, a partire dal suo mistero pasquale, Gesù Cristo è celebrato prima come mediatore di tutta la creazione (Col 1,15-17) e poi come operatore della salvezza della Chiesa e del cosmo (Col 1,18-20). La prima strofa celebra la si-gnoria cosmica di Cristo, la seconda celebra la signoria salvifica di Cristo: in entrambe emerge che egli è l’unico mediatore sia della creazione di tutto come della salvezza di tutto.
Da questa consapevolezza del ruolo cosmico di Cristo derivano due conseguenze importanti. Anzi-tutto la Chiesa non può pretendere di ridurre Cristo entro i propri confini, perché i cristiani sanno che Cristo è più grande della Chiesa. Dall’altro lato deriva che la signoria cosmica di Gesù è cono-sciuta solo da chi è nella Chiesa.
Oggi abbiamo particolare bisogno di uno sguardo sapienziale sull’intera storia, che abbracci anche gli altri popoli, le altre religioni e culture; abbiamo bisogno di una sintesi epocale, presente appunto nella Lettera ai Colossesi e agli Efesini. Possiamo dire, in un linguaggio contemporaneo, che il mes-saggio di queste Lettere è l’universalismo della fede e della salvezza, è l’unità degli uomini in Cri-sto, è la globalizzazione della solidarietà. Dio opera, perché l’umanità diventi un’unica famiglia di famiglie di popoli, un solo uomo nuovo, dove tutti sono fratelli e sorelle, perché tutti sono amati, tutti sono salvati, tutti sono redenti dal sangue del suo Figlio Gesù.
Nella Lettera agli Efesini l’espressione « uomo nuovo » ricorre due volte, in due punti importanti, fo-cali. Ricorre anzitutto in Ef 2,15, dove l’autore condensa il tema dell’unione ecumenica tra i cristia-ni provenienti dal paganesimo e quelli provenienti dall’ebraismo, e ricorre in Ef 4,24, dove l’autore esprime la nuova identità del battezzato a livello ontologico ed etico. Scopo di ogni ministerialità è condurre tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo nuovo, all’uomo perfetto, cioè all’età cristiana adulta, alla statura della pienezza di Cristo (Ef 4,11-14).
Per la sua ricchezza cristologica, ecclesiale ed anche cosmica la Lettera agli Efesini è citata 33 volte nella Lumen Gentium (è citata 17 volte nel capitolo I, riguardante il mistero della Chiesa).
Possiamo concludere questa riflessione circa il ruolo che Gesù Cristo, crocifisso e risorto, ha sul tempo e sul cosmo, ricordando che in lui Paolo ha trovato il senso delle due coordinate fondamenta-li sulle quali si snoda la vita di ogni uomo: il tempo e lo spazio. Paolo ha compreso che in Gesù Cri-sto è arrivata per noi la pienezza del tempo, ha compreso che Gesù Cristo è il luogo in cui tutti gli uomini e l’intero cosmo vengono riunificati, riconciliati e possono incontrare Dio. Paolo ha capito che, per mezzo di Gesù Cristo crocifisso e risorto, Dio entra nel nostro tempo e nel nostro spazio, si incarna nei giorni e nelle strade dell’uomo e vi innalza il vessillo della speranza.
V. La sollecitudine organizzativa o la dimensione istituzionale
Paolo ha pensato anche alla perseveranza, al futuro delle comunità nelle quali annunciava il vangelo e nelle quali non poteva continuare a essere fisicamente presente. Ha concretizzato questa sollecitu-dine specialmente in quattro modi. Anzitutto, tornando a visitarle di persona, o tramite qualche col-laboratore, o mediante le sue lettere. In secondo luogo, istituendo in esse dei ministri. In terzo luogo, valorizzando, coordinando in esse i carismi elargiti dallo Spirito. In quarto luogo, sottolineando la necessità della relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Gerusalemme e tra di loro.
1. Paolo visita in vari modi le sue comunità
Paolo ha visitato più volte le comunità già fondate e lo ha fatto in tre maniere: o personalmente, o per mezzo dei suoi collaboratori, o per mezzo delle sue Lettere. Per capire il valore della visita pa-storale di Paolo è opportuno ricordare la ricchezza di questo gesto. Lo aveva vissuto Gesù, al punto che l’evangelista Luca riassume con questa immagine tutta la sua vita pubblica: Gesù è il Dio che visita gli uomini camminando sulle loro strade, parlando con loro, chinandosi su di loro con solleci-tudine e fermandosi a mangiare con loro; questo gesto lo aveva vissuto Pietro (At 8,14-17; 9,32.40), lo aveva vissuto Barnaba ad Antiochia, coinvolgendo anche Paolo (At 11,22-26).
Gli Atti degli Apostoli ci dicono che alla fine del primo viaggio missionario Paolo, giunto a Derbe, città vicina alle porte della Cilicia, non prosegue verso Tarso, sua città natale, e poi verso Antiochia, come geograficamente sarebbe stato più logico e più agevole, ma sente il bisogno di tornare indietro con Barnaba nelle comunità di Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia, per visitare i discepoli persegui-tati e per rianimarli (At 14,21-26). Il loro viaggio risultava così singolarmente allungato e li espone-va a pericoli gravi. Infatti non potevano mostrarsi senza rischio a Listra, dove Paolo era stato lapida-to, e a Iconio, dove un complotto li aveva costretti a fuggire, a Antiochia di Pisidia, da dove erano stati cacciati. Intraprendono il cammino verso queste città, perché sono spinti da ragioni molto serie. I versetti seguenti ne rilevano due: i missionari vogliono incoraggiare i neoconvertiti a perseverare e poi vogliono organizzare le comunità, istituendo dei responsabili.
Per prima cosa, dopo aver offerto il primo annuncio, Paolo e Barnaba fortificano gli animi dei di-scepoli e perciò li esortano con queste parole a restare saldi nella fede: « Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni » (At 14,22). È significativo che questo ministero di visitare i fe-deli per confermarli nella fede venga descritto già alla fine del primo viaggio missionario di Paolo, quasi a indicare che si tratta di un servizio che sarà sempre necessario nella vita della Chiesa. Nelle sue parole di conferma nella fede Paolo presenta le persecuzioni come una cosa necessaria, un mi-sterioso adempimento del piano divino. Nella persecuzione i cristiani sanno di essere chiamati a vi-vere come Gesù il mistero della sofferenza e della morte come mistero di disponibilità a Dio, come scelta di amore e di fiducia in lui. Il ministero della visita che consola e che fortifica nella fede viene esercitato da Paolo anche all’inizio del secondo viaggio missionario (At 15,36.41). Pure all’inizio del terzo viaggio missionario Paolo visita le regioni della Galazia e della Frigia « confermando tutti i discepoli » (At 18,23).
Oggi in Europa non siamo in situazione di persecuzione. Però spesso siamo nella strettoia del rifiu-to, della emarginazione culturale e sociale, della privazione dei grandi mezzi della comunicazione pubblica. Inoltre tutti abbiamo difficoltà personali, familiari e sociali. Possiamo chiederci se vivia-mo queste situazioni negative nostre o degli altri con ira e rivalsa, con amarezza, con scoraggiamen-to e depressione, o se le viviamo e aiutiamo a viverle con rassegnazione, con pazienza, con perdono, con tolleranza, con consolazione interiore, con coraggio e creatività. La nostra più specifica missio-ne è dire a noi stessi e a ogni uomo o donna che soffre attorno a noi: « Se riesci a credere all’amore e a vivere nell’amore, hai già trovato la salvezza »; siamo chiamati a esercitare per noi e per gli altri il ministero della fortificazione.
Quando non può visitare di persona le comunità da lui fondate, Paolo invia ad esse i suoi collabora-tori: manda Timoteo a Tessalonica (1Ts 3,2-5); manda ancora Timoteo a visitare i cristiani di Corin-to (1Cor 4,17); successivamente a Corinto ha mandato Tito per ricomporre l’unione in quella Chiesa (2Cor 12,18); a Colosse manda Epafra il quale può verificare che in quella Chiesa operava « l’amore nello Spirito » (Col 1,7).
Un altro modo scelto da Paolo per curare la formazione permanente delle comunità è costituito dalle Lettere. Sono scritti occasionali, composti dall’apostolo per visitare le sue comunità, per rispondere a problemi concreti dei destinatari, per mettere in comune la consapevolezza del primato di Dio, della forza del Risorto, della dignità dell’uomo, per completare ciò che mancava alla loro fede (1Ts 3,10), per comunicare ai fedeli qualche suo dono spirituale, per fortificarli e anche per rinfrancarsi assieme a loro mediante la medesima fede (Rm 1,11-12), per vedere i doni di grazia con i quali Dio li arricchiva e ringraziarlo insieme a loro (1Cor 1,4-7).

