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DISCORSO DI SANT’AGOSTINO VESCOVO SULL’AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO – DISCORSO 90/A

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DISCORSO DI SANT’AGOSTINO VESCOVO SULL’AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO – DISCORSO 90/A

Chiediamo al fine di trovare.
1. Nella lettura del Vangelo che or ora è stata proclamata anche noi abbiamo potuto vedere il Signore, non con gli occhi del corpo ma con quelli della fede, cosa molto più vantaggiosa per la nostra salvezza. Prendiamo dunque l’atteggiamento spirituale di colui che andò a chiedergli quale fosse il più grande comandamento della legge 1. In effetti colui che pose al Signore questa domanda, non avendo per vedere gli occhi della fede ma solo quelli del corpo, più che per chiedere si presentò per mettere alla prova il Maestro; noi invece, che abbiamo la fede, presentiamoci per chiedere e, chiedendo, poter trovare. Diciamo anche noi: Signore, qual è il più grande comandamento della legge? 2 Diciamolo non con la furbizia di chi vuol tentare, ma con il desiderio di chi vuol apprendere. Il Signore risponderà a noi come rispose a quel tale; e, se egli non credette, la sua domanda è stata di grande utilità per noi. Se poi egli credette, chi la ode oggi ne venga ammaestrato più efficacemente di colui che, andato per tentare, poté essere raddrizzato nei suoi sentimenti.

La legge antica semplificata da Gesú Cristo.
2. Prima di tutto consideriamo il fatto che quel tale domandò [al Signore] quale fosse il primo comandamento della legge, desideroso di sapere non se fosse l’unico ma il più grande; il Signore invece nella risposta parlò non di un comandamento ma di due. È probabile che quell’uomo, udito quale fosse il comandamento [più] grande, avrebbe posto domande sui comandamenti successivi; ma il Signore, per impedire che dopo lo si interrogasse su molti comandamenti, ne aggiunse uno solo, il secondo. Si adempiva così quel che era stato profetizzato molto tempo prima: Il Signore pronunzierà sulla terra una parola breve ma esaustiva 3. È quel che si verifica adesso: con questa lezione viene adempiuta. Molti infatti sono i precetti della legge: essa, come un bosco impenetrabile, in ogni pagina pullula di ingiunzioni. E chi potrebbe adempierle se non si è in grado nemmeno di ritenerle a memoria? Ma Cristo Signore, pieno di misericordia, come volle rinchiudere la sua grandezza in un piccolo corpo, così volle racchiudere la legge, così ampia, in un breve precetto. Nella piccolezza di quel corpo noi possediamo tutto intero il Figlio di Dio; nella brevità di questi due precetti è contenuta tutta intera la legge di Dio. La misericordia ha sottratto ogni [scusa alla] nostra pigrizia. Non pensare quindi che ti occorra una lunga fatica per imparare: pensa piuttosto a mettere in pratica ciò che hai rapidamente imparato.

È compito difficile spiegare la parola di Dio.
3. Disse [il Signore]: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il primo e più importante comandamento. E continuò: Il secondo è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 4. Perché volevi distenderti lungo l’apertura dei rami? Tieni strette queste radici e tutto l’albero è nelle tue mani. Come si può vedere, il Signore ci ha inculcato la sua dottrina con una breve frase; noi al contrario su questi due comandamenti siamo costretti a spendere molte parole. O forse non è vero che vi siamo costretti, mentre sarebbe sufficiente quel che abbiamo udito dal Signore? Non v’è dubbio che sarebbe sufficiente, non però a tutti. Difatti, quanto più uno è dotato d’ingegno, tanto più breve potrà essere l’esposizione che gli occorre. Gli uomini grandi amano le poche parole; i piccoli invece, essendo meno dotati d’intelligenza, desiderano discorsi più prolungati. Ora noi da un lato temiamo di urtare la suscettibilità degli uni, ma non vogliamo, dall’altro, gravare con pesi esagerati la debolezza degli altri. Dato dunque che, se restassimo in silenzio, si lamenterebbero quelli che comprendono di meno, vogliano quelli che già comprendono essere pazienti con noi, affinché comprendano anche coloro che fino ad ora non avevano compreso.

Il precetto dell’amore nel Vangelo e in Paolo.
4. O uomo, quale cosa più eccellente ti si poteva dire – e in forma così breve – del precetto di amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 5? Mettilo in pratica, e sta’ sicuro della vita eterna e beata. Se infatti ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, non rimane in te nulla con cui tu possa amare te stesso. Ama dunque, ama il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente! Cosa ti rimarrà con cui possa amare te stesso? Ma se in te non rimane nulla con cui tu possa amare te stesso, in che maniera potrai amare il prossimo come te stesso 6, come prescritto nel secondo precetto? Ecco un primo problema. Ascoltatene un altro. Come abbiamo avvertito durante la proclamazione della lettura, il Signore dice: In questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 7. D’altra parte voi avete certamente notato quel che dice l’apostolo Paolo mentre vi si leggeva una delle sue lettere. Egli afferma che adempie la legge colui che ama il prossimo 8, e non aggiunge alcunché sul primo e principale comandamento, che è quello di amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente 9. Ecco le sue parole: In effetti il non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare malamente e tutti gli altri comandamenti si compendiano in questa prescrizione: Ama il prossimo tuo come te stesso. L’amore del prossimo esclude ogni male: pertanto pieno adempimento della legge è la carità 10. Egli aveva detto: Chi ama il prossimo adempie [tutta] la legge 11. Se avesse menzionato i tre soli comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare, potremmo supporre che nell’amore del prossimo rientrino soltanto questi tre precetti; ma siccome aggiunge: E se c’è ancora qualche altro comandamento 12, ne segue che tutta la legge è inclusa nell’amore del prossimo. Cosa ci rimane per l’amore di Dio? Ascoltando le parole:  » [Ama] Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con la tua mente  » 13, sembra che non ci resti spazio per l’amore del prossimo; ascoltando viceversa:  » Ecco, questo e questo e questo e se c’è ancora qualche altro comandamento, tutto si compendia in questo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso 14 « , sembra che non rimanga alcuno spazio per l’amore di Dio. Come fa pertanto il Signore ad asserire che non in uno ma in questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 15?

Iniziare dal prossimo per arrivare a Dio.
5. Per quanto ci sarà possibile, con l’aiuto del Signore vogliamo esporre brevemente il problema ora formulato, cominciando dall’amore del prossimo. Noi infatti siamo uomini, e quindi mortali, soggetti all’ignoranza, non ancora divenuti simili agli angeli 16, anzi molto lontano da tutto ciò che è incorruttibile. Per questa dissimilitudine Dio è distante da noi, sebbene ci sia vicino con la sua misericordia. Essendo dunque quelli che siamo, con quali risorse del nostro pensiero oseremo formarci delle immagini nei riguardi del Signore? Il prossimo, invece l’abbiamo vicino: tendi dunque verso chi ti è vicino se vuoi amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. O uomo, se non ami il tuo fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi? 17 Voi conoscete bene queste parole prese dalla lettera di Giovanni. Sono una prescrizione data a noi: dobbiamo cominciare dal prossimo per arrivare a Dio.

L’amore naturale e l’amore cristiano.
6. A questo punto mi dirà qualcuno:  » Io amo Dio e il prossimo, e li amo non a parole ma con i fatti « . Dimostramelo! Risponde:  » Sì, io amo il prossimo « . E con questo, cosa fai di straordinario? Non vedi come l’amore reciproco regni anche fra gli animali irragionevoli? Come gli uccelli cerchino di stare insieme agli uccelli della stessa famiglia e sono tristi se rimangono soli? Non hai notato mai come certi altri animali, dopo aver condiviso la medesima stalla, mettendosi in cammino desiderano stare in fila uno dietro l’altro, e con molta difficoltà si riesce a separarli? Cosa fai dunque di straordinario se tu, uomo, desideri la compagnia di altri uomini? Lo fanno anche le bestie! Né saprei dirti se questo sia un amore che Dio richiede da noi. Ma tu forse continui:  » Io amo il prossimo mio – amo, ad esempio, mio figlio – e lo amo come me stesso « . È cosa normale anche questa. Perfino le tigri amano i propri figli! Infatti non si propagherebbe la loro specie se mancasse l’amore scambievole. Suvvia! Trascendi tutti questi esseri che sono stati messi in tuo potere: nessuno di loro è fatto ad immagine di Dio. È l’uomo che Dio ha fatto a propria immagine, perché esercitasse il potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutti i rettili che strisciano sulla terra 18. Osserva quali siano le creature a te sottoposte; tu invece sei stato formato con fattezze molto diverse: somigli al Creatore nell’amore per la sua immagine. E poi, come fai a dimostrare che ami tuo figlio? Ripeto: proprio tuo figlio, come fai a dimostrare che lo ami? Perché gli conservi l’eredità, che però egli non potrà possedere insieme con te? Non la possiede infatti insieme con te, ma succederà a te quando tu sarai deceduto. Non ricordi come in quella stessa eredità prima di te sia passato tuo padre e – se questa eredità risale a tempi più antichi – lo stesso tuo nonno? Tutti di passaggio, nessuno in maniera permanente. Tu dunque lasci cose mortali a un uomo mortale o, più esattamente, non sai neppure per chi le accumuli 19. E tuttavia osi proclamare che ami tuo figlio!

