Archive pour la catégorie 'PADRI DELLA CHIESA, SCRITTORI ECCLESIASTICI E DOTTORI'

30 NOVEMBRE SANT’ ANDREA – OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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30 NOVEMBRE SANT’ ANDREA (f) APOSTOLO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura

Dalle «Omelie sul vangelo di Giovanni» di san Giovanni Crisostomo, vescovo    (Om. 19, 1; PG 59, 120-121)

Abbiamo trovato il Messia

Andrea, dopo essere restato con Gesù e aver imparato tutto ciò che Gesù gli aveva insegnato, non tenne chiuso in sé il tesoro, ma si affrettò a correre da suo fratello per comunicargli la ricchezza che aveva ricevuto. Ascolta bene cosa gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» (Gv 1, 41). Vedi in che maniera notifica ciò che aveva appreso in poco tempo? Da una parte mostra quanta forza di persuasione aveva il Maestro sui discepoli, e dall’altra rivela il loro interessamento sollecito e diligente circa il suo insegnamento. Quella di Andrea è la parola di uno che aspettava con ansia la venuta del Messia, che ne attendeva la discesa dal cielo, che trasalì di gioia quando lo vide arrivare, e che si affrettò a comunicare agli altri la grande notizia. Dicendo subito al fratello ciò che aveva saputo, mostra quanto gli volesse bene, come fosse affezionato ai suoi cari, quanto sinceramente li amasse e come fosse premuroso di porgere loro la mano nel cammino spirituale. Guarda anche l’animo di Pietro, fin dall’inizio docile e pronto alla fede: immediatamente corre senza preoccuparsi di nient’altro. Infatti dice: «Lo condusse da Gesù» (Gv 1, 42). Nessuno certo condannerà la facile condiscendenza di Pietro nell’accogliere la parola del fratello senza aver prima esaminati a lungo le cose. E’ probabile infatti che il fratello gli abbia narrato i fatti con maggior precisione e più a lungo, mentre gli evangelisti compendiano ogni loro racconto preoccupandosi della brevità. D’altra parte non è detto nemmeno che abbia creduto senza porre domande, ma che Andrea «lo condusse da Gesù», affidandolo a lui perché imparasse tutto da lui direttamente. C’era insieme infatti anche un altro discepolo e anche lui fu guidato nello stesso modo. Se Giovanni Battista dicendo: Ecco l’Agnello di Dio, e ancora: Ecco colui che battezza nello Spirito (cfr. Gv 1, 29. 33), lasciò che un più chiaro insegnamento su questo venisse da Cristo stesso, certamente con motivi ancor più validi si comportò in questo modo Andrea, non ritenendosi tale da dare una spiegazione completa ed esauriente. Per cui guidò il fratello alla sorgente stessa della luce con tale premura e gioia da non aspettare nemmeno un istante

DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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DAL DE LAUDIBUS S. PAULI – SAN GIOVANNI CRISOSTOMO  

Noi potremmo, se solo volessimo, vincere ogni resistenza della natura con la forza della volontà. Non c’è nulla di impossibile per gli uomini in ciò che Cristo ha ordinato; se infatti mettiamo tutto l’impegno di cui siamo capaci, anche Dio ci da insieme molto aiuto, e così diventeremo invincibili contro tutte le avversità. Non è degno di biasimo l’aver paura dei colpi, ma, per la paura di questi, sottostare a qualcosa di indegno del comportamento religioso, in modo che la paura dei colpi mostra colui che rimane invincibile nelle prove, più ammirevole di chi non ne ha paura. In questo modo rifulge maggiormente la volontà, perché aver paura dei colpi è proprio della natura, mentre non sottostare a nulla di sconveniente per paura di essi dipende dalla volontà che corregge la deficienza della natura e vince la sua debolezza. Nemmeno l’afflizione è motivo di accusa, ma, a causa dell’afflizione, dire o fare qualche cosa che non piace a Dio. Se io dicessi che Paolo non era un uomo, giustamente mi addurresti le deficienze della natura, per confutare così il mio discorso; ma se dico e sostengo che era un uomo, in niente superiore a noi riguardo alla natura, mentre divenne migliore riguardo alla volontà, invano, mi presenti queste obiezioni, anzi non invano, ma a favore di Paolo. Infatti in virtù di esse dimostri quanto grande egli fosse, perché pur trovandosi in una natura siffatta, fu più forte di essa. Non solo lo esalti, ma chiudi anche la bocca a quelli che si sono perduti d’animo, non consentendo ad essi di rifugiarsi nella superiorità della sua natura, ma spingendoli invece all’impegno proveniente dalla volontà. Ma, si potrebbe dire, non ebbe paura qualche volta anche della morte? Anche questo atteggiamento è naturale. Tuttavia egli stesso che temeva la morte diceva a sua volta: In realtà quanti siamo in questa tenda[1], sospiriamo come sotto un peso[2], e di nuovo: Anche noi gemiamo interiormente[3]. Vedi come ha presentato la forza proveniente dalla volontà quale contrappeso della debolezza della natura? Infatti anche molti martiri spesso, nell’essere condotti al supplizio, impallidirono e furono pieni di paura e di angoscia; però proprio per questo sono soprattutto