Archive pour la catégorie 'Padri della Chiesa – San Giovanni Crisostomo'

DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO  

Noi potremmo, se solo volessimo, vincere ogni resistenza della natura con la forza della volontà. Non c’è nulla di impossibile per gli uomini in ciò che Cristo ha ordinato; se infatti mettiamo tutto l’impegno di cui siamo capaci, anche Dio ci da insieme molto aiuto, e così diventeremo invincibili contro tutte le avversità. Non è degno di biasimo l’aver paura dei colpi, ma, per la paura di questi, sottostare a qualcosa di indegno del comportamento religioso, in modo che la paura dei colpi mostra colui che rimane invincibile nelle prove, più ammirevole di chi non ne ha paura. In questo modo rifulge maggiormente la volontà, perché aver paura dei colpi è proprio della natura, mentre non sottostare a nulla di sconveniente per paura di essi dipende dalla volontà che corregge la deficienza della natura e vince la sua debolezza. Nemmeno l’afflizione è motivo di accusa, ma, a causa dell’afflizione, dire o fare qualche cosa che non piace a Dio. Se io dicessi che Paolo non era un uomo, giustamente mi addurresti le deficienze della natura, per confutare così il mio discorso; ma se dico e sostengo che era un uomo, in niente superiore a noi riguardo alla natura, mentre divenne migliore riguardo alla volontà, invano, mi presenti queste obiezioni, anzi non invano, ma a favore di Paolo. Infatti in virtù di esse dimostri quanto grande egli fosse, perché pur trovandosi in una natura siffatta, fu più forte di essa. Non solo lo esalti, ma chiudi anche la bocca a quelli che si sono perduti d’animo, non consentendo ad essi di rifugiarsi nella superiorità della sua natura, ma spingendoli invece all’impegno proveniente dalla volontà. Ma, si potrebbe dire, non ebbe paura qualche volta anche della morte? Anche questo atteggiamento è naturale. Tuttavia egli stesso che temeva la morte diceva a sua volta: In realtà quanti siamo in questa tenda[1], sospiriamo come sotto un peso[2], e di nuovo: Anche noi gemiamo interiormente[3]. Vedi come ha presentato la forza proveniente dalla volontà quale contrappeso della debolezza della natura? Infatti anche molti martiri spesso, nell’essere condotti al supplizio, impallidirono e furono pieni di paura e di angoscia; però proprio per questo sono soprattutto degni di ammirazione, perché, pur avendo timore della morte, non l’hanno fuggita a causa di Gesù. Così anche Paolo, pur temendo la morte, non rifiuta neppure la geenna per amore di Gesù[4], e, pur trepidando al pensiero della propria fine, desidera essere sciolto dal corpo[5]. Non era solo lui a provare ciò, ma anche il capo degli apostoli, pur avendo spesso detto di essere pronto a dare la vita[6], temeva assai la morte. Ascolta che cosa gli dice Cristo parlandogli in merito: Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi[7], fa riferimento alla deficienza della natura, non della volontà. La natura mostra le sue proprietà anche contro noi, e non è possibile superare tali deficienze, neppure se si vuole e ci si impegna intensamente; pertanto da questo lato non siamo danneggiati, anzi siamo ammirati maggiormente. Che capo d’accusa è infatti aver paura della morte? Quale motivo di elogio non è invece, pur avendo paura della morte, non sottostare ad alcun atteggiamento meschino a causa di questa paura? Non è motivo d’accusa avere una natura con delle deficienze, bensì essere schiavi di queste; sicché chi resiste all’assalto che proviene da essa con il coraggio della volontà, è grande e ammirevole. Così mostra quanto grande sia la forza della volontà e tappa la bocca a quanti dicono: «Perché non siamo divenuti buoni per natura?». Che differenza c’è che questo si verifichi per natura o per volontà? Quanto è migliore questa condizione di quella? Per il fatto di procurare corone e una splendida rinomanza. Ciò che è proprio della natura non è forse saldo? Ma se vuoi avere una forte volontà, questa condizione è più solida della prima. Non vedi che il corpo dei martiri è trapassato dalla spada e che, se la natura indietreggia davanti al ferro, la volontà non cede ad esso né si lascia sopraffare? Dimmi: non vedi che, nel caso di Abramo, la volontà ebbe il sopravvento sulla natura, quando gli fu ordinato di sacrificare il figlio[8], e la prima si manifestò più potente della seconda? Non vedi che si è verificata la medesima situazione nel caso dei tre giovani[9]? Non ascolti anche il proverbio che afferma che la volontà diventa una seconda natura in forza dell’abitudine? Anzi potrei dire che diventa la prima, come l’ha dimostrato ciò che è stato detto in precedenza. Vedi che è possibile acquistare anche la saldezza della natura, se la volontà è generosa e vigile, e che raccolga maggiori elogi chi sceglie e vuole essere buono più di chi vi è costretto? Questo è bello soprattutto, come quando dice: Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù[10]. Allora soprattutto lo lodo, vedendolo raggiungere la virtù non senza pena, in modo da non essere motivo di indolenza per quelli che sarebbero venuti dopo, per giustificare la loro mollezza. Quando dice ancora: Sono crocifisso per il mondo[11], incorono la sua volontà. È possibile infatti, è possibile imitare la forza della natura con il rigore della volontà. Se lo proponiamo come l’esempio stesso della virtù, troveremo che si sforzò di portare le buone qualità che aveva in conseguenza della volontà, al livello della saldezza della natura. Soffriva certamente quando era percosso, ma non disprezzava i patimenti meno delle potenze incorporee che non soffrono, come si può apprendere dalle sue parole che non sembrerebbero far credere che appartenesse alla nostra natura. Quando infatti dice: Il mondo è crocifisso per me e io lo sono per il mondo[12], e ancora: Io vivo, o piuttosto non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[13], che altro significa se non che ha abbandonato il corpo stesso? Che vuol dire, quando dice: Mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana[14]? Nient’altro se non mostrare che la sofferenza arrivava solo al corpo; non perché non passasse all’interno, ma perché egli la respingeva e l’allontanava per la sovrabbondanza della sua volontà. E che dire, quando fa molte affermazioni più meravigliose di queste, e gioisce di essere frustato e si vanta delle sue catene[15]? Che altro si potrebbe dire se non quanto ho detto, che cioè affermare: Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, nel timore che, dopo aver predicato agli altri, non venga io stesso squalificato[16], indica da un lato la debolezza della natura, ma dall’altro, mediante quanto ho detto, la nobiltà della volontà? Perciò si trovano entrambi questi aspetti presso di lui, affinché né pensi che per le sue grandi virtù appartenesse ad una natura diversa e non ti scoraggi, né condanni quell’anima santa per le sue debolezze, anzi al contrario, scacciando in conseguenza di ciò lo scoraggiamento, ti volga verso una fiduciosa speranza. Per questo motivo presenta d’altra parte anche la grazia di Dio in termini amplificativi, anzi non in termini amplificativi, ma con saggezza, perché pensi che nulla viene da lui. Afferma però anche il suo impegno, perché, attribuendo tutto a Dio, tu non trascorra la vita nell’inoperosità e nell’incuria. E troverai rigorosamente in lui misura e regola di tutto.