Il vero amore verso se stesso.
7. È scritto: Annunzieranno [le opere del Signore] ai propri figli perché ripongano in Dio la loro speranza 20. Se ami in questo modo, il tuo è amore; se ami in modo diverso, allora neppure ami, perché non ami neppure te stesso. Qual è in effetti il senso di ciò che hai udito: Amerai il prossimo tuo come te stesso 21? Ecco la norma che impongo; anzi, non la impongo ma la riconosco. È infatti una norma imposta a tutti noi; e io la medito e la ricordo. Orbene, la norma è questa: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Io non ti dico di amare come te stesso tuo figlio o tua moglie o il vicino che ti è amico o il vicino che ti è familiare, perché forse mi risponderesti:  » Li amo « . Voglio prima chiederti se ami te stesso. Sta qui infatti tutta la forza del comandamento, qui verte tutta la questione: non puoi infatti amare il prossimo come te stesso, se non ami nemmeno te stesso. Ribatti:  » C’è forse qualcuno che non ama se stesso? « . Eppure, io vorrei trovare uno che ami veramente se stesso. Io non guardo infatti a come può errare la creatura, ma a ciò che insegna il Creatore. Chi ci ha creati ci conosce meglio di ogni altro. Ascoltiamolo quindi. Tu mi dicevi che ami te stesso. Se ti avessi chiesto di dimostrarmelo, mi avresti risposto:  » Siccome amo me stesso, quando ho fame nutro il mio corpo; siccome amo me stesso, non voglio stancarmi con il lavoro; siccome amo me stesso, non voglio provare le strettezze della miseria; siccome amo me stesso, cerco di non buscarmi la febbre; siccome amo me stesso, scanso ogni dolore « . Vuoi ora ascoltare cosa ti dice Colui che ti ha creato? Osserva soltanto se ti ami in maniera completamente buona: se cioè non ami l’iniquità. Poiché chi ama l’iniquità odia la propria anima 22. Non ti interrogo io; intèrrogati da te stesso. Se vuoi affermarti a danno degli altri, se desideri che altri stia male perché tu ne abbia un bene, se così agisci, se così pensi, tu ami l’iniquità e pertanto odi la tua anima. Ma se odi la tua anima, non posso certo affidarti il tuo prossimo perché lo ami come te stesso! Posso forse affidarti un altro uomo, per dover poi ricercarne due!? Tu che hai portato te stesso alla rovina, come potrai dare a me la salvezza? Comincia dunque con l’amare te stesso: così saprai amare il prossimo come te stesso.

Amare il vero bene.
8. Aspetti forse da me che ti dica come tu debba amare te stesso? Ascoltiamo piuttosto Colui che ha creato sia te che me. Ecco dunque come devi amare te stesso. Cerca di capire il grande comandamento di amare te stesso. Infatti, a ciò che ami tu cerchi di trascinare anche colui che ami. E se ami l’iniquità, vi ci condurrai anche colui che tu ami come te stesso. Abbiamo tutti davanti agli occhi le moltissime predilezioni dell’uomo, sia in bene che in male. Tu, per esempio, sei appassionato per un auriga; naturalmente ti dài da fare perché quelli che ami partecipino con te agli spettacoli, con te facciano tifo, con te urlino, con te perdano la testa; se non si appassionano, li insulti, li chiami idioti, proprio come sei tu. Ancora. Anche se non te la senti di dividere a metà i tuoi beni 23 con colui che ami come te stesso, desideri comunque che egli ne abbia altrettanti; non vuoi infatti che egli si arricchisca a tuo danno, non vuoi il suo bene con la perdita dei tuoi beni. Perché? Perché tu consideri l’oro un bene e perciò ti consideri grande per il fatto che possiedi oro; e tu vuoi che l’altro cresca senza che tu cali 24. Ma perché ami cose che non puoi distribuire senza tuo danno? In tutti questi casi tu ami malamente: hai in odio la tua anima 25. Se vuoi tranquillamente attrarre il prossimo che ami come te stesso, attrailo a quel bene che non soffre diminuzioni per la moltitudine dei partecipanti: quel bene che – qualunque sia il numero dei possessori – rimane integro per tutti e per ciascuno. Se non ami un simile bene, come potrai amare il prossimo come te stesso?

Amando Dio, tuo vero bene, non perirai.
9. Ma qual è questo bene? Lo trovi nel primo e più grande precetto: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 26. Quando infatti comincerai ad amare Dio, allora comincerai ad amare te stesso. Non temere: per quanto grande sia il tuo amore per Iddio, non lo amerai mai troppo. La misura di amare Dio è di amarlo senza misura. Amalo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, perché più di così non puoi. Cosa infatti hai di più, per amare il tuo Dio, che tutto te stesso? Non temere che, non lasciando a te stesso nulla con cui amarti, tu abbia a perderci. Non ci perdi, perché, amando Dio con tutto te stesso, ti vieni a trovare là dove non ci si perde. Piuttosto se volgerai il tuo amore da lui verso di te, non sarai più in lui ma in te; e così perirai, venendo a trovarti in chi è destinato a perire. Se non vuoi perire, rimani in colui che non può perire. Questo raggiunge la forza della carità, questo ottiene il fuoco dell’amore. Lo osserviamo nelle predilezioni luride e sconce di certa gente. I tifosi di un auriga sono totalmente presi dallo spettacolo, vivono solo della persona che stanno guardando. Chi è così appassionato non pensa più a se stesso, non sa più neppure dove si trovi. Tanto che, se gli sta vicino uno un po’ meno tifoso, al vederlo così accalorato dice subito:  » Costui non è in sé! « . Anche tu, che sei con Dio, per quanto ti è possibile, non voler essere con te. Se sei con te e ti affidi a te, ti perderai, perché tu non sei in grado di salvare te stesso.

Rientra in te e torna al Padre.
10. Ricordate come abbandonò la casa e finì col rovinarsi quel tale che, rivolto al padre premuroso di salvarlo, gli disse: Dammi la parte dei beni che mi spetta 27. Eccolo là: se ne andò, consumò ogni cosa, si ridusse a pascere i porci, costretto dalla miseria 28. Si allontanò dal padre, perché voleva stare con sé; ma mentre vuole stare con sé, non rimane nemmeno con sé. In effetti, se abbandoni il tuo Dio, immediatamente ti allontani anche da te, esci fuori di te e diventi estraneo anche a te stesso. Pertanto a persone come questa è detto: Tornate al vostro cuore, o prevaricatori 29. Tornate a voi, per poter tornare anche da Colui che vi ha creati. Al riguardo cosa si dice di quel figlio che, abbandonato il padre, si trovò lontano anche da se stesso e nella più nera miseria? Tornato in se stesso disse 30… Tornato in se stesso! Vedi come s’era allontanato anche da se stesso. Buon per te, figlio, che ti sei ravveduto e sei tornato a te! Ma non rimanere in te, se non vuoi perderti di nuovo. In realtà anche di questo si ricordò quel prodigo, tornato, almeno parzialmente, sulla buona strada. Tornato infatti in sé, non volle fermarsi in sé, ma, tornato in se stesso, disse: Mi leverò e andrò da mio padre 31. Debitamente ravveduto, comprese che la sua dimora era là donde era fuggito; si ricordò che era [figlio], anche se ora non meritava più d’essere considerato tale.

Attrai il prossimo a Dio.
11. Tu dunque amerai il sommo Bene e ad esso volgerai l’affetto del tuo cuore. In tal caso posso affidarti il prossimo. Vedo infatti dove tendi e dove vuoi risiedere. Conducilo da lui! E in effetti non potrai condurre da altri colui che ami come te stesso, ora che veramente ami te stesso. Conduci là il tuo prossimo, attrailo, rapiscilo insistendo in ogni maniera accettabile 32. Se si fosse all’alba di un giorno di gare circensi, tu, appassionato d’un concorrente nei giochi venatori, non riusciresti a prender sonno e non ti faresti sfuggire l’ora di correre all’anfiteatro. Giunta l’ora, andresti a svegliare con fastidiosa insistenza il tuo amico, per ipotesi ancora immerso nel sonno e desideroso più di dormire che d’andare ai giochi. Con la tua insistenza faresti pressione su quel pigro: se ti fosse possibile, lo vorresti buttar giù dal letto e piazzarlo nell’anfiteatro. Né, con tutto questo, recheresti a lui fastidio se non finché si sia destato dal sonno, poiché, scomparso il sonno, egli viene subito con te e ti ringrazia per la tua importunità. Ma cosa dire se, condotto quell’uomo all’anfiteatro, dove tutti e due siete andati in gran fretta, l’atleta da voi preferito venisse sconfitto e voi ve ne doveste andare a testa bassa? Ama dunque Dio con tutto il tuo essere: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 33. Così e soltanto così ami te stesso; e solo in questa maniera puoi amare il prossimo come te stesso. Lo attiri infatti con entusiasmo da colui del quale mai dovrai arrossire.

