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SANT’AGOSTINO – OMELIA 55- LI AMO SINO ALLA FINE

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SANT’AGOSTINO – OMELIA 55- LI AMO SINO ALLA FINE

Cristo stesso è il fine: non in senso di arresto ma di compimento: fine in senso di meta, non in senso di morte. E così Cristo, che si è immolato, è la nostra Pasqua, perché in lui si compie il nostro « passaggio ».

1. La cena del Signore narrata da Giovanni merita di essere col suo aiuto spiegata e commentata con particolare cura. Noi cercheremo di farlo secondo la capacità che il Signore stesso ci avrà concesso. Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1). Pasqua, fratelli, non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice , per cui si è creduto che Pasqua volesse dire Passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l’ebraico, Pasqua vuol dire « passaggio », per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall’Egitto, passò il Mar Rosso (cf. Es 14, 29). Ora però quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento, quando il Cristo come pecora viene immolato (cf. Is 3, 7), e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall’eccidio in Egitto (cf. Es 12, 23); e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall’instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno. E per non passare con questo mondo transitorio, passiamo a Dio che permane in eterno. Innalzando lodi a Dio per questa grazia che ci è stata concessa, l’Apostolo dice: Egli ci ha strappati al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell’amor suo (Col 1, 13). Sicché, interpretando la parola Pasqua, che, come si è detto, in latino si traduce « passaggio », il santo evangelista dice: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. Ecco la Pasqua, ecco il passaggio! Passaggio da che, e a che cosa? Da questo mondo al Padre. Nel Capo è stata data alle membra la speranza certa di poterlo seguire nel suo passaggio. Che sarà dunque degli infedeli e di tutti coloro che sono estranei a questo Capo e al suo corpo? Non passano forse anch’essi, dal momento che non rimangono qui? Passano, sì, anch’essi; ma una cosa è passare dal mondo e un’altra è passare col mondo, una cosa passare al Padre e un’altra passare al nemico. Anche gli Egiziani infatti passarono il mare, ma non lo attraversarono per giungere al regno, bensì per trovare nel mare la morte.

[L'amore lo condusse alla morte.]

2. Dunque, sapendo Gesù che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Sì, li amò perché anch’essi, da questo mondo dove si trovavano, passassero, in virtù del suo amore, al loro Capo che da qui era passato. Che significa infatti sino alla fine se non fino a Cristo? Cristo – dice l’Apostolo – è il fine di tutta la legge, a giustizia di ognuno che crede (Rm 10, 4). Cristo è il fine che perfeziona, non la fine che consuma; è il fine che dobbiamo raggiungere, non la fine che corrisponde alla morte. E’ in questo senso che bisogna intendere l’affermazione dell’Apostolo: La nostra Pasqua è Cristo che è stato immolato (1 Cor 5, 7). Egli è il nostro fine, e in lui si compie il nostro passaggio. Mi rendo conto che questa frase del Vangelo può anche essere interpretata in senso umano, nel senso cioè che Cristo amò i suoi fino alla morte, credendo che questo sia il significato dell’espressione: li amò sino alla fine. Questa è un’opinione umana, non divina: non si può dire infatti che ci amò solo fino a questo punto colui che ci ama sempre e senza fine. Lungi da noi pensare che con la morte abbia finito di amarci colui che non è finito con la morte. Se perfino quel ricco superbo ed empio anche dopo la morte continuò ad amare i suoi cinque fratelli (cf. Lc 16, 27-28), si potrà pensare che Cristo ci abbia amato soltanto fino alla morte? No, o carissimi, non sarebbe, col suo amore, arrivato fino alla morte, se poi con la morte fosse finito il suo amore per noi. Forse l’espressione li amò sino alla fine va intesa nel senso che li amò tanto da morire per loro, secondo la sua stessa dichiarazione: Non c’è amore più grande, che dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). L’espressione dunque li amò sino alla fine, può avere questo senso: fu proprio l’amore a condurlo alla morte.

3. E fatta la cena, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, Gesù si leva da mensa, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto (Gv 13, 2-5). Non dobbiamo intendere quel « fatta la cena » nel senso che la cena fosse già consumata e terminata; si cenava ancora, quando il Signore si alzò e lavò i piedi ai discepoli. Di fatti poi si rimise a tavola, e più tardi porse il boccone al suo traditore; sicché la cena non era ancora terminata, se in tavola c’era ancora del pane. Fatta la cena vuol dire che essa era pronta ed era in tavola per essere consumata dai commensali.

[Giuda venditore del Redentore.]