degni di ammirazione, perché, pur avendo timore della morte, non l’hanno fuggita a causa di Gesù. Così anche Paolo, pur temendo la morte, non rifiuta neppure la geenna per amore di Gesù[4], e, pur trepidando al pensiero della propria fine, desidera essere sciolto dal corpo[5]. Non era solo lui a provare ciò, ma anche il capo degli apostoli, pur avendo spesso detto di essere pronto a dare la vita[6], temeva assai la morte. Ascolta che cosa gli dice Cristo parlandogli in merito: Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi[7], fa riferimento alla deficienza della natura, non della volontà. La natura mostra le sue proprietà anche contro noi, e non è possibile superare tali deficienze, neppure se si vuole e ci si impegna intensamente; pertanto da questo lato non siamo danneggiati, anzi siamo ammirati maggiormente. Che capo d’accusa è infatti aver paura della morte? Quale motivo di elogio non è invece, pur avendo paura della morte, non sottostare ad alcun atteggiamento meschino a causa di questa paura? Non è motivo d’accusa avere una natura con delle deficienze, bensì essere schiavi di queste; sicché chi resiste all’assalto che proviene da essa con il coraggio della volontà, è grande e ammirevole. Così mostra quanto grande sia la forza della volontà e tappa la bocca a quanti dicono: «Perché non siamo divenuti buoni per natura?». Che differenza c’è che questo si verifichi per natura o per volontà? Quanto è migliore questa condizione di quella? Per il fatto di procurare corone e una splendida rinomanza. Ciò che è proprio della natura non è forse saldo? Ma se vuoi avere una forte volontà, questa condizione è più solida della prima. Non vedi che il corpo dei martiri è trapassato dalla spada e che, se la natura indietreggia davanti al ferro, la volontà non cede ad esso né si lascia sopraffare? Dimmi: non vedi che, nel caso di Abramo, la volontà ebbe il sopravvento sulla natura, quando gli fu ordinato di sacrificare il figlio[8], e la prima si manifestò più potente della seconda? Non vedi che si è verificata la medesima situazione nel caso dei tre giovani[9]? Non ascolti anche il proverbio che afferma che la volontà diventa una seconda natura in forza dell’abitudine? Anzi potrei dire che diventa la prima, come l’ha dimostrato ciò che è stato detto in precedenza. Vedi che è possibile acquistare anche la saldezza della natura, se la volontà è generosa e vigile, e che raccolga maggiori elogi chi sceglie e vuole essere buono più di chi vi è costretto? Questo è bello soprattutto, come quando dice: Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù[10]. Allora soprattutto lo lodo, vedendolo raggiungere la virtù non senza pena, in modo da non essere motivo di indolenza per quelli che sarebbero venuti dopo, per giustificare la loro mollezza. Quando dice ancora: Sono crocifisso per il mondo[11], incorono la sua volontà. È possibile infatti, è possibile imitare la forza della natura con il rigore della volontà. Se lo proponiamo come l’esempio stesso della virtù, troveremo che si sforzò di portare le buone qualità che aveva in conseguenza della volontà, al livello della saldezza della natura. Soffriva certamente quando era percosso, ma non disprezzava i patimenti meno delle potenze incorporee che non soffrono, come si può apprendere dalle sue parole che non sembrerebbero far credere che appartenesse alla nostra natura. Quando infatti dice: Il mondo è crocifisso per me e io lo sono per il mondo[12], e ancora: Io vivo, o piuttosto non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me[13], che altro significa se non che ha abbandonato il corpo stesso? Che vuol dire, quando dice: Mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana[14]? Nient’altro se non mostrare che la sofferenza arrivava solo al corpo; non perché non passasse all’interno, ma perché egli la respingeva e l’allontanava per la sovrabbondanza della sua volontà. E che dire, quando fa molte affermazioni più meravigliose di queste, e gioisce di essere frustato e si vanta delle sue catene[15]? Che altro si potrebbe dire se non quanto ho detto, che cioè affermare: Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, nel timore che, dopo aver predicato agli altri, non venga io stesso squalificato[16], indica da un lato la debolezza della natura, ma dall’altro, mediante quanto ho detto, la nobiltà della volontà? Perciò si trovano entrambi questi aspetti presso di lui, affinché né pensi che per le sue grandi virtù appartenesse ad una natura diversa e non ti scoraggi, né condanni quell’anima santa per le sue debolezze, anzi al contrario, scacciando in conseguenza di ciò lo scoraggiamento, ti volga verso una fiduciosa speranza. Per questo motivo presenta d’altra parte anche la grazia di Dio in termini amplificativi, anzi non in termini amplificativi, ma con saggezza, perché pensi che nulla viene da lui. Afferma però anche il suo impegno, perché, attribuendo tutto a Dio, tu non trascorra la vita nell’inoperosità e nell’incuria. E troverai rigorosamente in lui misura e regola di tutto.