Ama se stesso solo colui che ama Dio.
12. Non essendo possibile che chi vuol amare il prossimo lo ami veramente se prima non ama Dio, per questo motivo fu necessario che i due precetti della carità venissero formulati insieme. Chi ama Dio non può amare l’iniquità poiché, amando l’iniquità, odierebbe la sua anima 34. Se non ama l’iniquità, amerà la giustizia, e amando la giustizia amerà Dio. Egli pertanto non cerchi Dio con gli occhi del corpo: lo cerchi con la mente e lo ami in maniera sempre crescente con l’affetto del cuore. Non costruiamoci [con la fantasia] divinità che non sono Dio, se non vogliamo amare anche chi non è Dio, se non vogliamo amare vani fantasmi. Non dobbiamo cadere in errore immaginando cose di questo genere; non dobbiamo formarci un Dio a misura delle nostre voglie naturali né costruircelo a nostro talento. Per distoglierci da queste fantasticherie ci dice la Scrittura: Dio è amore 35. Se dunque ami, ama chi ti dà il potere di amare, e allora ami Dio. Non hai udito che chi ama l’iniquità odia la sua anima 36? Ebbene, se ami, ama colui che ti dona di poter amare, e ami Dio. Il principio per cui ami è infatti la carità. Tu ami in forza della carità: ama dunque la carità e così ami Dio, perché Dio è carità, e chi dimora nella carità dimora in Dio 37. Ecco perché fu necessario che venissero inculcati distintamente i due precetti. Di per sé sarebbe stato sufficiente menzionarne uno: Amerai il prossimo tuo come te stesso 38, ma l’uomo si sarebbe potuto ingannare su questo amore del prossimo non sapendo amare rettamente se stesso. Per questo motivo il Signore, quando volle dare una forma all’amore con cui ami te stesso, la trovò nell’amore che si ha verso Dio. Stabilito questo, ti affidò il prossimo perché tu lo amassi come te stesso.

Unico oggetto del duplice comandamento.
13. A questo punto, se tu sei d’accordo, ti dovrebbe bastare anche l’unico precetto dell’Apostolo. Ora che hai compreso la portata dei due precetti te ne può bastare anche uno solo, mentre prima, quando non li comprendevi, uno non sarebbe bastato. Se infatti poni all’inizio un cattivo amore per te stesso, ami malamente anche colui che ami come te stesso. Anzi, non va detto:  » Ami male  » ma:  » Non ami affatto « . Se dunque ti si dice che non devi commettere adulterio, né uccidere, né desiderare maliziosamente 39, ti si richiama a [rientrare in] te stesso, là cioè dove ha sede la pienezza [dell'uomo]. Infatti tu puoi evitare l’adulterio per timore della punizione, non per amore della giustizia. Così per l’omicidio. Puoi avere la volontà di uccidere ma temi di più il castigo: nel qual caso con la mano non commetti l’omicidio ma nel cuore ne sei colpevole. Ti proponi di uccidere una persona ma temi; comunque vuoi uccidere. È segno che non ami il non uccidere. Il tuo agire all’esterno deve esistere già nel tuo interno, risiedere là dove ti vede Colui che ti darà la corona. Lì devi combattere e vincere, poiché lì risiede Colui che ti osserva. Con ragione quindi è detto: Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare malamente e tutti gli altri comandamenti si riassumono in questa parola: ama il prossimo tuo come te stesso 40. Tu certamente già ami Dio, poiché non potresti amare il prossimo senza amare Dio: il secondo precetto segue il primo. Sia dunque in te il primo, e questo porterà con sé anche il secondo, mentre il secondo non può esistere senza il primo. Se pensavi al perché dei due precetti, adempine pure uno; ma non potrai adempiere quest’uno se non osservandoli tutti e due. Tant’è vero che il secondo si chiama appunto secondo per il fatto che segue [l'altro]. È dunque un precetto conseguente. Ama il prossimo tuo come te stesso: ciò mi basta. Ma se tu a Dio non puoi giungere col pensiero, da dove comincerai per poter amare te stesso? L’amore del prossimo non commette alcun male. Pienezza della legge è dunque la carità 41. E questa carità in che cosa consiste? Nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo. Scegli pure l’amore che preferisci! Se scegli l’amore del prossimo, esso non è vero se non ami anche Dio. Se scegli l’amore di Dio, esso non è vero se non v’includi anche il prossimo.

L’amore cristiano è dono di Dio.
14. Se ancora non hai l’amore, gemi e credi; chiedi e otterrai. Ciò che ti viene comandato, ciò che la legge impone, la fede ottiene. Se quanto devi impetrare già lo possiedi, [ricorda le parole]: Che cosa hai tu senza averlo ricevuto? 42 Se non lo possiedi, chiedilo per poterlo ottenere. Quel che noi chiediamo è la carità 43. Se ancora non l’abbiamo, chiediamola per non restarne privi. Come infatti potremmo attingerla in noi stessi se, essendo cattivi, non abbiamo nulla di buono per meritarla? La otterremo piuttosto da Colui al quale dice la nostra anima: Benedici il Signore, anima mia, e non dimenticare i tanti suoi benefici. Egli è misericordioso verso tutte le tue iniquità 44. Ciò avviene nel battesimo. Ma se avvenisse questo soltanto, come rimarremmo in seguito? Continua però [il salmo]: Egli sana tutte le tue malattie 45. Guarite le malattie, non rifiuteremo il nostro pane; e osserva cosa accadrà quando tutte le malattie saranno state guarite: Egli riscatterà la tua vita dalla corruzione 46. È quanto accadrà nella resurrezione dei morti. E dopo che la nostra vita sarà stata liberata dalla corruzione cosa accadrà? Egli ti corona. Forse per i tuoi meriti? Poni attenzione a quel che segue: Egli ti corona nella sua compassione e misericordia 47. Il giudizio infatti sarà senza misericordia per colui che non avrà usato misericordia 48. Ci saranno dunque rimessi i peccati e guarite le malattie; la nostra vita sarà sottratta alla corruzione e per la sua misericordia ci sarà consegnata la corona. Conseguito tutto questo, di che cosa ci occuperemo? Cosa avremo? Egli ti sazia di beni 49, senza alcun male. Eri avaro e l’oro non ti saziava perché, essendo avaro, non puoi trovare la sazietà nell’oro. Sii giusto, e troverai la sazietà in Dio. Non c’è infatti assolutamente nulla che possa saziarti all’infuori di Dio, nulla può bastarti all’infuori di Dio. Mostraci il Padre e questo ci basta! 50 Siamo dunque alacri nel compiere le opere di misericordia mentre veniamo curati dalle nostre malattie, affinché, guariti dalle malattie, acquistino vigore i nostri desideri. Facciamo sì che questi desideri, guariti dal male, crescano in vigore, e, diventati vigorosi, raggiungano la sazietà. Si compia allora il giudizio, ma sia un giudizio di misericordia, poiché sarebbe gravoso un giudizio non accompagnato dalla misericordia, essendo difficile che Dio non trovi in te nulla da punire. Tu forse ti compiacevi di te stesso, ma Lui sa scoprire in te colpe che tu non conosci; trova in te cose che tu volevi nascondere o che magari del tutto ignoravi. Siamo dunque zelanti nel compiere le opere di misericordia: amiamo il prossimo pur nell’attuale scarsità di beni temporali, perché ci sia dato di udire, nel giudizio, una sentenza di misericordia.

OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

https://forum.termometropolitico.it/332632-25-gennaio-conversione-di-s-paolo.html

OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

Hom. VII in laude S. Pauli, 4.6.10-13, in PG 50, 510-514.

San Paolo risalì dalle acque divine del battesimo con un fuoco così ardente che non attese un maestro, non aspettò Pietro, né andò da Giacomo, né da nessun altro; spinto dal suo ardore, infiammò la città di Damasco al punto da scatenare un’aspra guerra contro di lui. Del resto anche quando era giudeo, agiva oltre la sua autorità, arrestando, imprigionando, confiscando.
Così aveva fatto anche Mosè, il quale, senza che nessuno lo incaricasse, si era opposto all’iniquità dei barbari contro i suoi connazionali. Questo comportamento denota un animo nobile e un carattere generoso, che non ammette di tollerare in silenzio i mali altrui, anche se nessuno gliene affida l’incarico. Che Mosè giustamente si sia precipitato a difendere i suoi, lo ha dimostrato Dio, perché in seguito lo elesse; e il Signore ha agito così anche nel caso di Paolo. Che anche questi abbia fatto bene allora a darsi alla predicazione e all’insegnamento, lo ha manifestato Dio innalzandolo rapidamente alla dignità dei maestri.

Paolo, più ardente del fuoco, non rimase nessun giorno inoperoso. Non appena risalì dalla sacra fonte del battesimo, si infiammò grandemente e non pensò ai pericoli, alla derisione e alle ingiurie da parte dei Giudei, al fatto di non trovare credito presso di loro, né a nessun altro elemento di tal genere. Presi invece altri occhi, quelli dell’amore, e un’altra mentalità, si slanciava con grande impeto, come un fiume in piena; travolgendo tutte le argomentazioni dei Giudei, dimostrava mediante le Scritture che Gesù è il Cristo [Cf At 9,22]. Eppure non aveva ancora molti doni della grazia, non era stato ancora ritenuto degno di ricevere lo Spirito così intensamente; tuttavia subito in infiammò. Faceva tutto con un animo che non si curava della morte e agiva in ogni occasione come per giustificarsi del passato.
Aveva maggior fiducia quando era in pericolo; questa situazione lo rendeva più coraggioso, e non solo lui, ma anche i discepoli a causa sua. Se l’avessero visto cedere e diventare più timoroso, forse anch’essi avrebbero ceduto; ma poiché lo videro divenire più coraggioso e, pur maltrattato, impegnarsi maggiormente, proclamavano il Vangelo con franchezza. Per indicare ciò, l’Apostolo diceva: La maggior parte dei fratelli, incoraggiati dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14].

