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BENEDETTO XVI : SAN GREGORIO MAGNO – 3 SETTEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 28 maggio 2008

SAN GREGORIO MAGNO – 3 SETTEMBRE

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.

A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO : L’AMORE PER LA SAPIENZA

http://www.augustinus.it/vita/uomo/index.htm

A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO – L’UOMO

CAPITOLO PRIMO

L’AMORE PER LA SAPIENZA

L’amore per la sapienza, destatosi nell’animo di Agostino a diciannove anni, è il filo conduttore del suo lungo vagare lontano da Dio e del suo ritorno a Dio, anzi la ragione di tutta la sua vita. Alla vigilia della conversione gli si presentò, insieme con l’invito di S. Paolo, come motivo di rinunzia al matrimonio 1; dopo la conversione fu la molla che lo spinse sulle vie dello studio e della contemplazione. Si tratta di un amore forte, profondo, che dà fremiti e vibrazioni all’animo di Agostino fino alla commozione e al pianto. Di fronte a questo amore svaniscono le attrattive dei sensi, perché  » non la scoperta, ma la sola indagine della sapienza merita di essere senz’altro preposta al possesso dei tesori e dei regni del mondo e alle voluttà del corpo, anche se ci affluissero intorno a nostro piacimento  » 2. La sapienza ha un sapore, uno splendore, una fragranza, un’armonia, una dolcezza che i sensi non percepiscono, perché è sapore, splendore, fragranza, armonia, dolcezza dello spirito,  » dove risuona la voce che il tempo non rapisce, dove odora un profumo che il vento non disperde, dove si gusta un sapore che la voracità non diminuisce, dove ci si stringe in un amplesso che la sazietà non discioglie  » 3.
Agostino ha scritto sull’amore della sapienza pagine piene di commozione e di poesia; la sapienza racchiude tutti i beni cui l’anima avidamente aspira: la libertà, la bellezza, la beatitudine, l’immortalità.
Innanzi tutto la libertà, che fu sì cara a chi sofferse la schiavitù dell’errore e delle passioni, e pianse lungamente per liberarsene. In molte pagine del santo dottore sembra di udire ancora l’eco lontana di quel pianto. A parte le Confessioni, dove il senso del peccato, la drammaticità della lotta, la gioia della liberazione, sono colorite in pagine indimenticabili, Agostino esprime questi suoi sentimenti ogni volta che gli occorra di toccare l’argomento. Scrive contro i manichei, e il ricordo dei passati errori lo assale insieme col ricordo delle lacrime sparse per giungere all’aria pura della verità. Allora gli escono dalla penna pagine come questa:  » Siano crudeli con voi quelli che non sanno con quanta fatica si trovi la verità e quanto difficilmente si evitino gli errori…, che non sanno quanto sia ardua e rara impresa superare i fantasmi dei sensi con la pia serenità della mente…, che non sanno con quanta difficoltà si risani l’occhio interiore perché possa intuire la luce (del vero)…, che non sanno quanti sospiri e quanti gemiti siano necessari per comprendere, sia pure in minima parte, Dio… Ma io che, lungamente sbattuto, ho potuto scorgere, finalmente, la verità che si percepisce senza i racconti di favole insulse…, che accarezzandomi mi invitava a sé per detergere la caligine della mia mente, che ho pianto a lungo perché la sostanza immutabile ed inviolabile, con l’autorità dei libri sacri, si degnasse darmi interiormente una ferma persuasione di se stessa… io non posso essere crudele con voi  » 4.
Ora chi ha tanto sofferto per conquistare la libertà non può non amarla con tutte le fibre dell’anima. Ma la libertà (interiore) consiste nel riconoscere e nell’assoggettarsi alla verità: il riconoscimento ci libera dall’ignoranza e dall’errore, l’assoggettamento ci tiene lontani dalla colpa e dalle passioni, in altre parole, dalla soggezione alle creature.  » Questa è la nostra libertà: essere soggetti alla verità « . E la ragione è chiara:  » Non possiamo godere di alcuna cosa con libertà, se non possiamo goderne con sicurezza; ma nessuno è sicuro nel possesso di quei beni che può perdere contro suo volere. Ora, della verità e della sapienza non è così: non si può perderla senza volerlo  » 5.
Tendere, dunque, alla sapienza non vuol dire solo conoscere la verità, ma raccogliere, per così dire, intorno ad essa tutta l’anima, e mettervela dentro e fissarvela stabilmente, perché, liberata ormai da tutte le affezioni disordinate verso le cose mutabili, di altro non si occupi e altro non ami se non Colui che non muta 6. Il tono caldo, umano, commosso che emerge spesso dalla pagine agostiniane sulla controversia pelagiana nasce dalla convinzione che solo la grazia può darci la libertà; e la libertà, legata indissolubilmente all’amore della sapienza, è un bene troppo prezioso perché Agostino possa difenderlo a ciglio asciutto.
Ma non solo la libertà è legata alla sapienza, bensì anche la bellezza, di cui il santo fu appassionatamente invaghito fin dalla gioventù. Il primo argomento che attrasse la sua attenzione come scrittore fu il bello. Di quell’opera giovanile (De pulchro et apto), che è andata perduta, non conosciamo il contenuto, ma il solo argomento ci rivela la sfera d’interessi del giovane professore.  » Forse che noi amiamo – diceva Agostino ai suoi amici – altra cosa del bello? Ma che s’intende per bello e bellezza? Che cos’è ciò che ne attira e ci affeziona alle cose che amiamo? Se non fosse in esse bellezza e leggiadria, in nessun modo ci attirerebbero  » 7. Ma allora, inchiodato alla concezione materialistica delle cose, non vedeva che la bellezza corporea: più tardi imparò ad elevarsi alle bellezze spirituali e, da queste, alla bellezza della sapienza. Troviamo, poi, in lui lo studio delle leggi del bello, la concezione dell’arte come trascrizione di queste leggi nell’animo dell’artista, e dall’animo dell’artista, attraverso le sue mani, nella materia, come troviamo l’invito, più volte ripetuto, a rifare in senso inverso il cammino, interrogando le bellezze corporee per salire a quelle dello spirito e, finalmente, a Dio: un cammino che Agostino fece molto spesso a scopo di elevazione interiore.  » Ma io, o mio Dio e bellezza mia, anche per le opere dell’arte levo a te un inno e sacrifico a te che mi santifichi un sacrifici di lodi; poiché tutte le cose belle, che attraverso l’anima passano nelle mani dell’artista, provengono da quella bellezza che è superiore alle anime e a cui giorno e notte l’anima mia sospira  » 8.
Ma gli artisti e gli ammiratori delle bellezze esteriori traggono dalla bellezza, che è sopra l’anima, la misura dell’approvazione, ma non traggono, spesso, da essa la misura del godimento. La misura per godere delle creature non si può trovare se non si ami soprattutto la sapienza e non si contempli la sua bellezza. Di qui il precetto agostiniano:  » Trascendi l’animo dell’artista per contemplare la bellezza eterna; ecco già la sapienza t’irraggia dalla sua sede, che è nell’uomo interiore, e dalla segreta abitazione della verità; e se il fulgore di questa luce respinge il tuo occhio ancor troppo debole, volgilo a quelle cose nelle quali la sapienza ti mostra ilare per via. Ma ricordati che hai distolto lo sguardo solo per renderlo più forte e più sano, e tornare poi a contemplarla  » 9.
Possedendo la sapienza si possiede, oltre la libertà e la bellezza, il bene sommo, che è l’oggetto della nostra beatitudine.  » Poiché con la verità si conosce e si possiede il sommo bene, e la verità è la sapienza, contempliamolo e possediamolo in essa, e godiamone: non v’è dubbio che colui che possiede il bene sommo è beato  » 10. Infatti, chi è più beato di colui che gode della verità inconcussa, immutabile, altissima? O forse gli uomini proclamano di essere beati quanto si stringono a bellezze corporee lungamente bramate, quanto con le fauci riarse si appressano a una fonte zampillante e salubre o, affamati, gustano cibi squisiti, quando giacciono nelle rose e aspirano i profumi degli unguenti, quanto ascoltano l’armonia di canti o di suoni, quanto sono inondati dalla giocondità della luce; e noi dubiteremo di chiamarci beati quanto ci stringiamo alla verità, ne beviamo alla fonte, ne aspiriamo il profumo, ne gustiamo il sapore, ne contempliamo la luce?
Questa pagina agostiniana 11, qui riassunta, dove alla profonda intuizione delle realtà sovrasensibili si aggiunge la piena degli affetti, ci rivela che cosa fosse la sapienza per Agostino e perché tanta commozione lo invadeva appena avesse occasione di parlarne. Non fa meraviglia, dunque, che egli mettesse tutta la carica della sua affettività nel trattare quelle questioni, anche se le più speculative, che avessero un nesso con il possesso della sapienza e, quindi, della beatitudine. Così è, per esempio, per il problema dell’immortalità dell’anima. Nelle pagina dei Soliloqui si sente l’ansia di chi non vuol solo credere, ma dimostrare una verità da cui dipende, appunto, la beatitudine; che la beatitudine non è vera se non è eterna; ma non sarebbe eterna se l’anima non fosse immortale. L’argomento conclusivo è introdotto da questo dialogo: « Ragione: Non gemere, l’animo è immortale! Agostino: Da dove lo provi? R.: Da ciò che con molta cautela, penso, mi hai concesso sopra… A.: Parla ormai, sono qui tutto orecchi; perché mi tormenti così mortalmente?  » 12. Cercare la verità con tutta l’anima è per Agostino una convinzione e un bisogno: ne sentiamo l’eco in un principio enunciato poco dopo il battesimo:  » La sapienza e la verità se non si cercano con tutte le fibre dell’anima non le si possono trovare. Ma se si cercano così, com’è giusto, non si possono sottrarre o nascondere a coloro che le amano  » 13.