[1] Il corpo. [2] 2 Cor 5, 4. [3] Rom 8, 23. [4] Cf Rom 9, 3. [5] Cf Fil 1, 23. [6] Cf Mt 26, 35; Mc 14, 31; Lc 22, 33; Gv 13, 37. [7] Gv 21, 18. [8] Cf Gen 22, 1ss. [9] Cf Dan 3, 12ss. [10] 1 Cor 9, 27. [11] Gal 6, 14. [12] Ib. [13] Gal 2, 20. [14] 2 Cor 12, 7. [15] Cf 2 Cor 11, 24-25; Fil 1, 12-14. [16] 1 Cor 9, 27.  

GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

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GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

In quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo decennio dell’era cristiana. Quattro secoli dopo, Antiochia è ancora uno dei centri più importanti della Chiesa d’Oriente. In particolare da quando un giovane sacerdote aveva cominciato a predicare. Il suo nome è Giovanni e i secoli successivi lo chiameranno “Crisostomo”, ovvero “bocca d’oro” per la semplicità ed insieme la profondità e bellezza della sua predicazione. Siamo nel 392 e Giovanni – vista la situazione della sua comunità particolarmente in crisi – sceglie come tema del suo annuncio la speranza. E lo fa attraverso la testimonianza del suo autore prediletto: Paolo e la sua Lettera ai Romani. Tutti si aspettano una lettura inevitabilmente teologica, visto il contenuto della lettera paolina. Al contrario, il Crisostomo parte dalla vita concreta e – alla luce del testo sacro – ne illumina la sfida: «Se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto». Infatti «la nostra speranza è certa e inamovibile perché Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre». Questo genera la fiducia e la pazienza, vero antidoto alla disperazione. «Per mezzo di Cristo abbiamo anche avuto accesso, mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,2). 2. Nota come Paolo precisa sempre tutti e due gli aspetti, ciò che viene da Cristo e ciò che viene da noi. Solo che da Cristo ci vengono molte eIn quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo  svariate cose: è morto per noi, ci ha riconciliati, ci ha dato accesso e ci ha comunicato un’ineffabile grazia; per parte nostra invece ci mettiamo solo la fede. Per questo dice: «…mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo». Dimmi: quale grazia? Quella di essere resi degni di conoscere Dio, quella di essere liberati dall’errore, di conoscere la verità, di conseguire tutti i beni mediante il Battesimo. Per questo, infatti, ci ha dato accesso alla grazia, perché ottenessimo questi doni; non solo, dunque, per avere la remissione e la liberazione dai peccati, ma per godere di infiniti pregi. E non si ferma qui, perché annuncia anche altri beni, quelli indicibili che superano la mente e la ragione. Infatti, parlando di «grazia» si riferisce alle realtà presenti che abbiamo conseguite, ma quando dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», rivela tutte le realtà future. E giustamente dice: «Nella quale rimaniamo», perché così è la grazia di Dio: non ha fine né limiti ma si espande sempre più, cosa che per gli uomini non si verifica. Facciamo un esempio: uno può prendere il comando, la gloria, il potere, ma non «rimane» stabilmente in essi, perché ben presto ne decade: se anche non lo spodesta un altro, sopraggiungerà la morte a spazzarlo via. Per le cose di Dio non è così: non c’è uomo o tempo o circostanza e neppure lo stesso diavolo o la morte che possa venire a cacciarcene. Anzi, quando moriremo le possiederemo più pienamente e cresceremo sempre più nel loro godimento. Pertanto, se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto. Per questo dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», perché impari quale disposizione d’animo deve avere l’uomo di fede. Questi deve ostentare certezza non solo delle cose che gli sono state date, ma anche di quelle future come se gli fossero già state date. Infatti uno si vanta di ciò che ha già ottenuto. Ora, poiché la speranza delle cose future è sicura e certa quanto le cose già date, noi – dice Paolo – ci vantiamo a pari titolo anche di quelle, e per questo le chiama «gloria». Se infatti concorrono alla gloria di Dio, è certo che accadranno, se non per noi, per Lui. Ma cosa vado dicendo – obietterai – che i beni futuri sono degni di vanto? Quelli presenti sono già di per sé così pieni di mali che possiamo proprio andarne fieri! Ecco allora che Paolo aggiunge: «E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni» (Rm 5,3). Pensa quanto grandi debbono essere le realtà future se andiamo orgogliosi di quelle che sembrano piene di dolore ! Tanto grande è il dono di Dio e nulla vi è in esso di sgradevole. Nelle realtà esteriori i combattimenti comportano fatiche, dolori e tribolazioni, che le corone e i premi convertono in soddisfazione. Nel nostro caso non è così, perché la lotta ci procura non minore soddisfazione del premio. Poiché infatti le prove erano numerose, mentre il regno restava affidato alla speranza; poiché sottomano c’erano realtà funeste, mentre quelle propizie restavano nell’aspettativa – e tutto questo prostrava i più deboli – ecco che dà loro il premio prima ancora della vittoria, dicendo che bisogna vantarsi anche nelle tribolazioni. E si noti che non dice: «Dovete vantarvi», ma: «Ci vantiamo», rivolgendo l’esortazione alla sua propria persona. Quindi, poiché poteva sembrare strano ed assurdo affermare che uno se lotta con la fame, se è in catene o tra i tormenti, se è oltraggiato e schernito, deve vantarsi, si preoccupa di fondare il discorso e, quel che è più, giunge ad affermare che è giusto vantarsi non solo per le realtà future ma anche per quelle presenti. Cioè, le tribolazioni sono per se stesse cosa buona. Per quale motivo? Perché spingono alla pazienza. E infatti dopo aver detto: «Ci vantiamo nella speranza», continua adducendone il motivo: «Ben sapendo che la tribolazione produce pazienza» (Rm 5,3). Osserva ancora una volta la puntigliosità con cui Paolo capovolge la logica del discorso: dato che le tribolazioni provocavano assai spesso la rinuncia ai beni futuri e gettavano nella disperazione, afferma che proprio in forza delle tribolazioni bisogna essere fiduciosi e non disperare dei beni futuri. Dice infatti: «La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude» (Rm 5,3-5). Le tribolazioni, dunque, non solo non distruggono questa speranza, ma la costruiscono. Infatti, anche prima dell’avvento dei beni futuri, la tribolazione produce un frutto eccellente, la pazienza, e rende idoneo chi è sottoposto alla prova. Inoltre dà il suo contributo ai beni futuri, in quanto porta al culmine in noi il vigore della speranza. Niente infatti produce una valida speranza quanto una buona coscienza.

3. Ordunque, coloro che hanno vissuto rettamente non devono perdere la fede nelle realtà future, così come, invece, molti di coloro che di vivere rettamente non si sono curati – e sono quindi oppressi da cattiva coscienza – vorrebbero che non ci fosse né giudizio né remunerazione. Che dire, dunque: i beni promessici sono affidati alla speranza? Certo, ma non alle speranze umane, che spesso vengono a cadere coprendo di vergogna chi vi si era affidato, perché colui da cui ci si aspettava sostegno o è morto o, se è ancora vivo, ha cambiato idea. Per i nostri beni non è così, perché la nostra speranza è certa e inamovibile. Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre e noi, che siamo destinati a godere di essi, anche se moriamo risorgeremo, e non c’è niente e nessuno che possa svergognarci come se a caso ci fossimo stoltamente esaltati per fallaci speranze. Dopo aver sgombrato ogni dubbio con queste parole, Paolo non si ferma alle realtà presenti ma chiama in causa di nuovo quelle future, ben sapendo che i più deboli e coloro che spasimano per il presente non si sarebbero accontentati di quanto detto. Egli dunque conferma la fede nei beni futuri in base a quelli già dati. Qualcuno infatti potrebbe dire: «E se Dio non volesse concederci la sua grazia?». Che ne abbia il potere e che duri in eterno e viva lo sappiamo tutti, ma da dove sappiamo che egli anche lo voglia? Da quanto si è già verificato. E cos’è che si è verificato? L’amore che ha mostrato per noi. In che modo? Donandoci lo Spirito Santo. Per questo, dopo aver detto che la speranza non delude, ne dà dimostrazione aggiungendo: «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5). Non ha detto: «È stato dato», ma «È stato riversato nei nostri cuori», sottolineando la prodigalità. Infatti quello che ci ha fatto è stato il dono più sublime; non il cielo e la terra e il mare, ma un dono più prezioso di tutti questi, che da uomini ci ha fatti diventare angeli, figli di Dio e fratelli di Cristo. Qual è questo dono? Lo Spirito Santo! Se dunque Dio non avesse voluto, dopo le nostre pene, incoronarci di una grande vittoria, non ci avrebbe elargito, prima di esse, dei doni così grandi. Ora invece quanto sia ardente il suo amore per noi si rivela in questo, che non ci ha dato una piccola e breve gratificazione, ma ha riversato l’intero flusso dei suoi doni, e questo prima che affrontassimo la lotta. Così, anche se non sei affatto degno, non disperare, perché presso il giudice hai un grande avvocato: l’amore. Per questo, quando dice che la speranza non delude, intende riportare tutto non alle nostre opere ma all’amore di Dio.

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SU SAN PAOLO – DE LAUDIBUS S. PAULI,

http://liturgiadomenicale.blogspot.it/2008/06/san-giovanni-crisostomo-omelie-su-san.html

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SU SAN PAOLO – DE LAUDIBUS S. PAULI,

Hom. II, l-6.10, in PG 50, 477-484.