Vedendolo incatenato e proclamare il vangelo in carcere, flagellato e conquistare alla sua causa i flagellatori, i discepoli ne ricevevano maggior fiducia. Paolo lo dimostra, perché non ha detto semplicemente: Incoraggiati dalle mie catene, ma aggiunge: Ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14]; vale a dire, i fratelli parlavano con più franchezza ora piuttosto che quando era libero. E anch’egli aveva un ardore maggiore, perché era più motivato contro i nemici, e l’aumento delle persecuzioni si risolveva in un incremento raddoppiato di sicurezza e di coraggio.
Una volta fu imprigionato e rifulse al punto da scuotere le fondamenta della prigione, aprire le porte, far passare dalla sua parte il carceriere, e far quasi cambiare parere al giudice, tanto che costui disse: Per poco non mi convinci a farmi cristiano! [At 26,28]. Un’altra volta fu preso a sassate e, entrato nella città che l’aveva lapidato, la convertì. Lo citarono in tribunale per giudicarlo ora i Giudei, ora gli Ateniesi; i giudici diventarono discepoli, gli avversari seguaci.
Come un fuoco, abbattendosi su differenti materiali, trova incremento nella materia sottostante, così anche la parola di Paolo faceva passare dalla sua parte quanti incontrava; coloro che gli erano ostili, conquistati dai suoi discorsi, divenivano subito alimento per quel fuoco spirituale e, mediante essi, la Parola prendeva nuovo vigore e passava ad altri. Perciò l’Apostolo diceva: Io soffro fino a portare le catene, ma la parola di Dio non è incatenata [Cf 2 Tm 2,9].

Infuriava la persecuzione, costringendo Paolo alla fuga, ma in realtà essa era l’invio in missione. Quello che avrebbero fatto amici e seguaci, lo facevano i nemici, in quanto non gli permettevano di stabilirsi in un solo luogo, ma facevano girare ovunque quel medico d’anime, mediante i loro complotti e persecuzioni, in modo che tutti ascoltavano la sua parola. Di nuovo lo incatenarono e ne aumentarono lo zelo; scacciarono i suoi discepoli col risultato che inviarono un maestro a quelli che non lo avevano; lo condussero a un tribunale più importante e giovarono a una città più grande.
I Giudei, inquieti a causa di Pietro e Giovanni, si erano chiesti: Che cosa dobbiamo fare a questi uomini? [At 4,16]. Riconoscevano infatti che le loro misure tornavano a vantaggio di quelli. Così anche nel caso della predicazione di Paolo: gli espedienti messi in opera per estirpare la Parola, la fecero crescere e la innalzarono a un’altezza indicibile.
Per tutti questi benefici ringraziamo la potenza di Dio che li ha elargiti e proclamiamo beato Paolo per mezzo del quale essi si sono verificati.