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24250

SANT’ AGOSTINO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

28 AGOSTO

TAGASTE (NUMIDIA), 13 NOVEMBRE 354 – IPPONA (AFRICA), 28 AGOSTO 430

Sant’Agostino nasce in Africa a Tagaste, nella Numidia – attualmente Souk-Ahras in Algeria – il 13 novembre 354 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Dalla madre riceve un’educazione cristiana, ma dopo aver letto l’Ortensio di Cicerone abbraccia la filosofia aderendo al manicheismo. Risale al 387 il viaggio a Milano, città in cui conosce sant’Ambrogio. L’incontro si rivela importante per il cammino di fede di Agostino: è da Ambrogio che riceve il battesimo. Successivamente ritorna in Africa con il desiderio di creare una comunità di monaci; dopo la morte della madre si reca a Ippona, dove viene ordinato sacerdote e vescovo. Le sue opere teologiche, mistiche, filosofiche e polemiche – quest’ultime riflettono l’intensa lotta che Agostino intraprende contro le eresie, a cui dedica parte della sua vita – sono tutt’ora studiate. Agostino per il suo pensiero, racchiuso in testi come «Confessioni» o «Città di Dio», ha meritato il titolo di Dottore della Chiesa. Mentre Ippona è assediata dai Vandali, nel 429 il santo si ammala gravemente. Muore il 28 agosto del 430 all’età di 76 anni. (Avvenire)

Patronato: Teologi, Stampatori
Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Libro, Cuore di fuoco
Martirologio Romano: Memoria di sant’Agostino, vescovo e insigne dottore della Chiesa: convertito alla fede cattolica dopo una adolescenza inquieta nei princípi e nei costumi, fu battezzato a Milano da sant’Ambrogio e, tornato in patria, condusse con alcuni amici vita ascetica, dedita a Dio e allo studio delle Scritture. Eletto poi vescovo di Ippona in Africa, nell’odierna Algeria, fu per trentaquattro anni maestro del suo gregge, che istruì con sermoni e numerosi scritti, con i quali combatté anche strenuamente contro gli errori del suo tempo o espose con sapienza la retta fede.
Agostino è uno degli autori di testi teologici, mistici, filosofici, esegetici, ancora oggi molto studiato e citato; egli è uno dei Dottori della Chiesa come ponte fra l’Africa e l’Europa; il suo libro le “Confessioni” è ancora oggi ricercato, ristampato, letto e meditato.
“Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo…. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace”; così scrive Agostino Aurelio nelle “Confessioni”, perché la sua vita fu proprio così in due fasi: prima l’ansia inquieta di chi, cercando la strada, commette molti errori; poi imbroccata la via, sente il desiderio ardente di arrivare alla meta per abbracciare l’amato.
Agostino Aurelio nacque a Tagaste nella Numidia in Africa il 13 novembre 354 da una famiglia di classe media, di piccoli proprietari terrieri, il padre Patrizio era pagano, mentre la madre Monica, che aveva avuto tre figli, dei quali Agostino era il primogenito, era invece cristiana; fu lei a dargli un’educazione religiosa ma senza battezzarlo, come si usava allora, volendo attendere l’età matura.
Ebbe un’infanzia molto vivace, ma non certamente piena di peccati, come farebbe pensare una sua frase scritta nelle “Confessioni” dove si dichiara gran peccatore fin da piccolo. I peccati veri cominciarono più tardi; dopo i primi studi a Tagaste e poi nella vicina Madaura, si recò a Cartagine nel 371, con l’aiuto di un facoltoso signore del luogo di nome Romaniano; Agostino aveva 16 anni e viveva la sua adolescenza in modo molto vivace ed esuberante e mentre frequentava la scuola di un retore, cominciò a convivere con una ragazza cartaginese, che gli diede nel 372, anche un figlio, Adeodato.
Questa relazione sembra che sia durata 14 anni, quando nacque inaspettato il figlio; Agostino fu costretto, come si suol dire, a darsi una regolata, riportando la sua condotta inconcludente e dispersiva, su una più retta strada, ed a concentrarsi negli studi, per i quali si trovava a Cartagine.
Le lagrime della madre Monica, cominciavano ad avere un effetto positivo; fu in quegli anni che maturò la sua prima vocazione di filosofo, grazie alla lettura di un libro di Cicerone, l’”Ortensio” che l’aveva particolarmente colpito, perché l’autore latino affermava, come soltanto la filosofia aiutasse la volontà ad allontanarsi dal male e ad esercitare la virtù.
Purtroppo la lettura della Sacra Scrittura non diceva niente alla sua mente razionalistica e la religione professata dalla madre gli sembrava ora “una superstizione puerile”, quindi cercò la verità nel manicheismo.
Il Manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del cristianesimo e della religione di Zoroastro, suo principio fondamentale era il dualismo, cioè l’opposizione continua di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il mondo e anche l’animo dell’uomo.
Ultimati gli studi, tornò nel 374 a Tagaste, dove con l’aiuto del suo benefattore Romaniano, aprì una scuola di grammatica e retorica, e fu anche ospitato nella sua casa con tutta la famiglia, perché la madre Monica aveva preferito separarsi da Agostino, non condividendo le sue scelte religiose; solo più tardi lo riammise nella sua casa, avendo avuto un sogno premonitore, sul suo ritorno alla fede cristiana.
Dopo due anni nel 376, decise di lasciare il piccolo paese di Tagaste e ritornare a Cartagine e sempre con l’aiuto dell’amico Romaniano, che egli aveva convertito al manicheismo, aprì anche qui una scuola, dove insegnò per sette anni, purtroppo con alunni poco disciplinati.
Agostino però tra i manichei non trovò mai la risposta certa al suo desiderio di verità e dopo un incontro con un loro vescovo, Fausto, avvenuto nel 382 a Cartagine, che avrebbe dovuto fugare ogni dubbio, ne uscì non convinto e quindi prese ad allontanarsi dal manicheismo.
Desideroso di nuove esperienze e stanco dell’indisciplina degli alunni cartaginesi, Agostino resistendo alle preghiere dell’amata madre, che voleva trattenerlo in Africa, decise di trasferirsi a Roma, capitale dell’impero, con tutta la famiglia.
A Roma, con l’aiuto dei manichei, aprì una scuola, ma non fu a suo agio, gli studenti romani, furbescamente, dopo aver ascoltate con attenzione le sue lezioni, sparivano al momento di pagare il pattuito compenso.
Subì una malattia gravissima che lo condusse quasi alla morte, nel contempo poté constatare che i manichei romani, se in pubblico ostentavano una condotta irreprensibile e casta, nel privato vivevano da dissoluti; disgustato se ne allontanò per sempre.
Nel 384 riuscì ad ottenere, con l’appoggio del prefetto di Roma, Quinto Aurelio Simmaco, la cattedra vacante di retorica a Milano, dove si trasferì, raggiunto nel 385, inaspettatamente dalla madre Monica, la quale conscia del travaglio interiore del figlio, gli fu accanto con la preghiera e con le lagrime, senza imporgli nulla, ma bensì come un angelo protettore.
E Milano fu la tappa decisiva della sua conversione; qui ebbe l’opportunità di ascoltare i sermoni di s. Ambrogio che teneva regolarmente in cattedrale, ma se le sue parole si scolpivano nel cuore di Agostino, fu la frequentazione con un anziano sacerdote, san Simpliciano, che aveva preparato s. Ambrogio all’episcopato, a dargli l’ispirazione giusta; il quale con fine intuito lo indirizzò a leggere i neoplatonici, perché i loro scritti suggerivano “in tutti i modi l’idea di Dio e del suo Verbo”.
Un successivo incontro con s. Ambrogio, procuratogli dalla madre, segnò un altro passo verso il battesimo; si ipotizza che sia stato convinto da Monica a seguire il consiglio dell’apostolo Paolo, sulla castità perfetta, e che sia stato convinto pure a lasciare la moglie, la quale secondo la legge romana, essendo di classe inferiore, era praticamente una concubina, rimandandola in Africa e tenendo presso di sé il figlio Adeodato (ci riesce difficile ai nostri tempi comprendere questi atteggiamenti, così usuali per allora).
A casa di un amico Ponticiano, questi gli aveva parlato della vita casta dei monaci e di s. Antonio abate, dandogli anche il libro delle Lettere di S. Paolo; ritornato a casa sua, Agostino disorientato si appartò nel giardino, dando sfogo ad un pianto angosciato e mentre piangeva, avvertì una voce che gli diceva ”Tolle, lege, tolle, lege” (prendi e leggi), per cui aprì a caso il libro delle Lettere di S. Paolo e lesse un brano: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rom. 13, 13-14).
Dopo qualche settimana ancora d’insegnamento di retorica, Agostino lasciò tutto, ritirandosi insieme alla madre, il figlio ed alcuni amici, ad una trentina di km. da Milano, a Cassiciaco, in meditazione e in conversazioni filosofiche e spirituali; volle sempre presente la madre, perché partecipasse con le sue parole sapienti.
Nella Quaresima del 386 ritornarono a Milano per una preparazione specifica al Battesimo, che Agostino, il figlio Adeodato e l’amico Alipio ricevettero nella notte del sabato santo, dalle mani di s. Ambrogio.
Intenzionato a creare una Comunità di monaci in Africa, decise di ritornare nella sua patria e nell’attesa della nave, la madre Monica improvvisamente si ammalò di una febbre maligna (forse malaria) e il 27 agosto del 387 morì a 56 anni. Il suo corpo trasferito a Roma si venera nella chiesa di S. Agostino, essa è considerata il modello e la patrona delle madri cristiane.
Dopo qualche mese trascorso a Roma per approfondire la sua conoscenza sui monasteri e le tradizioni della Chiesa, nel 388 ritornò a Tagaste, dove vendette i suoi pochi beni, distribuendone il ricavato ai poveri e ritiratosi con alcuni amici e discepoli, fondò una piccola comunità, dove i beni erano in comune proprietà.
Ma dopo un po’ l’affollarsi continuo dei concittadini, per chiedere consigli ed aiuti, disturbava il dovuto raccoglimento, fu necessario trovare un altro posto e Agostino lo cercò presso Ippona.
Trovatosi per caso nella basilica locale, in cui il vescovo Valerio, stava proponendo ai fedeli di consacrare un sacerdote che potesse aiutarlo, specie nella predicazione; accortasi della sua presenza, i fedeli presero a gridare: “Agostino prete!” allora si dava molto valore alla volontà del popolo, considerata volontà di Dio e nonostante che cercasse di rifiutare, perché non era questa la strada voluta, Agostino fu costretto ad accettare.
La città di Ippona ci guadagnò molto, la sua opera fu fecondissima, per prima cosa chiese al vescovo di trasferire il suo monastero ad Ippona, per continuare la sua scelta di vita, che in seguito divenne un seminario fonte di preti e vescovi africani.
L’iniziativa agostiniana gettava le basi del rinnovamento dei costumi del clero, egli pensava: “Il sacerdozio è cosa tanto grande che appena un buon monaco, può darci un buon chierico”. Scrisse anche una Regola, che poi nel IX secolo venne adottata dalla Comunità dei Canonici Regolari o Agostiniani.
Il vescovo Valerio nel timore che Agostino venisse spostato in altra sede, convinse il popolo e il primate della Numidia, Megalio di Calama, a consacrarlo vescovo coadiutore di Ippona; nel 397 morto Valerio, egli gli successe come titolare.
Dovette lasciare il monastero e intraprendere la sua intensa attività di pastore di anime, che svolse egregiamente, tanto che la sua fama di vescovo illuminato si diffuse in tutte le Chiese Africane.
Nel contempo scriveva le sue opere che abbracciano tutto il sapere ideologico e sono numerose, vanno dalle filosofiche alle apologetiche, dalle dogmatiche alle morali e pastorali, dalle bibliche alle polemiche. Queste ultime riflettono l’intensa e ardente battaglia che Agostino intraprese contro le eresie che funestavano l’unità della Chiesa in quei tempi: Il Manicheismo che conosceva bene, il Donatismo sorto ad opera del vescovo Donato e il Pelagianesimo propugnato dal monaco bretone Pelagio.
Egli fu maestro indiscusso nel confutare queste eresie e i vari movimenti che ad esse si rifacevano; i suoi interventi non solo illuminarono i pastori di anime dell’epoca, ma determinarono anche per il futuro, l’orientamento della teologia cattolica in questo campo. La sua dottrina e teologia è così vasta che pur volendo solo accennarla, occorrerebbe il doppio dello spazio concesso a questa scheda, per forza sintetica; il suo pensiero per millenni ormai è oggetto di studio per la formazione cristiana, le tante sue opere, dalle “Confessioni” fino alla “Città di Dio”, gli hanno meritato il titolo di Dottore della Chiesa.
Nel 429 si ammalò gravemente, mentre Ippona era assediata da tre mesi dai Vandali comandati da Genserico († 477), dopo che avevano portato morte e distruzione dovunque; il santo vescovo ebbe l’impressione della prossima fine del mondo; morì il 28 agosto del 430 a 76 anni. Il suo corpo sottratto ai Vandali durante l’incendio e distruzione di Ippona, venne trasportato poi a Cagliari dal vescovo Fulgenzio di Ruspe, verso il 508-517 ca., insieme alle reliquie di altri vescovi africani.
Verso il 725 il suo corpo fu di nuovo traslato a Pavia, nella Chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, non lontano dai luoghi della sua conversione, ad opera del pio re longobardo Liutprando († 744), che l’aveva riscattato dai saraceni della Sardegna.