Più di tutti gli uomini Paolo ha mostrato che cosa è l’uomo, quanto grande è la nobiltà della nostra natura e quanta virtù questo essere vivente è capace di accogliere in sé. Ogni giorno Paolo diventava più vigoroso. Nonostante i pericoli crescessero per lui, rinnovava il suo impegno; manifestava questo atteggiamento dicendo: Dimentico del passato e proteso verso il futuro (Fil 3,13). Se era in attesa della morte, esortava a condividere questa gioia, dicendo: Godetene e rallegratevi con me. Fil 2,18. Mentre incalzavano pericoli, oltraggi, ogni infamia, esultava di nuovo e scrivendo ai Corinzi arrivava a dire: Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle persecuzioni (2 Cor 12,10). Ha chiamato le medesime sofferenze armi della giustizia (2 Cor 6,7), facendo vedere che anche da esse traeva i frutti più rigogliosi ed era ovunque invincibile da parte dei nemici. Ovunque fustigato, insultato, oltraggiato, avanzando solennemente come in un corteo trionfale e innalzando continui trofei in ogni parte della terra, così se ne andava fiero e ringraziava Dio dicendo: Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo (2 Cor 2,14). Andava dietro alla vergogna e all’oltraggio a causa dell’annuncio del vangelo più di quanto noi andiamo a caccia degli onori. Aveva in se stesso la cosa più sublime di tutte, l’amore di Cristo; con questo si ritenne più beato di tutti, senza di questo non faceva voti di entrare nella categoria delle persone altolocate e potenti (Cf Ef 1, 21; Col 1,16). Con l’amore di Cristo voleva invece trovarsi fra gli ultimi, anzi fra coloro che ricevono supplizi (Cf 2 Cor 6,9), piuttosto che, senza di esso, fra i più insigni e onorati. Il solo castigo per lui consisteva nel perdere questo amore. Tale eventualità rappresentava per lui la geenna, la punizione, innumerevoli mali, come d’altra parte la sua gioia stava nel raggiungerlo: ciò costituiva la vita, il mondo, gli angeli, il presente, il futuro, il Regno, la promessa, innumerevoli beni. Riteneva che nessun’altra cosa, che non conduceva a questo amore, non fosse né dolorosa né piacevole, mentre non teneva in alcun conto tutti i beni visibili così come l’erba imputridita. Despoti e popoli spiranti alterigia gli sembravano zanzare; la morte, le pene, gli innumerevoli supplizi, quasi fossero giochi da bambini, quando si trattava di sopportarli a causa di Cristo.

Paolo viveva in prigione come se fosse il cielo stesso, accoglieva ferite e staffilate più volentieri di coloro che portano via i premi, amava le fatiche non meno delle ricompense, pensando che le fatiche fossero una ricompensa; perciò le chiamava anche una grazia (Cf Fil 1,29). Fa’ attenzione: era un premio per lui essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo, mentre rimanere nella carne costituiva il combattimento; tuttavia preferisce questo a quello e dice che gli è più necessario (Cf Fil 1,23-24). Essere anàtema, separato da Cristo (Cf Rm 9,3), era una lotta e una sofferenza, anzi anche al di là della lotta e della sofferenza, mentre essere con lui era la ricompensa bramata; preferisce però quelle a questa a causa di Cristo. Ma forse qualcuno potrebbe dire che tutto ciò gli era piacevole a causa di Cristo. Lo sostengo anch’io: quanto è per noi motivo di angustia, a lui generava una grande gioia. A che parlare dei pericoli e delle altre tribolazioni? Era anche in un’ansia continua, per cui diceva: Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? (2 Cor 11,29). Vi prego di non ammirare soltanto, ma di imitare anche questo modello di virtù; così potremo condividere con lui le medesime corone. Se ti meravigli ascoltando che, se ti comporterai virtuosamente come lui, raggiungerai le medesime ricompense, ascoltalo mentre esprime questo concetto: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione (2 Tm 4,7-8). Vedi come chiama tutti a condividere i medesimi premi? Poiché dunque sono proposte a tutti le stesse ricompense, sforziamoci tutti di divenire degni dei beni promessi. Non guardiamo soltanto alla grandezza e allo splendore delle sue virtù, ma anche all’intensità del suo impegno, per mezzo del quale si è attirato una grazia così grande, e alla comunanza di natura, perché ha condiviso tutto con noi. Così ciò che è molto arduo da raggiungere ci apparirà facile e agevole e, dopo esserci affaticati per questo breve tempo, porteremo continuamente quella corona eterna e immortale, per la grazia e la bontà di nostro Signore Gesù Cristo, al quale è la gloria e la potenza ora e sempre nei secoli dei secoli.

SANTA TERESA D’AVILA DOTTORE DELLA CHIESA – (IL RICORDO DI PAOLO) – PAOLO VI, 1970

https://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1970/documents/hf_p-vi_hom_19700927.html

PROCLAMAZIONE DI SANTA TERESA D’AVILA DOTTORE DELLA CHIESA – (IL RICORDO DI PAOLO)

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

Domenica, 27 settembre 1970

Noi abbiamo conferito, o meglio: Noi abbiamo riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa a Santa Teresa di Gesù. Il solo fatto di proferire il nome di questa Santa, singolarissima e grandissima, in questo luogo e in questa circostanza, solleva nelle nostre anime un tumulto di pensieri: il primo sarebbe quello di rievocare la figura di Teresa: la vediamo apparire davanti a noi, come donna eccezionale, come religiosa, che, tutta velata di umiltà, di penitenza e di semplicità, irradia intorno a sé la fiamma della sua vitalità umana e della sua vivacità spirituale, e poi come riformatrice e fondatrice d’uno storico e insigne Ordine religioso, e scrittrice genialissima e feconda, maestra di vita spirituale, contemplativa incomparabile e indefessamente attiva; . . . com’è grande! com’è unica! com’è umana! com’è attraente questa figura! Prima di parlare d’altro saremmo tentati a parlare di lei, di questa Santa, sotto tanti aspetti interessantissima. Ma non attendete da Noi, in questo momento, che vi parliamo della persona e dell’opera di Teresa di Gesù: basterebbe la duplice bibliografia raccolta nel volume preparato con tanta cura dalla nostra Sacra Congregazione per le Cause dei Santi per scoraggiare chi volesse condensare in brevi parole l’immagine storica e biografica di questa Santa, che sembra straripare dai lineamenti descrittivi nei quali si vorrebbe contenere. Del resto, non è su di lei propriamente che noi vogliamo ora fissare, per un istante, la nostra attenzione. Ma è sull’atto che noi abbiamo compiuto testé; sul fatto che incidiamo nella storia della Chiesa e che affidiamo alla pietà e alla riflessione del Popolo di Dio, sul conferimento, dicevamo, del titolo dottorale a Teresa di Avila, a Santa Teresa di Gesù, la grande Carmelitana.