4. Ma continuiamo: Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo. Forse domandi che cosa era stato messo in cuore a Giuda; appunto questo: il proposito di tradirlo. Si tratta di una suggestione spirituale, che non avviene attraverso l’orecchio ma attraverso il pensiero, e quindi non materialmente ma spiritualmente. Infatti ciò che si dice spirituale, non sempre si deve intendere in senso positivo. L’Apostolo ci parla di spiriti del male che abitano nelle regioni celesti, contro i quali noi, dice, siamo in lotta (cf. Ef 6, 12); e non vi sarebbero influssi spirituali malefici se non esistessero spiriti maligni. Il termine spirituale deriva infatti da spirito. Ma chi può dire come avviene questo fenomeno, che le suggestioni diaboliche possono penetrare in fondo al cuore umano e mescolarsi ai suoi pensieri, tanto che l’uomo è indotto a considerarle proprie? Non v’è dubbio che anche le buone suggestioni, derivanti dallo spirito buono, seguono una via altrettanto segreta e spirituale. L’importante è il consenso che la coscienza darà a quelle buone o a quelle cattive, alle prime se soccorsa dall’aiuto divino, alle seconde se privata per sua colpa del medesimo aiuto. Il diavolo aveva dunque già operato nel cuore di Giuda istigando il discepolo a tradire il Maestro, non avendo Giuda saputo riconoscere Dio in lui. Giuda era andato alla cena col proposito di spiare il Pastore, di insidiare il Salvatore, di vendere il Redentore. Con tale animo si era presentato alla cena: Gesù vedeva e tollerava, e Giuda credeva di poter nascondere le sue intenzioni, ingannandosi sul conto di colui che voleva ingannare. Frattanto Gesù, che ben leggeva nel cuore di Giuda, a sua insaputa si serviva di lui per i propri disegni.

5. Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani. Quindi anche il traditore stesso. Se infatti non avesse avuto in mano anche lui, non avrebbe potuto servirsene come voleva. Il traditore quindi era già stato consegnato nelle mani di colui che egli intendeva tradire; così col tradimento si accingeva a compiere un male che, a sua insaputa, si sarebbe convertito in bene ad opera della stessa vittima del suo tradimento. Il Signore infatti sapeva molto bene che cosa doveva fare per gli amici, egli che pazientemente si serviva dei nemici; e il Padre gli aveva dato in mano tutte le cose, in modo che si servisse di quelle cattive per mandare ad effetto quelle buone. Inoltre sapeva che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, e come non aveva lasciato Dio quando da Dio era venuto a noi, così non avrebbe lasciato noi, quando sarebbe tornato a Dio.

6. Sapendo dunque tutte queste cose, si alza da tavola, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto. Dobbiamo, o carissimi, considerare diligentemente l’intenzione dell’evangelista. Accingendosi a parlare della profonda umiltà del Signore, ha voluto prima richiamare la nostra attenzione alla sua grandezza. E’ per questo che dice: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava. Avendogli dunque il Padre dato tutto nelle mani, egli si mette a lavare, non le mani ma i piedi dei discepoli: pur sapendo di essere venuto da Dio e di tornare a Dio, compie l’ufficio non di Dio Signore ma di uomo servo. Era con l’intenzione di sottolineare l’umiltà di Cristo che l’evangelista ha voluto parlare prima del suo traditore, che era venuto avendo già quel proposito ben conosciuto dal Signore; e questo particolare mostra come il Signore sia giunto al massimo dell’umiltà, non disdegnando di lavare i piedi a colui le cui mani già vedeva impegnate in sì grande delitto.

[La sua passione per la nostra purificazione.]

7. Ma perché meravigliarsi che si sia alzato da tavola e abbia deposto le vesti colui che, essendo nella forma di Dio, annientò se stesso? E che meraviglia se prese un panno, e se ne cinse, colui che prendendo la forma di servo è stato trovato come un uomo qualsiasi nell’aspetto esterno (cf. Fil 2, 6-7)? Che meraviglia se versò acqua nel catino per lavare i piedi dei discepoli colui che versò il suo sangue per lavare le sozzure dei peccati? Che meraviglia se col panno di cui si era cinto asciugò i piedi, dopo averli lavati, colui che con la carne di cui si era rivestito sostenne il cammino degli Evangelisti? Per cingersi di un panno depose le vesti che aveva; mentre, per prendere la forma di servo, quando annientò se stesso, non depose la forma che aveva ma soltanto prese quella che non aveva. Si sa, che per esser crocifisso fu spogliato delle sue vesti e, morto, fu avvolto in un lenzuolo; e tutta la sua passione è la nostra purificazione. Nell’imminenza quindi della passione e della morte, ha voluto rendere questo servizio, non solo a quelli per i quali stava per morire, ma anche a colui che lo avrebbe tradito per farlo morire. Tanto importante è per l’uomo l’umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio. L’uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi. E’ venuto infatti il Figlio dell’uomo a cercare e a salvare ciò che era perduto (Lc 19, 10). L’uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l’umiltà del Redentore.