Autore: Antonio Borrelli

SANT’AGOSTINO : CONFESSIONI CAP IX DA 8 – MONICA

http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm

SANT’AGOSTINO : CONFESSIONI CAP IX DA 8 – MONICA

A OSTIA, DURANTE IL RITORNO IN AFRICA

Educazione di Monica

8. 17. Tu, che fai abitare in una casa i cuori unanimi 84, associasti alla nostra comitiva anche Evodio, un giovane nativo del nostro stesso municipio. Agente nell’amministrazione imperiale, si era rivolto a te 85 prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo. Stavamo sempre insieme e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l’avvenire. In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l’Africa. Senonché presso Ostia Tiberina mia madre morì. Tralascio molti avvenimenti per la molta fretta che mi pervade. Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio. Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna. Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore 86 la verga del tuo Cristo 87, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa. Più che le premure della madre per la sua educazione, ella soleva esaltare quelle di una fantesca decrepita, che aveva portato suo padre in fasce sul dorso, ove le fanciulle appena grandicelle usano portare i piccini. Questo precedente, insieme all’età avanzata e alla condotta irreprensibile, le avevano guadagnato non poco rispetto da parte dei padroni in quella casa cristiana. Quindi le fu affidata l’educazione delle figliuole dei padroni, cui attendeva diligentemente, energica nel punire all’occorrenza con ben ispirata severità e piena di buon senso nell’ammaestrare. Ad esempio, fuori delle ore in cui pasteggiavano a tavola, molto parcamente, con i genitori, non le lasciava bere nemmeno l’acqua, anche se fossero riarse dalla sete. Mirava così a prevenire una brutta abitudine e aggiungeva con saggia parola 88: « Ora bevete acqua, perché non disponete di vino; ma una volta sposate e divenute padrone di dispense e cantine, l’acqua vi parrà insipida, ma il vezzo di bere s’imporrà ». Con questo genere di precetti e con autorità di comando teneva a freno l’ingordigia di un’età ancora tenera e uniformava la stessa sete delle fanciulle alla regola della modestia, fino a rendere per loro nemmeno gradevole ciò che non era onorevole.

Monica corretta dal vizio di bere
8. 18. Tuttavia si era insinuato in mia madre, secondo che a me, suo figlio, la tua serva raccontava, si era insinuato il gusto del vino. Quando i genitori, che la credevano una fanciulla sobria, la mandavano ad attingere il vino secondo l’usanza, essa, affondato il boccale dall’apertura superiore della tina, prima di versare il liquido puro nel fiaschetto, ne sorbiva un poco a fior di labbra. Di più non riusciva senza provarne disgusto, poiché non vi era spinta minimamente dalla golosità del vino, bensì da una smania indefinibile, propria dell’età esuberante, che esplode in qualche gherminella e che solo la mano pesante degli anziani reprime di solito negli animi dei fanciulli. Così, aggiungendo ogni giorno un piccolo sorso al primo, come è vero che a trascurare le piccole cose si finisce col cadere 89, sprofondò in quel vezzo al punto che ormai tracannava avidamente coppette quasi colme di vino puro. Dov’era finita la sagace vecchierella, con i suoi energici divieti? Ma quale rimedio poteva darsi contro una malattia occulta, se non la vigile presenza su di noi della tua medicina, Signore? Assenti il padre, la madre, le nutrici, tu eri presente, il Creatore, che ci chiami, che pure attraverso le gerarchie umane operi qualche bene per la salute delle anime. In quel caso come operasti, Dio mio? donde traesti il rimedio, donde la salute? Non ricavasti da un’altra anima un duro e acuminato insulto, che come ferro guaritore uscito dalle tue riserve occulte troncò la cancrena con un colpo solo? L’ancella che accompagnava abitualmente mia madre alla tina, durante il litigio, come avviene, a tu per tu con la piccola padrona, le rinfacciò il suo vizio, chiamandola con l’epiteto davvero offensivo di beona. Fu per la fanciulla una frustata. Riconobbe l’orrore della propria consuetudine, la riprovò sull’istante e se ne spogliò. Come gli amici corrompono con le adulazioni, così i nemici per lo più correggono con le offese, e tu non li ripaghi dell’opera che compi per mezzo loro, ma dell’intenzione che ebbero per conto loro. La fantesca nella sua ira desiderò esasperare la piccola padrona, non guarirla, e agì mentre erano sole perché si trovavano sole dove e quando scoppiò il litigio, oppure perché non voleva rischiare di scapitarne anch’essa per aver tardato tanto a rivelare il fatto. Ma tu, Signore, reggitore di ogni cosa in cielo e in terra, che volgi ai tuoi fini le acque profonde del torrente, il torbido ma ordinato flusso dei secoli, mediante l’insania stessa di un’anima ne risanasti un’altra. La considerazione di questo episodio induca chiunque a non attribuire al proprio potere il ravvedimento provocato dalle sue parole in un estraneo che vuole far ravvedere.