2. La costituzione dei ministri
Luca dice che durante il primo viaggio missionario nelle singole comunità Paolo e Barnaba costitui-rono dei presbiteri (At 14,23). Non è facile capire in che modo è avvenuta la loro elezione e in che cosa consisteva il loro ministero. Il testo parla di imposizione delle mani. Possiamo ritenere che si tratti di una cerimonia di investitura, di una specie di ordinazione che assicura agli anziani un ordi-ne, un posto speciale nella comunità su cui devono vigilare. Mediante la preghiera, resa ancora più intensa dal digiuno, vengono affidati insistentemente al Signore. Coloro che ricevono un incarico a favore della comunità sono chiamati anziani o presbiteri. Questo titolo è stato dato fin dall’inizio ai responsabili della comunità cristiana di Gerusalemme (At 15,2; 21,18), ma è assente nelle prime Lettere di Paolo: ricorre solo nelle Lettere pastorali. Nelle Lettere di Paolo coloro che hanno un mi-nistero sono chiamati con vari nomi. Nella Lettera ai Filippesi Paolo parla di episcopi (ispettori) e di diaconi (il senso di questo titolo è discusso); in altri passi parla di servizi in modo più generico, no-minando coloro che fanno da guida (1Ts 5,12-13), alle volte nomina uomini o donne che esercitano dei ministeri (1Cor 16,15; Rm 16,1; Fil 4,2-3; Col 1,7; 4,12-13.17). Nei loro confronti Paolo usa il verbo « faticare » (1Ts 5,12; 1Cor 16,16; Rm 16,6.12), che indica l’impegno missionario, e usa il ti-tolo « diacono » e « apostolo » anche per le donne (Rm 16,1-7.12).
Scopo dei presbiteri costituiti da Paolo e Barnaba è garantire la perseveranza della comunità nella fede. Hanno una responsabilità che possiamo dire dottrinale: devono garantire la continuità della tradizione apostolica. Questo compito sarà precisato più chiaramente nel discorso fatto da Paolo ai presbiteri di Efeso convocati a Mileto (At 20,31). Non si dice in che modo va esercitata questa vigi-lanza, ma se l’aggressione alla fede è fatta mediante un abuso della parola, la prima forma di vigi-lanza consiste nell’annuncio autentico della parola.
Va notato che in tutto il Nuovo Testamento e fino alla fine del II secolo si evitò di chiamare i capi delle comunità cristiane con il titolo « sacerdote » o « sommo sacerdote ». Il titolo sacerdote è usato dal Nuovo Testamento per designare i sacerdoti ebrei o quelli pagani (Lc 1,5; 14,13), per Gesù (la Lettera agli Ebrei gli attribuisce frequentemente il titolo sacerdote o sommo sacerdote) e per tutti i cristiani (1Pt 2,5.9; Ap 1,6; 5,9-10; 20,6). Il titolo sacerdote non è mai usato per designare i respon-sabili delle comunità, probabilmente per non confonderli con i sacerdoti di casta ebraici, addetti ai sacrifici rituali nel tempio, o con i sacerdoti addetti ai sacrifici pagani.
Anche la qualifica di pastore resta esclusiva di Gesù (Eb 13,20; 1Pt 2,25): gli apostoli, i vescovi, i presbiteri sono chiamati a svolgere le azioni del pastore, sono stati chiamati dallo Spirito Santo a pascere la Chiesa di Dio (At 20,8), ma non ricevono il titolo di pastori, tranne che in Ef 4,11, dove però il titolo ha un valore simile a quello di altre funzioni (apostoli, profeti, dottori) e non quello di una funzione privilegiata.
Le pecore sono affidate da Dio Padre all’amore di Gesù e Gesù esprime questo suo amore anche at-traverso l’amore dei presbiteri. Non ci deve stupire che il segno scelto da Gesù per incarnare il suo amore così grande sia così piccolo: uomini con i limiti di ogni uomo. Rientra nello stile di Dio otte-nere effetti straordinari con mezzi umilissimi, perché si veda che la potenza viene da lui. È espresso qui anche il grande tema della libertà e del primato della coscienza al quale è sempre più sensibile l’età moderna. Gli apostoli e i presbiteri esercitano il loro compito pastorale su pecore che sono di Gesù. I cristiani sono liberi perché appartengono soltanto al Signore e in quanto appartengono al Si-gnore si lasciano guidare dai servi del Signore.
Può essere interessante ricordare come avveniva la scelta di questi responsabili delle chiese locali. Essa era il risultato di un accordo tra il candidato, la comunità, gli altri incaricati già in funzione e l’apostolo fondatore. Così, ad esempio, Timoteo è scelto da Paolo e approvato dalla comunità (Fil 2,22; At 16,2). Epafrodito (Fil 2,25) ed Epafra (Col 4,12-13) sono scelti dalla comunità ed approvati da Paolo. Quelli della casa di Stefana sembra si siano offerti di propria iniziativa per il ministero nella comunità di Corinto (1Cor 16,15-16): Paolo li accetta e raccomanda alla comunità di ricono-scerli.
3. Il coordinamento dell’esercizio dei carismi (1Cor 12.14)
La parola « carisma » (charisma) non è usata nel greco classico prima degli scritti del Nuovo Testa-mento. Nel Nuovo Testamento ricorre diciassette volte (sedici volte nelle lettere di Paolo e una in 1Pt 4,10). Il termine carisma acquista un significato specifico in alcuni passi importanti, e precisa-mente in 1Cor 12,4-31; Rm 12,6 e 1Pt 4,10. I carismi sono una capacità, data dalla grazia di Dio per ogni tipo di servizio che contribuisce alla costruzione e alla crescita della Chiesa. I carismi sono di-versissimi: ciò che crea la loro unità profonda è il fatto che provengono tutti da un’unica fonte, la Trinità, e che hanno tutti un unico fine, la vitalità della Chiesa. Paolo parte dalla sua esperienza per-sonale ed è convinto che i carismi fanno parte sia della sua vita come anche di quella dei cristiani. Nel sottolineare l’esistenza dei carismi, la loro molteplicità e la loro destinazione, Paolo paragona la Chiesa a un corpo, a un organismo vivente nel quale ci sono varietà di membra e di funzioni (1Cor 12,12-27). Paolo dà subito la motivazione cristologica di questa realtà: l’origine di questo corpo u-nico sta nel battesimo. I carismi sono il principio di differenziazione all’interno del corpo di Cristo, determinano quali funzioni può e deve avere ogni membro del corpo e lo rendono capace di eseguir-le. Perciò per Paolo una comunità senza carismi è impensabile: non sarebbe più un corpo vivo, non sarebbe più il corpo di Cristo visibile, ben strutturato.
Paolo presenta alcune liste di carismi (1Cor 12,8-10.28-30; Rm 12,6-8), ma non intende offrire un loro elenco completo o sistematico. Si può dire che tra i carismi elencati alcuni riguardano la comu-nicazione della fede mediante la parola, altri sono operativi o pastorali, altri, infine, riguardano atti-vità che derivano da una fede e da una carità pure e assolute. Nelle Lettere pastorali assistiamo a una riduzione dei carismi: ogni comunità ha a capo un episkopos, preposto a dei presbyteroi e a dei dia-konoi.
Paolo dà alcune norme per l’esercizio dei carismi.
Sottolinea anzitutto che i carismi sono un dono che va accolto con riconoscenza; Paolo esorta a non spegnerli (1Ts 5,19-21). Insiste sul dovere di mettere i carismi a servizio degli altri, per la crescita, per il bene della comunità (1Cor 12,7; 14,4.5.12.26). Il dono individuale deve essere funzionale al bene comune: unica è la sorgente (la Trinità) e unica deve essere la meta di destinazione (la Chiesa). Chi ha un carisma non può rifiutare la sua legittimazione e la sua verifica. Paolo sottopone le mani-festazioni carismatiche anzitutto alla verifica fondamentale della confessione di fede in Gesù Signo-re: « nessuno può dire « Gesù è Signore » se non sotto l’azione dello Spirito Santo » (1Cor 12,3). Il se-condo criterio di verifica dei carismi è la loro effettiva utilità ecclesiale. La verifica dei carismi, quindi, ha un criterio cristologico (la fede in Gesù Signore) e uno ecclesiologico (l’identità e la cre-scita della Chiesa). Paolo introduce anche regole dettagliate per il buon funzionamento dei carismi, per evitare che il loro esercizio crei
confusione o appesantisca lo svolgimento delle riunioni ecclesiali (1Cor 14,27-31). Nessun testo del Nuovo Testamento parla di una opposizione tra carismi e istituzione.
Giustamente Paolo sottolinea che la via più sublime di tutte (1Cor 12,31) per vivere i carismi è l’agape, perciò al centro della riflessione sui carismi inserisce il celebre inno alla carità (1Cor 13,1-13). La carità è una virtù teologale, non perché consiste nell’imitare Dio, ma perché è una forza che ci viene donata da Dio, è una partecipazione all’amore stesso di Dio « che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5).
4. La relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Gerusalemme e tra di loro (2Cor 8-9)
Paolo sa che il vangelo crea e qualifica le relazioni tra le comunità e che nello stesso tempo il van-gelo ha bisogno, come suo elemento costitutivo, di un dinamico tessuto relazionale, fatto di incontri diretti, di progetti, di ricordi, di attese, di espressioni di affetto e di sollecitudine; l’evangelizzazione crea relazioni e si nutre di esse. Il vangelo genera la relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Ge-rusalemme e quella di ogni Chiesa con le altre comunità. La relazione con la Chiesa di Gerusalem-me ha dato origine alla celebre colletta, di cui Paolo parla in 1Cor 16,1-4; Rm 15,25-31 e soprattutto in 2Cor 8-9. Paolo faceva gran conto su questa colletta, anzitutto perché era segno eloquentissimo della novità scaturita dalla fede in Gesù Cristo come Signore di tutti, senza distinzione tra razze e classi sociali o religiose, e poi perché poteva favorire la comunione tra le Chiese. Anche una raccol-ta di denaro era per Paolo un’autentica esperienza di Chiesa.
In 2Cor 8,9 Paolo dà la motivazione teologica della colletta: « Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mez-zo della sua povertà ». Il gesto di aiuto alla comunità di Gerusalemme è inserito nel cuore stesso dell’adesione di fede alla iniziativa di salvezza realizzata da Gesù Cristo. Il gesto dei cristiani di Co-rinto e di tutte le Chiese fondate da Paolo nei confronti della comunità di Gerusalemme è una grazia concessa da Dio, come è stato grazia il gesto di amore di Gesù Cristo che Paolo propone come mo-dello e soprattutto come forza. Con l’aiuto economico era in gioco non solo la realtà di un gesto di amore solidale, ma anche e soprattutto un’esigenza sentitissima di unità ecumenica ecclesiale. La Chiesa di Gerusalemme avrebbe potuto vedere con favore quel contributo dei cristiani provenienti dal paganesimo quale dimostrazione del loro amore e quale riconoscimento della sua posizione di madre di tutte le Chiese. La comunione con Gerusalemme si riversa poi sulla coesione delle Chiese provenienti dal paganesimo.
La condivisione per i cristiani abbracciano è un riflesso della povertà scelta da Gesù Cristo. Il gesto dei cristiani che si impoveriscono li arricchisce, perché inserisce essi e i loro beneficati nel mondo dell’amore, cioè della realtà stessa di Dio, di Cristo e dello Spirito. Perciò per descrivere questa atti-vità, che certamente ha avuto anche un aspetto economico e che ha occupato tempo ed energie da parte dell’apostolo e dei suoi collaboratori, Paolo non usa termini presi dal mondo economico o giu-ridico, ma usa nomi molto significativi, presi dall’esperienza religiosa.
Anzitutto Paolo chiama per ben dieci volte la raccolta di denaro col termine « grazia », cioè « carità », « dono », « bontà » (2Cor 8,1.4.6.7.9.16.19; 9,8.14.15; cf. anche 1Cor 16,3). La colletta è la capacità di partecipare all’amore misericordioso di Dio. La colletta viene poi chiamata « servizio » che le Chiese paoline sono chiamate a prestare a favore dei santi di Gerusalemme (2Cor 8,4; 9,1.12.13). Paolo usa anche la parola « comunione » (2Cor 8,4; 9,13). Nella colletta si esprime e insieme si realizza l’unità tra i cristiani. Nello stesso tempo con la colletta si riconosce apertamente un primato spirituale della Chiesa di Gerusalemme, dalla quale l’evangelo aveva preso l’avvio, diffondendosi in tutto il mondo. Quindi la comunione di per sé non esige un egualitarismo esasperato: ci sono delle funzioni specifi-che che non si possono negare o confondere con altre; riconoscerle è segno di realismo e di onestà storica. Anzi è proprio con queste diversità che occorre fare comunione. Paolo adopera due volte anche la parola « giustizia » (2Cor 9,9.10): la colletta è espressione della giustizia di Dio, cioè della continua fedeltà alla sua alleanza. Paolo attribuisce alla colletta una dimensione liturgica, chiaman-dola « liturgia o servizio sacro », cioè atto pubblico di culto (2Cor 9,12). Di conseguenza la colletta farà nascere nel cuore dei cristiani di Gerusalemme una « eucaristia » o rendimento di grazie rivolto non ai benefattori umani, ma al vero Dio (2Cor 9,11.12): lo glorificheranno perché ha reso possibile questo segno concreto di unione tra pagani ed ebrei convertiti a Cristo (2Cor 9,13-14). La colletta è chiamata anche « benedizione » (2Cor 9,5), che significa dono salvifico che da Dio scende sugli uo-mini. Sullo sfondo di questa immagine sta la benedizione che Dio ha promesso ad Abramo e in lui a tutti i popoli (Gen 12,1-3). Per questo Paolo può dire che la colletta è una « prova dell’amore » (2Cor 8,8.24). Oltre che prova dell’amore, la colletta è anche « prova » della comunione, della fede, dell’obbedienza dei cristiani (2Cor 8,2; 9,12.13). Criterio e nello stesso tempo frutto atteso di questa raccolta deve essere la « eguaglianza » (2Cor 8,13-14).
Dopo queste riflessioni teologiche, si comprende quali sono le disposizioni con le quali Paolo vuole che i cristiani di Corinto compiano il loro gesto concreto di solidarietà: non basta un aiuto freddo che non coinvolge, ma occorre che diano se stessi come avevano fatto i cristiani di Macedonia (2Cor 8,5). Perciò egli parla di « sollecitudine » o « premura » o « zelo » (2Cor 8,8.17.22; 9,3), di « prontezza d’animo » o « buona volontà » o « impulso del cuore » o « slancio di volontà » (2Cor 8,11.12.19; 9,2), di « generosità » (2Cor 8,2), di « spontaneità » (2Cor 8,3); non si tratta né di un « co-mando » (2Cor 8,8) né di un’azione da compiere con « tristezza » (2Cor 9,7). Soprattutto li esorta a dare con interiore libertà e con gioia: « perché Dio ama chi dona con gioia » (2Cor 9,7).
La fecondità e la necessità delle relazioni tra le Chiese emergono anche dal fatto che Paolo conclude alcune lettere inviando alla comunità destinataria, o a suoi membri espressamente nominati, non so-lo i suoi saluti, ma anche quelli della Chiesa dalla quale scrive (1Cor 16,19; Rm 16,1-23) e dal fatto che domanda che il suo scritto sia reso noto anche ad altre comunità (Col 4,16).