SAN GREGORIO PALAMAS: OMELIA 21 SULL’ASCENSIONE

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SAN GREGORIO PALAMAS: OMELIA 21 SULL’ASCENSIONE

I giudei festeggiavano la Pasqua della legge, cioè il passaggio dall’Egitto alla terra di Palestina; abbiamo festeggiato anche noi la Pasqua dell’evangelo, cioè il passaggio della nostra natura, innestata in Cristo, dalla morte alla vita, dalla corruzione all’immortalità. Quale discorso potrà dimostrare la superiorità della nostra Pasqua nei confronti delle solennità dell’antica legge e del tema delle antiche feste? Discorso umano non saprebbe esprimere degnamente l’altezza di questa eccellenza; ma la Sapienza consustanziale del Padre, il Verbo di Dio che precede i tempi e le essenze, che nel suo amore si è fatto una cosa sola con noi e con noi ha vissuto, ci ha mostrato oggi il motivo per festeggiare le sue opere, straordinariamente più alto anche di questa altezza.
Oggi infatti noi festeggiamo il passaggio della nostra natura, innestata in lui, non dagli inferi alla terra, ma dalla terra al cielo del cielo, al trono, al di là del cielo, del Signore dell’universo. Oggi, infatti, non solo, dopo la risurrezione, il Signore stette in mezzo ai suoi discepoli, ma anche si separò da essi, e sotto i loro occhi ascese al cielo, salì ed entrò nel vero santo dei santi, e sedette alla destra del Padre; Egli è al di sopra di ogni principato e potenza, al di sopra di ogni nome e di ogni dignità, conosciuta e nominata sia nel tempo presente sia nel tempo a venire. Come, prima della risurrezione del Signore, molte risurrezioni sono avvenute, così avvennero molte ascensioni prima della sua ascensione: lo Spirito elevò al cielo il profeta Geremia, un angelo Abacuc, e, soprattutto, è scritto che Elia fu assunto su un carro di fuoco. Ma neppure Elia oltrepassò la sorte assegnata ai terrestri; l’ascensione di ciascuno di costoro era come un trasferimento, che li innalzava dalla terra, ma non li conduceva fuori dai limiti terrestri.
Nello stesso modo quelli che risuscitarono tornarono di nuovo sulla terra e tutti morirono. Ma da quando Cristo è risuscitato dai morti, la morte non ha più potere su di lui e così, da quando è asceso e siede nell’alto dei cieli, ogni altezza è più bassa di lui, testimonianza per tutti che egli è Dio su tutte le cose. E questo è quello che Isaia chiama il monte luminoso di Dio lo, la dimora di Dio al di sopra di tutti i monti spirituali, il corpo del Signore: infatti non un angelo, non un uomo, ma lo stesso Signore venne attraverso la carne e ci salvò, fatto, per noi, simile a noi, pur rimanendo immutabilmente Dio. Come quando discese non cambiò di sede, ma condiscese, così di nuovo sale al cielo non trasferendosi nella divinità, ma intronizzando, là in alto, la nostra natura che egli assunse. Era veramente necessario che là fosse presentata a Dio la nostra natura, la primogenita dei morti, come la primizia dei primogeniti offerta per tutto il genere umano.
Molte furono le risurrezioni e le ascensioni, ma nessuna noi festeggiamo come la risurrezione e l’ascensione del Signore, poiché delle altre noi non abbiamo né avremo parte. Da esse non abbiamo altro giovamento che di essere spinti alla fede nella risurrezione e nell’ascensione del nostro Salvatore, alla quale tutti quanti partecipiamo e parteciperemo. Questa, infatti, è la risurrezione e l’ascensione della carne dell’uomo e non semplicemente della natura umana, ma anche di coloro che hanno fede in Cristo e che questa fede mostrano nelle loro opere. Infatti ciò che il Signore è divenuto, lo è divenuto per noi, lui che, per la propria natura divina, era ingenerato e increato; e quella vita che visse, la visse per noi, per mostrarci la via che conduce alla vera vita; e la passione che patì nella sua carne, per noi la patì, per guarirci dalle nostre passioni, e per i nostri peccati fu condotto a morte, e per noi risuscitò e ascese al cielo, preparandoci la risurrezione e l’ascensione per l’eternità; e tutti gli eredi di questa vita imitano, per quanto ne sono capaci, la condotta della sua vita sulla terra.
Principio di questa imitazione è per noi il santo battesimo, che è figura della sepoltura e della risurrezione del Signore »; parte centrale è la vita secondo la virtù, e la condotta secondo l’evangelo; compimento è la vittoria sulle passioni ottenuta attraverso le lotte spirituali, vittoria che ci procura la vita esente da dolore e da morte, la vita celeste. Così ci dice anche l’Apostolo: Se vivete secondo la carne, morirete; se invece con la forza dello Spirito, darete morte alle opere del corpo, vivrete. Coloro dunque che vivono secondo Cristo, imitano la sua condotta di vita quando aveva un corpo di carne; muoiono, quando giunge la loro ora, poiché anch’egli è morto nella carne, e nella carne anch’essi, come lui, risorgeranno, gloriosi e immortali, non ora, ma quando il tempo verrà; e poi saranno assunti in cielo, come dice Paolo: Saremo rapiti fra le nubi, incontro al Signore, nel cielo, e così saremo sempre col Signore.
Vedete dunque come ciascuno di noi, purché lo voglia, sarà accomunato nella risurrezione e nell’ascensione del Signore, sarà erede di Dio, coerede di Cristo? Per questo grande è la nostra gioia mentre festeggiamo la risurrezione, l’elevazione, l’insediamento in cielo della nostra natura, primizia della risurrezione e dell’ascensione di ciascuno dei credenti, e mettiamo al centro del nostro pensiero le parole evangeliche di cui oggi si darà lettura, cioè: Il Signore risorto si fermò in mezzo ai suoi discepoli. Perché dunque stette in mezzo ad essi, con essi si accompagnò nel cammino, li condusse fuori, verso Betania, ed, elevate le mani al cielo, li benedisse? Lo fece per mostrarsi tutto quanto salvo e integro, per far vedere i piedi, rinvigoriti e saldi nel camminare, i piedi che pur conservavano le ferite dei chiodi, e le mani trapassate, sulla croce, dai chiodi, il fianco trafitto dalla lancia, i segni incancellabili delle percosse, e per confermare così la fede nella passione salvifica.
A me l’espressione: « Stette in mezzo ai discepoli » sembra dimostrare anche che essi furono confermati nella fede in lui; attraverso tale apparizione e benedizione, infatti, non solo stette in mezzo a tutti loro, ma stette nel centro del cuore di ciascuno e ciascuno confermò nella fede. Così per ciascuno di essi è possibile dire la parola del salmo: Dio è in mezzo ad essa; non potrà vacillare. Da allora gli apostoli del Signore sono divenuti saldi e incrollabili. Stette dunque in mezzo a loro e disse: « Pace a voi « , parola dolce, consueta, a lui usuale. La pace è di due specie: quella che abbiamo con Dio, che è il frutto della fede in lui, e quella che abbiamo gli uni verso gli altri, frutto naturale della parola evangelica; qui, il Signore ce le ha date entrambe con una sola parola di saluto. E come ordinò di fare ai discepoli, la prima volta che li mandò, dicendo: In qualunque casa entrate, dite: « Pace a questa casa” così anch’egli fa: entrato nella casa in cui erano radunati, subito diede loro la pace. E li vide sbigottiti e sconvolti per quella visione inaspettata e straordinaria; credevano infatti di vedere uno spirito, cioè che quello che vedevano fosse un fantasma.
Ed egli, svelando i turbamenti del loro cuore e annunciando di essere colui al quale, prima della passione e della risurrezione, avevano detto: Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi, li rassicurò offrendosi alle loro domande e al loro contatto. E come vide che avevano compreso la verità, li rassicurò con quest’altra prova, cioè offrendo loro, sotto i loro occhi, la pace e la comunione del pasto. E poiché ancora non potevano credere ed erano stupiti, non più per l’incertezza, ma per la gioia, disse loro: Avete qui qualcosa da mangiare? Ed essi gli diedero un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; egli li prese e, sotto i loro occhi, mangiò.
Si nutrì, quel corpo senza macchia dopo la risurrezione, non perché avesse bisogno di cibo, ma per confermare la fede nella propria risurrezione e per mostrare che era, anche ora, lo stesso corpo, quello che prima della passione mangiava con loro. Consumò il cibo non secondo i processi naturali dei corpi mortali, ma per mezzo di un’energia divina. Si potrebbe dire che avvenne come per il fuoco che consuma la cera, tranne che il fuoco ha bisogno di materia per bruciare, mentre i corpi immortali non hanno bisogno di alimento per sussistere. Egli mangiò un pezzo di pesce arrostito e un po’ di miele tratto dal favo, simboli anche questi del suo mistero: la nostra natura, infatti, come il pesce, nuota nell’umido elemento dei piaceri e delle passioni e il Verbo di Dio, avendola unita ipostaticamente a se stesso e purificata da ogni comportamento passionale col divino e inaccessibile fuoco della sua divinità, l’ha resa simile a Dio e come infuocata.
Rende simile a Dio non solo l’impasto creaturale che egli ha assunto per noi, ma anche ciascuno di coloro che sono degni della comunione con lui, rendendolo partecipe del fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra . A favo di miele è simile la nostra natura, che racchiude in se stessa, come miele, il tesoro spirituale, o piuttosto, favo di miele è ciascuno di coloro che credono in Cristo; trattiene infatti in se stesso, nell’anima e nel corpo, la grazia, custodita in lui come miele nel favo. Il Signore, dunque, mangia di questi cibi, poiché fa volentieri suo proprio cibo la salvezza di ciascuno di quelli che sono resi partecipi della sua natura; non mangia tutto, mangia da un favo di miele, cioè una parte, poiché non tutti hanno creduto, e non prende con le sue mani quella parte, ma questa gli è offerta dai discepoli; i discepoli infatti gli presentano soltanto coloro che hanno creduto, separandoli dagli infedeli. Così anche attraverso queste azioni, mangiando cioè del pesce e del miele sotto gli occhi dei discepoli, il Signore rammentò loro le parole che aveva detto prima di incamminarsi verso la passione, provando anche così che era veramente lui: come aveva predetto, così infatti avvenne.
Egli aprì la loro mente, perché comprendessero le Scritture e conoscessero che, come era stato scritto, così era avvenuto. Era necessario che, nell’indescrivibile oceano del suo amore per gli uomini, il Figlio unigenito di Dio si facesse uomo per gli uomini, e che dall’alto la voce del Padre e l’apparizione del divino Spirito lo rivelassero e ne dessero testimonianza. Era necessario che fosse creduto e ammirato per l’eccezionalità delle sue opere e delle sue parole, che divenisse oggetto di invidia e fosse tradito da coloro che non cercano la gloria di Dio, ma quella degli uomini; che fosse messo in croce e sepolto e risorgesse dai morti il terzo giorno, e che, nel suo nome, fosse proclamata la conversione e il perdono dei peccati, e che l’annuncio partisse da Gerusalemme. Suoi araldi e testimoni dovevano essere quelli che con i loro occhi avevano visto ed erano diventati suoi servitori; ad essi promise che avrebbe mandato dall’alto ciò che il Padre aveva promesso, cioè lo Spirito santo, e ordinò loro di rimanere a Gerusalemme, finché non fossero stati rivestiti della potenza proveniente dall’alto.
Il Signore rivolgeva dunque ai suoi discepoli queste parole di salvezza; li fece poi uscire di casa e li condusse a Betania. Dopo che li ebbe benedetti, si separò da loro, ed ecco, era trasportato in cielo, e il suo carro era una nube di luce. Ascese dunque nella gloria ed entrò nel santo dei santi, non fatto da mano d’uomo, sedette nei cieli alla destra della Maestà, rendendo il nostro impasto di creature mortali partecipe del trono e della divinità. Gli apostoli non cessavano di fissare il cielo, quando, per l’autorità degli angeli, appresero che il Signore discenderà di nuovo dal cielo, e tutti lo vedranno. Così anche lo stesso Signore aveva predetto, e Daniele aveva previsto. Dice: Io vidi uno, simile a un Figlio di uomo avanzare sulle nubi del cielo; e il Signore: Tutte le tribù della terra vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo. Allora i discepoli adorarono, dal monte degli Ulivi da dove era asceso, il loro sovraceleste Signore, che era disceso dall’alto e aveva fatto della terra un cielo e che di nuovo era salito di dove era disceso; egli aveva congiunto quanto stava in basso a ciò che stava in alto; celeste e a un tempo terrestre aveva costituito la sua chiesa a gloria del suo amore per gli uomini.
Pieni di gioia, gli apostoli ritornarono a Gerusalemme, e stavano sempre nel tempio; la loro mente era in cielo, ed essi lodavano e benedicevano Dio, preparandosi ad accogliere la preannunciata venuta dello Spirito divino. Questo è, in sintesi, o fratelli, il modo di vivere di coloro che sono chiamati da Cristo: perseverare nelle suppliche e nelle preghiere, e, imitando gli angeli, tenere l’occhio della mente fisso verso il Signore, che sta al di sopra dei cieli, lodarlo e benedirlo con una vita irreprensibile, e così accogliere la sua mistica venuta, secondo le parole di colui che disse: Comporrò salmi e comprenderò su di una via senza biasimo, quando verrai da me. Anche il grande Paolo spiegò questo quando disse: La nostra patria è nei cieli, dove Gesù è entrato aprendo per noi la strada.
E anche il capo degli apostoli, Pietro, a questo ci conduce, quando dice: Cingetevi i fianchi della mente, vivete in perfetta sobrietà e sperate nella grazia che vi viene offerta nella rivelazione di Gesù Cristo che voi amate, pur non vedendolo. Questo disse, se pure in enigma, anche il Signore, quando dice: Siano cinti i vostri fianchi e siano accese le lucerne, e voi siate simili a uomini che aspettano il ritorno del loro Signore. In questo modo egli non abolì il sabato, ma lo portò a compimento, dimostrando che il sabato è veramente giorno benedetto, giorno il cui le fatiche del corpo hanno una sosta per un fine superiore. Per questo spetta al sabato l’eredità della benedizione, quando, liberi dalle opere di questa terra, opere che tra non molto perderanno la loro efficacia, noi ci eleviamo a Dio, cercando, con speranza che non teme vergogna, i beni celesti e incontaminati.
Nell’antica legge il primo dei giorni della settimana era il sabato; perciò agli stolti giudei sembrò che il Signore avesse abolito il sabato della legge, ma lo stesso Signore disse: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento. Perché non abolì i sabato, ma gli diede compimento e, attraverso di questo, diede compimento alla legge? Egli promise che avrebbe dato lo Spirito santo a coloro che notte e giorno glielo chiedono, e ordinò di essere sempre svegli e vigilanti, dicendo: Siate pronti, poiché nell’ora in cui non pensate, il Figlio dell’uomo verrà. Egli ha reso tutti i giorni come un sabato benedetto per coloro che hanno scelto di dargli perfetta obbedienza, e così non ha abolito, ma anche in questo modo ha dato compimento alla legge. Ma voi, che siete implicati nelle opere di questo mondo, se vi asterrete dall’avidità, dall’odio che vi oppone gli uni agli altri, e se cercate la verità e la castità, anche voi potrete fare di tutti i giorni un sabato, poiché non fate il male.
E quando si presenta il giorno più degli altri salutare, bisogna astenersi da tutti i lavori e le parole anche non biasimevoli, e sostare a lungo nella chiesa di Dio, porgere orecchio e mente alla lettura e all’insegnamento, attendere con contrizione alla supplica e alle preghiere, ed elevare inni a Dio. Darete così anche voi compimento al sabato vivendo secondo l’evangelo dell’amore di Dio, elevando gli occhi della vostra mente a Cristo, che con il Padre e lo Spirito siede al di sopra dei cieli, che ci ha reso figli di Dio non semplicemente adottandoci con un nome, ma nella comunione dello Spirito divino, attraverso la sua carne e il suo sangue, rendendoci familiari di Dio e gli uni degli altri.
Custodiamo dunque attraverso un amore indissolubile questa unità fra di noi; eleviamo sempre in alto il nostro sguardo, verso colui che ci ha generati. Non siamo più, infatti, uomini di terra, come il primo uomo, ma siamo come il secondo uomo, il Signore del cielo. Come il primo uomo terrestre, terrestri erano gli uomini; quale l’uomo celeste, tali sono anche gli uomini celesti. Come dunque noi portammo l’immagine dell’uomo di terra, cerchiamo di portare anche l’immagine dell’uomo celeste, e, levando in alto il nostro cuore verso di lui, contempliamo questa grandiosa visione, la nostra natura, che perennemente dimora col fuoco immateriale della divinità e, deponendo le vesti di pelle, che dal tempo della trasgressione abbiamo indossato, teniamo fermo il nostro passo sulla terra santa, dimostrando che terra santa è la nostra virtù e il cammino senza deviazioni verso Dio.
Avremo così perfetta fiducia, perché Dio abita nel fuoco; accorrendo verso di lui, saremo illuminati e, uniti a lui, vivremo nella luce, nella gloria della chiarità altissima, dello splendore di quel triplice e unico sole. Ad esso ogni gloria, potenza, onore e adorazione, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