[1] Il corpo. [2] 2 Cor 5, 4. [3] Rom 8, 23. [4] Cf Rom 9, 3. [5] Cf Fil 1, 23. [6] Cf Mt 26, 35; Mc 14, 31; Lc 22, 33; Gv 13, 37. [7] Gv 21, 18. [8] Cf Gen 22, 1ss. [9] Cf Dan 3, 12ss. [10] 1 Cor 9, 27. [11] Gal 6, 14. [12] Ib. [13] Gal 2, 20. [14] 2 Cor 12, 7. [15] Cf 2 Cor 11, 24-25; Fil 1, 12-14. [16] 1 Cor 9, 27.  

GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

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GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

In quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo decennio dell’era cristiana. Quattro secoli dopo, Antiochia è ancora uno dei centri più importanti della Chiesa d’Oriente. In particolare da quando un giovane sacerdote aveva cominciato a predicare. Il suo nome è Giovanni e i secoli successivi lo chiameranno “Crisostomo”, ovvero “bocca d’oro” per la semplicità ed insieme la profondità e bellezza della sua predicazione. Siamo nel 392 e Giovanni – vista la situazione della sua comunità particolarmente in crisi – sceglie come tema del suo annuncio la speranza. E lo fa attraverso la testimonianza del suo autore prediletto: Paolo e la sua Lettera ai Romani. Tutti si aspettano una lettura inevitabilmente teologica, visto il contenuto della lettera paolina. Al contrario, il Crisostomo parte dalla vita concreta e – alla luce del testo sacro – ne illumina la sfida: «Se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto». Infatti «la nostra speranza è certa e inamovibile perché Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre». Questo genera la fiducia e la pazienza, vero antidoto alla disperazione. «Per mezzo di Cristo abbiamo anche avuto accesso, mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,2). 2. Nota come Paolo precisa sempre tutti e due gli aspetti, ciò che viene da Cristo e ciò che viene da noi. Solo che da Cristo ci vengono molte eIn quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo  svariate cose: è morto per noi, ci ha riconciliati, ci ha dato accesso e ci ha comunicato un’ineffabile grazia; per parte nostra invece ci mettiamo solo la fede. Per questo dice: «…mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo». Dimmi: quale grazia? Quella di essere resi degni di conoscere Dio, quella di essere liberati dall’errore, di conoscere la verità, di conseguire tutti i beni mediante il Battesimo. Per questo, infatti, ci ha dato accesso alla grazia, perché ottenessimo questi doni; non solo, dunque, per avere la remissione e la liberazione dai peccati, ma per godere di infiniti pregi. E non si ferma qui, perché annuncia anche altri beni, quelli indicibili che superano la mente e la ragione. Infatti, parlando di «grazia» si riferisce alle realtà presenti che abbiamo conseguite, ma quando dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», rivela tutte le realtà future. E giustamente dice: «Nella quale rimaniamo», perché così è la grazia di Dio: non ha fine né limiti ma si espande sempre più, cosa che per gli uomini non si verifica. Facciamo un esempio: uno può prendere il comando, la gloria, il potere, ma non «rimane» stabilmente in essi, perché ben presto ne decade: se anche non lo spodesta un altro, sopraggiungerà la morte a spazzarlo via. Per le cose di Dio non è così: non c’è uomo o tempo o circostanza e neppure lo stesso diavolo o la morte che possa venire a cacciarcene. Anzi, quando moriremo le possiederemo più pienamente e cresceremo sempre più nel loro godimento. Pertanto, se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto. Per questo dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», perché impari quale disposizione d’animo deve avere l’uomo di fede. Questi deve ostentare certezza non solo delle cose che gli sono state date, ma anche di quelle future come se gli fossero già state date. Infatti uno si vanta di ciò che ha già ottenuto. Ora, poiché la speranza delle cose future è sicura e certa quanto le cose già date, noi – dice Paolo – ci vantiamo a pari titolo anche di quelle, e per questo le chiama «gloria». Se infatti concorrono alla gloria di Dio, è certo che accadranno, se non per noi, per Lui. Ma cosa vado dicendo – obietterai – che i beni futuri sono degni di vanto? Quelli presenti sono già di per sé così pieni di mali che possiamo proprio andarne fieri! Ecco allora che Paolo aggiunge: «E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni» (Rm 5,3). Pensa quanto grandi debbono essere le realtà future se andiamo orgogliosi di quelle che sembrano piene di dolore ! Tanto grande è il dono di Dio e nulla vi è in esso di sgradevole. Nelle realtà esteriori i combattimenti comportano fatiche, dolori e tribolazioni, che le corone e i premi convertono in soddisfazione. Nel nostro caso non è così, perché la lotta ci procura non minore soddisfazione del premio. Poiché infatti le prove erano numerose, mentre il regno restava affidato alla speranza; poiché sottomano c’erano realtà funeste, mentre quelle propizie restavano nell’aspettativa – e tutto questo prostrava i più deboli – ecco che dà loro il premio prima ancora della vittoria, dicendo che bisogna vantarsi anche nelle tribolazioni. E si noti che non dice: «Dovete vantarvi», ma: «Ci vantiamo», rivolgendo l’esortazione alla sua propria persona. Quindi, poiché poteva sembrare strano ed assurdo affermare che uno se lotta con la fame, se è in catene o tra i tormenti, se è oltraggiato e schernito, deve vantarsi, si preoccupa di fondare il discorso e, quel che è più, giunge ad affermare che è giusto vantarsi non solo per le realtà future ma anche per quelle presenti. Cioè, le tribolazioni sono per se stesse cosa buona. Per quale motivo? Perché spingono alla pazienza. E infatti dopo aver detto: «Ci vantiamo nella speranza», continua adducendone il motivo: «Ben sapendo che la tribolazione produce pazienza» (Rm 5,3). Osserva ancora una volta la puntigliosità con cui Paolo capovolge la logica del discorso: dato che le tribolazioni provocavano assai spesso la rinuncia ai beni futuri e gettavano nella disperazione, afferma che proprio in forza delle tribolazioni bisogna essere fiduciosi e non disperare dei beni futuri. Dice infatti: «La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude» (Rm 5,3-5). Le tribolazioni, dunque, non solo non distruggono questa speranza, ma la costruiscono. Infatti, anche prima dell’avvento dei beni futuri, la tribolazione produce un frutto eccellente, la pazienza, e rende idoneo chi è sottoposto alla prova. Inoltre dà il suo contributo ai beni futuri, in quanto porta al culmine in noi il vigore della speranza. Niente infatti produce una valida speranza quanto una buona coscienza.