Conclusione
« Paolo è stato l’uomo dell’incontro: dell’incontro con il Risorto, quindi dell’incontro con il Padre e di conseguenza dell’incontro con gli altri uomini, ebrei e non ebrei. Dotato di una grande umanità, è stato capace di entrare nella concretezza della società del suo tempo, nel mondo delle diverse cultu-re, invitandole a incontrarsi e non a scontrarsi. Paolo ha intercettato la sete di dialogo e di comunio-ne inscritta nell’uomo. Prima ha percorso la strada dell’estremismo, di Babele, dell’imposizione di un’unica mentalità, quella del fariseismo ebraico, e poi quella dell’incontro, votandosi totalmente alla civiltà del convivere. Paolo consegna alla comunità cristiana il grande impegno di ricercare as-siduamente il confronto, la comunicazione vitale delle differenze » (A. Riccardi).
Per vivere questo incontro e per promuoverlo nelle Chiese, Paolo si basa su due motivazioni: una cristologica e una ministeriale. Paolo mette a fondamento di tutto Gesù Cristo. Gesù risorto è con-temporaneamente sia il soggetto sia l’oggetto del suo ministero. Di conseguenza l’annuncio di Paolo non deve la sua validità alle capacità dell’annunciatore, ma alla persona annunciata. L’autorevolezza del ministero di Paolo non risiede nell’abilità persuasiva del portavoce, ma nella forza che promana dalla persona proclamata. Qui sta dunque la motivazione cristologica.
Garanzia di questo fondamento cristologico è, paradossalmente, proprio la debolezza dell’apostolo: Paolo presenta come migliore credenziale del suo ministero la libertà dall’affanno di doversi autole-gittimare. Egli si può addirittura vantare della propria vulnerabilità, cioè di ciò di cui di solito ci si vergogna. A garantire l’autenticità del suo annuncio è la potenza di Cristo risorto, attivamente pre-sente nella debolezza dell’apostolo. Qui abbiamo la motivazione ministeriale dell’arte pastorale di Paolo: grazie al suo incontro con il Risorto, egli è diventato l’uomo che ha fatto della debolezza la propria forza, la propria adesione di fede all’amore di Dio, alla potenza vitale della risurrezione di Gesù. Così Paolo, mosso dalla motivazione cristologica, può parlare autorevolmente, con forza, ad-dirittura con veemenza; mosso dalla motivazione ministeriale non teme di presentarsi vulnerabile, genera e guida le comunità da apostolo cristiano, camminando nella vulnerabilità.

