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SANT’AGOSTINO, L’AM0RE DELLA VERITA’ E IL DOVERE DELL’AMORE

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SANT’AGOSTINO, L’AM0RE DELLA VERITA’ E IL DOVERE DELL’AMORE

Oggi nei mass media in genere e nella pubblicità in particolare gli aggettivi superlativi si sprecano: tutti sono grandissimi, bravissimi, famosissimi (vedi giocatori, cantanti, attori et similia). Io ci andrei piano nel decretare il superlativo ad un personaggio ancora vivente. Semplicemente perché non ha ancora vinto l’usura del tempo, che divora con molta facilità miti e personaggi effimeri, che durano un anno o addirittura una sola stagione se non pochi mesi.
Sul santo di questo mese, sant’Agostino, gli aggettivi superlativi possiamo usarli tranquillamente: li merita tutti. Anche perché ha sfidato il tempo, che tutto consuma e molto dimentica. Agostino non è stato mai dimenticato anzi… da 1600 anni il suo nome risuona solenne, sia nelle chiese, dove è spesso citato, sia nelle aule universitarie (è stato un filosofo) sia nelle scuole di teologia (è stato un teologo). Ancora oggi ricordato, citato, ammirato, studiato, confrontato, pregato. Diciamolo tranquillamente: è un “grandissimo” dell’umanità.
Giovanni Paolo II lo ha definito: “il padre comune dell’Europa cristiana… Un uomo incomparabile, di cui un po’ tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli”. Anche gli ultimi Papi lo hanno sempre posto tra i “sommi maestri” della Chiesa. Agostino è sì un padre e un dottore della Chiesa, ma la sua influenza va al di là della sfera semplicemente ecclesiale. È su tutta la cultura occidentale che Agostino ha esercitato una influenza profonda, duratura e continua. Un parere autorevole del filosofo Karl Jaspers: “Agostino è la figura più originale del pensiero cristiano e l’influenza esercitata sul pensiero occidentale è la più vasta di tutte”.
Ha vinto brillantemente il test del tempo. Perché? Perché ha saputo parlare all’uomo eterno che c’è in tutti noi, a tutte le sue componenti: è stato il contemporaneo di tutti. “Con una intensità riscontrabile in pochi casi, in Agostino la dimensione esistenziale e quella affettiva si intrecciano inestricabilmente con quella religiosa e con quella filosofica: fede e ragione, ricerca della verità e conquista di essa, invocazione e riflessione, lettura e dialogo, scrittura polemica e preghiera appassionata, amore e amicizia, spirito e carne si incontrano e si scontrano nella vita di Agostino, entrano in conflitto, si compenetrano, si attraggono, si respingono, fino a trovare una sintesi suprema nella pace interiore raggiunta… (M. Schoepflin).
Un lungo cammino di ricerca della verità
Questo autentico genio dell’umanità nacque nel 354 a Tagaste, nell’attuale Algeria del nord, da Monica, una donna cristiana e molto pia, e dal padre Patrizio, che non era né l’uno né l’altro.
Le grandi verità della fede cristiana fu solamente la madre Monica a instillarle in Agostino, e bisogna dire che erano così ben radicate che riemersero alla fine del lungo travaglio spirituale ed esistenziale, culminato nella conversione dell’anno 387 a Milano, quando ricevette il battesimo dalle mani del grande vescovo Ambrogio.
Alcune date principali della sua vita. Nel 371 faceva la prima tappa a Cartagine, con l’aiuto dell’amico Romaniano, per gli studi di retorica, mentre nello stesso anno cominciava a convivere con una donna (qualcuno dirà che è moderno anche in questo!). Non la sposerà mai, anche se gli darà un figlio, Adeodato. Nel 374 tornò a Tagaste come professore di retorica ma sua madre non lo accettò più in casa, per via della convivenza con la donna e anche perché nel frattempo aveva aderito all’eresia manichea. Nel 375 aprì una scuola di eloquenza a Cartagine. Aveva grandi speranze, ma non ebbe vita facile: gli allievi erano dei veri “eversores” oggi diremmo molto indisciplinati o, se preferite, “casinisti” (qualche professore di oggi dirà “niente di nuovo”).
Finalmente nel 383, il giovane Aurelio Agostino, cittadino romano di famiglia africana, fece il grande salto: Roma, la grande capitale, in cerca di un posto… fisso, come professore di retorica. Non ebbe molta fortuna: lavori saltuari, un po’ di precariato, e, anche qui, studenti non proprio modello (disciplinati sì un po’ di più, ma non pagavano). Oltre queste difficoltà dovette affrontare anche una grave malattia.
Intanto continuava a frequentare i manichei. Poi, nel 384, la svolta decisiva: è inviato dal prefetto di Roma, Simmaco, a Milano come professore di eloquenza. Qui lo raggiunse anche la madre Monica, che non lo perdeva mai di vista, ed ebbe la fortuna di conoscere, in un incontro provvidenziale e decisivo, il grande vescovo della città: Ambrogio.
L’anno 386 è quello decisivo, con le importanti letture dei filosofi platonici e delle lettere di San Paolo che saranno la scintilla ultima della conversione.
Un giorno mentre era nel giardino… sentì la voce di un bambino che gli ripeteva: “Tolle, lege, tolle, lege”. Prendi il libro e leggi. Aprì San Paolo dove dice: “Comportiamoci onestamente… non nelle ubriachezze e nell’impurità… Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…” (Rm 13,13).
Agostino venne come folgorato da quella Parola, come San Paolo sulla via di Damasco. Aveva trovato o forse meglio ri-trovato (e questa volta accettato pienamente) Gesù Cristo come il proprio Maestro, guida, mediatore, Redentore, Salvatore, Vita e… amico.
Per Agostino questa era la verità, la Verità ultima, e per lui Cristo solo era l’unica Via per arrivare a Dio (che è il sospiro e il desiderio finale di ogni cuore umano: “Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”).
Era diventato di nuovo, dopo la lunga ricerca della verità, cristiano cattolico. Era la vittoria della grazia di Dio, delle incessanti preghiere e delle molte lacrime della madre Monica. Ha scritto il padre Agostino Trapè, studioso di Agostino: “Il punto centrale, il più importante e il più illuminante, della vita di Agostino è la sua conversione; da essa dipende tutto il resto della vita, dipende perfino il taglio del suo pensiero.
Quella sua implacabile insistenza contro lo scetticismo, il materialismo, il razionalismo, quel ritorno così frequente sui temi di ragione e fede, Dio e l’uomo, libertà e grazia, Cristo e Chiesa, carità e vita spirituale sono frutto della conversione, dove questi grandi temi erano stati presenti e avevano trovato una soluzione embrionale nell’atto di fede. Studiare pertanto la conversione di Agostino significa studiare il lungo, tortuoso, doloroso cammino di un grande pensatore che fa e disfà i suoi pensieri finché non ha trovato ciò che cercava. Le forze che lo sospingevano erano due: l’amore per la verità e la verità dell’amore o, più brevemente, l’amore per la verità amata e cercata con tutta l’anima” (Il Maestro Interiore, pag. 17).
Grande vescovo e grande scrittore
Questa conversione portò una cesura totale con la vita precedente. Addio alla carriera di professore, addio alle prospettive di matrimonio (la donna che gli era stata sempre vicino tornò in Africa). Lasciò Milano per tornare in Africa. Ad Ostia, Agostino e Monica ebbero un’estasi, forse una visione del Paradiso.
La madre morì prima di imbarcarsi.
Tornato a Tagaste, vendette parte dei suoi beni dando il ricavato ai poveri, e si ritirò col figlio Adeodato e alcuni amici a vita monastica. Nel 391 fu ordinato sacerdote, e poi nel 396 vescovo di Ippona. Incominciava così una prodigiosa attività pastorale (in difesa della fede cattolica contro le varie eresie) e di scrittore infaticabile (ricordiamo i numerosissimi Sermoni, Sulla Trinità, Il Maestro, i Soliloqui, La Città di Dio, le celeberrime Confessioni, e numerose altre opere).
L’attualità di Agostino è indiscutibile. Parla all’uomo d’oggi e si fa ascoltare. Con la sua profondissima intelligenza ha gettato fasci di luce ancora oggi positiva su coppie di termini apparentemente opposti.
Il primo: rapporto tra ragione e fede. Agostino esalta i due primati, l’uomo ha bisogno di queste due ali se vuole andare lontano. Nella filosofia recente si è proclamato la Morte di Dio… in nome dell’uomo. Per Agostino bisogna scegliere tutte e due, non c’è alcuna dicotomia. Anzi in Dio l’uomo riconosce la verità più profonda di se stesso (“Ci hai fatti per Te”). Per Agostino l’uomo profondo non solo è capace di Dio ma è anche bisognoso di Lui. Nei decenni passati era in voga lo slogan: “Cristo sì, Chiesa no”. Niente di nuovo: anche Agostino l’aveva proclamato e vissuto secoli prima. Ma poi si era accorto che non si potevano scindere le due realtà, assolutamente legate, come il capo è legato al resto del corpo. Sul binomio libertà e grazia Agostino afferma che la prima è indice della grandezza dell’uomo, in quanto capace di autodeterminazione, la seconda gli ricorda la sua fragilità (il peccato) e il bisogno di Dio per la propria salvezza.
L’ultimo binomio, di attualità bruciante: scegliere tra amore privato e amore pubblico. Oggi la nostra cultura propende e raccomanda in mille modi il proprio interesse, il proprio tornaconto, i propri diritti, molto spesso il tutto visto in modo egoistico a scapito del bene comune, dei diritti degli altri, dell’interesse pubblico. Agostino ha scritto che ci sono due amori che sono alla base di due città (che necessariamente convivono).
Scrive: “Due amori hanno dunque fondato due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha generato la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha generato la città celeste… Due amori… uno sociale e l’altro privato, uno sollecito nel servire all’utilità comune in vista della città superna, e l’altro pronto a subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di un’arrogante dominazione… uno che vuole al prossimo ciò che vuole a se stesso, e l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso, uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo e l’altro che governa per la propria utilità…”.
Due amori e due forme di mentalità e di comportamento che sperimentiamo ogni giorno in noi stessi e attorno a noi.
E gran parte del male che si verifica nelle nostre società è prodotto dalla preponderanza di questo amore privato che vuole schiacciare tutto il resto. Esaltazione del proprio io a scapito di Dio e della sua legge che ci dice di rispettare (e amare) il prossimo almeno come noi stessi.
È questa, penso, la lezione sempre attuale che Agostino lascia all’uomo moderno o post moderno, troppo ripiegato su se stesso, super esperto e pronto a difendere i propri interessi e i diritti (dimenticando i doveri verso se stesso e gli altri).
Ecco il messaggio attualissimo: “Ciascuno è tale quale l’amore che ha. Ami la terra? Sarai terra”. Essere “terra” significa coltivare l’amore egoistico di se stessi. L’invito di Agostino è di amare Dio, perché così si ameranno anche gli altri e si costruirà la città di Dio, dove tutti sono amati e rispettati.