LA MISERICORDIA DI DIO VERSO COLORO CHE SI PENTONO DEI LORO PECCATI – SAN MASSIMO CONFESSORE

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010328_massimo-confessore_it.html

LA MISERICORDIA DI DIO VERSO COLORO CHE SI PENTONO DEI LORO PECCATI – SAN MASSIMO CONFESSORE

Dalle « Lettere » di san Massimo Confessore, abate (Lett. 11; PG 91, 454-455)

« Tutti i predicatori della verità, tutti i ministri della grazia divina e quanti dall’inizio fino a questi nostri garni hanno parlato a noi della volontà salvifica di Dio, dicono che nulla è tanto caro a Dio e tanto conforme al suo amore quanto la conversione degli uomini mediante un sincero pentimento dei peccati. E proprio per ricondurre a sé gli uomini Dio fece cose straordinarie, anzi diede la massima prova della sua infinita bontà. Per questo il Verbo del Padre, con un atto di inesprimibile umiliazione e con un atto di incredibile condiscendenza si fece carne e si degnò di abitare tra noi. Fece, patì e disse tutto quello che era necessario a riconciliare noi, nemici e avversari di Dio Padre. Richiamò di nuovo alla vita noi che ne eravamo stati esclusi. Il Verbo divino non solo guarì le nostre malattie con la potenza dei miracoli, ma prese anche su di sé l’infermità delle nostre passioni, pagò il nostro debito mediante il supplizio della croce, come se fosse colpevole, lui innocente. Ci liberò da molti e terribili peccati. Inoltre con molti esempi ci stimolò ad essere simili a lui nella comprensione, nella cortesia e nell’amore perfetto verso i fratelli. Per questo disse: « Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 32). E ancora: « Non sono i sani che hanno bisogno del.:medico, ma i malati » (Mt 9, 12). Disse inoltre di essere venuto a cercare la pecorella smarrita e di essere stato mandato alle pecore perdute della casa di Israele. Parimenti, con la parabola della dramma perduta, alluse, sebbene velatamente, a un aspetto particolare della sua missione: egli venne per ricuperare l’immagine divina deturpata dal peccato. Ricordiamo poi quello che dice in un’altra sua parabola: « Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito … » (Lc 15, 7). Il buon samaritano del vangelo curò con olio e vino e fasciò le ferite di colui che era incappato nei ladri ed era stato spogliato di tutto e abbandonato sanguinante e mezzo morto sulla strada. Lo pose sulla sua cavalcatura, lo portò all’albergo, pagò quanto occorreva e promise di provvedere al resto. Cristo è il buon samaritano dell’umanità. Dio è quel padre affettuoso, che accoglie il figliol prodigo, si china su di lui, è sensibile al suo pentimento, lo abbraccia, lo riveste di nuovo con gli ornamenti della sua paterna gloria e non gli rimprovera nulla di quanto ha commesso. Richiama all’ovile la pecorella che si era allontanata dalle cento pecore di Dio. Dopo averla trovata che vagava sui colli e sui monti, non la riconduce all’ovile a forza di spintoni e urla minacciose, ma se la pone sulle spalle e la restituisce incolume al resto del gregge con tenerezza e amore. Dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi darò riposo (cfr. Mt 11, 28). E ancora: « Prendete il mio giogo sopra di voi » (Mt 11, 29). Il giogo sono i comandamenti o la vita vissuta secondo i precetti evangelici. Riguardo al peso poi, forse pesante e molesto al penitente, soggiunge: « Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero » (Mt 11, 30). Insegnandoci la giustizia e la bontà di Dio, ci comanda: Siate santi, siate perfetti, siate misericordiosi come il Padre vostro celeste (cfr. Lc 6, 36); « Perdonate e vi sarà perdonato » (Lc 6, 37) e ancora: « Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro » (Mt 7, 12). »

Orazione O Dio, che dai la ricompensa ai giusti e non rifiuti il perdono ai peccatori pentiti, ascolta la nostra supplica: l’umile confessione delle nostre colpe ci ottenga la tua misericordia. Per il nostro Signore.