 

PAOLO E I “GRADI DEL SAPERE”

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PAOLO E I “GRADI DEL SAPERE”

This entry was posted on 21 maggio, 2009, in Per conoscere Paolo,

Nelle prime pagine del suo libro su La pensée de Saint Paul (1941), Jacques Maritain sostiene che «l’insegnamento di san Paolo è inseparabile dalla sua esperienza di vita. Egli non è soltanto un chiamato come gli altri apostoli; è un convertito, è il primo grande convertito scelto per portare lontano il nome di Cristo, e la sua missione dottrinale è l’irradiarsi prodigioso di quell’istante, più prodigioso ancora, in cui avvenne la sua conversione interiore. È necessario, dunque, conoscere anzitutto qualcosa della sua esperienza, per quel che ne sappiamo in base alla sua personale testimonianza, e conoscere qualcosa della sua vita e dei suoi viaggi apostolici» [1].
Queste considerazioni, apparentemente cautelative, dimostrano in realtà una straordinaria acutezza ermeneutica, perché ci ricordano il carattere dinamico dell’elaborazione teologica dell’apostolo, l’idea cioè che ad agire in Paolo sia una cognitio experimentalis in continua evoluzione, che ha il suo centro nella celeberrima rivelazione di Damasco, e la sua irradiazione nelle due fasi della predicazione missionaria: la fase orale, che prevedeva la fondazione delle varie comunità, e la fase epistolare, che mirava a un controllo dello sviluppo spirituale dei seguaci in condizioni di assenza personale.
«La sapienza annunciata da Paolo – continua Maritain – non è la sapienza dei filosofi; è la sapienza dei santi. Non è la sapienza che si acquisisce con le forze naturali della ragione, è un dono di fede… Questa sapienza scandalizza tanto l’attesa giudaica di un Messia trionfante nella gloria temporale, quanto l’orgoglio di chi, come i Greci, non vuole inchinarsi con la propria intelligenza di fronte alla santità di Dio; scandalizza ogni essere che misuri (ed è questa la vera follia) le cose divine con i parametri del visibile e dell’umano» [2].
Come ha evidenziato accortamente Piero Viotto, nella presentazione all’edizione italiana del volume, la “sapienza paolina” è difficilmente classificabile nel quadro dei diversi livelli teoretici della conoscenza elaborati dallo stesso Maritain [3]: la gnôsis di Paolo, stando all’analisi maritainiana, non è di natura filosofica (condotta cioè con la sola ragione), né semplicemente di natura teologica (condotta con la ragione guidata dalla fede, ma procedente secondo i modi del sapere umano) o mistica (condotta sotto ispirazione divina). Essa apparterrebbe alla “rivelazione”, situandosi dunque «ad un livello troppo alto per fare filosofia».