 

BENEDETTO XVI: SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 APRILE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070620.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 giugno 2007

SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 APRILE

Cari fratelli e sorelle,

continuando la nostra rivisitazione dei grandi Maestri della Chiesa antica, vogliamo rivolgere oggi la nostra attenzione a sant’Atanasio di Alessandria. Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato come «la colonna della Chiesa» dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –, che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.
Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto questo grande Santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come dice il prologo del quarto Vangelo – «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Proprio per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora minacciava la fede in Cristo, riducendolo ad una creatura «media» tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza ricorrente nella storia, e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. Nato probabilmente ad Alessandria, in Egitto, verso l’anno 300, Atanasio ricevette una buona educazione prima di divenire diacono e segretario del Vescovo della metropoli egiziana, Alessandro. Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.
Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il Logos non era vero Dio, ma un Dio creato, un essere «medio» tra Dio e l’uomo, e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il «Simbolo della fede» che, completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse confessioni cristiane e nella Liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica, nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole indicare che il Figlio, il Logos, è «della stessa sostanza» del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani.
Morto il Vescovo Alessandro, Atanasio divenne, nel 328, suo successore come Vescovo di Alessandria, e subito si dimostrò deciso a respingere ogni compromesso nei confronti delle teorie ariane condannate dal Concilio niceno. La sua intransigenza, tenace e a volte molto dura, anche se necessaria, contro quanti si erano opposti alla sua elezione episcopale e soprattutto contro gli avversari del Simbolo niceno, gli attirò l’implacabile ostilità degli ariani e dei filoariani. Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e poi da suo figlio Costanzo II. Questi, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici, voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile – secondo il suo parere – a tutti i sudditi nell’Impero.
La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino. Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno in cui celebriamo la sua memoria liturgica.
L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato su L’incarnazione del Verbo, il Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio «si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità» (54,3). Con la sua risurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse «paglia nel fuoco» (8,4). L’idea fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a Dio. Egli è divenuto realmente «Dio con noi».
Tra le altre opere di questo grande Padre della Chiesa – che in gran parte rimangono legate alle vicende della crisi ariana – ricordiamo poi le quattro lettere che egli indirizzò all’amico Serapione, Vescovo di Thmuis, sulla divinità dello Spirito Santo, che viene affermata con nettezza, e una trentina di lettere «festali», indirizzate all’inizio di ogni anno alle Chiese e ai monasteri dell’Egitto per indicare la data della festa di Pasqua, ma soprattutto per assicurare i legami tra i fedeli, rafforzandone la fede e preparandoli a tale grande solennità.
Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo Santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.
Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: «Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù» (93,5-6).
Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri Santi, ci mostra che «chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (Deus caritas est, 42).

FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO, San Giovanni Crisostomo *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_f.htm#LA PASSIONE DI CRISTO, RAGIONE DELLA NOSTRA FIEREZZA

FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO

San Giovanni Crisostomo *

Dopo aver compiuto studi brillanti e aver passato parecchi anni nella solitudine, Giovanni Crisostomo fu ordinato sacerdote ad Antiochia, sua città natale, nel 386. Rivelò ben presto una eccezionale forza di eloquenza. Nominato vescovo di Costantinopoli nel 398, si dedicò a correggere gli abusi che si erano introdotti in questa Chiesa e a ravvivare la fede nei fedeli. Il suo messaggio, eco di tutta la Bibbia e soprattutto di san Paolo e del Vangelo, sembrò rivoluzionario a molti dei suoi contemporanei. Il coraggio con cui denunciò il lusso della corte imperiale, lo condusse per due volte in esilio. Confinato sul Mar Nero, nel Ponto, morì ormai esausto nel 407.

Oggi il Signore Gesù è sulla croce e noi facciamo festa: impariamo così che la croce è festa e solennità dello spirito. Un tempo la croce era nome di condanna, ora è diventata oggetto di venerazione; un tempo era simbolo di morte, oggi è principio di salvezza. La croce è diventata per noi la causa di innumerevoli benefici: eravamo divenuti nemici e ci ha riconciliati con Dio; eravamo separati e lontani da lui, e ci ha riavvicinati con il dono della sua amicizia. Essa è per noi la distruzione dell’odio, la sicurezza della pace, il tesoro che supera ogni bene.
Grazie alla croce non andiamo più errando nel deserto, perché conosciamo il vero cammino; non restiamo più fuori della casa del re, perché ne abbiamo trovato la porta; non temiamo più le frecce infuocate del demonio, perché abbiamo scoperto una sorgente d’acqua. Per mezzo suo non siamo più nella solitudine, perché abbiamo ritrovato lo sposo; non abbiamo più paura del lupo, perché abbiamo ormai il buon pastore. Egli stesso infatti ci dice: lo sono il buon pastore (Gv. 10,11). Grazie alla croce non ci spaventa più l’iniquità dei potenti, perché sediamo a fianco del re.
Ecco perché facciamo festa celebrando la memoria della croce. Anche san Paolo invita ad essere nella gioia a motivo di essa: Celebriamo questa festa non con il vecchio lievito… ma con azzimi di sincerità e di verità (1 Cor. 5, 8). E, spiegandone la ragione, continua: Cristo infatti, nostra Pasqua, è stato immolato per noi (1 Coro 5, 7). Capite perché Paolo ci esorta a ,celebrare la croce? Perché su di essa è stato immolato Cristo. Dove c’è il sacrificio, là si trova la remissione dei peccati, la riconciliazione con il Signore, la festa e la gioia. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato per noi. Immolato, ma dove? Su un patibolo elevato da terra. L’altare di questo sacrificio è nuovo, perché nuovo e straordinario è il sacrificio stesso. Uno solo è infatti vittima e sacerdote: vittima secondo la carne, sacerdote secondo lo spirito…
Questo sacrificio è stato offerto fuori dalle mura della città per indicare che si tratta di un sacrificio universale, perché l’offerta è stata fatta per tutta la terra. Si tratta di un sacrificio di espiazione generale, e non particolare come quello dei Giudei. Infatti ai Giudei Dio aveva ordinato di celebrare il culto non in tutta la terra, ma di offrire sacrifici e preghiere in un solo luogo: la terra era infatti contaminata per il fumo, l’odore e tutte le altre impurità dei sacrifici pagani. Ma per noi, dopo che Cristo è venuto a purificare tutto l’universo, ogni luogo è diventato un luogo di preghiera. Per questo Paolo ci esorta audacemente a pregare dappertutto senza timore: Voglio che gli uomini preghino in ogni luogo, levando al cielo mani pure (1 Tim. 2,8). Capite ora fino a che punto è stato purificato l’universo? Dappertutto infatti possiamo levare al cielo mani pure, perché tutta la terra è diventata santa, più santa ancora dell’interno del tempio. Là si offrivano animali privi di ragione, qui si sacrificano vittime spirituali. E quanto più grande è il sacrificio, tanto più abbondante è la grazia che santifica. Per questo la croce è per noi una festa.

* Eis ton stauron kai eis ton lesten, Omelia 1: P.G. 49, 399-401.

GIOVEDÌ E VENERDÌ SANTO CON SANT’AGOSTINO

http://www.augustinus.it/varie/pasqua/settimana_4.htm

GIOVEDÌ E VENERDÌ SANTO CON SANT’AGOSTINO

Io sono il pane vivo disceso dal cielo.
Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno
e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
(Gv 6, 51)

INTRODUZIONE

L’Eucarestia, « sacramento così grande e divino », è strettamente congiunta all’Incarnazione del Figlio di Dio: « Se il Signore degli angeli non si fosse fatto uomo non avremmo la sua carne; se non avessimo la sua carne, non mangeremmo il pane dell’altare ». (Serm.130, 2) Per conferire all’uomo la vita divina Cristo si è fatto sacerdote e sacrificio, offrendo – lui sommo sacerdote – il proprio corpo e sangue una volta per sempre, in un « sacrificio così sublime ed accessibile ». L’Eucarestia è la « medicina così splendida e nobile », (Serm.228/B, 1) che sprona il cristiano a seguire le orme di Cristo. Sull’altare infatti non offriamo solo la Vittima divina, ma anche noi stessi: « Questo è il sacrificio dei cristiani: Molti e un solo corpo in Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacramento dell’altare, noto ai fedeli, perché in esso si rivela che nella cosa che offre, essa stessa è offerta ». (De civ. Dei 10, 6)