A cura dell’Istituto di Spiritualità: Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino

           

BAUSOLA, AGOSTINO E IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaB/BAUSOLA_%20AGOSTINO%20E%20IL%20PROBLEMA%20.htm

BAUSOLA, AGOSTINO E IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

Adriano Bausola è professore ordinario di filosofia teoretica nell’Università Cattolica di Milano. Nella pagina che segue è messa bene in evidenza la complessità del fenomeno libertà; quello che preme evidenziare è come il piano filosofico, l’esigenza di una chiarezza tutta razionale (alla quale Agostino teneva moltissimo), entri in conflitto con il piano piú squisitamente religioso. Agostino filosofo cristiano non ha dubbi: di fronte alla scelta tra fede e ragione sceglie la fede. Il problema del libero arbitrio – oltre che per gli autori indicati da Bausola – è fondamentale anche per Lutero, già monaco agostiniano, autore di un De servo arbitrio in polemica con il filosofo umanista Erasmo da Rotterdam.           

Agostino affronta il problema della libertà nel De libero arbitrio, una delle sue opere filosofiche piú significative. Agostino l’aveva scritta per far luce sulle vere ragioni che lo avevano portato, pochi anni prima, a un completo abbandono del manicheismo; e il manicheismo, con la sua tendenziale negazione della libertà, in effetti giace come sullo sfondo del dialogo (composto in un lungo arco di tempo e completato nel 395, a Ippona, quando Agostino era già vescovo), da dove giustifica l’insistenza dell’autore nel sottolineare [...] i motivi morali e religiosi che gli imponevano di credere nella libertà dell’uomo. A sospingere Agostino in questa direzione era soprattutto il fermo convincimento che, senza una reale autonomia da Dio, noi non saremmo propriamente responsabili del male che compiamo né meritevoli del premio promessoci da Cristo: non potremmo cioè peccare, volendolo, né salvarci con pieno merito; e ciò toglierebbe credibilità alla Parola. Quanto al problema della prescienza divina, Agostino si limitava a osservare, sempre nel De libero arbitrio, che il sapere ab aeterno se un uomo si salverà, o se sarà dannato, non priva ancora l’individuo della sua libertà di iniziativa, infatti Dio nei nostri confronti si atteggia costantemente a Spettatore, non funge da Attore: vede ab aeterno come noi ci comporteremo e ab aeterno giudica i nostri atti, senza tuttavia costringerci a un corso di azione piuttosto che a un altro.         

Le conclusioni del De libero arbitrio erano rassicuranti per la fede, però non conservarono a lungo il loro valore agli occhi di Agostino, che non lesinava gli sforzi, nel tentativo di capire sempre piú a fondo la natura del messaggio cristiano. Dopo il 395, il vescovo di Ippona riscoprí – tra gli altri – l’apostolo Paolo; e i testi paolini gli schiusero nuovi orizzonti. Riflettendo su quelle pagine, egli a poco a poco comprese che un’eccessiva esaltazione dell’uomo va a discapito dell’importanza di Cristo, e ne rende quasi superfluo il sacrificio. Tutto considerato, incominciava a chiedersi Agostino, se non è per grazia ricevuta che noi possiamo salvarci, perché mai il Verbo si sarebbe fatto carne e sarebbe morto per i nostri peccati? A che cosa è servita la Croce, se noi ci procuriamo la salvezza in virtú dei nostri meriti? E una creatura immersa nel peccato, potrebbe mai trovarsi in una situazione del genere, potrebbe mai acquistare meriti sufficienti dinanzi a Dio?          A rendere ancora piú incisive le sue riflessioni provvide poi la filosofia neoplatonica. Essa indicava nell’Uno non soltanto il principio ontologico per eccellenza, ma la stessa luce che illumina il mondo e, contemporaneamente, il Sommo Bene che ordina a sé ogni cosa; e Agostino, che aveva cristianizzato ormai da tempo le idee dei neoplatonici, dopo il 395 ricavò da esse nuove implicazioni. In particolare, ora egli giunse a intravedere in Dio anche la ragione prima e unica del nostro tendere verso il bene, della nostra capacità di operare con spirito di giustizia, in definitiva, dell’impulso interiore che ci conduce alla salvezza; e la libertà dell’uomo, a questo punto, dovette proprio sembrargli, oltreché un ostacolo, un’illusione. Poteva davvero sussistere, in fondo, la libertà di arbitrio, in un universo neoplatonicamente incentrato su Dio, principio motore e allo stesso tempo causa finale del tutto?         

Deciso ad andare alla radice del problema, Agostino non ebbe tentennamenti: non si spaventò davanti alla “durezza” della risposta che gli veniva suggerita da Paolo, e rivelò con decisione, anzi con nettezza sempre maggiore man mano che trascorrevano gli anni, il carattere gratuito e soprannaturale della grazia (a partire, appunto, dal De diversis quaestionibus ad Simplicianum). Contemporaneamente, egli si impegnò in una vigorosa polemica contro i seguaci di Pelagio, sostenitori della tesi opposta, e la battaglia combattuta contro di loro non ebbe certo poco peso nel determinare l’esito finale della sua speculazione.         