Monica sposa paziente
9. 19. Mia madre fu dunque allevata nella modestia e nella sobrietà, sottomessa piuttosto da te ai genitori, che dai genitori a te. Giunta in età matura per le nozze 90, fu consegnata a un marito, che servì come un padrone 91. Si adoperò per guadagnarlo a te 92, parlandogli di te attraverso le virtù di cui la facevi bella e con cui le meritavi il suo affetto rispettoso e ammirato. Tollerò gli oltraggi al letto coniugale in modo tale, da non avere il minimo litigio per essi col marito. Aspettava la tua misericordia 93, che scendendo su di lui gli desse insieme alla fede la castità. Era del resto un uomo singolarmente affettuoso, ma altrettanto facile all’ira, e mia madre aveva imparato a non resistergli nei momenti di collera, non dico con atti, ma neppure a parole. Coglieva invece il momento adatto, quando lo vedeva ormai rabbonito e calmo, per rendergli conto del proprio comportamento, se per caso si era turbato piuttosto a sproposito. Molte altre signore, pur sposate a uomini più miti del suo, portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto, e nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti. Essa deplorava invece la loro lingua, ammonendole seriamente con quella che sembrava una facezia: dal momento, diceva, in cui si erano sentite leggere il contratto matrimoniale, avrebbero dovuto considerarlo come la sanzione della propria servitù; il ricordo di tale condizione rendeva dunque inopportuna ogni alterigia nei confronti di chi era un padrone. Le amiche, non ignare di quanto fosse furioso il marito che sopportava, stupivano del fatto che mai si fosse udito o rilevato alcun indizio di percosse inflitte da Patrizio alla moglie, né di liti, che in casa li avessero divisi anche per un giorno solo. Richiesta da loro in confidenza di una spiegazione, illustrava il suo metodo, che ho riferito sopra; e chi l’applicava, dopo l’esperienza gliene era grata; chi non l’applicava, sotto il giogo era tormentata.

Rapporti cordiali fra Monica e la suocera
9. 20. La suocera sulle prime l’avversava per le insinuazioni di ancelle maligne. Ma conquistò anch’essa col rispetto e la perseveranza nella pazienza e nella dolcezza, cosicché la suocera stessa denunziò al figlio le lingue delle fantesche, che mettevano male fra lei e la nuora turbando la pace domestica, e ne chiese il castigo. Il figlio, sia per ubbidienza alla madre, sia per la tutela dell’ordine domestico, sia per la difesa della concordia fra parenti punì con le verghe le colpevoli denunziate quanto piacque alla denunziante; quest’ultima promise uguale ricompensa a qualunque altra le avesse parlato male della nuora per accaparrarsi il suo favore. Nessuna osò più farlo e le due donne vissero in una dolce amorevolezza degna di essere menzionata.

Sollecitudine di Monica per estinguere le inimicizie
9. 21. A così devota tua serva, nel cui seno mi creasti, Dio mio, misericordia mia 94, avevi fatto un altro grande dono. Tra due anime di ogni condizione, che fossero in urto e discordia, ella, se appena poteva, cercava di mettere pace. Delle molte invettive che udiva dall’una contro l’altra, quali di solito vomita l’inimicizia turgida e indigesta, allorché l’odio mal digerito si effonde negli acidi colloqui con un’amica presente sul conto di un’amica assente, non riferiva all’interessata se non quanto poteva servire a riconciliarle. Giudicherei questa una bontà da poco, se una triste esperienza non mi avesse mostrato turbe innumerevoli di persone, che per l’inesplicabile, orrendo contagio di un peccato molto diffuso riferiscono ai nemici adirati le parole dei nemici adirati, non solo, ma aggiungono anche parole che non furono pronunciate. Invece per un uomo davvero umano dovrebbe essere poca cosa, se si astiene dal suscitare e rinfocolare con discorsi maliziosi le inimicizie fra gli altri uomini, senza studiarsi, anche, di estinguerle con discorsi buoni. Mia madre faceva proprio questo, istruita da te, il maestro interiore, nella scuola del cuore.

Monica serva di tutti
9. 22. Finalmente ti guadagnò anche il marito 95, negli ultimi giorni ormai della sua vita temporale, e dopo la conversione non ebbe a lamentare da parte sua gli oltraggi, che prima della conversione ebbe a tollerare. Era, poi, la serva dei tuoi servi. Chiunque di loro la conosceva, trovava in lei motivo per lodarti, onorarti e amarti grandemente, avvertendo la tua presenza nel suo cuore dalla testimonianza dei frutti di una condotta santa 96. Era stata sposa di un solo uomo, aveva ripagato il suo debito ai genitori, aveva governato santamente la sua casa, aveva la testimonianza delle buone opere, aveva allevato i suoi figli 97 partorendoli tante volte 98, quante li vedeva allontanarsi da te. Infine, di tutti noi, Signore, poiché la tua munificenza permette di parlare ai tuoi servi; che, ricevuta la grazia del tuo battesimo, vivevamo già uniti in te prima del suo sonno, ebbe cura come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia.

La contemplazione di Ostia
10. 23. All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi 99, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu 100, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d’uomo 101. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te 102, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta.
10. 24. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d’amore verso l’Essere stesso 103, percorremmo su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile 104, ove pasci Israele 105 in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno, mentre essa non si fa, ma tale è oggi quale fu e quale sempre sarà; o meglio, l’essere passato e l’essere futuro non sono in lei, ma solo l’essere, in quanto eterna, poiché l’essere passato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito 106, per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine. E cos’è simile alla tua Parola, il nostro Signore, stabile in se stesso senza vecchiaia e rinnovatore di ogni cosa 107?
10. 25. Si diceva dunque: « Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, tacessero i cieli, e l’anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: « Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece 108 Chi permane eternamente » 109; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l’orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d’angelo o fragore di nube 110 o enigma 111 di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l’eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e quest’unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l’ »entra nel gaudio del tuo Signore » 112? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati 113? ».
10. 26. Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai 114, il giorno in cui avvenne questa conversazione, e questo mondo con tutte le sue attrattive si svilì ai nostri occhi nel parlare, che mia madre disse: « Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c’era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui? ».

Malattia e morte di Monica
11. 27. Cosa le risposi, non ricordo bene. Ma intanto, entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa: « Dov’ero? »; poi, vedendo il nostro afflitto stupore: « Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre ». Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l’augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All’udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un’occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò: « Vedi cosa dice », e subito dopo, rivolgendosi a entrambi: « Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore ». Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la faceva soffrire.
11. 28. Io, al pensiero dei doni che spargi, Dio invisibile 115, nei cuori dei tuoi fedeli, e che vi fanno nascere stupende messi, gioivo e a te rendevo grazie 116, ricordando ciò che sapevo, ossia quanto si era sempre preoccupata e affannata per la sua sepoltura, che aveva provvista e preparata accanto al corpo del marito. La grande concordia in cui erano vissuti le faceva desiderare, tanto l’animo umano stenta a comprendere le realtà divine, anche quest’altra felicità, e che la gente ricordasse come dopo un soggiorno di là dal mare avesse ottenuto che una polvere congiunta coprisse la polvere di entrambi i congiunti. Quando però la piena della tua bontà 117 avesse eliminato dal suo cuore questi pensieri futili, io non sapevo; ma ero pervaso di gioia e ammirazione che mia madre mi fosse apparsa così. Invero anche durante la nostra conversazione presso la finestra, quando disse: « Ormai cosa faccio qui? », era apparso che non aveva il desiderio di morire in patria. Più tardi venni anche a sapere che già parlando un giorno in mia assenza, durante la nostra dimora in Ostia, ad alcuni amici miei con fiducia materna sullo spregio della vita terrena e il vantaggio della morte, di fronte al loro stupore per la virtù di una femmina, che l’aveva ricevuta da te, e alla loro domanda, se non l’impauriva l’idea di lasciare il corpo tanto lontano dalla sua città, esclamò: « Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi ». Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo anno della sua vita, trentatreesimo della mia, quell’anima credente e pia fu liberata dal corpo.

Un trapasso non funesto
12. 29. Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo. Fu una lotta penosissima. Il giovane Adeodato al momento dell’estremo respiro di lei era scoppiato in singhiozzi, poi, trattenuto da noi tutti, rimase zitto: allo stesso modo anche quanto vi era di puerile in me, che si scioglieva in pianto, veniva represso e zittito dalla voce adulta della mente. Non ci sembrava davvero conveniente celebrare un funerale come quello fra lamenti, lacrime e gemiti. Così si suole piangere in chi muore una sorta di sciagura e quasi di annientamento totale; ma la morte di mia madre non era una sciagura e non era totale. Ce lo garantivano la prova della sua vita e una fede non finta 118 e ragioni sicure.

Sforzi di Agostino per reprimere le lacrime
12. 30. Ma cos’era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune? Mi confortavo della testimonianza che mi aveva dato proprio durante la sua ultima malattia, quando, inframezzando con una carezza i miei servigi, mi chiamava buono e mi ripeteva con grande effusione d’affetto di non aver mai udito una parola dura o offensiva al suo indirizzo scoccata dalla mia bocca; eppure, Dio mio, creatore nostro 119, come assomigliare, come paragonare il rispetto che avevo portato io per lei, alla servitù che aveva sopportato lei per me? Privata della grandissima consolazione che trovava in lei, la mia anima rimaneva ferita e la mia vita, stata tutt’una con la sua, rimaneva come lacerata.
12. 31. Soffocato dunque il pianto del fanciullo, Evodio prese il salterio e intonò un salmo. Gli rispondeva tutta la casa: « La tua misericordia e la tua giustizia ti canterò, Signore » 120. Alla nuova, poi, dell’accaduto, si diedero convegno molti fratelli e pie donne; e mentre gli incaricati si occupavano dei funerali secondo le usanze, io mi appartavo in un luogo conveniente con gli amici, che ritenevano di non dovermi abbandonare, e mi trattenevo con loro su temi adatti alla circostanza. Il balsamo della verità leniva un tormento che tu conoscevi, essi ignoravano. Mi ascoltavano attentamente e pensavano che non provassi dolore. Invece al tuo orecchio, ove nessuno di loro udiva, mi rimproveravo la debolezza del sentimento e trattenevo il fiotto dell’afflizione, che per qualche tempo si ritraeva davanti ai miei sforzi, ma per essere sospinto di nuovo dalla sua violenza. Non erompeva in lacrime né alterava i tratti del viso, ma sapevo ben io cosa tenevo compresso nel cuore. Il vivo disappunto, poi, che provavo di fronte al grande potere su me di questi avvenimenti umani, inevitabili nell’ordine naturale delle cose e nella condizione che abbiamo sortito, era un nuovo dolore, che mi addolorava per il mio dolore, cosicché mi consumavo d’una duplice tristezza.