MARIO SCUDU SDB

 

SAN GIOVANNI DAMASCENO: LA TEOLOGIA VIVIFICATA DALL’AMORE – 4 DICEMBRE

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SAN GIOVANNI DAMASCENO: LA TEOLOGIA VIVIFICATA DALL’AMORE – 4 DICEMBRE

Pubblicato 2010/11/05

Autore: Don Juan Carlos Casté, EP

Situata ai piedi del monte Hermon, ai margini del deserto della Siria, Damasco è considerata da molti studiosi come la più antica città del mondo abitata senza interruzione.
Teologo,spiritualista, oratore e, soprattutto, santo.Questo è il profilo di San Giovanni Damasceno, le cui opere fecero sentire la freschezza della dottrina patristica orientale.
Situata ai piedi del monte Hermon, ai margini del deserto della Siria, Damasco è considerata da molti studiosi come la più antica città del mondo abitata senza interruzione.
Di origine immemorabile, la sua storia è piena di vicissitudini. Tredici secoli prima di Cristo, la regione fu campo di battaglia tra ittiti ed egizi. Duecento anni dopo, gli aramei la resero un’importante città che il Re Davide sottomise, imponendole un tributo (cfr. II Sm 8, 5-6). Nel IV secolo, se ne impossessò Alessandro Magno e, dopo la sua morte, fu ostinato terrreno di contesa tra l’Impero Seleucide e il Tolemaico, fino a cadere alla fine, nell’anno 64 a.C., in mani romane.
All’epoca del Signore Gesù, Damasco faceva parte della Decapoli, e poco dopo la Resurrezione del Divino Maestro, già vi troviamo un gruppo di cristiani, la cui fede motiva il viaggio di Saulo di Tarso con lo scopo di perseguitarli. È in questa città leggendaria, crogiolo di razze e culture, che venne al mondo l’ultimo dei Padri della Chiesa orientale: San Giovanni Damasceno.
Pietà, bellezza e la più pura ortodossia
Di famiglia araba, ma cristiana di religione e socialmente abbiente, Giovanni nacque intorno all’anno 675, quando Damasco già si trovava sotto il dominio musulmano. A trent’anni abbandonò gli agi della casa paterna ed entrò nel Monastero di San Saba, situato nel deserto della Giudea, vicino a Gerusalemme. Poco dopo, fu ordinato sacerdote e scelto dal Patriarca Giovanni di Gerusalemme per predicare nell’Anastasis (luogo del sepolcro di Gesù) e in altri templi della Città Santa. In tal modo brillarono la sua eloquenza e la sua sicurezza dottrinale da essere soprannominato Chrysorrohas (fiume d’oro), nome dato alle acque che, provenienti dall’Antilibano, rendevano i dintorni di quella città una fertile oasi.
San Giovanni Damasceno riuscì a fare un’eccellente sintesi della dottrina patristica usando un’oratoria di grande bellezza. L’influenza del suo pensiero si estese dall’Oriente all’Occidente, dove le sue opere furono oggetto di studio da parte di San Tommaso e degli scolastici. Lottò specialmente contro gli errori degli iconoclasti, ma nelle sue omelie e scritti troviamo la confutazione di molte delle eresie che sconvolgevano le comunità cristiane dell’epoca.
Dopo aver raggiunto una veneranda anzianità – si calcola che sia morto a 74 anni – consegnò la sua anima a Dio nell’anno 749, probabilmente il 4 dicembre. Fu dichiarato dottore della Chiesa da Papa Leone XIII, il 19 agosto 1890.
Come già è stato indicato, il saper unire pietà, bellezza letteraria e la più pura ortodossia dottrinale fu uno dei grandi meriti di San Giovanni Damasceno. Egli riuscì, con una brillantezza veramente eccezionale, a coniugare il Verum, il Bonum e il Pulchrum (Verità, Bontà e Bellezza) in un linguaggio così accessibile da dilettare e allo stesso tempo insegnare le più elevate verità sul Signore Gesù e sua Madre Santissima.
L’opera di questo Padre della Chiesa è talmente vasta, i suoi scritti in tal grado magistrali nell’esposizione e ricchi di concetti teologici, cristologici, apologetici, pastorali e mariologici, che selezionare alcuni brani per illustrare questo articolo senza oltrepassare i suoi brevi limiti, diventa un’ardua sfida.