3. Ordunque, coloro che hanno vissuto rettamente non devono perdere la fede nelle realtà future, così come, invece, molti di coloro che di vivere rettamente non si sono curati – e sono quindi oppressi da cattiva coscienza – vorrebbero che non ci fosse né giudizio né remunerazione. Che dire, dunque: i beni promessici sono affidati alla speranza? Certo, ma non alle speranze umane, che spesso vengono a cadere coprendo di vergogna chi vi si era affidato, perché colui da cui ci si aspettava sostegno o è morto o, se è ancora vivo, ha cambiato idea. Per i nostri beni non è così, perché la nostra speranza è certa e inamovibile. Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre e noi, che siamo destinati a godere di essi, anche se moriamo risorgeremo, e non c’è niente e nessuno che possa svergognarci come se a caso ci fossimo stoltamente esaltati per fallaci speranze. Dopo aver sgombrato ogni dubbio con queste parole, Paolo non si ferma alle realtà presenti ma chiama in causa di nuovo quelle future, ben sapendo che i più deboli e coloro che spasimano per il presente non si sarebbero accontentati di quanto detto. Egli dunque conferma la fede nei beni futuri in base a quelli già dati. Qualcuno infatti potrebbe dire: «E se Dio non volesse concederci la sua grazia?». Che ne abbia il potere e che duri in eterno e viva lo sappiamo tutti, ma da dove sappiamo che egli anche lo voglia? Da quanto si è già verificato. E cos’è che si è verificato? L’amore che ha mostrato per noi. In che modo? Donandoci lo Spirito Santo. Per questo, dopo aver detto che la speranza non delude, ne dà dimostrazione aggiungendo: «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5). Non ha detto: «È stato dato», ma «È stato riversato nei nostri cuori», sottolineando la prodigalità. Infatti quello che ci ha fatto è stato il dono più sublime; non il cielo e la terra e il mare, ma un dono più prezioso di tutti questi, che da uomini ci ha fatti diventare angeli, figli di Dio e fratelli di Cristo. Qual è questo dono? Lo Spirito Santo! Se dunque Dio non avesse voluto, dopo le nostre pene, incoronarci di una grande vittoria, non ci avrebbe elargito, prima di esse, dei doni così grandi. Ora invece quanto sia ardente il suo amore per noi si rivela in questo, che non ci ha dato una piccola e breve gratificazione, ma ha riversato l’intero flusso dei suoi doni, e questo prima che affrontassimo la lotta. Così, anche se non sei affatto degno, non disperare, perché presso il giudice hai un grande avvocato: l’amore. Per questo, quando dice che la speranza non delude, intende riportare tutto non alle nostre opere ma all’amore di Dio.

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SU SAN PAOLO – DE LAUDIBUS S. PAULI,

http://liturgiadomenicale.blogspot.it/2008/06/san-giovanni-crisostomo-omelie-su-san.html

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SU SAN PAOLO – DE LAUDIBUS S. PAULI,

Hom. II, l-6.10, in PG 50, 477-484.

Più di tutti gli uomini Paolo ha mostrato che cosa è l’uomo, quanto grande è la nobiltà della nostra natura e quanta virtù questo essere vivente è capace di accogliere in sé. Ogni giorno Paolo diventava più vigoroso. Nonostante i pericoli crescessero per lui, rinnovava il suo impegno; manifestava questo atteggiamento dicendo: Dimentico del passato e proteso verso il futuro (Fil 3,13). Se era in attesa della morte, esortava a condividere questa gioia, dicendo: Godetene e rallegratevi con me. Fil 2,18. Mentre incalzavano pericoli, oltraggi, ogni infamia, esultava di nuovo e scrivendo ai Corinzi arrivava a dire: Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle persecuzioni (2 Cor 12,10). Ha chiamato le medesime sofferenze armi della giustizia (2 Cor 6,7), facendo vedere che anche da esse traeva i frutti più rigogliosi ed era ovunque invincibile da parte dei nemici. Ovunque fustigato, insultato, oltraggiato, avanzando solennemente come in un corteo trionfale e innalzando continui trofei in ogni parte della terra, così se ne andava fiero e ringraziava Dio dicendo: Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo (2 Cor 2,14). Andava dietro alla vergogna e all’oltraggio a causa dell’annuncio del vangelo più di quanto noi andiamo a caccia degli onori. Aveva in se stesso la cosa più sublime di tutte, l’amore di Cristo; con questo si ritenne più beato di tutti, senza di questo non faceva voti di entrare nella categoria delle persone altolocate e potenti (Cf Ef 1, 21; Col 1,16). Con l’amore di Cristo voleva invece trovarsi fra gli ultimi, anzi fra coloro che ricevono supplizi (Cf 2 Cor 6,9), piuttosto che, senza di esso, fra i più insigni e onorati. Il solo castigo per lui consisteva nel perdere questo amore. Tale eventualità rappresentava per lui la geenna, la punizione, innumerevoli mali, come d’altra parte la sua gioia stava nel raggiungerlo: ciò costituiva la vita, il mondo, gli angeli, il presente, il futuro, il Regno, la promessa, innumerevoli beni. Riteneva che nessun’altra cosa, che non conduceva a questo amore, non fosse né dolorosa né piacevole, mentre non teneva in alcun conto tutti i beni visibili così come l’erba imputridita. Despoti e popoli spiranti alterigia gli sembravano zanzare; la morte, le pene, gli innumerevoli supplizi, quasi fossero giochi da bambini, quando si trattava di sopportarli a causa di Cristo.