Secondo Pelagio, Dio aiuta l’uomo, ma solo nel senso che in Cristo rende noto ciò che tutti debbono fare per salvarsi; invece, la decisione di ottemperare ai decreti divini pertiene al singolo, come al singolo spetta di scegliere la fede o la miscredenza, sicché la responsabilità di una eventuale perdizione ricade esclusivamente su di noi, non coinvolge Dio: Dio è del tutto innocente. Ma Agostino la pensava in modo diverso, e contro Pelagio ribadí che, dopo la caduta di Adamo, senza un intervento della grazia l’uomo non consegue la fede e non si incammina, in essa, verso la vita eterna. Per di piú, egli aggiunse, la penetrazione dell’Onnipotente in noi segue una strategia imperscrutabile e misteriosa che sollecita e sostiene con infinita misericordia la nostra volontà, senza tener conto della stessa né dei meriti acquisiti in precedenza.         

Se, e in qual misura, questo dono gratuito possa comportare per l’uomo un’effettiva perdita di libertà, è questione controversa e di difficile soluzione; non la si affronterà qui. Serve però ricordare che Agostino non uscí del tutto vincitore dalla contesa. Infatti, dopo alterne vicende i pelagiani furono finalmente condannati da papa Zosimo, nel 418: tuttavia il vescovo di Ippona venne quasi subito accusato, a sua volta, di aver sottolineato con troppa foga l’intervento della grazia, a danno della nostra libertà; e gli si fece inoltre carico di aver contraddetto, con ciò, la tradizione dei Padri della Chiesa.         

Invertitisi i ruoli, ora era Agostino a doversi difendere. Non esitò a lungo, e nel breve volgere di tre anni scrisse il De correptione et gratia (426 o 427), il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae (429), cerando con i suoi ultimi due lavori di rispondere, in particolare, alle obiezioni di Cassiano, del monastero di San Vittore, in Marsiglia. Questi sosteneva che la grazia, pur se indispensabile per compiere il bene, a volte segue a ricompensa della nostra buona volontà, e non predestina affatto. Agostino non era d’accordo; a suo giudizio ciò costituiva anzi un errore: meno grave di quello pelagiano, eppure non molto distante da esso e parimenti pericoloso, poiché tendeva a conciliare l’inconciliabile (l’autonomia umana con la radicale decisività del sacrificio compiuto da Cristo). Pertanto, nelle sue repliche, il vescovo di Ippona fu drastico: radicalizzò le tesi sostenute in precedenza e introdusse espressioni, già presenti nel De correptione et gratia, che, secondo alcuni, costituiscono una conferma (e sono una giustificazione) della lettura deterministica della teologia agostiniana poi tentata da Thomas Bradwardine (1290 ca-1349), Calvino (1509-1564) e Giansenio (1595-1638). Secondo altri, invece, tali affermazioni risultano solo accentuazioni polemiche, infelici, certo, ma non cosí gravi da escludere la possibile conciliazione di grazia e libertà in una superiore prospettiva religiosa: quella per cui la grazia libera l’uomo dal peccato agendo sulla sua volontà con soavità e leggerezza, senza dispotismi e prescindendo da qualsiasi forma di coazione (cfr. per quest’ultima interpretazione, in particolare, De correptione et gratia, c. VIII, sez. 17).   (A. Bausola, La libertà, Editrice La Scuola, Brescia, 19862, pagg. 84-86)

GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SULLA LETTERA AGLI EFESINI, 19,3-4