Solida dottrina cristologica
Avvalendosi di una terminologia perfetta dal punto di vista teologico, San Giovanni Damasceno esalta nelle sue omelie i misteri del Signore e confuta gli errori cristologici correnti ai suoi tempi. Affermando la piena unione del Verbo Incarnato con Dio Padre e Dio Spirito Santo, squalifica il monofisismo, che vuol vedere la natura umana di Cristo assorbita dalla divinità; il nestorianismo, che considera Nostro Signore come una persona umana nella quale il Verbo avrebbe stabilito la sua dimora come in un tempio o magione, senza assumere di fatto la natura dell’uomo; o il monotelismo che nega l’esistenza della volontà umana in Lui.

San Giovanni Damasceno riuscì a fare un’ecc-ellente sintesi della dottrina patristica usando
un’oratoria di grande bellezza
Così, per esempio, nella sua omelia sulla Trasfigurazione del Signore, echeggiano gli insegnamenti antimonofisiti del Concilio di Calcedonia, realizzato nel 451: « Come è possibile che cose incomunicabili si mescolino e permangano senza confondersi? Come possono unirsi alcuni elementi inconciliabili, senza perdere le caratteristiche proprie della natura? Precisamente questo è ciò che si effettua nell’unione ipostatica, in modo tale che gli elementi che si uniscono formano un solo essere e una sola persona, conservando però l’unità personale e la duplicità delle nature, in una diversità indivisibile e in un’unione senza confusione, che si realizza mediante l’incarnazione del Verbo immutabile e l’incomprensibile e definitiva divinizzazione della carne mortale. Come conseguenza di questa permuta, di questa reciproca comunicazione senza confusione e della perfetta unione ipostatica, gli attributi umani vengono ad appartenere a Dio e i divini arrivano ad appartenere a un uomo. Uno solo è, infatti, colui che, essendo Dio da sempre, dopo Si fa uomo ».1
Con pari fede e profondità teologica, il santo di Damasco non teme di trattare un tema poco sviluppato da teologi più recenti: che cosa è accaduto all’anima di Cristo dopo la sua morte? La divinità si è separata dall’anima umana e dal corpo del Signore?
Egli spiega: « Nonostante l’anima santa e divina si sia separata dal corpo incontaminato e vivificante, la divinità del Verbo non si è separata da nessuno di questi due elementi, ossia, né dal corpo né dall’anima, per effetto dell’indivisa unione ipostatica delle due nature, che si è realizzata nella concezione effettuata nel seno della santa Vergine Maria, Madre di Dio. Così risulta che, anche producendosi la morte, continua ad esserci in Cristo una sola persona, che è il Verbo divino, e dopo la morte del Signore, in questa persona continuano a sussistere l’anima e il corpo ».2

Omelie sulla Madonna
Non sono meno belle ed eccelse le omelie di Damasceno sulla Madonna. Esse ci mostrano come la devozione alla Santissima Vergine venga dai primi tempi del Cristianesimo, come l’amore a Lei fosse molto patente già all’epoca di Sant’Ignazio di Antiochia (discepolo dell’Apostolo Giovanni), di San Giustino, martire (morto nell’anno 165) e di Sant’Ireneo (morto nel 202).
In queste omelie si trovano in germe gli elementi dottrinali che, secoli dopo, hanno facilitato la proclamazione di diversi dogmi mariani, come quello dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione della Vergine Maria in corpo e anima al Cielo.
Occorre evidenziare in loro, oltre la profondità teologica, l’entusiasmo e l’amore dell’autore alla Santissima Vergine. « La raison parle, mais l’amour chante » (la ragione parla, ma l’amore canta), ha scritto il romanziere Alfred de Vigny. In San Giovanni Damasceno, la ragione disserta e l’amore canta, quando tratta di Colei che è stata ritenuta degna di esser la Madre del Redentore.
Ecco come egli intona lodi alla verginità perpetua di Maria: « Oh Gioacchino ed Anna, coppia beata e veramente irreprensibile! Voi avete condotto una vita gradita a Dio e degna di Colei di cui siete diventati genitori. Avendo vissuto con purezza e santità, avete generato il gioiello della verginità, ossia, Colei che è stata vergine prima del parto, vergine nel parto e vergine dopo il parto. Colei che è la Vergine per eccellenza, vergine per sempre, vergine perpetua nello spirito, nell’anima e nel corpo ».3
E con quanta bellezza letteraria, servendosi di figure tratte dall’Antico Testamento, ci descrive Maria Madre di Dio: « O Vergine, chiaramente prefigurata nel rovo, nelle tavole scritte da Dio, nell’arca della legge, nel vaso d’oro, nel candelabro, nella mensa e nella bacchetta d’Aronne fiorita. Da Te, infatti, procede il richiamo della divinità, il Verbo e la manifestazione del Padre, la manna soavissima e celeste, il nome ineffabile che sta al di sopra di ogni nome, la luce eterna e inaccessibile, il celeste pane di vita. Da Te è sbocciato corporalmente quel frutto che non è risultato dal lavoro di nessun coltivatore ».4
Questa capacità di unire dottrina, poesia e fervore, è esempio tipico di quanto Urs Von Balthasar chiama « teologia in ginocchio », in opposizione alla « teologia in ufficio », così abituale al giorno d’oggi.5

Preannunciatore del dogma dell’Assunzione
San Giovanni Damasceno condivide un’opinione generalizzata tra i Santi Padri, che vi è una stretta relazione tra la verginità perpetua di Maria e l’incorruttibilità del suo corpo verginale dopo la morte. Al punto che, in passi come quelli menzionati di seguito, egli preannuncia il dogma dell’Assunzione di Maria al Cielo, in corpo e anima.
« Conveniva che colei che nel parto aveva mantenuto illibata verginità, conservasse il corpo incorrotto anche dopo la morte. Conveniva che colei che aveva portato in seno il Creatore Incarnato, abitasse tra i divini tabernacoli. [...] Conveniva che la Madre di Dio possedesse ciò che era del Figlio, e che fosse venerata da tutte le creature come Madre e Serva dello stesso Dio ».6
Questo passaggio del Damasceno fu riprodotto letteralmente da Pio XII quando ha definito il Dogma dell’Assunzione, nella Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus. In essa, il Papa elogia anche la « veemente eloquenza » di questo santo « che tra tutti si distingue come banditore di questa tradizione ».7

« San Tommaso dell’Oriente »
San Giovanni Damasceno riferendosi a se stesso diceva di non possedere nulla di originale, bensì compilava soltanto passi di scrittori antichi. Intanto, la luce del suo pensiero ha attraversato i secoli e illumina ancor oggi gli orizzonti degli studi teologici.
Lo stesso Papa Benedetto XVI, assumendolo come tema dell’Udienza Generale del 6 maggio 2009, pone in evidenza l’originalità della sua argomentazione in difesa del culto delle immagini e delle reliquie dei santi e lo qualifica come una « personalità di primo piano nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale ».
San Giovanni Damasceno è stato opportunamente soprannominato « il San Tommaso d’Oriente ». Felice equiparazione perché questi due luminari della Chiesa si assomigliano ad un livello molto superiore: entrambi rifulgono per la santità di vita tanto o più che per la scienza. Di loro si può ben dire: « Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita attraverso la ragione, si dilata. La verità è ricercata con umiltà, accolta con trasporto e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solamente quando si ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia diventa autentica saggezza del cuore, che orienta e sostenta la fede e la vita dei fedeli ».8