Dai « Discorsi » di sant’Agostino, vescovo (Serm. 228/B, 2-3)
Il corpo di Cristo
Cristo Signore nostro dunque, che nel patire offrì per noi quel che nel nascere aveva preso da noi, divenuto in eterno il più grande dei sacerdoti, dispose che si offrisse il sacrificio che voi vedete, cioè il suo corpo e il suo sangue. Infatti il suo corpo, squarciato dalla lancia, effuse acqua e sangue, con cui rimise i nostri peccati. Ricordando questa grazia, operando la vostra salute – che poi è Dio che la opera in voi (cf. Fil 2, 12-13) -, con timore e tremore accostatevi a partecipare di quest’altare. Riconoscete nel pane quello stesso corpo che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco. Anche gli antichi sacrifici del popolo di Dio, nella loro molteplice varietà, prefiguravano quest’unico sacrificio che doveva venire. E Cristo è nel medesimo tempo la pecora, per l’innocenza della sua anima pura, e il capro, per la sua carne somigliante a quella del peccato (cf. Rm 8, 3). E qualsiasi altra cosa che in molte e diverse maniere sia prefigurata nei sacrifici dell’Antico Testamento si riferisce soltanto a questo sacrificio che è stato rivelato nel Nuovo Testamento.
Prendete dunque e mangiate il corpo di Cristo, ora che anche voi siete diventati membra di Cristo nel corpo di Cristo; prendete e abbeveratevi col sangue di Cristo. Per non distaccarvi, mangiate quel che vi unisce; per non considerarvi da poco, bevete il vostro prezzo. Come questo, quando ne mangiate e bevete, si trasforma in voi, così anche voi vi trasformate nel corpo di Cristo, se vivete obbedienti e devoti. Egli infatti, già vicino alla sua passione, facendo la Pasqua con i suoi discepoli, preso il pane, lo benedisse dicendo: Questo è il mio corpo che sarà dato per voi (1 Cor 11, 24). Allo stesso modo, dopo averlo benedetto, diede il calice, dicendo: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati (Mt 26, 28). Questo già voi lo leggevate o lo ascoltavate dal Vangelo, ma non sapevate che questa Eucarestia è il Figlio stesso; ma adesso, col cuore purificato in una coscienza senza macchia e col corpo lavato con acqua monda (cf. Eb 10, 22), avvicinatevi a lui e sarete illuminati, e i vostri volti non arrossiranno (Sal 33, 8). Perché se voi ricevete degnamente questa cosa che appartiene a quella nuova alleanza mediante la quale sperate l’eterna eredità, osservando il comandamento nuovo di amarvi scambievolmente (cf. Gv 13, 34), avrete in voi la vita. Vi cibate infatti di quella carne di cui la Vita stessa dichiara: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (Gv 6, 51), e ancora: Se uno non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita in se stesso (Gv 6, 53).

In breve…
Se uno vuol vivere per me, è necessario che entri in comunione con me mangiando di me; e come io, umiliato, vivo per il Padre, così egli, elevato, vive per me. (In Io. Ev. tr. 26, 19)

VENERDÌ
Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo:
tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.
(1 Cor 10, 16-17)

INTRODUZIONE
Centro della chiesa è l’Eucarestia: la Chiesa fa l’Eucarestia, ovvero celebra il memoriale della morte e risurrezione di Cristo; ma al tempo stesso l’Eucarestia edifica la Chiesa. L’Eucarestia è il sacramento dove si costruisce la comunità cristiana: i diversi io che in essa convergono sono raccolti e trasformati in noi. E’ una formula tanto cara ai Padri antichi, che spesso riportano l’esempio dei molti chicchi di frumento o degli acini di uva che, fondendosi insieme, costituiscono un solo pane e un solo vino. Il discorso eucaristico in Agostino non è mai disgiunto da quello cristologico ed ecclesiologico: l’unità del Christus totus, di Cristo Capo e della Chiesa corpo è pienamente simboleggiata nei segni sacramentali del banchetto eucaristico. Ne deriva come atto pratico la difesa e la ricerca strenua dell’amore per l’unità, nota caratteristica della Chiesa. A sua volta l’unità ecclesiale è il segno visibile della carità che unisce i fratelli. « Niente deve temere un cristiano, quanto l’essere separato dal corpo di Cristo ». (In Io. Ev. tr. 27, 6)
Dai « Discorsi » di sant’Agostino, vescovo (Serm. 227, 1)

Il pane dell’unità
Ricordo la mia promessa. A voi che siete stati battezzati avevo promesso un discorso in cui avrei esposto il sacramento della mensa del Signore, che ora voi vedete anche e a cui la notte scorsa avete preso parte. Bisogna che sappiate che cosa avete ricevuto, che cosa riceverete, che cosa ogni giorno dovrete ricevere. Quel pane che voi vedete sull’altare, santificato con la parola di Dio, è il corpo di Cristo. Il calice, o meglio quel che il calice contiene, santificato con le parole di Dio, è sangue di Cristo. Con questi segni Cristo Signore ha voluto affidarci il suo corpo e il suo sangue che ha sparso per noi per la remissione dei peccati. Se voi li avete ricevuti bene voi stessi siete quel che avete ricevuto. L’Apostolo infatti dice: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo (1 Cor 10, 17). È così che egli espone il sacramento della mensa del Signore. Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. E in questo pane vi viene raccomandato come voi dobbiate amare l’unità. Infatti quel pane è forse fatto di un sol chicco di grano? Non erano molti i chicchi di frumento? Ma prima di diventare pane erano separati e sono stati uniti per mezzo dell’acqua dopo essere stati in qualche modo macinati. Se il grano non viene macinato e impastato con l’acqua, non prende quella forma che noi chiamiamo pane. Così anche voi prima siete stati come macinati con l’umiliazione del digiuno e col sacramento dell’esorcismo. Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane se non c’è il fuoco. E che cosa esprime il fuoco, cioè l’unzione dell’olio? Infatti l’olio, che è alimento per il fuoco, è il segno sacramentale dello Spirito Santo. Fateci caso negli Atti degli Apostoli, quando vengono letti; ora infatti comincia la lettura di questo libro: proprio oggi comincia il libro che s’intitola: Atti degli Apostoli. Chi vuol far progressi, qui ha modo di trarre profitto. Quando vi radunate nella chiesa, mettete da parte le chiacchiere frivole e state attenti alle Scritture. I vostri codici siamo noi. State dunque attenti e fate caso come verrà a Pentecoste lo Spirito Santo. Egli verrà così: si manifesta con lingue di fuoco. Infatti ispira quella carità che ci fa ardere del desiderio di Dio, ci fa disprezzare il mondo, fa bruciare le nostre scorie e purificare il cuore come l’oro. Dunque viene lo Spirito Santo, il fuoco dopo l’acqua e voi diventate pane, cioè corpo di Cristo. In questo modo è simboleggiata l’unità. I segni sacramentali, nel loro svolgimento, li conoscete. Anzitutto, dopo la preghiera, venite ammoniti di tenere in alto i vostri cuori; questo conviene a delle membra di Cristo. Se siete infatti diventati membra di Cristo, il vostro capo dov’è? Le membra hanno il capo. Se il capo non andasse avanti, le membra non potrebbero andargli dietro. Il nostro capo dov’è andato? Nel Simbolo che cosa avete recitato? Il terzo giorno risuscitò dai morti, sali al cielo, siede alla destra del Padre. Dunque il nostro capo è in cielo. Perciò quando vien detto: In alto i cuori, voi rispondete: Sono rivolti al Signore. E affinché questo avere il cuore in alto verso il Signore non lo attribuiate alle vostre forze, ai vostri meriti, ai vostri sforzi (l’avere il cuore in alto infatti è un dono di Dio), dopo che il popolo ha risposto: Sono in alto, rivolti al Signore, il vescovo o il presbitero che presiede continua dicendo: Rendiamo grazie al Signore nostro Dio; appunto per il fatto che noi teniamo il cuore in alto. Rendiamo grazie perché, se lui non ci avesse fatto questo dono, noi avremmo il cuore sulla terra. E anche voi confermate dicendo che è cosa buona e giusta rendergli grazie, per averci fatto tenere i cuori in alto presso il nostro capo. Quindi, dopo la santificazione del sacrificio di Dio, siccome egli ha voluto che anche noi fossimo coinvolti in questo sacrificio – e questo è chiaramente indicato nel momento in cui viene posto sull’altare il sacrificio di Dio e noi, ossia il segno e la cosa significata, che siamo noi -, ecco, dopo fatta la santificazione, diciamo l’Orazione del Signore che voi avete ricevuto e reso. E dopo si dice: La pace sia con voi, e i cristiani si scambiano un bacio santo. È il segno della pace; quel che esprimono le labbra deve essere nella coscienza; ossia come le tue labbra si accostano alle labbra del tuo fratello, così il tuo cuore non sia lontano dal suo cuore. Grandi misteri dunque, veramente grandi! Volete sapere come ci sono stati raccomandati? Dice l’Apostolo: Chi mangia il corpo di Cristo o beve il calice del Signore indegnamente sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11, 27). Che vuol dire ricevere indegnamente? Ricevere con derisione, ricevere senza convinzione. Non ti sembri di poco valore per il fatto che lo vedi. Quel che tu vedi, passa; ma l’invisibile che viene espresso nel segno, quello non passa, rimane. Vedete, esso si riceve, si mangia, si consuma. Ma si consuma forse il corpo di Cristo? Si consuma la Chiesa di Cristo? Si consumano le membra di Cristo? Niente affatto. Qui esse vengono mondate, lassù coronate. Perciò quello che viene espresso nel segno rimarrà, anche se quel che lo esprime sembra che passi. Perciò ricevetelo, ma pensando a quel che siete, conservando l’unità nel cuore, tenendo il cuore sempre fisso in alto. La vostra speranza non sia sulla terra, ma nel cielo; la vostra fede sia ferma in Dio, accettevole da parte di Dio. E così quel che ora non vedete e tuttavia credete, lassù lo vedrete e senza fine ne godrete.