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SOLO LA PROVVIDENZA PUÒ SPIEGARE IL FUNZIONAMENTO DEL MONDO

GIOVANNI CRISOSTOMO, OMELIE SULLA LETTERA AGLI EFESINI, 19,3-4

Crisostomo3“Si interrogano gli ingrati e gli insensati: «Non dovrebbe esser proprio della bontà di Dio concedere per tutti uguaglianza di onori?». Dimmi, o ingrato, quali sono le cose che tu affermi non esser proprie della bontà di Dio, e che cosa intendi per «uguaglianza di onori»? Uno è storpio da fanciullo, un altro diventa pazzo ed è invasato da un demonio; un altro, che giunge al limite della vecchiaia, ha trascorso tutta la vita nella povertà; un altro in gravissime malattie: sono queste le opere della provvidenza? Uno è sordo, un altro muto; uno è povero; un altro, infame e scellerato e pieno d’innumerevoli vizi, guadagna denaro e mantiene meretrici e fannulloni, possiede una casa bellissima e conduce una vita senza mai lavorare. E raccolgono molti esempi del genere, tessendo un lungo discorso contro la provvidenza di Dio. Che dunque? Non vi è nessuna provvidenza? Che cosa rispondiamo loro? Se fossimo greci e ci dicessero che il mondo è retto da qualcuno, anche noi diremmo loro le stesse cose: Perché non c’è nessuna provvidenza? Perché mai, allora, voi avete il culto degli dèi e adorate demoni ed eroi? Infatti, se esiste una provvidenza, essa si prende cura di tutto. Se vi fossero alcuni, cristiani o anche greci, che si scoraggiassero e vacillassero, che cosa diremmo loro? Tante cose, dimmi, ti prego, sarebbero dunque sorte buone per caso? La luce del giorno, l’ordine predisposto nelle cose, il movimento circolare degli astri, l’eguale corso dei giorni e delle notti, l’ordine della natura tanto nelle piante quanto negli animali e negli uomini? Chi è mai, domando, colui che governa tutte queste cose? Se nessuno le dirige ed esse dipendono tutte da se stesse, chi ha mai fatto questa volta così grande e bella, il cielo appunto, collocato tutt’intorno alla terra e anche sopra le acque? Chi dà alle stagioni dei frutti? Chi ha posto tanta vita nei semi e nelle piante? Ciò che avviene per caso, infatti, è assolutamente disordinato; ciò che presenta ordine e armonia, invece, è stato prodotto con ingegno. Infatti, ti chiedo, quelle cose che da noi avvengono per caso, non sono piene di grande confusione, tumulto e turbamento? E non parlo soltanto di quanto avviene per caso, ma anche di ciò che è fatto da qualcuno, ma senza criterio. Ad esempio, vi siano legna e pietre, e vi sia anche la calce; ora, un uomo inesperto nell’arte di costruire, servendosi di questi, si accinga a edificare e a compiere qualcosa: costui non manderà forse in rovina e non distruggerà ogni cosa? E ancora, si dia una nave senza nocchiero, provvista di tutto quanto una nave debba possedere, tranne il nocchiero: potrebbe forse navigare? E la terra stessa, che è tanto estesa, posta com’è al di sopra delle acque, potrebbe rimanere tanto tempo immobile, se non vi fosse qualcuno in grado di sorreggerla? E tutto ciò è forse ragionevole? Non è ridicolo pensare queste cose?… Se volessimo esporre esaurientemente, in tutto e per tutto, fin nei dettagli, tutte quelle cose della provvidenza, non ci basterebbero tutti i secoli. Domanderò, infatti, a chi abbia chiesto ciò: queste cose avvengono grazie alla provvidenza o senza la provvidenza? Se rispondesse: «Non sono della provvidenza», gli domanderei ancora: Come dunque sono state fatte? Ma non potrebbe rispondere in alcun modo. A maggior ragione, perciò, non devi investigare con curiosità intorno alle cose umane. Perché? Poiché l’uomo è l’essere più illustre e onorevole di tutti, e tutte le cose sono state create per lui, non lui per esse. Se dunque non conosci la sapienza e il governo della provvidenza riguardo all’uomo, in che modo potresti mai scoprire quali siano le sue ragioni? Dimmi un po’, perché mai essa ha creato l’uomo così piccolo e così distante dall’altezza del cielo al punto che dubiti di quelle cose che si mostrano dall’alto? Perché le regioni australi e boreali sono inabitabili? Dimmi, perché la notte è stata fatta più lunga d’inverno e più corta in estate? Perché tanto freddo? Perché il caldo? Perché la mortalità del corpo? E altre innumerevoli cose voglio sapere da te; se tu vorrai, non smetterò d’interrogarti perché tu possa replicarmi in tutto. Pertanto, la caratteristica più confacente alla provvidenza è questa: che le sue ragioni rimangano per noi ineffabili. Qualcuno, infatti, non avendo compreso il nostro pensiero, avrebbe potuto ritenere che l’uomo sia la causa di tutte le cose. «Tuttavia, direbbe qualcuno, quell’uomo è povero: e la povertà è un male». Ma che cos’è il male? Che cos’è la cecità, o uomo? Vi è un solo male: peccare; e solo di questo dobbiamo preoccuparci. Invece, tralasciando di scrutare le cause dei veri mali, ricerchiamo con curiosità altre cose. Perché nessuno di noi cerca mai di scoprire il motivo profondo per il quale ha peccato? È in mio potere di peccare, oppure no? Ma che bisogno c’è di usare un grande giro di parole? Cercherò tutto in me stesso: forse che sono riuscito qualche volta a vincere la passione? Ho vinto qualche volta l’ira per pudore o per timore umano? In tal modo, accertato questo, scoprirò che è in mio potere peccare. Nessuno si preoccupa di comprendere e di approfondire queste cose; al contrario, sconsideratamente, come si legge in Giobbe, l’uomo nuota disordinatamente nelle parole (Gb 11,12).”