Paolo viveva in prigione come se fosse il cielo stesso, accoglieva ferite e staffilate più volentieri di coloro che portano via i premi, amava le fatiche non meno delle ricompense, pensando che le fatiche fossero una ricompensa; perciò le chiamava anche una grazia (Cf Fil 1,29). Fa’ attenzione: era un premio per lui essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo, mentre rimanere nella carne costituiva il combattimento; tuttavia preferisce questo a quello e dice che gli è più necessario (Cf Fil 1,23-24). Essere anàtema, separato da Cristo (Cf Rm 9,3), era una lotta e una sofferenza, anzi anche al di là della lotta e della sofferenza, mentre essere con lui era la ricompensa bramata; preferisce però quelle a questa a causa di Cristo. Ma forse qualcuno potrebbe dire che tutto ciò gli era piacevole a causa di Cristo. Lo sostengo anch’io: quanto è per noi motivo di angustia, a lui generava una grande gioia. A che parlare dei pericoli e delle altre tribolazioni? Era anche in un’ansia continua, per cui diceva: Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? (2 Cor 11,29). Vi prego di non ammirare soltanto, ma di imitare anche questo modello di virtù; così potremo condividere con lui le medesime corone. Se ti meravigli ascoltando che, se ti comporterai virtuosamente come lui, raggiungerai le medesime ricompense, ascoltalo mentre esprime questo concetto: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione (2 Tm 4,7-8). Vedi come chiama tutti a condividere i medesimi premi? Poiché dunque sono proposte a tutti le stesse ricompense, sforziamoci tutti di divenire degni dei beni promessi. Non guardiamo soltanto alla grandezza e allo splendore delle sue virtù, ma anche all’intensità del suo impegno, per mezzo del quale si è attirato una grazia così grande, e alla comunanza di natura, perché ha condiviso tutto con noi. Così ciò che è molto arduo da raggiungere ci apparirà facile e agevole e, dopo esserci affaticati per questo breve tempo, porteremo continuamente quella corona eterna e immortale, per la grazia e la bontà di nostro Signore Gesù Cristo, al quale è la gloria e la potenza ora e sempre nei secoli dei secoli.

DALLE «OMELIE» DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO » PAOLO SOPPORTÒ OGNI COSA PER AMORE DI CRISTO »

http://antoniobortoloso.blogspot.it/2014/01/dalle-omelie-di-san-giovanni.html

DALLE «OMELIE» DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO »PAOLO SOPPORTÒ OGNI COSA PER AMORE DI CRISTO »

Che cosa sia l\’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil
2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l\’altrui freddezza e le ingiurie che l\’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l\’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
Godere dell\’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l\’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l\’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l\’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l\’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
Il godere dell\’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All\’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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DAL DE LAUDIBUS S. PAULI