1 SAN JUAN DAMASCENO. Homilía sobre la Transfiguración. In: PONS, Guillermo (Intr. e notas). Homilías Cristológicas y Marianas. Madrid: Ciudad Nueva, 1996, pag.24.
2 SAN JUAN DAMASCENO. Homilía sobre el Sábado Santo. In: Op. cit., pag.103.
3 SAN JUAN DAMASCENO. Homilía sobre la Natividad. In: Op. cit., pag.125.
4 SAN JUAN DAMASCENO. Homilía sobre la Dormición de María. In: Op. cit., pag.154.
5 Cf. BENEDETTO XVI. Discorso ai monaci riuniti nell’abbazia di Heiligenkreuz, 9/9/2007.
6 Idem, ibidem.
7 Cf. Munificentissimus Deus, 1/11/1950.
8 Udienza Generale del 28/10/2009.
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In verità, possiamo designare col nome di morte il mistero che si è realizzato in te, o Maria? [...] Una volta che, diventata Madre, la tua verginità è rimasta intatta, il tuo corpo è stato preservato dalla decomposizione emigrando da questo mondo, venendo trasformato in un tabernacolo più illustre ed eccelso, non più soggetto alla morte, ma destinato a perdurare nei secoli. [...] Non chiameremo morte il tuo sacro transito, ma dormizione o emigrazione e, con maggior proprietà ancora, lo designeremo come permanenza nella patria, poiché, lasciando questo mondo, hai ottenuto una dimora molto più eccellente.
Gli angeli e arcangeli ti hanno traslato. Davanti al tuo transito, gli spiriti immondi che volano nel cielo, hanno tremato di paura. Al tuo passaggio, l’aria è stata benedetta e l’etere santificato. Il Cielo, con piacere, riceve la tua anima [...]
Non sei salita in Paradiso alla maniera di Elia, né sei stata come San Paolo trasportata al terzo Cielo, ma sei giunta fino al trono reale di tuo Figlio, che contempli coi tuoi stessi occhi e con Lui abiti in un clima di grande felicità e confidenza.
(SAN JUAN DAMASCENO. Homilía sobre la Dormición de María)

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA, IL PREDICATORE « DI FUOCO » CHE SCALDA GLI ANIMI DEI CRISTIANI D’OGNI TEMPO

http://www.zenit.org/it/articles/sant-ignazio-d-antiochia-il-predicatore-di-fuoco-che-scalda-gli-animi-dei-cristiani-d-ogni-tempo–2

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA, IL PREDICATORE « DI FUOCO » CHE SCALDA GLI ANIMI DEI CRISTIANI D’OGNI TEMPO

- Prima parte, se volete leggere la seconda parte:
http://www.zenit.org/it/articles/sant-ignazio-d-antiochia-il-predicatore-di-fuoco-che-scalda-gli-animi-dei-cristiani-d-ogni-tempo–2 -

Il prossimo 17 ottobre ricorre la sua festa liturgica. ZENIT propone un breve approfondimento sull’importanza storica di Antiochia, sulla vita di Ignazio e sull’attualità delle sue lettere

Roma, 15 Ottobre 2013 (Zenit.org) Federico Cenci

Antakia è oggi una città della Turchia di circa 200mila abitanti situata al confine con la Siria. In Europa, nessuno o quasi ne conosce l’esistenza. Si ignora che questo anonimo centro meridionale della Turchia sia stato, nell’antichità, con il suo mezzo milione d’abitanti, tra le tre più grandi metropoli (insieme a Roma e ad Alessandria d’Egitto) del mondo allora conosciuto. Si ignora, soprattutto, che sino al terremoto del 525 che la distrusse completamente, la vecchia Antiochia costituisse un ricco propulsore commerciale e culturale. Gli storici non esitano, pertanto, a considerarla uno dei pilastri del mondo antico.
Un pilastro che è stato determinante nell’edificazione della storia del Cristianesimo e dunque della civiltà umana tutta. Il contributo che Antiochia ha dato dal punto di vista del vocabolario storico-religioso non ha pari, giacché è qui che, per la prima volta, fu utilizzato il termine cristiani per definire i discepoli di Cristo. Ne danno testimonianza gli Atti degli Apostoli: «…ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (11-26).
Antiochia assume poi un’importanza pionieristica anche in altri sensi. È qui che si sviluppò, infatti, il più grande centro di irradiazione missionaria da parte dei cristiani delle origini. Senza Antiochia, ubicata in una posizione di ponte tra la Terra Santa e l’Europa, il messaggio evangelico non si sarebbe mai diffuso nel mondo pagano: «… alcuni fra loro, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai greci» (Atti 11,20). È da Antiochia che molti missionari partirono per fondare nuove chiese nelle regioni vicine.
Con ogni probabilità, Antiochia è inoltre la città che ospitò San Matteo quando scrisse il suo Vangelo, caratterizzato dalla testimonianza della preghiera Pater, dal racconto dei Magi e della stella, dal discorso della montagna con le otto beatitudini e dalla formula trinitaria del battesimo, con la quale accompagniamo il segno della croce.
Altro elemento che dimostra lo stretto legame esistente tra Antiochia e la storia del Cristianesimo è il fatto che il primo capo della comunità cristiana di Antiochia sia stato un certo Pietro: il primo a sedere sulla famosa Cattedra che ne prende il nome, il primo a venire considerato Papa della Chiesa cattolica. A San Pietro succedette, già con la denominazione di vescovo di Antiochia, Ignazio, annoverato tra i Padri della Chiesa.
Figura, quest’ultima, che assume per il Cristianesimo un connotato importante tanto quanto lo è la città di cui è stato vescovo. Dalle poche informazioni che si hanno oggi a disposizione, non risulta che Ignazio fosse un cittadino romano, sembra altresì si sia convertito al Verbo di Cristo in età adulta. Riusciva ad esercitare un forte ascendente sulla comunità, caratteristica che spinge molti a supporre che ricoprisse, prima di essere investito della carica di vescovo, un ruolo politico ad Antiochia. Stando a quanto riferivano i suoi discepoli, con Ignazio siamo di fronte a un’espressione concreta della locuzione latina nomen omen. Tale era infatti la passione che Ignazio sprigionava durante le sue prediche, da far dire di lui che fosse “di fuoco” così come indica il suo nome, dato che ignis in latino vuol dire fuoco. Benedetto XVI ebbe a dire al riguardo: «Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l’intensità di Ignazio l’anelito all’unione con Cristo e alla vita in Lui».
Uomo di grande influenza anche al di fuori dei confini della sua Antiochia, questo predicatore “di fuoco” attirò presto le attenzioni dell’imperatore romano Traiano, il quale dette inizio alla sua persecuzione. Arrestato e condannato ad bestias, Ignazio fu condotto in catene sino a Roma attraverso un lungo e straziante viaggio. Giunto nell’Urbe nell’anno 107, venne sottoposto a un crudele martirio all’interno del Colosseo: sbranato e divorato dalle belve nell’ambito degli spettacoli in onore delle vittorie romane in Dacia.
Fu durante il viaggio che lo condusse da Antiochia a Roma che Ignazio scrisse sette lettere indirizzate a diverse comunità (Efesini, Magnesii, Tralliani, Romani, Filadelfii, Smirnei) e a San Policarpo, vescovo della chiesa di Smirne. Si tratta di uno dei primi esempi di comunicazione sociale cristiana. Le sue lettere trasudano di un caldo amore per Cristo e per la Chiesa, oltre che di un vigoroso zelo apostolico. Malgrado risalgano a un tempo lontano dal nostro, durante il quale le condizioni della Chiesa e la vita dei cristiani erano molto diverse da quelle che conosciamo oggi, specialmente in Occidente, le sette lettere di Sant’Ignazio riescono a veicolare un messaggio che appare assolutamente attuale.