02 GENNAIO: SAN BASILIO MAGNO, SAN GREGORIO NAZIANZENO

http://www.assisiofm.it/san-basilio-magno-san-gregorio-nazianzeno-1594-1.html

02 GENNAIO:  SAN BASILIO MAGNO, SAN GREGORIO NAZIANZENO

amici nella vita e nella fede, combatterono le eresie teologiche del loro tempo

Uno dei più grandi dottori Orientali della Chiesa, San Basilio fu un uomo di grandissima dottrina, talento e santità. Egli proveniva dalla stessa brillante famiglia che aveva generato San Gregorio di Nissa e San Pietro di Sebaste (suoi fratelli), e nacque a Cesarea di Cappadocia nel 329. La sua educazione iniziò a Cesarea e continuò a Costantinopoli e ad Atene. Tra i suoi compagni di studio in questa città c’era l’amico San Gregorio di Nazianzo (un altro cappadoce) e Giuliano l’Apostata, futuro imperatore di Roma. Quando tornò a Cesarea, verso il 356, sia suo fratello Gregorio che sua sorella Macrina (anche lei onorata come santa) notarono in lui pronunciate tendenze alla mondanità. Essendo probabilmente la più dotta persona della Cesarea del tempo, Basilio si era affermato come insegnante di retorica e sembrava che godesse in modo molto compiaciuto del prestigio che la posizione gli arrecava. Fu così scosso da questo atteggiamento di autocompiacimento da Macrina la quale con i suoi appelli al buon senso e alla consapevolezza spirituale gli mostrò le limitazioni di una vita presa interamente da occupazioni mondane. Soprattutto per sua influenza, nel 357 Basilio partì per un viaggio nei centri monastici di Egitto, Palestina, Siria, e Mesopotamia. Quando l’anno seguente tornò a Cesarea, sapeva già cosa fare: spezzando tutti i suoi legami si mise in viaggio verso il Ponto, vicino al Mar Nero e là, sulle rive del fiume Iris, fondò il proprio monastero. In seguito Basilio sarebbe stato coinvolto in altre attività, ma questa fondazione monastica fu probabilmente la sua opera più importante e quella che amava maggiormente. Con una profonda comprensione del ruolo del monachesimo nella cristianità e di come quel modo di vivere dovesse essere praticato, Basilio scrisse una serie di regole – poi chiamate Codice Basiliano – che divennero ispirazione di tutto il successivo monachesimo orientale. Ancora oggi i monaci ortodossi e la maggior parte dei monaci cattolici orientali seguono il Codice Basiliano. L’influenza dei tempi tuttavia presto interruppe la vita di Basilio nel Ponto. Con l’aiuto dell’Imperatore Valente l’arianesimo stava minacciando la Chiesa di Cappadocia ed era necessaria una forte autorità per fronteggiare l’attacco. Basilio fu persuaso a recarsi a Cesarea prima per assistere il suo vescovo e poi a succedergli nella sede dopo la sua morte nel 370. Uno dei primi provvedimenti in qualità di vescovo fu di mostrare un’aperta sfida a Valente, che stava tentando di assicurarsi una professione di fede ariana da parte del clero della Cappadocia; Basilio rifiutò e con il peso della sua influenza e personalità fece in modo che l’Imperatore desistesse dalle sue richieste. Attivo qual era nella lotta contro l’eresia, Basilio era molto attento anche agli altri bisogni della sua diocesi. Appena fuori Cesarea fece costruire un ricovero per viaggiatori (il primo nel suo genere) con annesso un ospedale per i poveri. Altri progetti inclusero una revisione della Divina Liturgia per la sua diocesi (questa è la più antica delle due Liturgie del Rito Bizantino) e un attenta epurazione dei preti eretici dalla sua diocesi. Brillante oratore e scrittore Basilio scrisse anche una ricca serie di sermoni e opere teologiche, gran parte delle quali miranti a rafforzare la sua gente contro l’arianesimo. L’eresia era il pericolo più presente accompagnato anche da incidenti minori come una lite con il suo vecchio amico Gregario di Nazianzo e false presentazioni della sua ortodossia al Papa da parte dei suoi nemici. Basilio superò tutte le difficoltà e durante il suo breve vescovato (meni di nove anni), divenne la forza trainante della Chiesa di Cesarea. Quando morì, il 1 Gennaio 379, anche gli ebrei e i pagani assieme ai cristiani furono pronti ad ammettere che la città aveva perso il suo migliore amico. Anni dopo la sua morte Basilio fu descritto da un concilio come « il grande Basilio, ministro della Grazia che ha esposto la Verità al mondo intero »: una giusta definizione che ha superato la prova del tempo.