In breve…
O sacramento di pietà! O simbolo di unità! O vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. S’avvicini, creda, entri a far parte del Corpo e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine della membra, non sia un membro infetto che si debba amputare, non sia un membro deforme di cui si debba arrossire. Sia bello, sia valido, sia sano, rimanga unito al corpo, viva di Dio per Iddio; sopporti ora la fatica in terra per regnare poi in cielo. (In Io. Ev. tr. 26, 13)

 

IL LOGOS COME MUSICO: LA METAFORA DELLA CREAZIONE COME UN CORO SINFONICO SECONDO SANT’ATANASIO

http://www.disf.org/atanasio-logos-come-musico

IL LOGOS COME MUSICO: LA METAFORA DELLA CREAZIONE COME UN CORO SINFONICO SECONDO SANT’ATANASIO

Atanasio di Alessandria

373

Contro i pagani, 42-44

Riprendendo una metafora di origine greco-platonica, ma recuperandola nell’orizzonte della visione cristiana della creazione, Atanasio descrive il ruolo esemplare del Verbo nell’origine del creato, come fondamento e principio dell’unità sinfonica formata dal coro dalle creature.
È lui, il Verbo santo del Padre, onnipotente ed assolutamente perfetto, che si estende su tutte le cose ed ovunque infonde la sua potenza, che illumina tutte le cose, visibili ed invisibili, contenendole e riunendole in lui. Egli non ne lascia alcuna al di fuori della sua potenza, ma vivifica e guarda tutte le cose, ciascuna isolatamente e tutto l’universo insieme. Egli mescola i principi di tutta la sostanza sensibile, il caldo e il freddo, l’umido e il secco, per farne un solo essere; egli impedisce loro di contrastarsi reciprocamente, facendone un accordo armonioso. Grazie a lui ed alla sua presenza, il fuoco non lotta contro il freddo, né l’umido contro il secco; al contrario, elementi di per sé stessi opposti, si riuniscono come amici e fratelli, donano la vita agli esseri visibili e sono per tutti i corpi i principi dell’esistenza.
L’obbedienza a questo Dio Verbo dona la vita agli esseri terrestri e riunisce quelli che sono nei cieli. Per lui il mare tutt’intero ed il grande oceano contengono i loro movimenti nei limiti che sono stati ad essi assegnati e la terra intera, come si è detto, si ricopre d’una chioma verdeggiante di diverse piante di tutte le specie. E per non attardarmi a nominare ciascuno degli esseri visibili, non c’è nulla di ciò che esiste e nasce che non nasca e non sussista in lui, come ha affermato il Teologo: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Tutto è stato fatto per lui e senza di lui niente è stato fatto ( Gv 1, 1-3).
Come un musico che accorda la sua lira ed avvicina abilmente i suoni gravi delle note acute ed i medi delle altre, per eseguire una sola melodia, allo stesso modo la saggezza di Dio, tenendo l’universo come una lira, avvicina gli esseri che sono nell’aria a quelli che sono sulla terra e quelli che sono nei cieli a quelli che sono nell’acqua; adattando l’insieme alle parti e tutto guidando attraverso il suo comando e la sua volontà, egli produce nella bellezza e nell’armonia un mondo unico ed un solo ordine del mondo; lui stesso resta immobile presso il Padre, muovendo tutte le cose per mezzo dell’ordine che viene da lui, secondo ciò che piace al Padre suo.
Ciò che è ammirevole della sua divinità è che con un solo e medesimo comandamento, egli guida tutte le cose nello stesso tempo, e non per intervalli, ma tutte insieme, quelle che vanno secondo un movimento rettilineo e quelle che si muovono in tondo, quelle in alto, quelle in mezzo, quelle in basso, le cose umide, le fredde, le calde, le visibili e le invisibili, egli le mette in ordine, ciascuna secondo la sua natura. Nello stesso tempo e con il medesimo comandamento che da lui proviene, ciò che è diritto, si muove rettilineamente; ciò che è rotondo, si muove in circolo; ciò che costituisce una via di mezzo fra i primi due, si muove anch’esso secondo la propria natura; il caldo riscalda ed il secco dissecca; tutti gli esseri, secondo la loro natura, da lui ricevono vita e sussistenza, mentr’egli realizza così un’armonia mirabile e veramente divina.
Per far comprendere con un esempio una realtà così grandiosa, rappresentiamo tutto ciò che abbiamo appena descritto con l’immagine d’un grande coro. Esso è composto da differenti esecutori, uomini, bambini, donne e vecchi e giovani. Al segnale d’un solo direttore, ciascuno di essi canta secondo la sua natura e le sue capacità: l’uomo con una voce d’uomo, il bambino da bambino, il vecchio da vecchio, il giovane da giovane; e tutti eseguono la medesima armonia. Od ancora, valga come esempio la nostra anima che, nello stesso tempo, muove tutti i nostri sensi secondo la virtù di ciascuno e, in presenza d’uno stesso oggetto, li muove tutti assieme: l’occhio per vedere, l’orecchio per ascoltare, la mano per toccare, l’odorato per sentire, il gusto per gustare e sovente, anche gli altri membri del corpo, come i piedi ch’essa fa muovere per camminare. Od infine, per illustrare con un terzo esempio quanto abbiamo affermato, la realtà descritta rassomiglia alla vita di una città assai grande, amministrata personalmente dal capo o dal re che l’ha fondata. Quando costui è presente ed impartisce egli stesso le direttive, tenendo d’occhio ogni cosa, tutti obbediscono: gli uni se ne vanno ai campi, gli altri si affrettano per andare ad attingere l’acqua agli acquedotti; un altro se ne va a far la spesa, uno si mette in cammino verso il Senato, un altro verso l’assemblea; il giudice va a giudicare, l’arconte ad emanare leggi; l’artigiano si accinge al suo lavoro manuale, il marinaio va verso il mare, il carpentiere si dedica al suo mestiere, il medico va a curare i suoi malati, l’architetto si dirige verso le sue costruzioni. Uno se ne va ai campi, un altro ne torna adesso; alcuni circolano all’interno della città, altri ne escono per poi ritornarvi. Tutto ciò avviene e si svolge alla presenza d’un solo capo e sotto il suo governo. Per mediocre che possa essere il paragone citato si deve prenderlo in senso più largo e rendersi conto che le cose vanno allo stesso modo in tutta la creazione. Dietro l’unico impulso e comandamento del Dio Verbo, tutte le cose sono messe in ordine, ciascuna opera ciò che le è proprio e, nello stesso tempo, realizzano tutte assieme un medesimo ordine.
Così grazie alla potenza e alla volontà del Verbo divino, del Verbo del Padre, che comanda e dirige tutto, il cielo gira, gli astri si muovono, il sole brilla, la luna compie le sue evoluzioni, l’aria è illuminata dal sole, l’etere è riscaldato ed i venti soffiano. Le montagne si drizzano verso l’alto, il mare si gonfia e nutre gli esseri viventi che porta, la terra resta immobile e reca frutti, l’uomo nasce, vive e quando sopravviene la sua ora, muore. Tutti gli esseri, in una parola, sono dotati di vita e di movimento. Il fuoco riscalda, l’acqua raffredda, le sorgenti zampillano, i fiumi scorrono, i tempi e le stagioni si susseguono, le piogge cadono, le nuvole si riempiono, si forma la grandine, la neve ed il ghiaccio si irrigidiscono, gli uccelli volano, i serpenti strisciano, gli animali acquatici nuotano; si naviga sul mare, si semina la terra che porterà frutti a suo tempo; le piante crescono, alcune affatto giovani, altre in punto di morire; quando diventano adulte, cominciano ad appassire ed infine muoiono; alcune spariscono, altre nascono e riappaiono di nuovo.
Tutte queste cose, e molte altre ancora (tante ve ne sono che non possiamo descriverle tutte), è il Verbo di Dio, autore di questi miracoli e di queste meraviglie, fonte di luce e di vita, a metterle in movimento e ad ordinarle con la sua volontà, realizzando un unico cosmo. Egli non lascia estranee alla sua opera le potenze invisibili: anche queste, essendo il loro Creatore, egli abbraccia con tutto l’universo, conservandole e donando loro la vita grazie alla sua volontà e alla sua provvidenza.
Come la sua provvidenza fa crescere i corpi, dà movimento all’anima razionale, provvedendola di movimento e di vita (e tutto ciò non ha bisogno di grandi dimostrazioni, dal momento che vediamo noi stessi questi fenomeni), non diversamente è ancora una volta lui, il Verbo di Dio, che con un solo e semplice movimento della sua potenza, dà impulso al mondo visibile ed alle forze invisibili, conservandole e distribuendo loro il potere che è proprio a ciascuna di esse in maniera che gli esseri divini operino più divinamente e la realtà visibile si realizzi nel modo che noi stessi constatiamo. È lui che, in tutte le cose, essendo il capo ed il re e la sintesi di tutti gli esseri, tutto opera per la gloria e la conoscenza del Padre, ammaestrandoci attraverso le sue opere e dicendoci: La grandezza e la bellezza delle creature fanno conoscere per analogia il loro Creatore ( Sap 13, 5).

da Contro i pagani, 42-44, tr. it. di Mario Spinelli in La teologia dei Padri , Città Nuova, Roma 1981, vol. I, pp.

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