BENEDETTO XVI – SAN GIROLAMO – II (2007): LA DOTTRINA – 30 settembre

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20071114_it.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 14 novembre 2007

SAN GIROLAMO – II: LA DOTTRINA

Cari fratelli e sorelle,

continuiamo oggi la presentazione della figura di san Girolamo. Come abbiamo detto mercoledì scorso (1 link), egli dedicò la sua vita allo studio della Bibbia, tanto che fu riconosciuto da un mio Predecessore, il Papa Benedetto XV, come «dottore eminente nell’interpretazione delle Sacre Scritture». Girolamo sottolineava la gioia e l’importanza di familiarizzarsi con i testi biblici: «Non ti sembra di abitare – già qui, sulla terra – nel regno dei cieli, quando si vive fra questi testi, quando li si medita, quando non si conosce e non si cerca nient’altro?» (Ep. 53,10). In realtà, dialogare con Dio, con la sua Parola, è in un certo senso presenza del cielo, cioè presenza di Dio. Accostare i testi biblici, soprattutto il Nuovo Testamento, è essenziale per il credente, perché «ignorare la Scrittura è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). E’ sua questa celebre frase, citata anche dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Dei Verbum (n. 25).
Veramente «innamorato» della Parola di Dio, egli si domandava: «Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?» (Ep. 30,7). La Bibbia, strumento «con cui ogni giorno Dio parla ai fedeli» (Ep. 133,13), diventa così stimolo e sorgente della vita cristiana per tutte le situazioni e per ogni persona. Leggere la Scrittura è conversare con Dio: «Se preghi – egli scrive a una nobile giovinetta di Roma –, tu parli con lo Sposo; se leggi, è Lui che ti parla» (Ep. 22,25). Lo studio e la meditazione della Scrittura rendono l’uomo saggio e sereno (cfr Commento alla Lettera agli Efesini, prol.). Certo, per penetrare sempre più profondamente la Parola di Dio è necessaria un’applicazione costante e progressiva. Così Girolamo raccomandava al sacerdote Nepoziano: «Leggi con molta frequenza le divine Scritture; anzi, che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare» (Ep. 52,7). Alla matrona romana Leta dava questi consigli per l’educazione cristiana della figlia: «Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura … Alla preghiera faccia seguire la lettura, e alla lettura la preghiera … Che invece dei gioielli e dei vestiti di seta, essa ami i Libri divini» (Ep. 107,9.12). Con la meditazione e la scienza delle Scritture si «mantiene l’equilibrio dell’anima» (Commento alla Lettera agli Efesini, prol.). Solo un profondo spirito di preghiera e l’aiuto dello Spirito Santo possono introdurci alla comprensione della Bibbia: «Nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo» (Commento a Michea 1,1,10,15).
Un appassionato amore per le Scritture pervase dunque tutta la vita di Girolamo, un amore che egli cercò sempre di destare anche nei fedeli. Raccomandava ad una sua figlia spirituale: «Ama la Sacra Scrittura e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini» (Ep. 130,20). E ancora: «Ama la scienza della Scrittura, e non amerai i vizi della carne» (Ep. 125,11).
Per Girolamo un fondamentale criterio di metodo nell’interpretazione delle Scritture era la sintonia con il Magistero della Chiesa. Non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore. La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il «noi» nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire. Per il grande esegeta un’autentica interpretazione della Bibbia doveva essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Non si tratta di un’esigenza imposta a questo Libro dall’esterno; il Libro è proprio la voce del Popolo di Dio pellegrinante, e solo nella fede di questo Popolo siamo, per così dire, nella tonalità giusta per capire la Sacra Scrittura. Perciò Girolamo ammoniva un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono» (Ep. 52,7). In particolare, dato che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa su Pietro, ogni cristiano – egli concludeva – deve essere in comunione «con la Cattedra di san Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa» (Ep. 15,2). Conseguentemente, senza mezzi termini, dichiarava: «Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di san Pietro» (Ep. 16).
Girolamo ovviamente non trascura l’aspetto etico. Spesso, anzi, egli richiama il dovere di accordare la vita con la Parola divina: solo vivendola troviamo anche la capacità di capirla. Tale coerenza è indispensabile per ogni cristiano e particolarmente per il predicatore, affinché le sue azioni, quando fossero discordanti rispetto ai discorsi, non lo mettano in imbarazzo. Così esorta il sacerdote Nepoziano: «Le tue azioni non smentiscano le tue parole, perché non succeda che, quando tu predichi in chiesa, qualcuno nel suo intimo commenti: “Perché dunque proprio tu non agisci così?”. Carino davvero quel maestro che, a pancia piena, disquisisce sul digiuno; anche un ladro può biasimare l’avarizia; ma nel sacerdote di Cristo la mente e la parola si devono accordare» (Ep. 52,7). In un’altra lettera Girolamo ribadisce: «Anche se possiede una dottrina splendida, resta svergognata quella persona che si sente condannare dalla propria coscienza» (Ep. 127,4). Sempre in tema di coerenza, egli osserva: il Vangelo deve tradursi in atteggiamenti di vera carità, perché in ogni essere umano è presente la Persona stessa di Cristo. Rivolgendosi, ad esempio, al presbitero Paolino (che divenne poi Vescovo di Nola e Santo), Girolamo così lo consiglia: «Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?» (Ep. 58,7). Girolamo concretizza: bisogna «vestire Cristo nei poveri, visitarlo nei sofferenti, nutrirlo negli affamati, alloggiarlo nei senza tetto» (Ep. 130,14). L’amore per Cristo, alimentato con lo studio e la meditazione, ci fa superare ogni difficoltà: «Amiamo anche noi Gesù Cristo, ricerchiamo sempre l’unione con Lui: allora ci sembrerà facile anche ciò che è difficile» (Ep. 22,40).

Girolamo, definito da Prospero di Aquitania «modello di condotta e maestro del genere umano» (Poesia sugli ingrati 57), ci ha lasciato anche un insegnamento ricco e vario sull’ascetismo cristiano. Egli ricorda che un coraggioso impegno verso la perfezione richiede una costante vigilanza, frequenti mortificazioni, anche se con moderazione e prudenza, un assiduo lavoro intellettuale o manuale per evitare l’ozio (cfr Epp. 125,11 e 130,15) e soprattutto l’obbedienza a Dio: «Nulla … piace tanto a Dio quanto l’obbedienza…, che è la più eccelsa e l’unica virtù» (Omelia sull’obbedienza). Nel cammino ascetico può rientrare anche la pratica dei pellegrinaggi. In particolare, Girolamo diede impulso a quelli in Terra Santa, dove i pellegrini venivano accolti e ospitati negli edifici sorti accanto al monastero di Betlemme, grazie alla generosità della nobildonna Paola, figlia spirituale di Girolamo (cfr Ep. 108,14).
Non può essere taciuto, infine, l’apporto dato da Girolamo in materia di pedagogia cristiana (cfr Epp. 107 e 128). Egli si propone di formare «un’anima che deve diventare il tempio del Signore» (Ep. 107,4), una «preziosissima gemma» agli occhi di Dio (Ep. 107,13). Con profondo intuito egli consiglia di preservarla dal male e dalle occasioni peccaminose, di escludere amicizie equivoche o dissipanti (cfr Ep. 107,4 e 8-9; cfr anche Ep. 128,3-4). Soprattutto esorta i genitori perché creino un ambiente di serenità e di gioia intorno ai figli, li stimolino allo studio e al lavoro, anche con la lode e l’emulazione (cfr Epp. 107,4 e 128,1), li incoraggino a superare le difficoltà, favoriscano in loro le buone abitudini e li preservino dal prenderne di cattive, perché – e qui cita una frase di Publilio Siro sentita a scuola – «a stento riuscirai a correggerti di quelle cose a cui ti vai tranquillamente abituando» (Ep. 107,8). I genitori sono i principali educatori dei figli, i primi maestri di vita. Con molta chiarezza Girolamo, rivolgendosi alla madre di una ragazza ed accennando poi al padre, ammonisce, quasi esprimendo un’esigenza fondamentale di ogni creatura umana che si affaccia all’esistenza: «Essa trovi in te la sua maestra, e a te guardi con meraviglia la sua inesperta fanciullezza. Né in te, né in suo padre veda mai atteggiamenti che la portino al peccato, qualora siano imitati. Ricordatevi che… potete educarla più con l’esempio che con la parola» (Ep. 107,9). Tra le principali intuizioni di Girolamo come pedagogo si devono sottolineare l’importanza attribuita a una sana e integrale educazione fin dalla prima infanzia, la peculiare responsabilità riconosciuta ai genitori, l’urgenza di una seria formazione morale e religiosa, l’esigenza dello studio per una più completa formazione umana. Inoltre un aspetto abbastanza disatteso nei tempi antichi, ma ritenuto vitale dal nostro autore, è la promozione della donna, a cui riconosce il diritto ad una formazione completa: umana, scolastica, religiosa, professionale. E vediamo proprio oggi come l’educazione della personalità nella sua integralità, l’educazione alla responsabilità davanti a Dio e davanti all’uomo, sia la vera condizione di ogni progresso, di ogni pace, di ogni riconciliazione e di ogni esclusione della violenza. Educazione davanti a Dio e davanti all’uomo: è la Sacra Scrittura che ci offre la guida dell’educazione, e così del vero umanesimo.
Non possiamo concludere queste rapide annotazioni sul grande Padre della Chiesa senza far cenno all’efficace contributo da lui recato alla salvaguardia degli elementi positivi e validi delle antiche culture ebraica, greca e romana nella nascente civiltà cristiana. Girolamo ha riconosciuto ed assimilato i valori artistici, la ricchezza di pensiero e l’armonia delle immagini presenti nei classici, che educano il cuore e la fantasia a nobili sentimenti. Soprattutto, egli ha posto al centro della sua vita e della sua attività la Parola di Dio, che indica all’uomo i sentieri della vita, e gli rivela i segreti della santità. Di tutto questo non possiamo che essergli profondamente grati, proprio nel nostro oggi.

1. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20071107_it.html

E’ IN VIRTÙ DELLA CROCE CHE SI RICONOSCONO I CREDENTI DAGLI INCREDULI – GIOVANNI DAMASCENO,

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-03/16-2/LaCroceneiPadridellaChiesa.rtf.html

E’ IN VIRTÙ DELLA CROCE CHE SI RICONOSCONO I CREDENTI DAGLI INCREDULI

GIOVANNI DAMASCENO, ESPOSIZIONE DELLA FEDE ORTODOSSA, 4, 11

Il linguaggio della croce è follia per quelli che si perdono; per noi che ci salviamo, invece, potenza di Dio (1 Cor. 1, 18). L’uomo spirituale, infatti, « giudica ogni cosa » (1 Cor. 2, 15), mentre quello animale non accetta le cose dello Spirito (1 Cor. 2, 14). Follia è, infatti, quella di coloro che si rifiutano di credere e di riflettere sulla bontà e l’onnipotenza di Dio, indagando sulle realtà divine con le loro categorie umane e naturali, senza rendersi conto che tutto ciò che riguarda la divinità trascende la natura, la razionalità e la conoscenza. Se ci si domanda, infatti, il come ed il perché Iddio abbia creato dal nulla tutte le cose, e si cerca di scoprirlo con le sole facoltà razionali che la natura ci mette a disposizione, non si approda a nulla, giacché una scienza come questa è terrestre e diabolica. Tutto è semplice e lineare invece, ed il cammino è spedito per chi, condotto per mano, per cosi dire, dalla fede, va alla ricerca del Dio buono, onnipotente, vero, sapiente e giusto. Senza la fede, infatti, nessuno può salvarsi (cf. Eb 11, 6): è in virtù della fede che
tutte le cose, sia le umane che le trascendenti, acquistano significato e valore. Senza l’intervento della fede il contadino non ara il suo campo, il mercante non mette a repentaglio la sua vita, su di una piccola nave, fra le onde tempestose del mare; senza fede non si contraggono matrimoni né si porta a termine alcun’altra attività della vita. È la fede a farci comprendere come tutto sia stato creato dal nulla grazie alla potenza divina. Con la fede intendiamo correttamente ogni cosa, umana o divina che sia. La fede, insomma, è il consenso formulato senza riserve.
Tutte le opere ed i miracoli compiuti dal Cristo, dunque, appaiono manifestazioni grandiose, divine, straordinarie; la più strepitosa di tutte, però, è la sua venerabile croce. t grazie a questa, infatti, e non ad altro, che la morte fu sconfitta, il peccato del progenitore ricevette la sua espiazione, l’inferno venne spogliato, fu elargita la risurrezione; è stata la croce a guadagnarci la forza di disprezzare i beni del mondo e persino la morte, a prepararci il ritorno all’antica beatitudine, a spalancarci le porte del cielo; soltanto la croce del Signore nostro Gesù Cristo, infine, ha elevato l’umanità alla destra di Dio, promuovendoci alla dignità di suoi figli ed eredi. Tutto questo ci ha procurato la croce! Tutti noi, infatti, ricorda l’Apostolo, che siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella sua morte (Rm. 6, 3). Tutti noi, battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal. 3,27). E Cristo, poi, è potenza e sapienza di Dio (1 Cor. 1, 24). Ecco, la morte di Cristo, cioè la croce, ci ha rivestito dell’autentica potenza e sapienza di Dio. La potenza di Dio, da parte sua, si manifesta nella croce, sia perché la forza divina, cioè la vittoria sulla morte, ci si è mostrata attraverso la croce; sia in quanto, allo stesso modo come i quattro bracci della croce si uniscono fra loro nel punto centrale, così pure, attraverso la potenza di Dio, si assimilano l’una con l’altra l’altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza: in altre parole, tutta la creazione, nella sua dimensione materiale come in quella invisibile.
La croce è stata impressa sulla nostra fronte come un segno, non diversamente dalla circoncisione per Israele. In virtù di questo segno, noi fedeli siamo riconosciuti e distinti dagli increduli. La croce è per noi lo scudo, la corazza ed il trofeo contro il demonio. È il sigillo grazie al quale l’angelo sterminatore ci risparmierà, come afferma la Scrittura (cf. Ebr. 11, 28). E lo strumento per risollevare coloro che giacciono, il puntello a cui si appoggia chi sta in piedi, il bastone degli infermi, la verga per condurre il gregge, la guida per quanti si volgono altrove, il progresso dei principianti, la salute dell’anima e del corpo, il rimedio di tutti i mali, la fonte d’ogni bene, la morte del peccato, la pianta della risurrezione, l’albero della vita eterna.
Questo legno davvero prezioso e degno di venerazione, perciò, sul quale Cristo si sacrificò per noi, deve giustamente divenire oggetto della nostra adorazione, giacché fu come santificato dal contatto con il santissimo corpo e sangue del Signore. Come pure si dovrà rivolgere la nostra devozione ai chiodi, alla lancia, agli indumenti ed ai santi luoghi nei quali il Signore si è trovato: la mangiatoia, la grotta, il Golgota che ci ha recato la salvezza, il sepolcro che ci ha donato la vita, Sion, roccaforte delle Chiese, e tutti gli altri… Se, infatti, ricordiamo con affetto, fra gli oggetti che son stati nominati, la casa ed il letto e la veste del Signore, quanto più dovranno esserci care, tra le cose di Dio e del Salvatore, quelle che ci hanno procurato anche la salvezza?
Adoriamo l’immagine stessa della preziosa e vivificante croce, di qualunque materia sia composta! Non intendiamo onorare, infatti. l’oggetto materiale (non sia mai!), bensì il significato ch’esso rappresenta, il simbolo, per così dire, di Cristo. Egli stesso, d’altronde, istruendo i suoi discepoli, ebbe a dire: Apparirà allora nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt. 24, 30), cioè la croce. Ed anche l’angelo che annunciò alle donne la risurrezione di Cristo disse: Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso (Mc. 16, 6). E l’Apostolo, da parte sua: Noi predichiamo, avverte, il Cristo crocifisso (1 Cor. 1, 23). Vi sono, infatti, molti Cristi e Gesù; uno solo, però, è il crocifisso. L’Apostolo, poi, non dice: « colui che è stato trafitto dalla lancia », bensì « il crocifisso ». Dobbiamo, perciò, adorare il simbolo del Cristo: ovunque, infatti, si troverà quel segno, lì sarà presente il Signore stesso. La materia di cui è composta l’immagine della croce, invece, anche se fosse d’oro o di pietre preziose, non è più degna di alcuna venerazione, una volta scomparsa, per qualsiasi motivo, la figura originaria. Tutti gli oggetti consacrati a Dio, perciò, noi li veneriamo in modo tale, da riferire alla persona divina il culto che osserviamo per essi.