Le esequie
12. 32. Alla sepoltura del suo corpo andai e tornai senza piangere. Nemmeno durante le preghiere che spandemmo innanzi a te mentre veniva offerto in suo suffragio il sacrificio del nostro riscatto, col cadavere già deposto vicino alla tomba, prima della sepoltura, come vuole l’usanza del luogo, ebbene, nemmeno durante quelle preghiere piansi. Ma per tutta la giornata sentii una profonda mestizia nel segreto del cuore e ti pregai come potevo, con la mente sconvolta, di guarire il mio dolore. Non mi esaudisti, per imprimere, credo, nella mia memoria almeno con quest’unica prova come sia forte il legame di qualsiasi abitudine anche per un’anima che già si nutre della parola non fallace. Pensai di andare a prendere anche un bagno, avendo sentito dire che i bagni furono così chiamati perché i greci dicono balanion, in quanto espelle l’affanno dall’animo. Ma ecco, confesso anche questo alla tua misericordia, Padre degli orfani 121: che dopo il bagno stavo come prima del bagno, poiché non avevo trasudato dal cuore l’amarezza dell’afflizione. In seguito dormii. Al risveglio notai che il dolore si era non poco mitigato. Solo, nel mio letto, mi vennero alla mente i versi così veri del tuo Ambrogio: tu sei proprio

Dio creatore di tutto,
reggitore del cielo,
che adorni il dì di luce,
e di sopor gradito
la notte, sì che il sonno
sciolga e ristori gli arti,
ricrei le menti stanche,
disperda ansie e dolori 122.

Lacrime per la madre
12. 33. Poi tornai insensibilmente ai miei pensieri antichi sulla tua ancella, al suo atteggiamento pio nei tuoi riguardi, santamente sollecito e discreto nei nostri. Privato di lei così, all’improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi 123 su di lei e per lei, su di me e per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c’eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compianto. Ora, Signore, ti confesso tutto ciò su queste pagine. Chi vorrà le leggerà, e le interpreti come vorrà. Se troverà che ho peccato a piangere mia madre per piccola parte di un’ora, la mia madre frattanto morta ai miei occhi, che per tanti anni mi aveva pianto affinché vivessi ai tuoi, non mi derida. Piuttosto, se ha grande carità, pianga anch’egli per i miei peccati davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.

Speranza e fiducia nella misericordia di Dio
13. 34. Io per mio conto, ora che il cuore è guarito da quella ferita, ove si poteva condannare la presenza di un affetto carnale, spargo davanti a te, Dio nostro, per quella tua serva un ben altro genere di lacrime: sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli cui soggiace ogni anima morente in Adamo. Certo, vivificata in Cristo 124 prima ancora di essere sciolta dalla carne, mia madre visse procurando con la sua fede e i suoi costumi lodi al tuo nome; tuttavia non ardisco affermare che da quando la rigenerasti col battesimo 125, nemmeno una parola uscì dalla sua bocca contro il tuo precetto. Dalla Verità, da tuo Figlio 126, fu proclamato: « Se qualcuno avrà detto a suo fratello: « Sciocco », sarà soggetto al fuoco della geenna » 127; sventurata dunque la più lodevole delle vite umane, se la frughi accantonando la misericordia. Ma no, tu non frughi le nostre malefatte con rigore; perciò noi speriamo con fiducia di ottenere un posto accanto a te. Eppure chi aduna innanzi a te i suoi autentici meriti, che altro ti aduna, se non i tuoi doni? Oh, se gli uomini si conoscessero quali uomini, e chi si gloria, si gloriasse nel Signore 128!

Supplica a Dio per la madre pia
13. 35. Perciò, mio vanto 129 e mia vita, Dio del mio cuore 130, trascurando per un istante le sue buone opere, di cui a te rendo grazie con gioia 131, ora ti scongiuro per i peccati di mia madre. Esaudiscimi 132, in nome di Colui che è medico delle nostre ferite, che fu sospeso al legno della croce 133, e seduto alla tua destra intercede per noi 134 presso di te. So che fu misericordiosa in ogni suo atto, che rimise di cuore i debiti ai propri debitori: dunque rimetti anche tu a lei i propri debiti 135, se mai ne contrasse in tanti anni passati dopo ricevuta l’acqua risanatrice; rimettili, Signore, rimettili, t’imploro 136, non entrare in giudizio contro di lei 137. La misericordia trionfi sulla giustizia 138. Le tue parole sono veritiere, e tu hai promesso misericordia ai misericordiosi 139. Furono tali in grazia tua, e tu avrai misericordia di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso 140.
13. 36. Credo che tu abbia già fatto quanto ti chiedo. Pure, gradisci, Signore, la volontaria offerta della mia bocca 141. All’approssimarsi del giorno della sua liberazione 142, mia madre non si preoccupò che il suo corpo venisse composto in vesti suntuose o imbalsamato con aromi, non cercò un monumento eletto, non si curò di avere sepoltura in patria. Non furono queste le disposizioni che ci lasciò. Ci chiese soltanto di far menzione di lei davanti al tuo altare, cui aveva servito infallibilmente ogni giorno, conscia che di là si dispensa la vittima santa, grazie alla quale fu distrutto il documento che era contro di noi, e si trionfò sul nemico 143 che, per quanto conteggi i nostri delitti e cerchi accuse da opporci, nulla trova in Colui 144, nel quale siamo vittoriosi. A lui chi rifonderà il sangue innocente? chi gli ripagherà il prezzo con cui ci acquistò 145, per toglierci a lui? Al mistero di questo prezzo del nostro riscatto la tua ancella legò la propria anima col vincolo della fede. Nessuno la strappi alla tua protezione, non si frapponga tra voi né con la forza né con l’astuzia il leone e dragone 146. Ella non risponderà: « Nulla devo », per timore di essere confutata e assegnata a un inquisitore scaltro. Risponderà però che i suoi debiti le furono rimessi da Colui, cui nessuno potrà restituire quanto restituì per noi senza nulla dovere.

Richiesta di suffragi per i genitori
13. 37. Sia dunque in pace col suo uomo, prima del quale e dopo il quale non fu sposa d’altri 147; che servì offrendoti il frutto della sua pazienza 148 per guadagnare anche lui a te 149. Ispira, Signore mio e Dio mio 150, ispira i servi tuoi, i fratelli miei, i figli tuoi, i padroni miei, che servo col cuore e la voce e gli scritti, affinché quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in questa vita, non so come. Si ricordino con sentimento pietoso di coloro che in questa luce passeggera furono miei genitori, e miei fratelli sotto di te, nostro Padre, dentro la Chiesa cattolica, nostra madre, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, cui sospira il tuo popolo durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno. Così l’estrema invocazione che mi rivolse mia madre sarà soddisfatta, con le orazioni di molti, più abbondantemente dalle mie confessioni che dalle mie orazioni.

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO – L’ULTIMO PADRE DEL MEDIO EVO