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

Noi potremmo, se solo volessimo, vincere ogni resistenza della natura con la forza della volontà. Non c’è nulla di impossibile per gli uomini in ciò che Cristo ha ordinato; se infatti mettiamo tutto l’impegno di cui siamo capaci, anche Dio ci da insieme molto aiuto, e così diventeremo invincibili contro tutte le avversità. Non è degno di biasimo l’aver paura dei colpi, ma, per la paura di questi, sottostare a qualcosa di indegno del comportamento religioso, in modo che la paura dei colpi mostra colui che rimane invincibile nelle prove, più ammirevole di chi non ne ha paura. In questo modo rifulge maggiormente la volontà, perché aver paura dei colpi è proprio della natura, mentre non sottostare a nulla di sconveniente per paura di essi dipende dalla volontà che corregge la deficienza della natura e vince la sua debolezza. Nemmeno l’afflizione è motivo di accusa, ma, a causa dell’afflizione, dire o fare qualche cosa che non piace a Dio. Se io dicessi che Paolo non era un uomo, giustamente mi addurresti le deficienze della natura, per confutare così il mio discorso; ma se dico e sostengo che era un uomo, in niente superiore a noi riguardo alla natura, mentre divenne migliore riguardo alla volontà, invano, mi presenti queste obiezioni, anzi non invano, ma a favore di Paolo. Infatti in virtù di esse dimostri quanto grande egli fosse, perché pur trovandosi in una natura siffatta, fu più forte di essa. Non solo lo esalti, ma chiudi anche la bocca a quelli che si sono perduti d’animo, non consentendo ad essi di rifugiarsi nella superiorità della sua natura, ma spingendoli invece all’impegno proveniente dalla volontà.
Ma, si potrebbe dire, non ebbe paura qualche volta anche della morte? Anche questo atteggiamento è naturale. Tuttavia egli stesso che temeva la morte diceva a sua volta: In realtà quanti siamo in questa tenda[1], sospiriamo come sotto un peso[2], e di nuovo: Anche noi gemiamo interiormente[3]. Vedi come ha presentato la forza proveniente dalla volontà quale contrappeso della debolezza della natura? Infatti anche molti martiri spesso, nell’essere condotti al supplizio, impallidirono e furono pieni di paura e di angoscia; però proprio per questo sono soprattutto degni di ammirazione, perché, pur avendo timore della morte, non l’hanno fuggita a causa di Gesù. Così anche Paolo, pur temendo la morte, non rifiuta neppure la geenna per amore di Gesù[4], e, pur trepidando al pensiero della propria fine, desidera essere sciolto dal corpo[5]. Non era solo lui a provare ciò, ma anche il capo degli apostoli, pur avendo spesso detto di essere pronto a dare la vita[6], temeva assai la morte. Ascolta che cosa gli dice Cristo parlandogli in merito: Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi[7], fa riferimento alla deficienza della natura, non della volontà.
La natura mostra le sue proprietà anche contro noi, e non è possibile superare tali deficienze, neppure se si vuole e ci si impegna intensamente; pertanto da questo lato non siamo danneggiati, anzi siamo ammirati maggiormente. Che capo d’accusa è infatti aver paura della morte? Quale motivo di elogio non è invece, pur avendo paura della morte, non sottostare ad alcun atteggiamento meschino a causa di questa paura? Non è motivo d’accusa avere una natura con delle deficienze, bensì essere schiavi di queste; sicché chi resiste all’assalto che proviene da essa con il coraggio della volontà, è grande e ammirevole. Così mostra quanto grande sia la forza della volontà e tappa la bocca a quanti dicono: «Perché non siamo divenuti buoni per natura?». Che differenza c’è che questo si verifichi per natura o per volontà? Quanto è migliore questa condizione di quella? Per il fatto di procurare corone e una splendida rinomanza.