Ma cosa intende il filosofo, qui, per “rivelazione”? Una cosa, infatti, è riferirsi a quella particolare modalità di conoscenza di cui Paolo parla indicandola col termine apokàlypsis [4], un’altra è intendere il deposito stesso delle sue lettere – con il loro messaggio dottrinale – in termini di canone, ossia di verità rivelata per ispirazione e dotata di valore normativo [5].
Bisognerebbe considerare attentamente la trasformazione storica del nostro modo di leggere l’epistolario paolino, che può essere differentemente valutato: ora come una serie di lettere che l’apostolo scrisse su sollecitazione di situazioni circoscritte e specifiche, donde il loro carattere “occasionale” e non sistematico, ora come un corpus dottrinale inserito successivamente nel Nuovo Testamento, la cui unità e autorità – da un punto di vista teologico – può essere considerata trascendente rispetto ai singoli scritti che lo compongono.
In altre parole: come suggerito a suo tempo da Mauro Pesce, nel suo volume su Le due fasi della predicazione di Paolo (1994), dovremmo interrogarci sul passaggio dell’epistolario da testo che completa e integra la predicazione orale di un missionario proto-cristiano del I secolo a testo che un determinato sistema religioso può leggere come base per la propria predicazione e il proprio sviluppo dottrinale. Paolo, di certo, non poteva prevedere questo rovesciamento, così naturale per noi, che ci accostiamo a lui attraverso il filtro di una tradizione bimillenaria.
Tuttavia, se guardiamo alle ricorrenze del termine apokàlypsis negli scritti delle origini cristiane, possiamo rinvenire le tracce che hanno condotto a questo lento processo di trasformazione. In tutto il Nuovo Testamento, indubbiamente, il contenuto stesso della “rivelazione” è rappresentato dalla persona e dal messaggio di Gesù Cristo. Nel vangelo di Giovanni, però, si parla della promessa dello Spirito, che condurrà i seguaci del Signore alla «verità tutta intera» (cf. Gv 14,28; 15,26; 16,13).
Anche Paolo, a ben vedere, postula qualcosa di analogo. Egli insiste sul fatto di aver ricevuto personalmente un’apparizione del Risorto (cf. ad es. 1Cor 9,1; 15,1-11), e di esserne in qualche modo “latore”: Cristo parla e agisce per mezzo dell’apostolo (Rm 15,18; 2Cor 13,3), e il messaggio apostolico comincia in tal modo ad essere figurabile come “parola di Dio” (cf. Lc 5,1 e 8,21 con 1Cor 14,26 e Col 1,25).
Il seguace di Cristo, in definitiva, sarebbe caratterizzato da un originale patrimonio sapienziale e da una particolarissima modalità gnoseologica, come dimostra questo stupendo passaggio della Lettera agli Efesini:
«…il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi doni una spirito di sapienza e di rivelazione per riconoscerlo; illumini gli occhi del vostro cuore perché possiate comprendere qual è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della sua gloria, eredità nei santi, e quale la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo, per l’efficacia della sua forza irresistibile» (Ef 2,17-19).
In questo brano dell’epistolario paolino, “rivelazione” e “conoscenza” appaiono inscindibili, e risultano avere per oggetto (e per soggetto) Dio. Ma di quale conoscenza si parla? Come la si ottiene? E quali sono i suoi effetti? Per capirlo dobbiamo porre a confronto il testo con altri due passaggi di Paolo. Nella Prima lettera ai Tessalonicesi, ad esempio, troviamo una curiosa tripartizione fra “spirito”, “anima” e “corpo”:
«Che il Dio della pace vi santifichi totalmente, e che il vostro essere intero, lo spirito (pneûma) l’anima (psyché) e il corpo (sôma), si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23).
In questo passaggio, quasi di sfuggita, Paolo ci fornisce una singolare rappresentazione schematica dell’essere umano: una composizione tripartita, per l’appunto, di “spirito”, “anima” e “corpo”. Nell’antropologia paolina, il corpo è realtà neutrale, animata da una psyché. A queste due realtà se ne potrebbe aggiungere un’altra, spesso nominata da Paolo: è la sarx (“carne”), che rappresenta le forze impersonali, emotive, profonde, che si agitano all’interno dell’uomo. Psyché e sarx non sono dunque contrapposti – come si potrebbe pensare ragionando alla maniera greca – , e non designano neppure le componenti rispettivamente “divina” e “terrena” dell’uomo: sono al contrario due analoghe modalità “creaturali”, che l’apostolo mette in rapporto, “fenomenologicamente”, a Dio.
Come si evince da un esame complessivo del lessico di Paolo, i due termini vengono utilizzati per indicare che l’uomo, nella sua concretezza e integrità, è un essere mortale, naturalmente aperto al dischiudersi della trascendenza e bisognoso di essa. Nella prima lettera ai Corinzi, del resto, possiamo trovare una sorta di antagonismo fra ciò che è “psichico” (cioè dell’anima, vale a dire “naturale”) e ciò che è “pneumatico” (cioè dello spirito, vale a dire di ciò che sta a mezzo tra il mondo naturale e il mondo soprannaturale) [6]:

«L’uomo terrestre (psychicòs) non comprende le cose dello spirito (pneûma) di Dio; sono follia per lui e non è capace di intenderle perché se ne giudica solo per mezzo dello spirito (pneûma). L’uomo spirituale (pneumatikòs), al contrario, giudica ogni cosa senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2,14-15).