http://www.medio-evo.org/bernardo.htm

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

L’ULTIMO PADRE DEL MEDIO EVO

E’ impossibile non unirsi a tutti coloro che hanno scritto e commentato la figura di San Bernardo di Chiaravalle. Questo figlio di nobili borgognoni è l’ultimo dei “padri” del monachesimo benedettino, e con lui la vocazione monastica giunge ad uno dei punti più alti della storia. Nato intorno al 1090 presso Digione, nel castello paterno, figlio di nobili cavalieri, ebbe una educazione tipicamente feudale, ed incarna in sé quello spirito che fu dei monaci e dei cavalieri medievali, fatto di preghiera e combattimento, ascetismo e disciplina, una disciplina spirituale che somiglia molto a quella cavalleresca. Da piccolo entra nella scuola dei Canonici di Châtillon, una delle più importanti della Borgogna, dove studia gli scrittori latini e i padri della Chiesa. Dopo la morte della madre, a cui egli era molto legato, nel 1107, entrò in una crisi che gli fece sentire lontano quel mondo di “donne cavalier armi ed amori” che era proprio della sua famiglia, e forte invece il desiderio di cercare e trovare Dio nella pace e nella quiete del monastero, lontano dal fragore e dalla violenza del mondo. Così a ventidue anni, nel 1112 si reca a Citeaux, nel monastero diretto da Stefano Harding, assieme a trenta compagni. Questo arrivo segnerà una svolta non solo per il monastero, ma nella storia della Chiesa e dell’ Europa occidentale. Anche se differenti nel temperamento, Bernardo fece propria l’idea che aveva ispirato San Roberto di Moleste, Alberico e Stefano. Questi si erano allontanati da Moleste nel 1098 per recarsi in un luogo solitario a 20 chilometri da Digione, in un luogo chiamato Cistercium, per seguire uno stile di vita più semplice e più rigoroso, recuperando lo spirito e la lettera dell’antica regola benedettina, ormai inficiati dalla grande potenza temporale acquisita dai monasteri clunicensi. Il luogo originale, in cui Bernardo condivise i primi anni di una rigorosa vocazione, stava però stretto a Bernardo, che, in cerca di solitudine, ma anche di luoghi aperti e ameni per essere a più stretto contatto con Dio, lasciò Citeaux. Il nuovo luogo sarà ancor più distante dal consesso civile, e si chiamerà Clairvaux , in italiano Chiaravalle. Qui divenne abate e qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1156, nonostante numerosi viaggi, dispute ( celeberrima quella con Abelardo), la predicazione della seconda crociata e l’amministrazione spirituale di un ordine, che alla sua morte contava più di 300 monasteri.
Possiamo dire che i quattro padri dell’ordine cistercense fondarono una vera e propria scuola di spiritualità, di cui San Bernardo costituisce il maestro indiscusso ed il punto di riferimento per le future generazioni di monaci. La sua devozione per la vergine Maria e per il Bambin Gesù rimane una caratteristica della sua spiritualità. La tradizione di chiudere la giornata di preghiera con il Salve Regina deriva proprio da una sua idea. Egli prediligeva per la preghiera luoghi aperti ed ameni, valli luminose ed vicine ai corsi d’acqua. Da qui l’abitudine, tutta cistercense, di fondare monasteri nelle valli. Ben tre città in Italia ci ricordano quindi, con il nome Chiaravalle, la loro fondazione per opera dei monaci di San Bernardo. Umiltà, amore verso Dio con un cammino di unione del cuore, duro lavoro nei campi e profonda devozione mariana sono alcuni dei tratti della spiritualità di San Bernardo. Spirito che si riversa anche nelle strutture architettoniche dei monasteri e delle chiese abbaziali, prive o quasi di decorazioni e tutte slanciate verso l’alto. La sua riforma spirituale quindi segna il passaggio nell’arte dal romanico al gotico. Egli, come tutta la spiritualità monastica, vede la vita spirituale come un cammino fatto di gradi di perfezione, per essere sempre più uniti all’amore di Dio. Amore che si riversa poi sul prossimo, in quanto si ha la piena consapevolezza di essere tutti peccatori. Egli fu anche scrittore molto prolifico: trattati, lettere, prediche, poemi, un “corpus” di scritti che occupa un posto molto rilevante nella storia medievale, e che lo pone come il terzo “padre” medievale, dopo S. Gregorio Magno e S. Benedetto da Norcia. Tra le opere più importanti si possono ricordare « De gradibus humilitatis et superbiae », « De gratia et libero arbitrio », « De diligendo Deo ». Egli fu quindi quel faro di luce spirituale che avrebbe illuminato tutta l’Europa occidentale del XII secolo. Fu infatti capace di recuperare in maniera originale e geniale tutto il pensiero cristiano precedente a lui, pur in una prospettiva monastica e benedettina. Egli, a differenza dei clunicensi, non vede infatti l’uomo semplicemente come un peccatore, ma come una creatura buona, capace cioè di recuperare sempre la dimensione d’amore verso Dio e verso il prossimo. L’uomo, con il peccato ha deformato questa immagine, ma proprio attraverso l’ Incarnazione del Figlio di Dio e la disponibilità di Maria Santissima, Dio può riformare l’uomo a sua immagine. L’uomo è chiamato a prendere parte a questa opera, con la conversione e l’ascesa dell’anima verso Dio, descritta nel trattato De diligendo Deo. L’Incarnazione quindi occupa un posto centrale nella spiritualità cistercense. Questa esperienza chiama l’uomo alla sequela di Cristo, fatta nell’oscurità della fede, si attua nella carità.
Ma San Bernardo non fu solo un mistico chiuso in un monastero, lontano dal mondo e tutto teso alla ricerca spirituale di comunione con Dio. Egli, spirito indomito e combattente, vero cavaliere dello Spirito, partecipò attivamente anche alle turbolente vicende della Chiesa e dell’Europa occidentale del suo tempo. Infatti predicò, su ordine di papa Eugenio III, la seconda Crociata, quella di Luigi VII, Riccardo Cuor di Leone e Federico Barbarossa (1148-1151), aiutò papa Innocenzo II, fuggito a Cluny dopo l’elezione dell’antipapa Anacleto. Al Concilio di Etampes, grazie al suo intervento, il re Luigi VI riconobbe Innocenzo come il legittimo papa. Intervenne anche al famoso Concilio di Troyes (1128) che segna la fondazione dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio (Templari), un mito ancor oggi intramontabile. Per la prima volta infatti i due ordini, bellatores e oratores , cioè cavalieri e monaci, distinti nella società feudale, vengono fusi in uno solo, con lo scopo di difendere i pellegrini in Terra Santa e i luoghi della vita di Cristo. Fu anche impegnato nella disputa con Abelardo e con i nuovi maestri di filosofia che ai suoi occhi pretendevano di spiegare la fede con la ragione, ed alla fine ne ottenne la condanna al concilio di Sains (1140). Erano due personalità forti, i due, ed esprimevano, ognuno nella sua ottica, due modi di vedere il ruolo della fede e della ragione che sono ancor oggi presenti in terra di Francia.
In effetti San Bernardo rivolse parole di esortazione e di rimprovero, di incoraggiamento e di aiuto, di luce spirituale e di fede a tutte le categorie della società del suo tempo, divenendo un punto di riferimento per la sua epoca. Senza di lui il XII e la civiltà feudale che egli rappresenta forse non sarebbe stata gli stessi. Ma fondamentalmente egli fu prima di tutto un uomo di preghiera in un tempo di guerre, crociate, odi e violenze private. Mi ha colpito molto una frase che introduce il suo “De diligendo Deo”, quando all’inizio dice:

“In Dio voglio vivere e in Dio morire: per me preghiere e non domande.”
(Domino vivere et in Domino mori. Orationes a me et non quaestiones)

Un uomo che quindi prediligeva la preghiera alle dispute filosofiche (dette appunto quaestiones) e che preferì la quiete del monastero alla nobile arte della cavalleria e della guerra. Una scelta quanto mai attuale.

Ecco un brano tratto dalla « Patrologia Latina Database » in francese medievale.

CI ENCOMENCENT LI SERMON SAINT BERNAVT KIL FAIT DE LAVENT ET LES ALTRES FESTES PARMEI LAN.
Nos faisons ui, chier freire, len comencement de lavent, cuy nons est asseiz renomeiz et conuiz al munde, si cum sunt li nom des altres sollempniteiz, mais li raisons del nom nen est mies per aventure si conue. Car li chaitif fil dAdam nen ont cure de veriteit, ne de celes choses ka lor salveleit apartienent, anz quierent . . . les choses . . . faillanz et trespessaules. A quel gent . . . nos semblans.. les homes de ceste generation, ou a quei gent evverons nos ceos cunos veons estre si ahers et si enracineiz ens terriens solaz, et ens corporeiens kil repartir ne sen puyent? Certes semblant sunt a ceos ki plongiet sunt en ancune grant auve, et ki en peril sunt de noier. Tu varoyes kil ceos tienent, kes tienent, ne kil par nule raison ne vuelent devverpir ceu ou il primier puyent meltre lor mains quels chose ke ce soit, ancor soit ceu tels choses ke ne lor puist niant aidier, si cum sunt racines derbes ou altres tels choses. Et si ancune gent vienent a ols por ols asoscor, si plongent ensemble ols ceos kil puyent aggrappeir ensi kil a ols nen a ceos ne puyent faire nule ajué. Ensi perissent li chaitif en ceste grant mer ke si es large, quant il les choses ki perissent ensevent et les estaules layent aleir, dont il poroyent estre delivreit del peril ou il sunt . . . prennoyent et salveir lor airmes. Car de la veriteit est dit, et ne mies de la vaniteit, Vos la conessereiz, et ele vos deliverrat. Mais vos, chier freire, a cuy Deus revelet, si cum a ceos ki petit sunt celes choses, ke receleis sunt as saige et as senneiz, vos soiez entenduit cus encenousement envor celes choses, ke vrayement apartienent a vostre salveteit: et si penseiz di merrement a la raison de cest avenement, quareiz et encerchiez ki cest soit ki vient, et dont il vient, ou il vient, et por kai il vient, quant il vient, et par quel voie il vient. Certes molt fail aloeir ceste curiositeit, et molt est saine. Car tote sainte Eglise ne celeberroit mies si devotement cest avenement, saucuens grant Sacrement ne estoil en lui receleiz.

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE NELLA TRADIZIONE ORIENTALE

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/lucetradizioneorientale.htm

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE NELLA TRADIZIONE ORIENTALE

La Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza mistica.

Tradizione liturgica
La seconda settimana della Grande Quaresima porta il titolo, appunto, di settimana della Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di “far risplendere la santificazione”. Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione:
E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).
Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli “colti dal più profondo stupore si velano il volto”.
Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: “fa’ risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito”. Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: “sacramento dell’illuminazione” e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di “illuminati”.
Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8).
Nel Battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l’uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente “figlio della luce”. Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al “trionfo dell’ortodossia”, la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas[1]. Il Sinassario lo indica come “il luminoso dottore della Grande Luce”.

La dottrina di san Gregorio Palamas
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di “partecipi della Luce divina”. È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che , quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:
La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.
Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale:
Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza.
Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.
La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e “la differenza dei modi d’esistenza” in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita… Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma “energetica”. Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo.
Queste precisazioni offerte dal “dottore luminoso” chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come “théosis/divinizzazione” e, in termini mistici, indica come “illuminazione”: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.