Ciò che è proprio della natura non è forse saldo? Ma se vuoi avere una forte volontà, questa condizione è più solida della prima. Non vedi che il corpo dei martiri è trapassato dalla spada e che, se la natura indietreggia davanti al ferro, la volontà non cede ad esso né si lascia sopraffare? Dimmi: non vedi che, nel caso di Abramo, la volontà ebbe il sopravvento sulla natura, quando gli fu ordinato di sacrificare il figlio[8], e la prima si manifestò più potente della seconda? Non vedi che si è verificata la medesima situazione nel caso dei tre giovani[9]? Non ascolti anche il proverbio che afferma che la volontà diventa una seconda natura in forza dell’abitudine? Anzi potrei dire che diventa la prima, come l’ha dimostrato ciò che è stato detto in precedenza. Vedi che è possibile acquistare anche la saldezza della natura, se la volontà è generosa e vigile, e che raccolga maggiori elogi chi sceglie e vuole essere buono più di chi vi è costretto?
Questo è bello soprattutto, come quando dice: Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù[10]. Allora soprattutto lo lodo, vedendolo raggiungere la virtù non senza pena, in modo da non essere motivo di indolenza per quelli che sarebbero venuti dopo, per giustificare la loro mollezza. Quando dice ancora: Sono crocifisso per il mondo[11], incorono la sua volontà. È possibile infatti, è possibile imitare la forza della natura con il rigore della volontà. Se lo proponiamo come l’esempio stesso della virtù, troveremo che si sforzò di portare le buone qualità che aveva in conseguenza della volontà, al livello della saldezza della natura.
Soffriva certamente quando era percosso, ma non disprezzava i patimenti meno delle potenze incorporee che non soffrono, come si può apprendere dalle sue parole che non sembrerebbero far credere che appartenesse alla nostra natura. Quando infatti dice: Il mondo è crocifisso per me e io lo sono per il mondo[12], e ancora: Io vivo, o piuttosto non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[13], che altro significa se non che ha abbandonato il corpo stesso? Che vuol dire, quando dice: Mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana[14]? Nient’altro se non mostrare che la sofferenza arrivava solo al corpo; non perché non passasse all’interno, ma perché egli la respingeva e l’allontanava per la sovrabbondanza della sua volontà. E che dire, quando fa molte affermazioni più meravigliose di queste, e gioisce di essere frustato e si vanta delle sue catene[15]? Che altro si potrebbe dire se non quanto ho detto, che cioè affermare: Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, nel timore che, dopo aver predicato agli altri, non venga io stesso squalificato[16], indica da un lato la debolezza della natura, ma dall’altro, mediante quanto ho detto, la nobiltà della volontà?
Perciò si trovano entrambi questi aspetti presso di lui, affinché né pensi che per le sue grandi virtù appartenesse ad una natura diversa e non ti scoraggi, né condanni quell’anima santa per le sue debolezze, anzi al contrario, scacciando in conseguenza di ciò lo scoraggiamento, ti volga verso una fiduciosa speranza. Per questo motivo presenta d’altra parte anche la grazia di Dio in termini amplificativi, anzi non in termini amplificativi, ma con saggezza, perché pensi che nulla viene da lui. Afferma però anche il suo impegno, perché, attribuendo tutto a Dio, tu non trascorra la vita nell’inoperosità e nell’incuria. E troverai rigorosamente in lui misura e regola di tutto.

[1] Il corpo.
[2] 2 Cor 5, 4.
[3] Rom 8, 23.
[4] Cf Rom 9, 3.
[5] Cf Fil 1, 23.
[6] Cf Mt 26, 35; Mc 14, 31; Lc 22, 33; Gv 13, 37.
[7] Gv 21, 18.
[8] Cf Gen 22, 1ss.
[9] Cf Dan 3, 12ss.
[10] 1 Cor 9, 27.
[11] Gal 6, 14.
[12] Ib.
[13] Gal 2, 20.
[14] 2 Cor 12, 7.
[15] Cf 2 Cor 11, 24-25; Fil 1, 12-14.
[16] 1 Cor 9, 27.

OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

https://forum.termometropolitico.it/332632-25-gennaio-conversione-di-s-paolo.html

OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

Hom. VII in laude S. Pauli, 4.6.10-13, in PG 50, 510-514.

San Paolo risalì dalle acque divine del battesimo con un fuoco così ardente che non attese un maestro, non aspettò Pietro, né andò da Giacomo, né da nessun altro; spinto dal suo ardore, infiammò la città di Damasco al punto da scatenare un’aspra guerra contro di lui. Del resto anche quando era giudeo, agiva oltre la sua autorità, arrestando, imprigionando, confiscando.
Così aveva fatto anche Mosè, il quale, senza che nessuno lo incaricasse, si era opposto all’iniquità dei barbari contro i suoi connazionali. Questo comportamento denota un animo nobile e un carattere generoso, che non ammette di tollerare in silenzio i mali altrui, anche se nessuno gliene affida l’incarico. Che Mosè giustamente si sia precipitato a difendere i suoi, lo ha dimostrato Dio, perché in seguito lo elesse; e il Signore ha agito così anche nel caso di Paolo. Che anche questi abbia fatto bene allora a darsi alla predicazione e all’insegnamento, lo ha manifestato Dio innalzandolo rapidamente alla dignità dei maestri.

Paolo, più ardente del fuoco, non rimase nessun giorno inoperoso. Non appena risalì dalla sacra fonte del battesimo, si infiammò grandemente e non pensò ai pericoli, alla derisione e alle ingiurie da parte dei Giudei, al fatto di non trovare credito presso di loro, né a nessun altro elemento di tal genere. Presi invece altri occhi, quelli dell’amore, e un’altra mentalità, si slanciava con grande impeto, come un fiume in piena; travolgendo tutte le argomentazioni dei Giudei, dimostrava mediante le Scritture che Gesù è il Cristo [Cf At 9,22]. Eppure non aveva ancora molti doni della grazia, non era stato ancora ritenuto degno di ricevere lo Spirito così intensamente; tuttavia subito in infiammò. Faceva tutto con un animo che non si curava della morte e agiva in ogni occasione come per giustificarsi del passato.
Aveva maggior fiducia quando era in pericolo; questa situazione lo rendeva più coraggioso, e non solo lui, ma anche i discepoli a causa sua. Se l’avessero visto cedere e diventare più timoroso, forse anch’essi avrebbero ceduto; ma poiché lo videro divenire più coraggioso e, pur maltrattato, impegnarsi maggiormente, proclamavano il Vangelo con franchezza. Per indicare ciò, l’Apostolo diceva: La maggior parte dei fratelli, incoraggiati dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14].

Vedendolo incatenato e proclamare il vangelo in carcere, flagellato e conquistare alla sua causa i flagellatori, i discepoli ne ricevevano maggior fiducia. Paolo lo dimostra, perché non ha detto semplicemente: Incoraggiati dalle mie catene, ma aggiunge: Ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14]; vale a dire, i fratelli parlavano con più franchezza ora piuttosto che quando era libero. E anch’egli aveva un ardore maggiore, perché era più motivato contro i nemici, e l’aumento delle persecuzioni si risolveva in un incremento raddoppiato di sicurezza e di coraggio.
Una volta fu imprigionato e rifulse al punto da scuotere le fondamenta della prigione, aprire le porte, far passare dalla sua parte il carceriere, e far quasi cambiare parere al giudice, tanto che costui disse: Per poco non mi convinci a farmi cristiano! [At 26,28]. Un’altra volta fu preso a sassate e, entrato nella città che l’aveva lapidato, la convertì. Lo citarono in tribunale per giudicarlo ora i Giudei, ora gli Ateniesi; i giudici diventarono discepoli, gli avversari seguaci.
Come un fuoco, abbattendosi su differenti materiali, trova incremento nella materia sottostante, così anche la parola di Paolo faceva passare dalla sua parte quanti incontrava; coloro che gli erano ostili, conquistati dai suoi discorsi, divenivano subito alimento per quel fuoco spirituale e, mediante essi, la Parola prendeva nuovo vigore e passava ad altri. Perciò l’Apostolo diceva: Io soffro fino a portare le catene, ma la parola di Dio non è incatenata [Cf 2 Tm 2,9].

Infuriava la persecuzione, costringendo Paolo alla fuga, ma in realtà essa era l’invio in missione. Quello che avrebbero fatto amici e seguaci, lo facevano i nemici, in quanto non gli permettevano di stabilirsi in un solo luogo, ma facevano girare ovunque quel medico d’anime, mediante i loro complotti e persecuzioni, in modo che tutti ascoltavano la sua parola. Di nuovo lo incatenarono e ne aumentarono lo zelo; scacciarono i suoi discepoli col risultato che inviarono un maestro a quelli che non lo avevano; lo condussero a un tribunale più importante e giovarono a una città più grande.
I Giudei, inquieti a causa di Pietro e Giovanni, si erano chiesti: Che cosa dobbiamo fare a questi uomini? [At 4,16]. Riconoscevano infatti che le loro misure tornavano a vantaggio di quelli. Così anche nel caso della predicazione di Paolo: gli espedienti messi in opera per estirpare la Parola, la fecero crescere e la innalzarono a un’altezza indicibile.
Per tutti questi benefici ringraziamo la potenza di Dio che li ha elargiti e proclamiamo beato Paolo per mezzo del quale essi si sono verificati.

FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO, San Giovanni Crisostomo *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_f.htm#LA PASSIONE DI CRISTO, RAGIONE DELLA NOSTRA FIEREZZA

FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO

San Giovanni Crisostomo *

Dopo aver compiuto studi brillanti e aver passato parecchi anni nella solitudine, Giovanni Crisostomo fu ordinato sacerdote ad Antiochia, sua città natale, nel 386. Rivelò ben presto una eccezionale forza di eloquenza. Nominato vescovo di Costantinopoli nel 398, si dedicò a correggere gli abusi che si erano introdotti in questa Chiesa e a ravvivare la fede nei fedeli. Il suo messaggio, eco di tutta la Bibbia e soprattutto di san Paolo e del Vangelo, sembrò rivoluzionario a molti dei suoi contemporanei. Il coraggio con cui denunciò il lusso della corte imperiale, lo condusse per due volte in esilio. Confinato sul Mar Nero, nel Ponto, morì ormai esausto nel 407.

Oggi il Signore Gesù è sulla croce e noi facciamo festa: impariamo così che la croce è festa e solennità dello spirito. Un tempo la croce era nome di condanna, ora è diventata oggetto di venerazione; un tempo era simbolo di morte, oggi è principio di salvezza. La croce è diventata per noi la causa di innumerevoli benefici: eravamo divenuti nemici e ci ha riconciliati con Dio; eravamo separati e lontani da lui, e ci ha riavvicinati con il dono della sua amicizia. Essa è per noi la distruzione dell’odio, la sicurezza della pace, il tesoro che supera ogni bene.
Grazie alla croce non andiamo più errando nel deserto, perché conosciamo il vero cammino; non restiamo più fuori della casa del re, perché ne abbiamo trovato la porta; non temiamo più le frecce infuocate del demonio, perché abbiamo scoperto una sorgente d’acqua. Per mezzo suo non siamo più nella solitudine, perché abbiamo ritrovato lo sposo; non abbiamo più paura del lupo, perché abbiamo ormai il buon pastore. Egli stesso infatti ci dice: lo sono il buon pastore (Gv. 10,11). Grazie alla croce non ci spaventa più l’iniquità dei potenti, perché sediamo a fianco del re.
Ecco perché facciamo festa celebrando la memoria della croce. Anche san Paolo invita ad essere nella gioia a motivo di essa: Celebriamo questa festa non con il vecchio lievito… ma con azzimi di sincerità e di verità (1 Cor. 5, 8). E, spiegandone la ragione, continua: Cristo infatti, nostra Pasqua, è stato immolato per noi (1 Coro 5, 7). Capite perché Paolo ci esorta a ,celebrare la croce? Perché su di essa è stato immolato Cristo. Dove c’è il sacrificio, là si trova la remissione dei peccati, la riconciliazione con il Signore, la festa e la gioia. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato per noi. Immolato, ma dove? Su un patibolo elevato da terra. L’altare di questo sacrificio è nuovo, perché nuovo e straordinario è il sacrificio stesso. Uno solo è infatti vittima e sacerdote: vittima secondo la carne, sacerdote secondo lo spirito…
Questo sacrificio è stato offerto fuori dalle mura della città per indicare che si tratta di un sacrificio universale, perché l’offerta è stata fatta per tutta la terra. Si tratta di un sacrificio di espiazione generale, e non particolare come quello dei Giudei. Infatti ai Giudei Dio aveva ordinato di celebrare il culto non in tutta la terra, ma di offrire sacrifici e preghiere in un solo luogo: la terra era infatti contaminata per il fumo, l’odore e tutte le altre impurità dei sacrifici pagani. Ma per noi, dopo che Cristo è venuto a purificare tutto l’universo, ogni luogo è diventato un luogo di preghiera. Per questo Paolo ci esorta audacemente a pregare dappertutto senza timore: Voglio che gli uomini preghino in ogni luogo, levando al cielo mani pure (1 Tim. 2,8). Capite ora fino a che punto è stato purificato l’universo? Dappertutto infatti possiamo levare al cielo mani pure, perché tutta la terra è diventata santa, più santa ancora dell’interno del tempio. Là si offrivano animali privi di ragione, qui si sacrificano vittime spirituali. E quanto più grande è il sacrificio, tanto più abbondante è la grazia che santifica. Per questo la croce è per noi una festa.

* Eis ton stauron kai eis ton lesten, Omelia 1: P.G. 49, 399-401.

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