Tutto ciò porterebbe a pensare che l’idea di psyché propugnata dall’apostolo sia esclusivamente peggiorativa: ma per quale motivo, allora, egli avrebbe augurato ai Tessalonicesi di conservarla “integra”, insieme al corpo e allo spirito? E a cosa si riferisce Paolo, quando dice che è soltanto grazie allo pneûma che si conoscono le cose dello pneûma di Dio? Poco prima, nel medesimo contesto, Paolo aveva distinto abbastanza chiaramente lo “spirito dell’uomo” dallo “Spirito di Dio”:
«Sta scritto infatti: Cosa che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò nel cuore di un uomo, è ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano. Ma a noi lo ha rivelato (apekàlypsen) mediante lo spirito (pneûma) [alcuni mss. aggiungono autou, “di Lui”]; lo spirito (pneûma) infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1Cor 2,9-10).
Che lo spirito cui Paolo fa allusione qui sia lo Spirito di Dio, e non lo spirito dell’uomo, lo si comprende più chiaramente dal seguito:
«Infatti, chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito (pneûma) dell’uomo che è in lui? Così, anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere, se non lo Spirito (pneûma) di Dio» (1Cor 2,9-11).
È da passi come questo, generalmente, che gli esegeti suppongono operante in Paolo una concezione pessimistica della natura umana, rinchiusa nel peccato e incapace di pervenire alla conoscenza di Dio. Se lo pneûma di Dio nominato poc’anzi fosse lo stesso di cui si parla in 1Ts 5,23, il passaggio implicherebbe senza dubbio una scissione violenta tra la vita “in Cristo” e la condizione decaduta dell’uomo non guidato dalla grazia. Prendendo spunto da un vecchio saggio di Henri de Lubac, tuttavia, è possibile azzardare una spiegazione decisamente più articolata.
De Lubac, correttamente, ipotizza che lo pneûma nominato in 1Ts 5,23 possa corrispondere allo pneûma dell’uomo di 1Cor 2,11, e stabilisce un rapporto fra questa nozione paolina e l’interpretazione del noûs aristotelico (il principio immortale e divino della vita intellettuale) fornita dal contemporaneo Filone di Alessandria [7].
L’Alessandrino, commentando il libro della Genesi, scrive infatti che Dio soffiò nell’uomo uno pneûma, ossia che, dopo averlo dotato di anima e di corpo, volle conferirgli parte del suo spirito: egli armonizza la concezione presente in Genesi 2,7 («Dio soffiò nelle narici dell’uomo un alito di vita»: che descriverebbe la nascita dell’uomo terreno) con quella di Genesi 1,27 («Dio creò l’uomo a sua immagine»: che descriverebbe la nascita dell’uomo celeste). Nondimeno, lo pneûma di cui parla Filone, principio di vita superiore e luogo della comunicazione con Dio, non può esser fatto coincidere in alcun modo con lo pneûma divino di cui parla Paolo, come argomenta in seguito De Lubac. Il teologo francese, su questo punto, commette un grave errore, che pregiudica la comprensione stessa dell’argomentazione paolina.
Il fatto che lo pneûma di Dio possa essere interpretato come una parte costitutiva dell’uomo (lo pneûma dell’uomo), allo stesso titolo dell’anima o del corpo, è esattamente ciò che Paolo contesta con tutte le proprie forze: quest’assunto doveva invece far parte delle rivendicazioni dei Corinzi, per i quali lo “spirito” dell’uomo finiva per coincidere proprio con quel superiore principio di vita, immortale e divino, che Filone desumeva dal racconto della creazione, e che si prestava a un’identificazione col noûs aristotelico. Mentre i Corinzi pretendevano di accedere ai misteri di Dio in forza del loro noûs naturale, Paolo affermava che questi sono conoscibili soltanto grazie al noûs di Cristo:
«Chi, infatti, conobbe l’intelletto del Signore, così da poterlo dirigere? Noi però abbiamo l’intelletto (noûs) di Cristo» (2,16).
È senz’altro vero che lo “spirito dell’uomo” non debba essere inteso come una parte costitutiva dell’uomo allo stesso titolo dell’anima o del corpo: vi è infatti una gerarchia tra questi elementi. In 1Cor 2,9, dopo aver parlato del “pneuma dell’uomo”, l’apostolo aggiunge infatti «che è in lui», con una precisazione che De Lubac stesso definisce come una «sfumatura di capitale importanza. Così ciò che per eccellenza fa l’uomo, ciò che costituisce l’uomo nel suo valore unico tra gli esseri di questo mondo, molto di più, ciò che fa di lui un essere superiore al mondo è un elemento che, piuttosto che essere “dell’uomo”, è “nell’uomo”» [8].
Dal contesto della Prima lettera ai Corinzi, tuttavia, si desume che gli avversari di Paolo rivendicavano a se stessi la qualifica di “perfetti” – ovvero “spirituali” – in base al loro possesso di uno “spirito” ch’essi immaginavano “divino”, ma che Paolo squalificava come “dell’uomo”. Grazie a questo spirito, essi pensavano di avere accesso a una «sapienza nascosta», «avvolta nel mistero» e riservata a pochi eletti. Paolo si oppose a un tale ordine di idee, affermando che la stessa natura di una «sapienza nascosta» implicava che nessuno fra i «dominatori di questo mondo» l’avesse mai potuta conoscere (1Cor 2,8). Il cuore di questa sapienza, per lui, s’identificava nella morte in croce di Cristo, «scandalo per i Giudei e stoltezza per i Gentili».
Riassumendo, la differenza fondamentale che intercorse tra Paolo e i suoi oppositori a Corinto, così come tra Paolo e Filone, o tra Paolo e i successivi movimenti gnostici che a lui fecero appello (fraintendendolo), consistette in questo: mentre il possesso dello Spirito di Dio era per Paolo il risultato di un intervento escatologico, e dunque di una grazia conferita dall’alto, per gli altri era una possibilità ontologica intrinseca nell’uomo, ottenibile senz’alcun intervento da parte della divinità (per cui lo Spirito di Dio, di fatto, poteva essere identificato con lo spirito dell’uomo).
Altra questione dirimente era su come ottenerlo, questo spirito: per Paolo, bastava volerlo (tutti possono, ma solo alcuni vogliono); per gli altri, bastava poterlo (tutti vogliono, ma solo alcuni possono). Il grande conflitto fra Chiesa e “gnosi” era dietro l’angolo.