L’insegnamento patristico
L’insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione ma alla vita. Qui “la ragione non trova né parole né pensieri” (san Gregorio) e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui “lo stupore è l’inizio della sapienza”, indica il solo atteggiamento corretto: “sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita”.
Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un’esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: “la semplicità primitiva della conoscenza cristiana” (san Serafino[2]) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione.
Per opera della luce l’uno comincia ad esistere per l’altro, o ancora come dice san Simeone, essa è “il pane, la camera nuziale, lo sposo, l’amico, il fratello, il padre”. Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le “seconde luci” (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, “gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti” (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è “seconda luce” perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è “simili” e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: “Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito” (san Gregorio) e, per questo, contemplano la luce eterna della divinità senza il velo della kenosis. L’illuminato è colui che “è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia” (san Gregorio).
Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) – non è per nulla allegorico:
Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce… che illumina… e trasforma in luce coloro che illumina (san Simeone).
La preghiera di Prima dice così:
O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.
La Théotokos liturgicamente porta il nome di “Madre della Luce”, e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).
Se l’ateismo non è altro che sordità spirituale esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: “l’immagine di Dio si è oscurata nell’uomo”. L’immagine velata, l’icona annerita rappresenta l’eclisse della presenza di Dio e l’allentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l’aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade “ardenti di luce”. Il commento liturgico della parabola sottolinea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovanni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un’antica icona segue questa tradizione raffigurando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell’essere umano, la sua apertura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: “il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce”.
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, commentando le parole del Cantico dei cantici:
Forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),
afferma questa verità assai sconvolgente secondo cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comunque di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall’uomo. Pur essendo un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l’Altro divino è implicato nella situazione dell’uomo. Cosicché, se l’atto emana dall’uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vita che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un’esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto “terzo” presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell’amato.

L’ascensione dei santi
Presso i mistici l’elevazione dell’anima è indicata dall’acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l’anima si ritrova a pregare “al di fuori della preghiera”. Si tratta del grande silenzio che si crea nel momento in cui la luce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1’illuminazione interiore che è il frutto dell’approfondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L’antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il nome di Gesù risuona incessantemente nell’anima e l’energia della presenza che, attraverso l’invocazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l’essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L’“esicasmo”[3] viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I “perfetti” attingono da questo insegnamento e “vengono istruiti nelle realtà divine non solo attraverso la parola ma – misteriosamente – attraverso la luce della parola”. Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato “portatore della Luce” e ancora “donatore della Luce”. San Macario precisa: “La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo”. L’azione pneumatica si esprime sempre in termini di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell’energia divina – che è una sola e raccoglie l’azione delle Tre Persone – indubbiamente quella della luce è centrale.
Ma la regola ascetica combatte fortissimamente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l’essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e vedere dal di dentro le icone degli esseri e delle cose. L’ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:
La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).
Svuotarsi della propria oscurità per farsi inondare dalla luce è la grandiosa lotta che si persegue per tutta la durata della vita e che prepara l’inabitazione di Dio. In questo cammino il pane amaro di ogni istante è la morte dell’uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell’alto, è proprio la luce della Presenza.
L’occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l’anima attraversa il Calvario e si eleva a quest’altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: “Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore”; “la purezza del cuore consiste nell’amore verso i fratelli che cadono”. La comunione si amplifica! È come se l’uomo “cadesse in alto” per raggiungere così il livello del cuore divino. L’anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell’uomo interiore risuona la voce: “Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce”. Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: “La scienza diventa Luce”. Ecco un testo sublime di san Simeone:
Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità… o meglio non mi appariva che da lontano… Così Tu, Invisibile… presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me… Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscendenza divina.
L’anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell’eternità quando Dio viene nell’anima e l’anima emigra in Dio. Nel celebre dialogo di san Serafino di Sarov con Motovilov, abbiamo l’esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:
– Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
– Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi occhi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.
– Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diventato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.
– A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riuscite a vedere le labbra che si muovono e l’espressione del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient’altro che luce sfolgorante che si diffonde all’intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz…[4]
In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, dell’Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.

Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:

Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza;
e l’uno dall’altro come iri da iri
parea reflesso,
Non era altri che

L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69.

[1] Per approfondire vedi: J. Meyendorff, San Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Milano 1997.
[2] Per approfondire vedi: I. Gorainoff (edd), Serafino di Sarov, Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 2002.
[3] Per approfondire vedi: J.Y. Leloup, L’esicasmo, Che cos’è, come lo si vive, Milano 1992; e A. e R. Goettmann, Preghiera di Gesù, preghiera del cuore, di Milano 1998.
[4] I. Gorainoff, Serafino di Sarov, op. cit., p. 177.

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GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