FULGORI DI SAPIENZA NELLA SANTITÀ E il significato di questo atto è molto chiaro; un atto che intenzionalmente vuole essere luminoso, che potrebbe avere una sua simbolica immagine in una lampada accesa davanti all’umile e maestosa figura della Santa: luminoso per il fascio di raggi che la lampada del titolo dottorale proietta sopra di lei; e luminoso per un altro fascio di raggi, che questo stesso titolo dottorale proietta sopra di noi. Sopra di lei, Teresa: la luce del titolo mette in evidenza indiscutibili valori che già le erano ampiamente riconosciuti: la santità della vita, innanzitutto, valore questo già ufficialmente proclamato, fin dal 12 marzo 1622 – Santa Teresa era morta trenta anni prima -, dal nostro Predecessore Gregorio XV, nella celebre canonizzazione, che, con la nostra Carmelitana, iscrisse nell’albo dei Santi Ignazio di Loiola, Francesco Saverio, Isidoro Agricola, tutti gloria della Spagna cattolica, e con loro Filippo Neri, fiorentino- romano quest’ultimo; e mette in evidenza altresì «l’eminenza della dottrina», in secondo luogo, ma questa specialmente (Cfr. PROSPERO LAMBERTINI, poi Papa Benedetto XIV, De Servorum Dei beatificatione, IV, 2, c. 11, n. 13). La dottrina dunque di Santa Teresa d’Avila risplende dei carismi della verità, della conformità con la fede cattolica, dell’utilità per l’erudizione delle anime; e un altro possiamo particolarmente notare, il carisma della sapienza, che ci fa pensare all’aspetto più attraente e insieme più misterioso del dottorato di Santa Teresa, all’influsso cioè della divina ispirazione in questa prodigiosa e mistica scrittrice. Donde veniva a Teresa il tesoro della sua dottrina? Indubbiamente dalla sua intelligenza e dalla sua formazione culturale e spirituale, dalle sue letture, dalle conversazioni con grandi maestri di teologia e di spiritualità, da una sua singolare sensibilità, da una sua abituale ed intensa disciplina ascetica, dalla sua meditazione contemplativa, in una parola dalla sua corrispondenza alla grazia, accolta nell’anima straordinariamente ricca e preparata alla pratica e all’esperienza dell’orazione. Ma era soltanto questa la sorgente della sua «eminente dottrina?»? o non si devono riscontrare in Santa Teresa atti, fatti , stati, che non provengono da lei, ma che da lei sono subiti, che sono cioè così sofferti e passivi, mistici nel vero senso della parola, da doverli attribuire ad una azione straordinaria dello Spirito Santo? Siamo indubbiamente davanti ad un’anima nella quale l’iniziativa divina straordinaria si manifesta, e dalla quale essa è percepita e quindi descritta da Teresa, con un linguaggio letterario suo proprio, semplicemente, fedelmente, stupendamente.

CON TUTTE LE FORZE SALIRE A DIO Qui le questioni si moltiplicano. L’originalità dell’azione mistica è fra i fenomeni psicologici più delicati e più complessi, nei quali molti fattori possono intervenire, e obbligare l’osservatore alle più severe cautele; ma nei quali le meraviglie dell’anima umana si manifestano in modo sorprendente, ed una fra tutte più comprensiva: l’amore, che celebra nella profondità del cuore le sue espressioni più varie e più piene; amore che dovremo chiamare alla fine connubio, perché esso è l’incontro dell’amore divino inondante che discende all’incontro con l’amore umano, che tende a salire con tutte le forze; è l’unione con Dio più intima e più forte che ad anima vivente in questa terra sia dato sperimentare; e che diventa luce, diventa sapienza; sapienza delle cose divine, sapienza delle cose umane. Ed è di questi segreti che ci parla la dottrina di Teresa; sono i segreti dell’orazione. La sua dottrina è qui. Ella ha avuto il privilegio e il merito di conoscerli questi segreti per via di esperienza, vissuta nella santità d’una vita consacrata alla contemplazione e simultaneamente impegnata nell’azione, e di esperienza insieme patita e goduta nell’effusione di straordinari carismi spirituali. Teresa ha avuto l’arte di esporli questi medesimi segreti, tanto da classificarsi fra i sommi maestri della vita spirituale. Non indarno la statua, che colloca, come Fondatrice, la figura di Teresa in questa Basilica, reca l’iscrizione che ben definisce la Santa: Mater Spiritualium. Era già ammessa, si può dire per consenso unanime, questa prerogativa di Santa Teresa, di essere madre, d’essere maestra delle persone spirituali. Una madre piena d’incantevole semplicità, una maestra piena di mirabile profondità. Il suffragio della tradizione dei Santi, dei Teologi, dei Fedeli, degli studiosi le era già assicurato; noi lo abbiamo ora convalidato, facendo in modo che, ornata di questo titolo magistrale, ella abbia una più autorevole missione da compiere, nella sua Famiglia religiosa e nella Chiesa orante e nel mondo, con un suo messaggio perenne e presente: il messaggio dell’orazione.