Note

[1] Cito dalla traduzione italiana del volume, Il pensiero di san Paolo (cur. P. Viotto, Roma 1964). Il lavoro di Maritain, ovviamente, non ha pretese di tipo storiografico, e sarebbe scorretto chiedere al suo testo ciò che esso stesso non si preoccupa di dare. Maritain non si lascia nemmeno sfiorare dall’ampio dibattito di ordine storico-critico, pure fiorente in quegli anni, e adotta in molti casi le soluzioni offerte dalla tradizione: in questioni minime, come ad esempio nel breve schizzo biografico di Paolo (il quale viene fatto morire un 29 giugno, «probabilmente dell’anno 67»), come pure nell’attribuzione pacifica dell’intero corpus epistolare alla mano dell’apostolo, o nella trattazione di una vexata quaestio come quella della “giustificazione” tramite la fede o tramite le opere, laddove il filosofo parigino sembra richiamarsi implicitamente alla classica armonizzazione “cattolica” fatta valere a suo tempo da Agostino.
[2] Ibid., pp. 52-53.
[3] J. Maritain, Distinguer pour unir: ou les degrés du savoir, Paris 1932 (tr. it. I gradi del sapere, Brescia 1974).
[4] Per uno primo esame della questione, rimando alla voce di A. Oepke, Apokalypto, Apokalypsis, nel Grande Lessico del Nuovo Testamento (vol. V, coll. 82-162).
[5] Su questo tema, resta fondamentale il saggio di Bruce M. Metzger, Il canone del Nuovo Testamento. Origine, sviluppo e significato, trad. it. Brescia 1997. Sul diverso problema della nascita del “canone” paolino, cf. i contributi raccolti in S. Porter (ed.), The Pauline Canon, Leiden 2004.
[6] La distinzione tra “psichico” e “pneumatico” ricorre anche altrove, ad es. nella lettera di Giuda, che parla di «seminatori di dissidi, psychikoi, privi dello Spirito» (19), e in quella di Giacomo: «Una sapienza di questo genere non viene dall’alto, ma è terrestre, psychike, demoniaca» (3,15). L’opposizione paolina è stata studiata da M. Winter, Pneumatiker und Psychiker in Korinth. Zum religionsgeschichtlichen Hintergrund von 1Kor. 2,6-3,4, Marburg 1975: per questo autore molti testi gnostici, che risalgono al II e III secolo, deriverebbero dalle premesse concettuali dell’antitesi paolina. Nei circoli di Valentino, d’altronde, l’opposizione fornirà il destro per la rigida categorizzazione degli uomini in “ilici”, “psichici” e “pneumatici” (sull’argomento, cf. M. Simonetti, YUKH e YUKIKOS nella gnosi valentiniana, in Id., Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Messina 1994, pp. 141-203). B.A. Pearson (The “Pneumatikos-Psychicos” Terminiology in I Corinthians, Missoula 1973), sviluppando un’ipotesi avanzata inizialmente da H. Koester, aveva già rintracciato la base di questa opposizione paolina nell’esegesi giudaico-ellenistica di Gen 2,7 (LXX): ipotesi ripresa e perfezionata da G. Sterling, nell’importante articolo “Wisdom among the Perfects”: Creation Traditions in Alexandrian Judaism and Corinthian Christianity, “Novum Testamentum” 37 (4/1995), pp. 355-384.
[7] Vd. H. De Lubac, Mistica e mistero cristiano, trad. it. Milano 1979, pp. 59-117. Sui rapporti tra Paolo e Filone esiste un’abbondantissima bibliografia, che non è il caso di ripercorrere qui. Per un primo orientamento, fondamentale il volume collettivo curato da R. Deines e K.W. Niebuhr, Philo und das Neue Testament: Wechselseitige Wahrnehmungen, Tübingen 2004.
[8] H. De Lubac, op. cit., pp. 69-70.

IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO – IL PERDONO IN SAN PAOLO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2003/Riv0803/Riv0803_03.htm

(tutta la Tesi tra Gennaio e Ottobre 2002
http://www.collevalenza.it/elenco_riviste_mensili_2003.htm )

IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO

Estratto dalla Tesi di Laurea presso la UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Teologia – Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica

Roma 2002

2.4 IL PERDONO IN SAN PAOLO

A questo punto del nostro lavoro riteniamo opportuno inserire un capitolo riguardante la riflessione paolina sul perdono. Essa ci dà uno sguardo d’insieme sulla riflessione che hanno fatto la prime comunità sul perdono e le modalità di realizzarlo. Notiamo innanzitutto che il termine perdono non è molto presente nel vocabolario paolino. Paolo usa il verbo aphie¯mi – il verbo usato normalmente nel Nuovo Testamento per “perdonare” – solo cinque volte, e in quattro di esse non significa perdonare ma “rilasciare”, solo due volte il sostantivo aphesis, mentre più usato è il verbo charizomai, che significa dare liberamente e gratuitamente o rimettere, perdonare, scusare. Probabilmente l’uso di questo termine è dovuto alla sua assonanza con il concetto di grazia charis, e perché egli fa riferimento, soprattutto alle persone, piuttosto che ai peccati. A proposito di un individuo castigato, scrive ai Corinzi, che quell’uomo è stato punito abbastanza e che ora dovreste perdonarlo e confortarlo (cfr.: 2Cor 2,6-7). A mano a mano che la sua argomentazione procede Paolo afferma che il perdono è parte fondamentale della vita cristiana. “A chi voi perdonate perdono anch’io; perché quello che io ho perdonato, se ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi davanti a Cristo” (2Cor 2,10). È nello stile del mondo alimentare il rancore per le offese ricevute, è invece nello stile di coloro che sono stati perdonati da Cristo, perdonare con liberalità le offese ricevute. La motivazione di un simile comportamento è enunciata esplicitamente da Paolo, quando scrive ai Colossesi: “Perdonatevi scambievolmente… come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13). Paolo esprime lo stesso concetto in Efesini: “perdonatevi a vicenda, come Dio ha perdonato a voi ” (Ef 4,31). In questo caso si sottolinea l’importanza dell’opera di Cristo, per il processo del perdono. Il perdono in Cristo significa perdono a causa di quello che Cristo è e fa(1). C’è un altro testo in cui Paolo usa il verbo charizomai, ma lo fa in riferimento al perdono divino. L’apostolo parla dello stato di morte dei peccatori e prosegue: “Con lui (Cristo) Dio ha dato vita anche a voi, …perdonandoci tutti i peccati” (Col 2,13) Ciò significa chiaramente che è l’opera di Cristo che causa il perdono, anche se non ci viene detto in che maniera. Infine Paolo fa molto uso del concetto di remissione. Lo considera tuttavia importante e parla di Cristo “nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,7). Così si vede che il perdono dei peccati deriva dalla morte espiatrice del salvatore.
Per Paolo, dunque, il perdono è importante, anche se non vi fa spesso riferimento con una terminologia fissa. Ma lo considera tanto importante che, grazie a quello che Cristo ha fatto, i peccati dei credenti non sono più messi a loro carico. E lo considera tanto importante che i credenti devono tradurlo nel loro modo di vivere, perdonando le offese che ricevono dagli altri. Cosa ancora più importante, il perdono rivela qualche elemento del carattere di Dio: è un Dio che manda suo Figlio a morire su una croce per realizzare il perdono. Il che significa lo stabilirsi di una calda relazione personale con il Dio che perdona(2).
Non si può dire che Paolo trascuri questo tema, ma sicuramente ne tratta meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Diversamente, invece, per quanto riguarda il tema della riconciliazione, che noi abbiamo detto essere una conseguenza del perdono. L’ espressione migliore che san Paolo usa per esprimere la redenzione operata da Gesù Cristo e dalla sua morte in croce è costituita dalla parola “riconciliazione”, nella quale l’iniziativa parte da Dio, ma nello stesso tempo, l’uomo, prigioniero di se stesso e della propria colpa, è invitato ad accettare l’offerta divina di amore e a riconciliarsi con Dio. Dio non ha bisogno di riconciliarsi con l’uomo. Infatti egli è sempre il Dio che ama e che propone la riconciliazione. Non è stato Dio ad allontanarsi dall’uomo: è stato invece l’uomo ad allontanarsi da Dio. Nella morte di Gesù, Dio ha invitato gli uomini ad abbandonare il loro distacco e il loro isolamento e a rivolgersi di nuovo all’amore e quindi anche alla vita, guardando all’amore infinito di Dio, reso visibile sulla croce. È Dio che agisce. Tuttavia, la riconciliazione non si limita a ricostituire in modo puramente esteriore la comunità con noi: nella riconciliazione Dio trasforma e rinnova l’uomo nella sua totalità. San Paolo ce lo dimostra nel famoso brano della seconda Lettera ai Corinzi: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con se mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,17-18).
E così che san Paolo descrive la situazione in 2Cor 5,19-20: “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. Il messaggio cristiano è essenzialmente servizio della riconciliazione e annuncio della riconciliazione. È la supplica insistente agli uomini: “Rinunciate alla vostra vita senza senso, abbandonate la vostra chiusura e il vostro accecamento e rivolgetevi a Dio, che vi ha dimostrato il suo amore in Cristo e che oggi vi invita a rinnovarvi grazie al suo amore”.
Paolo ha interpretato il proprio ruolo come quello di servitore della riconciliazione. Egli implora un atteggiamento di riconciliazione da parte dei Corinzi, che avevano litigato tra di loro e con lui. E’ nella riconciliazione che si ha la prova se essi considerano seriamente Cristo e il suo amore, così come è stato loro rivelato nella sua morte in croce(3). 