 

DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/delaudibuscrisost.htm

DAL DE LAUDIBUS S. PAULI

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

Noi potremmo, se solo volessimo, vincere ogni resistenza della natura con la forza della volontà. Non c’è nulla di impossibile per gli uomini in ciò che Cristo ha ordinato; se infatti mettiamo tutto l’impegno di cui siamo capaci, anche Dio ci da insieme molto aiuto, e così diventeremo invincibili contro tutte le avversità. Non è degno di biasimo l’aver paura dei colpi, ma, per la paura di questi, sottostare a qualcosa di indegno del comportamento religioso, in modo che la paura dei colpi mostra colui che rimane invincibile nelle prove, più ammirevole di chi non ne ha paura. In questo modo rifulge maggiormente la volontà, perché aver paura dei colpi è proprio della natura, mentre non sottostare a nulla di sconveniente per paura di essi dipende dalla volontà che corregge la deficienza della natura e vince la sua debolezza. Nemmeno l’afflizione è motivo di accusa, ma, a causa dell’afflizione, dire o fare qualche cosa che non piace a Dio. Se io dicessi che Paolo non era un uomo, giustamente mi addurresti le deficienze della natura, per confutare così il mio discorso; ma se dico e sostengo che era un uomo, in niente superiore a noi riguardo alla natura, mentre divenne migliore riguardo alla volontà, invano, mi presenti queste obiezioni, anzi non invano, ma a favore di Paolo. Infatti in virtù di esse dimostri quanto grande egli fosse, perché pur trovandosi in una natura siffatta, fu più forte di essa. Non solo lo esalti, ma chiudi anche la bocca a quelli che si sono perduti d’animo, non consentendo ad essi di rifugiarsi nella superiorità della sua natura, ma spingendoli invece all’impegno proveniente dalla volontà.
Ma, si potrebbe dire, non ebbe paura qualche volta anche della morte? Anche questo atteggiamento è naturale. Tuttavia egli stesso che temeva la morte diceva a sua volta: In realtà quanti siamo in questa tenda[1], sospiriamo come sotto un peso[2], e di nuovo: Anche noi gemiamo interiormente[3]. Vedi come ha presentato la forza proveniente dalla volontà quale contrappeso della debolezza della natura? Infatti anche molti martiri spesso, nell’essere condotti al supplizio, impallidirono e furono pieni di paura e di angoscia; però proprio per questo sono soprattutto degni di ammirazione, perché, pur avendo timore della morte, non l’hanno fuggita a causa di Gesù. Così anche Paolo, pur temendo la morte, non rifiuta neppure la geenna per amore di Gesù[4], e, pur trepidando al pensiero della propria fine, desidera essere sciolto dal corpo[5]. Non era solo lui a provare ciò, ma anche il capo degli apostoli, pur avendo spesso detto di essere pronto a dare la vita[6], temeva assai la morte. Ascolta che cosa gli dice Cristo parlandogli in merito: Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi[7], fa riferimento alla deficienza della natura, non della volontà.
La natura mostra le sue proprietà anche contro noi, e non è possibile superare tali deficienze, neppure se si vuole e ci si impegna intensamente; pertanto da questo lato non siamo danneggiati, anzi siamo ammirati maggiormente. Che capo d’accusa è infatti aver paura della morte? Quale motivo di elogio non è invece, pur avendo paura della morte, non sottostare ad alcun atteggiamento meschino a causa di questa paura? Non è motivo d’accusa avere una natura con delle deficienze, bensì essere schiavi di queste; sicché chi resiste all’assalto che proviene da essa con il coraggio della volontà, è grande e ammirevole. Così mostra quanto grande sia la forza della volontà e tappa la bocca a quanti dicono: «Perché non siamo divenuti buoni per natura?». Che differenza c’è che questo si verifichi per natura o per volontà? Quanto è migliore questa condizione di quella? Per il fatto di procurare corone e una splendida rinomanza.
Ciò che è proprio della natura non è forse saldo? Ma se vuoi avere una forte volontà, questa condizione è più solida della prima. Non vedi che il corpo dei martiri è trapassato dalla spada e che, se la natura indietreggia davanti al ferro, la volontà non cede ad esso né si lascia sopraffare? Dimmi: non vedi che, nel caso di Abramo, la volontà ebbe il sopravvento sulla natura, quando gli fu ordinato di sacrificare il figlio[8], e la prima si manifestò più potente della seconda? Non vedi che si è verificata la medesima situazione nel caso dei tre giovani[9]? Non ascolti anche il proverbio che afferma che la volontà diventa una seconda natura in forza dell’abitudine? Anzi potrei dire che diventa la prima, come l’ha dimostrato ciò che è stato detto in precedenza. Vedi che è possibile acquistare anche la saldezza della natura, se la volontà è generosa e vigile, e che raccolga maggiori elogi chi sceglie e vuole essere buono più di chi vi è costretto?
Questo è bello soprattutto, come quando dice: Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù[10]. Allora soprattutto lo lodo, vedendolo raggiungere la virtù non senza pena, in modo da non essere motivo di indolenza per quelli che sarebbero venuti dopo, per giustificare la loro mollezza. Quando dice ancora: Sono crocifisso per il mondo[11], incorono la sua volontà. È possibile infatti, è possibile imitare la forza della natura con il rigore della volontà. Se lo proponiamo come l’esempio stesso della virtù, troveremo che si sforzò di portare le buone qualità che aveva in conseguenza della volontà, al livello della saldezza della natura.
Soffriva certamente quando era percosso, ma non disprezzava i patimenti meno delle potenze incorporee che non soffrono, come si può apprendere dalle sue parole che non sembrerebbero far credere che appartenesse alla nostra natura. Quando infatti dice: Il mondo è crocifisso per me e io lo sono per il mondo[12], e ancora: Io vivo, o piuttosto non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[13], che altro significa se non che ha abbandonato il corpo stesso? Che vuol dire, quando dice: Mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana[14]? Nient’altro se non mostrare che la sofferenza arrivava solo al corpo; non perché non passasse all’interno, ma perché egli la respingeva e l’allontanava per la sovrabbondanza della sua volontà. E che dire, quando fa molte affermazioni più meravigliose di queste, e gioisce di essere frustato e si vanta delle sue catene[15]? Che altro si potrebbe dire se non quanto ho detto, che cioè affermare: Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, nel timore che, dopo aver predicato agli altri, non venga io stesso squalificato[16], indica da un lato la debolezza della natura, ma dall’altro, mediante quanto ho detto, la nobiltà della volontà?
Perciò si trovano entrambi questi aspetti presso di lui, affinché né pensi che per le sue grandi virtù appartenesse ad una natura diversa e non ti scoraggi, né condanni quell’anima santa per le sue debolezze, anzi al contrario, scacciando in conseguenza di ciò lo scoraggiamento, ti volga verso una fiduciosa speranza. Per questo motivo presenta d’altra parte anche la grazia di Dio in termini amplificativi, anzi non in termini amplificativi, ma con saggezza, perché pensi che nulla viene da lui. Afferma però anche il suo impegno, perché, attribuendo tutto a Dio, tu non trascorra la vita nell’inoperosità e nell’incuria. E troverai rigorosamente in lui misura e regola di tutto.