IL MESSAGGIO DELL’ORAZIONE È questa la luce, resa oggi più viva e penetrante che il titolo di Dottore, conferito a Santa Teresa, riverbera sopra di noi. Il messaggio dell’orazione ! Viene a noi, figli della Chiesa, in un’ora segnata da un grande sforzo di riforma e di rinnovamento della preghiera liturgica; viene a noi, tentati dal grande rumore e dal grande impegno del mondo esteriore di cedere all’affanno della vita moderna e di perdere i veri tesori della nostra anima nella conquista dei seducenti tesori della terra. Viene a noi, figli del nostro tempo, mentre si va perdendo non solo il costume del colloquio con Dio, ma il senso del bisogno e del dovere di adorarlo e d’invocarlo. Viene a noi il messaggio della preghiera, canto e musica dello spirito imbevuto della grazia e aperto alla conversazione della fede, della speranza e della carità, mentre l’esplorazione psicanalitica scompone il fragile e complicato strumento che noi siamo, non più per trarne le voci dell’umanità dolorante e redenta, ma ascoltarne il torbido mormorio del suo subcosciente animale e le grida delle sue incomposte passioni e della sua angoscia disperata. Viene il messaggio sublime e semplice dell’orazione della sapiente Teresa, che ci esorta ad intendere «il grande bene che fa Dio ad un’anima, allorché la dispone a praticare con desiderio l’orazione mentale; . . . perché l’orazione mentale, a mio parere, altro non è che una maniera amichevole di trattare, nella quale ci troviamo molte volte a parlare, da solo a solo, con Colui che sappiamo che ci ama» (Vida, 8 , 4-5). In sintesi, questo il messaggio per noi di Santa Teresa di Gesù, Dottore della Santa Chiesa: ascoltiamolo e facciamolo nostro. Dobbiamo aggiungere due rilievi che ci sembrano importanti. Il primo è quello che osserva come Santa Teresa d’Avila sia la prima donna a cui la Chiesa conferisce questo titolo di Dottore; e questo fatto non è senza il ricordo della severa parola di San Paolo: Mulieres in Ecclesiis taceant (1 Cor. 14, 34): il che vuol dire, ancora oggi, come la donna non sia destinata ad avere nella Chiesa funzioni gerarchiche di magistero e di ministero. Sarebbe ora violato il precetto apostolico? Possiamo rispondere con chiarezza: no. In realtà, non si tratta di un titolo che comporti funzioni gerarchiche di magistero, ma in pari tempo dobbiamo rilevare che ciò non significa in nessun modo una minore stima della sublime missione che la donna ha in mezzo al Popolo di Dio. Al contrario, la donna, entrando a far parte della Chiesa con il Battesimo, partecipa del sacerdozio comune dei fedeli, che la abilita e le fa obbligo di «professare dinanzi agli uomini la fede ricevuta da Dio per mezzo della Chiesa» (Lumen gentium, c. 2, 11). E in tale professione di fede tante donne sono arrivate alle cime più elevate, fino al punto che la loro parola e i loro scritti sono stati luce e guida dei loro fratelli. Luce alimentata ogni giorno nel contatto intimo con Dio, anche nelle forme più nobili dell’orazione mistica, per la quale San Francesco di Sales non esita a dire che posseggono una speciale capacità. Luce fatta vita in maniera sublime per il bene e il servizio degli uomini.

AL DI SOPRA DI OGNI OSTACOLO: SENTIRE CON LA CHIESA Per questo il Concilio ha voluto riconoscere l’alta collaborazione con la grazia divina che le donne sono chiamate ad esercitare, per instaurare il Regno di Dio sulla terra, e nell’esaltare la grandezza della loro missione, non dubita di invitarle egualmente a cooperare «perché l’umanità non decada», per «riconciliare gli uomini con la vita», «per salvare la pace nel mondo» (VAT. II, Messaggio alle donne). In secondo luogo, non vogliamo tralasciare il fatto che Santa Teresa era spagnola e a buon diritto la Spagna la considera una delle sue glorie più grandi. Nella sua personalità si apprezzano le caratteristiche della sua patria: la robustezza di spirito, la profondità dei sentimenti, la sincerità di cuore, l’amore alla Chiesa. La sua figura si colloca in un’epoca gloriosa di santi e di maestri che distinguono il loro tempo con lo sviluppo della spiritualità. Li ascolta con l’umiltà della discepola, mentre allo stesso tempo sa giudicarli con la perspicacia di una grande maestra di vita spirituale, e come tale questi la considerano. D’altra parte, dentro e fuori delle frontiere patrie, si agitava violenta la tempesta della Riforma, opponendo tra di loro i figli della Chiesa. Ella per il suo amore alla verità e la sua intimità con il Maestro, ebbe ad affrontare amarezze e incomprensioni di ogni sorta e non sapeva dar pace al suo spirito dinanzi alla rottura dell’unità: «Ho sofferto molto – scrive – e come se io potessi qualcosa o fossi qualcosa piangevo con il Signore e lo supplicavo di rimediare tanto male» (Camino de perfección, c. 1, n. 2; BAC, 1962, 185). Questo suo sentire con la Chiesa, provato nel dolore alla vista della dispersione delle forze, la condusse a reagire con tutto il suo forte spirito castigliano nell’ansia di edificare il regno di Dio; decise di penetrare nel mondo che la circondava con una visione riformatrice per imprimergli un senso, un’armonia, un’anima cristiana. A distanza di cinque secoli, Santa Teresa di Avila continua a lasciare le orme della sua missione spirituale, della nobiltà del suo cuore assetato di cattolicità, del suo amore spoglio di ogni affetto terreno per potersi dare totalmente alla Chiesa. Prima del suo ultimo respiro, ella poté ben dire, come riepilogo della sua vita: «Finalmente, sono figlia della Chiesa!». In questa espressione, gradito presagio della gloria dei beati per Teresa di Gesù, vogliamo vedere l’eredità spirituale legata a tutta la Spagna. Vogliamo anche vedere un invito a tutti noi a farci eco della sua voce, a trasformarla in programma della nostra vita per poter ripetere con lei: siamo figli della Chiesa. Con la Nostra Apostolica Benedizione

SANT’AGOSTINO : DISCORSO 333 NEL NATALE DEI MARTIRI

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_473_testo.htm

SANT’AGOSTINO : DISCORSO 333

NEL NATALE DEI MARTIRI (LA PAROLA DELL’APOSTOLO PAOLO ALL’APPROSSIMARSI DEL SUO MARTIRIO)

La pazienza è propria dei martiri, ma l’hanno in dono da Dio. Cristo, Pane eterno e quotidiano, dà vigore ai martiri.