2.5 Conclusione

A questo punto vorremmo dare una sintesi di quanto emerso, nel corso di questa seconda parte del nostro capitolo, riguardante la radicale novità del perdono di Cristo.
Cristo ha descritto il perdono come l’elemento centrale della comunità cristiana, come si nota chiaramente nella sua formulazione del Padre Nostro. In esso l’autenticità della nostra preghiera viene subordinata alla nostra disponibilità a perdonarci a vicenda. “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori… Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,12.14-15).
La disponibilità a perdonare richiesta dal Padre non è un tratto felice del nostro carattere o una disposizione psicologica acquisita. Al cuore c’è un atteggiamento religioso radicato di un Dio sommamente capace di perdonare. Per questo il Nuovo Testamento continua a rapportare il nostro perdono al perdono di Dio. Ora il nostro perdono non è più una condizione per meritare il perdono di Dio, è un paradigma per esso o piuttosto qualcosa di concomitante ad esso. Ma nel suo commento alla preghiera, che segue immediatamente, Matteo parla specificamente della richiesta di perdono, ponendola in rilievo, e la riformula “se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; me se voi non perdonerete agli uomini neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Invece nella lettera ai Colossesi capovolge il discorso. Essa fa del perdono la conseguenza del perdono che abbiamo ricevuto da Gesù, il cui perdonare deve essere un modello per noi: “Anche voi dovete perdonare come il Signore vi ha perdonato” (Col 3,13). Ci chiediamo quindi: Il perdono umano e il perdono divino come si rapportano?
Le formulazioni del Nuovo Testamento alquanto confuse e piuttosto conflittuali, indicano, credo un rapporto di mutua interdipendenza dialettica radicato nel perdono illimitato di Dio.
Ogni perdono, come ogni Amore, di cui il perdono è una forma particolare, ha origine da Dio, che ha amato e ci ha perdonato per primo (1Gv 4,7.21; Lc 7,47; Mt 18,23-35). Quando amiamo (e perdoniamo) il prossimo, l’amore di Dio (e il suo perdono) è reso perfetto in noi. La nostra esperienza di amare e di perdonare è aumentata e intensificata. Se ci rifiutassimo di perdonare il prossimo, non potremmo più fare esperienza dell’amore di Dio, non perché Dio smetta di amare o di perdonare (non lo può fare perché è l’amore perdonante), ma perché la nostra mancata risposta al suo perdono, ci chiude al suo perdono e al suo amore. Il perdono umano, che ha origine dall’esperienza perdonante di Dio, si nutre di questa esperienza, creando nuove possibilità di perdono. Il perdono umano è così, sia una conseguenza del nostro essere perdonati da Dio, sia una condizione per esso(4).
Perdonarci a vicenda non è dover compiere una prestazione eccessiva, che Gesù ci domanda, ma è invece espressione della riconoscenza, per il perdono infinito che riceviamo da Dio. In questa parabola Gesù doveva mettere a confronto, in modo così chiaro il debito infinito, che abbiamo nei confronti di Dio e quel poco di cui noi siamo debitori gli uni verso gli altri, per mostrarci che non vi è motivo per non perdonarci a vicenda. Non potremo mai rifondere a Dio ciò che gli dobbiamo.
Giorno dopo giorno diventiamo debitori nei confronti di Dio. Ci ribelliamo a lui, lo dimentichiamo e ci rivolgiamo ad altri dèi: il denaro, la fama, la carriera. E nonostante tutto Dio non ci abbandona. Chi vive il perdono di Dio con il cuore non può non perdonare chi lo ha ferito. Il perdono non è per lui una richiesta da adempiere per obbligo, ma una risposta al perdono vissuto in prima persona.
Secondo Matteo il perdono è l’espressione concreta di una comunità umana e cristiana. Senza perdono si ha soltanto un atteggiamento di calcolo reciproco, si ha un circolo vizioso di vendetta e risposta alla vendetta. Così anche la Lettera ai Colossesi interpreta il perdono come il fondamento della comunità cristiana: “Sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13). Il perdono che i cristiani hanno ricevuto da Cristo deve plasmare anche la loro vita in comune. Soltanto in questo modo possono amarsi come Cristo li ha amati: “Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14). L’amore unisce in noi le diverse parti, facendo di noi persone che possono accettare completamente se stesse. E collega i gruppi in contrasto all’interno di una comunità portandoli all’unità. Non esiste amore senza perdono.
E non può esistere una comunità se i suoi componenti non sono sempre disposti a perdonarsi vicendevolmente.
In base alla prospettiva cristiana in cui ci muoviamo, l’esperienza del perdono si muove su due ambiti: perdonare è prima di tutto un dono: il fatto del perdono ci rivela Dio come evento di misericordia. Inoltre perdonare comporta un impegno: i gesti di perdono si attualizzano e concretizzano nella chiesa, come testimone di perdono e al servizio della riconciliazione(5).
Gesù scatena la dinamica del processo di conversione. L’esperienza del perdono è un’esperienza dinamica. Quando Gesù perdona, mobilita la persona, suscita in essa un ritorno all’autenticità nell’universo relazionale dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini, col mondo e con Dio. Ci sembra di poter dire che Gesù punta su una nuova logica interrelazionale: L’orizzonte valutativo in cui Gesù si muove, fa piazza pulita dei presupposti della normale logica interumana. Molte volte risulta sconcertante. Gesù non viene compreso: la logica che regola le relazioni interumane si regge con la legge del più forte o, nel migliore dei casi, con la legge della reciprocità, dell’equivalenza, come norma di giustizia. Gesù invece, ci guida con una logica di sovrabbondanza. Si pone con ciò in risalto che il suo modo di essere giusto, consiste nella misericordia.

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