NOTE SUL SITO

 

NATIVITÀ DI MARIA: LA VOCE DEI PADRI DELLA CHIESA – LA VOCE DEI SANTI

http://www.opusdei.it/it-it/article/vita-di-maria-ii-magistero-padri-della-chiesa-santi-poeti/

LA VOCE DEI PADRI DELLA CHIESA – LA VOCE DEI SANTI

«Si chiamava Gioacchino; era della casa di Davide, re e profeta; sua moglie si chiamava Anna. Rimase senza figli sino alla vecchiaia, perché sua moglie era sterile. Eppure, proprio a lei era riservato l’onore al quale, secondo la legge di Mosè, aspiravano tutte le donne che danno alla luce, un onore che non era stato concesso a nessuna donna privata di figli.
Gioacchino e Anna, infatti, erano degni di onore e di venerazione, tanto nelle parole come nelle opere; erano conosciuti come appartenenti alla stirpe di Giuda e di Davide, discendenza di re. Quando le case di Giuda e di Levi si unirono, il ramo reale e quello sacerdotale finirono per mescolarsi. Così sta scritto tanto riguardo a Gioacchino quanto riguardo a Giuseppe, con il quale si sposò la Vergine santa. Di quest’ultimo si afferma esplicitamente che era della casa e della tribù di Davide (cfr. Mt 1, 16; Lc 1, 5); però lo erano entrambi: l’uno secondo la discendenza naturale di Davide, l’altro in virtù della legge secondo la quale lo erano i leviti.
Anche la beata Anna era di un ramo eletto della medesima casa. Questo significava a priori che il re che sarebbe nato da sua figlia sarebbe stato sommo sacerdote, in quanto Dio e in quanto uomo. Tuttavia la mancanza di figli causava un gran dolore ai venerabili e stimati genitori della Madonna, a causa della legge di Mosè e anche delle frecciate che ricevevano da alcuni uomini stolti. Desideravano la nascita di un discendente che cancellasse l’ignominia davanti ai loro occhi e davanti al mondo intero, elevandoli così a una gloria superiore.
Allora la beata Anna, come quell’altra Anna madre di Samuele (cfr. 1 Sam 1, 11), andò al tempio e supplicò il Creatore dell’universo che le concedesse un frutto delle sue viscere, che poi gli avrebbe consacrato per averlo ricevuto come dono. Neppure il beato Gioacchino restava inattivo, ma chiedeva a Dio che lo liberasse dalla mancanza di figli.
Il Re benigno, l’Autore generoso di tutti i doni, ascoltò la preghiera del giusto e inviò un annuncio ai due coniugi. Prima di tutto mandò un messaggio a Gioacchino mentre stava pregando nel tempio. Gli fece udire una voce del cielo che gli diceva: “Avrai una figlia che sarà gloria, non solo per te, ma per il mondo intero”. Questo stesso annuncio fu fatto alla beata Anna, la quale non cessava di pregare Dio con ardenti lacrime. Anche a lei fu inviato il messaggio da parte di Dio, nel giardino dove offriva sacrifici con petizioni e preghiere al Signore. L’angelo di Dio venne ad essa e le disse: “Dio ha ascoltato la tua preghiera; darai alla luce l’annunciatrice della gioia e la chiamerai Maria, perché da Lei nascerà la salvezza del mondo intero”.
Dopo il messaggio avvenne il concepimento e dalla sterile Anna nacque Maria, Colei che illumina tutti: così, infatti, si traduce il nome di Maria: “colei che illumina”. Allora i venerabili genitori della felice e santa bambina furono colmi di una grande gioia. Gioacchino organizzò un banchetto e invitò tutti i vicini, sapienti e ignoranti, e tutti diedero gloria a Dio che aveva operato per loro un grande prodigio.
In tal modo, l’angoscia di Anna si mutò in una gloria più sublime, la gloria di essere diventata la porta della porta di Dio, porta della sua vita e inizio della sua gloriosa condotta».
Vita di Maria attribuita a San Massimo il Confessore (VII secolo). I fatti esposti si ispirano a scritti apocrifi, soprattutto al “Protovangelo di san Giacomo”, che rimonta al II secolo.

La voce dei Santi
«Carissimi, un grandissimo danno ci è stato causato da un uomo e da una donna; ma, grazie a Dio, ugualmente attraverso un uomo e una donna si è ristabilita ogni cosa. E non senza un grande aumento di grazie. Infatti il dono non è paragonabile al misfatto, perché la grandezza del beneficio supera di gran lunga la stima del danno.
Così il prudentissimo e clementissimo Artefice non distrusse ciò che s’era infranto, ma lo rifece più utile in tutti i casi, e cioè, formando dal vecchio un nuovo Adamo e trasfondendo Eva in Maria.
Sicuramente poteva bastare Cristo, poiché tutta la nostra sufficienza ci viene da Lui; però non era bene per noi che l’uomo fosse solo (cfr. Gn 2, 18). Molto più conveniente era che fossero presenti alla nostra riparazione l’uno e l’altro sesso, non essendo mancati alla nostra corruzione né l’uno né l’altro. Fedele e potente Mediatore di Dio e degli uomini è l’uomo Cristo Gesù, ma gli uomini riconoscono in Lui una divina maestà. Sembra che l’umanità sia assorbita nella divinità, non perché si sia mutata la sostanza, ma perché i suoi affetti sono divinizzati. Non si canta di Lui solo la misericordia, ma si canta ugualmente la giustizia, perché, pur avendo appreso la compassione dalle cose che patì, ed essendo divenuto misericordioso (cfr. Eb 5, 8), proprio per questo ha, allo stesso tempo, la potestà di giudice. Infine, Dio nostro è un fuoco che consuma. Se il peccatore teme molto di avvicinarsi a Lui, non è forse dovuto al fatto che, come la cera si scioglie in presenza del fuoco, allo stesso modo potrebbe perire lui alla presenza di Dio?
Così dunque non sembrerà inutile la presenza della donna benedetta fra tutte le donne, perché si vede chiaramente il ruolo che Essa svolge nell’opera della nostra riconciliazione; infatti abbiamo bisogno di un mediatore accanto a questo Mediatore e nessuno come Maria può svolgere questo ufficio in modo più fruttuoso. Una mediatrice troppo crudele fu Eva, attraverso la quale il serpente antico infuse nell’uomo il pestifero veleno; fedele, invece, è Maria, che propinò l’antidoto della salvezza agli uomini e alle donne. Quella fu strumento della seduzione, questa della propiziazione; quella suggerì la prevaricazione, questa introdusse la redenzione. Che cosa trattiene la fragilità umana dall’arrivare a Maria? Nulla c’è in Essa di austero, nulla di terribile; tutto è dolce, a tutti vengono offerti latte e lana.
Studia con cura tutta la serie della storia evangelica, e se trovi in Maria un pizzico di durezza o di burbero rimprovero, o qualche segno di indignazione, sia pure lieve, ritienila d’ora in poi sospetta e diffida dall’avvicinarti a Lei. Ma se invece (come succede nella realtà) scopri che tutto ciò che appartiene a Lei è colmo di pietà e di misericordia, di mansuetudine e di grazia, sii grato a quel Signore che, con la sua misericordia straordinariamente benevola ti ha dotato di una mediatrice tale che niente può esserci nella Vergine che infonda timore. Ella si è fatta tutta a tutti; si è fatta debitrice di sapienti e di ignoranti, con una meravigliosa carità. A tutti apre il seno della misericordia, affinché tutti ricevano la sua pienezza: redenzione al prigioniero, guarigione al malato, consolazione all’afflitto, al peccatore il perdono, al giusto la grazia, all’angelo la gioia e, infine, la gloria a tutta la Trinità; e la stessa Persona del Figlio riceve da Lei la sostanza della carne umana, affinché non vi sia chi si sottragga al suo calore».

San Bernardo (XII secolo)
Sermone della Domenica nell’ottava dell’Assunzione, 1-2.

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