1. Il Signore nostro Gesù Cristo ai testimoni – cioè, ai suoi martiri, posti in ansia, comportandolo l’umana debolezza, dal dubbio di sopravvivere se lo confessassero e morissero – dette piena sicurezza dicendo loro: Nemmeno un capello del vostro capo perirà 1. Temi dunque che sia tu a perire, quando un tuo capello non perirà? Se quanto di superfluo è così custodito, sotto qual grande protezione non è la tua vita? Non perisce un capello, del cui taglio non avverti sensazione alcuna, e perisce l’anima per la quale sono attivi i tuoi sensi? È vero che predisse loro che avrebbero patito molte tribolazioni, ma per renderli più disposti con la predizione, così che quelli potessero dire: Il mio cuore è deciso 2. Che vuol dire: Il mio cuore è deciso, se non che la mia volontà è decisa? I martiri, nella passione, hanno perciò una volontà ben disposta, ma la volontà è predisposta dal Signore 3. E, fatti conoscere tutti questi futuri mali crudeli e dolorosi, aggiunse: Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime 4. Con la vostra perseveranza, disse. Non vi sarebbe certo la tua perseveranza là ove non fosse anche la tua volontà. Con la vostra perseveranza: ma, come può essere nostra? È cosa nostra quel che si ha da noi ed è cosa nostra pure quel che si dona a noi. Se infatti non si vuole che sia cosa nostra, non si dona. Come dunque doni qualcosa, se non perché sia di chi la riceve in dono da te? È espressiva quella confessione: Non riposa solo in Dio l’anima mia? È infatti da lui la mia perseveranza 5. Egli dice a noi: Con la vostra perseveranza. Anche noi possiamo dire a lui: Da lui è la mia perseveranza. È diventata tua per donazione: non essere ingrato attribuendola a te. Nella preghiera del Signore, non diciamo che è anche nostro ciò che ci viene da Dio? Ogni giorno diciamo: Nostro pane quotidiano. Hai già detto nostro, ma dici: Dacci 6. Ecco il nostro, ecco il dacci: per il fatto che è donato da lui, diventa nostro. Poiché è nostro in quanto donato da lui, se pertanto insorge la nostra superbia, diventa proprietà altrui. Tu dici: Nostro, e dici: Dacci: come dunque ti attribuisci ciò che non ti sei dato da te? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? 7 Tu dici: Nostro, e: Dacci. Riconosci il donatore, ammetti di ricevere, così che egli volentieri si degni elargire. Che saresti se non ti trovassi nel bisogno tu che vai elemosinando e sei superbo? tu che chiedi il pane, non sei forse un mendicante? Cristo, nell’uguaglianza del Padre: il nostro Pane eterno; Cristo nella carne: il nostro Pane quotidiano; eterno, fuori del tempo; quotidiano, nel tempo. Tuttavia egli è il Pane che è disceso dal cielo 8. I martiri sono forti, i martiri sono saldi nella fede: ma il Pane sostiene il vigore dell’uomo 9.

La mercede è gratuita; all’opera partecipa Dio.
2. Perciò, ascoltiamo ora la parola dell’apostolo Paolo all’approssimarsi del suo martirio, quando si attendeva la corona che gli era stata preparata: Ho combattuto la buona battaglia – disse – ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione 10. Mi consegnerà – egli dice – il Signore, giusto giudice, la corona. È un debito, quindi, ciò che consegnerà. Pertanto, il giusto giudice consegnerà; non può infatti negare la mercede dopo aver valutato l’opera. Che opera osserva? Ho combattuto la buona battaglia, è un’opera; ho terminato la corsa, è un’opera; ho conservato la fede, è un’opera. Mi resta la corona di giustizia: è la mercede. Quanto alla ricompensa, tu non vi prendi parte per nulla; nel compimento dell’opera, non sei solo ad agire. La corona ti viene da lui, ma l’opera viene da te, non senza però l’aiuto di lui. Al contrario, quando l’apostolo Paolo, Saulo un primo tempo, era un persecutore accanitissimo e inesorabile, non meritava affatto alcunché di bene, anzi un’infinità di male: meritava senz’altro di essere condannato, non di essere scelto. Ed ecco improvvisamente, mentre era intento a compiere il male e a meritare mali, viene atterrato da un solo richiamo dal cielo: è gettato a terra persecutore, si risolleva evangelizzatore. Ascoltalo, egli riconosce apertamente proprio questo: Io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, ho ricevuto misericordia 11. È stato forse a questo punto che ha detto: Il giusto giudice mi consegnerà? Qui dice: Ho ricevuto misericordia: meritavo dei mali, ho ricevuto dei beni. Non ci ha trattato secondo i nostri peccati 12. Io ho ricevuto misericordia, non sono stato trattato secondo quanto mi era dovuto: infatti, se mi fosse stato reso il dovuto, mi sarebbe spettata la pena eterna. Non ho ricevuto, dice, quel che mi si doveva. ma ho ricevuto misericordia. Non ci ha trattato secondo i nostri peccati.

Paolo, da persecutore a pastore: come distribuisce le parti.
3. Quanto dista l’oriente dall’occidente così allontana da noi le nostre colpe 13. Allontanati dall’occidente, volgiti all’oriente. Ecco, in uno stesso uomo, Saulo e Paolo: Saulo in occidente, Paolo in oriente; il persecutore in occidente, l’evangelizzatore in oriente. Di là danno la morte i peccati, di qui nasce la giustizia. In occidente l’uomo vecchio, in oriente l’uomo nuovo: in occidente Saulo, in oriente Paolo. Donde viene questo Saulo, donde questo crudele, donde questo persecutore, donde questo tutt’altro che pastore? Costui era appunto il lupo rapace della tribù di Beniamino 14 egli stesso lo ha affermato. Ma era stato già detto in profezia: Beniamino è un lupo rapace: al mattino divora, e alla sera spartisce il bottino 15. Prima divorò, in seguito fece il pastore. Rapiva, rapiva veramente. Leggete, rapiva: leggete il libro degli Atti degli Apostoli 16. Dai sommi sacerdoti aveva ricevuto lettere che lo autorizzavano a condurre in catene, per la condanna, quanti avesse scoperti seguaci di Cristo. Andava, infieriva, bramoso di strage e di sangue: ecco rapisce. Ma è ancora mattino, c’è vanità sotto il sole 17; gli accade di trovarsi a sera appena è colpito da cecità. I suoi occhi si chiudono alla vanità di questo mondo, altri occhi, quelli interiori, sono resi capaci di vedere. Il vaso che poco prima era di perdizione, è fatto vaso di elezione, ecco, quindi, l’adempiersi di spartisce il bottino: giornalmente si dà lettura delle ‘parti’ del suo bottino. Osserva in qual modo egli divide le ‘parti’. Sa che cosa spetti ed a chi: spartisce, non distribuisce indistintamente, senza criterio. Spartisce, cioè distribuisce, discerne; non dispensa a caso, senza ordine. Parla di sapienza tra i perfetti 18: ad alcuni, invece, non essendo capaci di assumere cibo solido, nel distribuire dice: A voi ho dato da bere latte 19.