http://www.gregoriopalamas.it/omelia_28.htm

GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

La memoria di ciascuno dei santi, che si celebra in questo giorno di festa, è portatrice di comune gioia per popoli e città, sudditi e principi e offre grandissimo giovamento a tutti coloro che di questa festa sono partecipi. La memoria del giusto è unita alle lodi, dice Salomone, il sapiente. Quando un giusto è lodato si rallegrano i popoli. Come infatti nella notte, quando si accende una lucerna, la luce appare per il vantaggio e il godimento di tutti i presenti, così avviene per la vita di ciascuno dei santi, vita cara a Dio, per la loro morte beata e per la grazia donata da Dio a ciascuno per la purezza della sua vita. Quando è celebrata la memoria del santo, avviene come se una fiaccola splendente offrisse a tutti coloro che sono insieme adunati letizia spirituale e giovamento. E come, quando viene sulla terra un tempo di fecondità, si rallegrano non solo i contadini, ma tutti gli uomini il godimento dei frutti della terra, infatti, è comune a tutti così anche i frutti prodotti dalla virtù dei santi rallegrano non solo colui che coltiva i1 campo delle anime, ma tutti noi, come frutti offerti a comune delizia e vantaggio delle nostre anime; poiché anche in questa vita tutti i santi, con la loro presenza, sono incitamento alla virtù per tutti coloro che li ascoltano e rivolgono ad essi il loro sguardo con intelligenza. I santi, infatti, sono immagini viventi della virtù; colonne di ogni bellezza, muovono di loro slancio verso di noi; libri viventi e parlanti che ci guidano al bene e che ci allontanano dalla vita di quaggiù attraverso la memoria delle loro virtù, immortale preservano per noi il frutto che da essi proviene. Memoria della loro santità è la lode, che noi ad essi dobbiamo per il bene arrecato con la loro vita, utile a noi e ora presente attraverso i frutti che dalla loro santità giungono a noi.
Nulla aggiungiamo alla loro felicità, quando facciamo memoria delle loro opere. Come infatti potremmo, noi che non siamo neppure capaci di farci un’idea di tutta la loro virtù? Essi furono premiati con le indicibili ricompense promesse loro da Dio, per quanto la natura permetteva di dimostrare il loro degno modo di vivere, cioè in tutto vincitore. Con le nostre lodi non accresceremo, dunque, la loro felicità, ma accresceremo il bene che da quelli giunge a noi, se tenderemo verso di loro come a lucerne accese di luce divina e se cercheremo di comprendere e di accogliere sempre più il dono di bellezza che da loro giunge a noi. E se la memoria di ciascuno dei santi è compiuta da noi con inni e lodi convenienti, quanto più non sarà celebrata la memoria dei santi Pietro e Paolo, la vetta più alta del sublime coro degli apostoli? Essi sono padri comuni e guide di tutti coloro che sono chiamati da Cristo, degli apostoli, dei martiri, dei santi, dei sacerdoti, dei sommi sacerdoti, dei pastori e dei maestri; sono come sommi pastori di chi è condotto al pascolo e di chi è ammaestrato, costruttori della pietà e della virtù di tutti quanti e, come astri nel mondo, tengono alta la parola di vita e di tanto superano nel loro fulgore coloro che brillano per vita di fede e virtù, quanto il sole supera le altre stelle o come i cieli dei cieli che narrano la gloria dell’altissimo Dio; e di tanto superano l’immensità dei cieli, la bellezza degli astri, la velocità di entrambi, e il loro ordine e la loro potenza, quanto fanno luce sulle cose sensibili indirizzandole alle verità che sovrastano il cielo e il cosmo. Essi emanano una luce in cui non è variazione né ombra di cambiamento, e non solo ci conducono dalla tenebra a questa mirabile luce 6, ma anche ci fanno partecipi della luce, figli di quella luce perfetta; ciascuno di essi, quando sarà il tempo della venuta e della manifestazione del principe della luce, il Verbo uomo-Dio, brillerà come il sole. Tali astri, sorti insieme oggi per noi, illuminano la chiesa; la loro unione produce non eclissi, ma sovrabbondanza di luce. Non accade che l’uno si muova nelle altezze, mentre l’altro sta sotto, in modo che chi sta sotto oscura l’altro; né che l’uno compia la sua orbita di giorno, l’altro di notte, in modo che, muovendo all’inverso, si inabissi nell’ombra; e neppure che l’uno emetta la luce e l’altro la riceva dal primo, in modo da essere soggetto a mutamento per effetto di quello, ricevendo ora l’uno ora l’altro l’illuminazione a seconda della distanza; ma entrambi partecipano in egual misura di Cristo, fonte perenne della perenne luce, uguale possiedono l’altezza, la gloria, lo splendore. Reciproca è quindi l’unione di queste luci, e duplice chiarore fornisce alle anime dei credenti.
Ma colui che primo si ribellò e fece ribellare a Dio il primo uomo, vedendo che colui che aveva plasmato Adamo, padre del genere umano, stava plasmando Pietro, padre della stirpe dei veri adoratori di Dio, e non solo vedendo, ma anche udendo che Dio gli diceva: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa il principe del male, con la sua invidiosa perversità, tendeva insidie anche a Pietro, il capo della stirpe dei fedeli a Dio, come aveva fatto un tempo con Adamo, il capo della stirpe degli uomini. Sapeva che Pietro era dotato di intelletto e infiammato d’amore per Cristo e non osò attaccarlo di fronte, ma come di traverso, dal fianco destro, con inganno furtivo si apprestava a scatenarlo contro il suo dovere. E, al tempo della passione che fu nostra salvezza, quando il Signore disse ai discepoli: Voi tutti in questa notte vi scandalizzerete di me, egli non credette e si oppose a queste parole, dicendo: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò. Egli prese le distanze dagli altri, tratto in inganno dalla presunzione; e così, umiliato più degli altri, quando venne il tempo, apparve più luminoso degli altri, e non avvenne a lui come ad Adamo che, tentato, fu vinto e trascinato in basso fino alla fine, ma tentato, fu trascinato per un poco e alla fine vinse il tentatore. Come? Col suo immediato rimorso, col suo grande dolore e pentimento, e con le lacrime, rimedio efficace per placare Dio. Sta scritto: Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato. La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile, che è fonte di salvezza, e: Chi semina nelle lacrime, nella letizia mieterà il perdono.
Riflettendo si potrebbe vedere che Pietro non solo pose un rimedio adeguato al rinnegamento, nel quale era stato trascinato, convertendosi e dando prova di un profondo dolore, ma anche sradicò dal suo cuore quella passione da cui, più degli altri, era stato vinto. Il Signore, volendo mostrare questo a tutti, dopo aver sofferto nel suo corpo la passione per noi e dopo essere risuscitato al terzo giorno, rivolse a Pietro le parole che oggi abbiamo letto nell’evangelo: « Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro, cioè, dei miei discepoli? ». Osserva la sua conversione a un’umiltà più grande del suo peccato; prima, anche senza essere interrogato, anteponendosi agli altri, aveva detto: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò »; ora, interrogato se amasse il Signore più degli altri, ammetteva di amarlo, ma non diceva di amarlo di più: Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene ». E allora il Signore, dopo aver dimostrato che Pietro non si era allontanato dall’amore per lui e si era umiliato, adempie palesemente la promessa che da molto tempo gli aveva fatto, e gli dice: Pasci i miei agnelli. E quando definisce « edificazione » l’adunanza di coloro che credono in lui, promette che stabilirà Pietro come fondamento, dicendo: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa. E quando il discorso passa alla pesca, lo fa pescatore di uomini, dicendo: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. E quando chiama « gregge » i suoi, ne fa pastore Pietro, dicendo: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
È tempo di considerare, fratelli, quanto il Signore desideri la nostra salvezza: a un punto tale da richiedere a coloro che lo amano null’altro se non di guidarli al pascolo e all’ovile della salvezza. Cerchiamo di provare anche noi desiderio della nostra salvezza, e prestiamo ascolto a coloro che, con i fatti e le parole, ci guidano ad essa. È necessario che ciascuno di noi bussi alla porta che conduce alla salvezza, ed è subito presente la guida, preparata dal Salvatore di tutti, colui che ci conduce alla salvezza, prontissimo per la sovrabbondanza del suo amore per gli uomini, spontaneamente venuto, o, meglio, spontaneamente invitatosi. Tre volte lo interroga il Signore, perché, con la triplice risposta, Pietro faccia la sua bella confessione e attraverso la triplice confessione guarisca il triplice rinnegamento; e per tre volte lo pone a capo dei suoi agnelli e delle sue pecore, affidando a Pietro i tre ordini di coloro che devono essere salvati, i servi, i mercenari, i figli, ovvero la verginità, la vedovanza casta, il matrimonio secondo la legge.
Ma Pietro, più e più volte interrogato se amasse Cristo, si addolorò per le numerose domande, pensando di non essere creduto. Sapeva infatti di amare Cristo, e neppure ignorava che colui che lo interrogava lo conosceva più di quanto egli stesso si conoscesse; stretto da ogni parte, non solo dichiarava di volergli bene, ma proclamò che quello a cui voleva bene era il Dio di tutte le cose, dicendo: Tu, Signore, sai tutto, tu sai che ti voglio bene; il sapere ogni cosa, infatti, appartiene soltanto al Dio dell’universo. E il Signore, non solo elegge pastore, e pastore sommo di tutta la sua chiesa colui che dal profondo del suo cuore aveva fatto questa confessione, ma gli promette che lo cingerà di tanta forza da renderlo capace di resistere fino alla morte, e alla morte di croce; e sì che prima dell’infusione di questa forza Pietro non era stato in grado di reggere alla domanda e alla chiacchiera di una giovinetta . Così disse a Pietro il Signore: In verità, in verità ti dico: quando eri giovane, ti cingevi della giovinezza del corpo e dello spirito, cioè ti potevi valere della tua forza, e andavi dove volevi, ti muovevi da te e vivevi secondo le scelte della tua natura, ma quando sarai vecchio, giunto all’estremo dell’età fisica e spirituale, stenderai le tue mani – e con queste parole voleva sottintendere la morte di croce e testimoniava che non contro il suo volere Pietro avrebbe accettato di essere steso sulla croce stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà, cioè ti darà forza, e ti condurrà dove tu non vuoi, allontanandoti dalla vita degli uomini. La natura infatti non vuole dissolversi nella morte; con queste parole dimostra la disposizione della nostra natura verso la vita e insieme la capacità di Pietro di sottoporsi a un martirio che supera le forze della natura. Dice il Signore: « Sopporterai volentieri quelle sofferenze per me, da me rafforzato a darmi testimonianza, poiché la natura non è fatta per sopportare con le sue forze quanto è superiore ad essa ».
Tale dunque è Pietro, ed è conosciuto da pochi. E che dire di Paolo? Quale, o piuttosto, quali e quante lingue saranno in grado di mostrare, anche in misura modesta, la sua perseveranza per Cristo fino alla morte? Lui che ogni giorno moriva, o, meglio, come morto viveva, non più vivo, come egli stesso dice, ma avendo in sé il Cristo vivente . Per l’amore di Cristo non solo riteneva tutto una perdita , ma anche la vita futura egli poneva al secondo posto confrontandola con Cristo. Dice: Sono convinto che né morte, né vita, né il presente, né il futuro, né altezza, né abisso potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù. Aveva per Dio una passione tale da appassionare anche noi dell’amore di Dio. E a chi sarà inferiore, se non a Pietro solo, di tutti i suoi pari? Quale fu nell’umiltà, ascoltalo quando dice di sé: lo sono il minimo fra gli apostoli, non sono neppure degno di essere chiamato apostolo. E dal momento che Paolo è uguale a Pietro nella confessione, nella passione, nell’umiltà, nell’amore, non ottenne forse i medesimi premi da parte di colui che tutto pesa e misura con somma giustizia? E come può essere questo? A Pietro Cristo dice: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa ; e di Paolo così parla ad Anania: Questi è il mio vaso di elezione, che porterà il mio nome davanti alle genti e ai re. Quale nome? Certamente quello che per noi è stato chiamato « chiesa di Cristo », che Pietro sostiene come fondamento. Vedete dunque quanto grande sia l’uguale splendore e onore di Pietro e di Paolo, e come da entrambi sia sostenuta la chiesa di Cristo? Per questo anche la chiesa ora tributa ad essi un solo e identico onore, celebrandoli entrambi con reciproca lode nella festa di oggi.
Ma noi, che abbiamo visto il loro sviamento, cerchiamo di imitare il loro ritorno, se non nel resto, almeno nella loro correzione attraverso l’umiltà e la penitenza. Infatti le loro altre opere, grandi e sublimi, si addicono ai grandi e dai grandi possono essere imitate, e ve ne sono alcune che non possono essere imitate da tutti; ma la correzione attraverso la penitenza si addice a noi più che a quelli, a noi, con le nostre cadute quotidiane, che da null’altro abbiamo speranza di salvezza, se non la conseguiamo mediante un’ininterrotta penitenza. Alla penitenza ci guida il riconoscimento delle nostre cadute, punto di partenza per ottenere la misericordia. Dice a Dio il salmista profeta: Pietà di me, poiché io riconosco il mio peccato e, riconoscendo il proprio peccato, attirò a sé la misericordia e, confessando e biasimando se stesso, ottenne la completa remissione dei peccati. Ho detto dice il profeta confesserò al Signore contro di me il mio peccato, e tu hai perdonato l’empietà del mio cuore. A1 riconoscimento dei propri peccati consegue la condanna di sé; a questa il dolore per i peccati, che Paolo definì secondo Dio. E a questo dolore secondo Dio naturalmente consegue la confessione a Dio con cuore contrito, la supplica e la promessa di tenersi per l’avvenire lontani dal male: questo è la penitenza.
Per questo Manasse fu liberato dalla condanna per i suoi peccati, sebbene fosse caduto nell’abisso di numerose e gravi cadute, e in esse fosse stato sballottato per una lunga serie di anni. E a David il Signore non solo condonò il peccato, per la sua penitenza, ma non gli tolse il dono della profezia. Con la penitenza anche Pietro non solo si risollevò dalla caduta e ottenne il perdono, ma gli fu assegnato il principato nella chiesa di Cristo. E anche Paolo troverai che si adoperò per questa, egli che, dopo la conversione e l’avanzamento, raggiunse una familiarità con Dio superiore agli altri; la penitenza infatti, se nasce sincera dal cuore, convince il penitente a non commettere più peccati, a non attaccarsi agli uomini corrotti, a non rimanere incantato di fronte ai piaceri non buoni, ma a disprezzare i beni presenti, aspettare i futuri, lottare contro le passioni, tendere alle virtù, conservare il dominio su tutto, vegliare nelle preghiere rivolte a Dio, astenersi dal guadagno ingiusto, essere misericordioso con quelli che peccano contro di lui, clemente verso chi lo supplica, prontissimo ad aiutare come può, con parole, opere, denaro chi ha bisogno del suo aiuto; egli si piega col cuore verso tutti, per acquistare amore con l’amore, ottenere da Dio la ricompensa per il suo amore verso il prossimo, attirare su di sé la divina benevolenza, e conseguire l’eterna misericordia, la benedizione e la grazia di Dio che attraversa i secoli. A tutti noi sia dato di ottenere questi doni per l’amore dell’unigenito Figlio di Dio, al quale si addice gloria, potenza, onore e adorazione insieme con il Padre senza principio e allo Spirito santissimo, buono e datore di vita, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

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