Paolo rivede prima beni per mali, poi corrisponde ai beni con opere buone.
4. Ecco che cosa fa colui che poco prima faceva… che cosa? non voglio tornarci su. Al contrario, voglio ricordare la perversità dell’uomo, per attestare la misericordia di Dio. Soffre tribolazioni per Cristo colui dal quale Cristo aveva ricevuto tribolazioni: da Saulo diventa Paolo, da falso diventa autentico testimone. Egli che disperdeva raccoglie nell’unità; chi aggrediva, è fatto ora difensore. Da un tale Saulo, come risulta ciò che diciamo? Ascoltiamo lui. Volete sapere, dice, donde mi viene questo? Non viene da me egli dice: Ho ricevuto misericordia. Questo, egli afferma, non proviene da me: Ho ricevuto misericordia. Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? 20 Ha ricambiato infatti, non però mali per mali; ha senza dubbio ricambiato, ma non mali per mali: ha rimunerato con beni i mali. Che renderò dunque? Prenderò il calice della salvezza 21. Ricambiavi veramente? Continui a prendere. Ma ora, proprio all’approssimarsi della passione, corrisponderà beni per le opere buone, non beni per le cattive. Un primo tempo il Signore doveva evidentemente rimunerare i mali con dei mali: ma non volle rendere mali per mali, rese invece dei beni per i mali. Ricambiando i mali con beni, trovò in qual modo rimunerare con beni le opere buone.

Le stesse opere buone sono dono di Dio.
5. Infatti, ecco che niente di buono trovò in Paolo, già stato Saulo. Non avendo trovato niente di buono in lui, condonò i mali, rese dei beni. Fu perciò preveniente nel rendergli dei beni prima; ma attraverso il dono di beni, con i quali rimunerare le opere buone, proprio con tali beni corrispose una ricompensa alle opere buone: a lui che combatteva la buona battaglia, che terminava la corsa, che conservava la fede, rimunerò le opere buone. Ma con quali beni? Quelli che donò egli stesso. E che, non venne da lui di combattere la buona battaglia? E se non è dato da lui, che sta a significare quel che dici in altro passo: Ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me 22? Ecco tu dici pure: Ho terminato la corsa 23. Non ti è stato concesso anche da lui di terminare la corsa? Se egli non ha dato che tu terminassi la corsa, com’è che in altro passo tu dici: Non dipende dalla forza di volontà, né dalla perizia di chi corre, ma viene da Dio che usa misericordia 24. Ho conservato la fede 25. L’hai conservata, l’hai conservata: lo ammetto, lo accetto: riconosco che l’hai conservata; ma, se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode 26. Appunto per l’aiuto di lui, quindi, per concessione di lui e hai combattuto la buona battaglia e hai terminato la corsa e hai conservato la fede. Permetti, Apostolo, di tuo proprio non conosco che il male. Permetti, Apostolo: se ne parliamo è perché tu ci hai informati; vado ascoltando uno che confessa, non scopro un ingrato. Sappiamo bene che, da parte tua, non ti sei procurato altro che mali: perciò, quando Dio corona i tuoi meriti, nient’altro corona che i suoi doni.

Autorità della Sacra Scrittura circa la grazia di Dio.
6. Questa fede e vera pietà – perché nessuno si vanti del libero arbitrio nelle opere buone (chiunque ne è debitore veda di farne conto in modo da riconoscere chi le concede, perché non sia ingrato verso il donatore né sia, nei confronti del medico, altezzoso, se tuttora non sano, o sano non di suo potere) -, questa fede e vera pietà, ripeto, da nessun genere di argomentazioni sia divelta dai vostri cuori. Conservate quel che avete ricevuto. Che cosa avete infatti, che non avete ricevuto? 27 Questa è la testimonianza da rendere a Dio: ripetere quel che l’apostolo Paolo afferma: Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo. Lo spirito di questo mondo fa i superbi, lo spirito di questo mondo fa i boriosi, lo spirito di questo mondo fa in modo che uno pensi di essere qualcosa mentre non è nulla 28. Ma che afferma l’Apostolo contro lo spirito di questo mondo? Contro lo spirito di questo mondo, borioso, superbo, pieno di sé, altezzoso, non verace, che afferma? Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo spirito di Dio. Come lo provi? Per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato 29. Ascoltiamo perciò il Signore che dice: Senza di me non potete far nulla 30. Ed anche: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo 31. Ed anche: Nessuno viene a me se non lo avrà attirato il Padre che mi ha mandato 32. Ed anche: Io sono la vite, voi i tralci: come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me 33. Ed anche quel che attesta l’apostolo Giacomo, dicendo: Ogni buon regalo e dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce 34. È quanto attesta l’Apostolo Paolo, a rintuzzare la presunzione di quelli, che si gloriano del libero arbitrio, col dire: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E, se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? 35 E ancora: Per grazia siamo salvi mediante la fede; e ciò non viene da noi, ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene 36. E inoltre: A voi è stata concessa in Cristo la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui 37. E ancora: Dio che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento 38. Perciò, meditando con serietà e coscienza tali espressioni ed altre simili a queste, non condividiamo gli argomenti di coloro che, esaltando il libero arbitrio fino a montare in superbia, si fanno assai più strumenti di rovina che di elevazione. Vediamo invece di riflettere umilmente su quel che dice l’Apostolo: È Dio infatti che suscita in voi e il volere e l’operare 39.

Rendimento di grazie a Dio.
7. Rendiamo grazie al Signore e Salvatore nostro il quale, senza che mai avessimo avuto meriti precedenti, ci ha curati perché feriti, e ci ha riconciliati perché nemici e riscattati dalla schiavitù, ricondotti dalle tenebre alla luce, dalla morte richiamati alla vita. Confessando quindi umilmente la nostra debolezza, supplichiamo la sua misericordia dal momento che, secondo il salmista, la sua grazia ci previene 40; si degni non solo di custodire, ma anche di accrescere in noi quelli che sono i suoi doni o i suoi benefici e che ha avuto la bontà di concedere di sua iniziativa; egli che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

30 SETTEMBRE: SAN GIROLAMO, UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/santi/0930letPage.htm

30 SETTEMBRE: SAN GIROLAMO, UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera ai Filippesi di san Paolo, apostolo 2, 12-30

Attendete alla vostra salvezza
Miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita. Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato. E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timòteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona.
Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodito, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. E’ stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me.

Responsorio Cfr. 2 Pt 1, 10. 11; Ef 5, 8. 11
R. Cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione ed elezione: * così vi sarà aperto l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e salvatore.
V. Comportatevi come figli della luce, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre:
R. così vi sarà aperto l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e salvatore.

Seconda Lettura
Dal «Prologo al commento del Profeta Isaia» di san Girolamo, sacerdote
(Nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)

L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: «Scrutate le Scritture» (Gv 5, 39), e: «Cercate e troverete» (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo.
Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace» (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8).
Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l’argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l’Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull’etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l’intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume.
Della profondità di tali misteri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggi, ma quegli risponde: Non so leggere» (Is 29, 11-12).
(Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: «Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti» (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l’occorrenza.
I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L’angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) «grida nei nostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4, 6), e ancora: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore» (Sal 84, 9).

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