San Gregorio Nazianzeno Nacque a Arianzo, cittadina presso Nazianzo, attuale Güzelyurt in Cappadocia. Figlio di Gregorio e Nonna. Il padre, che era ebreo della setta degli Hypsistiani, fu convertito dalla moglie al cristianesimo e divenne vescovo di Nazianzo. Il fratello Cesario (†;368) fu dottore presso la corte dell’Imperatore Giuliano e governatore di Bitinia. Gregorio, nato qualche anno dopo il concilio di Nicea nel quale si condannò l’eresia ariana, fu fortemente condizionato per tutta la vita dalle lotte che si scatenarono attorno alla definizione della vera natura della Trinità. Studiò prima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di Basilio, poi a Cesarea in Palestina e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358, ad Atene, sotto Imerio; qui conobbe il futuro imperatore Giuliano. Raggiunse poi l’amico Basilio nel monastero di Annisoi, nel Ponto. Ma abbandonò presto questa esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa. Nel 361 fu ordinato sacerdote suo malgrado, dal padre, Vescovo di Nazianzo. Dapprima reagì fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna. « Mi piegò con la forza », ricorderà nella sua autobiografia. Nel 372 l’amico Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica ariana dell’Imperatore Flavio Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua giurisdizione per sottrarle all’influenza ariana, lo nominò vescovo di Sasima. Gregorio non raggiunse mai la sua sede vescovile in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi. Morto il padre, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Nel 379, salito al trono Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò i cinque discorsi che gli meritarono l’appellativo di « Teologo ». Fu lui stesso a precisare che la « Teologia » non è « tecnologia », essa non è un’argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera e da un dialogo assiduo con il Signore. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e lo fece riconoscere come tale dal II Concilio Ecumenico nel maggio del 381. Nell’autunno del 382 divenne vescovo di Nazianzo per poi, dopo un anno, ritirarsi in solitudine ad Arianzo, dove morì nel 390..

 

ASPETTI DELLA MARIOLOGIA DI SANT’AMBROGIO – FESTA 7 DICEMBRE

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ASPETTI DELLA MARIOLOGIA DI SANT’AMBROGIO – FESTA 7 DICEMBRE

(non metto, perché lo studio è molto lungo: 1; 2.4; 2.5;)

Patristica Dalla tesi di Magistero in Scienze Religiose di Grazia Maria Contarino, Il mistero della Vergine Madre negli scritti di Sant’Ambrogio, Facoltà Teologia di Sicilia – Istituto Superiore di Scienze Religiose « San Luca » – Catania, Anno Accademico 2010-2011, pp.53-67.

1. RIFLESSIONE MARIANA DI AMBROGIO: SCANSIONE DELLA RICERCA   2. VALORE E CARATTERI GENERALI DELLA MARIOLOGIA DI SANT’AMBROGIO  2.1. Necessità per Ambrogio di parlare di Maria Sant’Ambrogio non ha scritto un trattato speciale e distinto di Maria, ma è naturale che, svolgendo il tema dell’Incarnazione, abbia dovuto far menzione anche di Maria, la Madre di Gesù, il Verbo Incarnato. Ambrogio sente la necessità di parlare di Maria, senza di essa non ci sarebbe stata l’Incarnazione del Verbo. Maria, infatti, non ha solo prestato il corpo a Gesù, generandolo, ciò che fanno tutte le altre madri nella generazione dei loro figli, ma ne è divenuta madre con un atto della sua libera volontà.11 Fu lei che rese possibile non soltanto l’esistenza umana di Cristo, ma anche il compimento della sua opera redentrice. Dio subordinava l’esecuzione del piano dell’Incarnazione e della Redenzione al consenso di Maria: l’Angelo, infatti, non glielo impose a nome di Dio, ma la Vergine pienamente libera accettò. Con ciò non si vuole affermare che Dio, per redimere l’uomo abbia avuto bisogno di Maria e che non avrebbe potuto con altri mezzi indipendentemente da lei arrecarci la salvezza12. Altre ragioni dovevano muovere Ambrogio a trattare di Maria. Maria, come madre di Dio, comprende in sé virtualmente tutto il Cristianesimo; la Divina Maternità di Maria viene detta:  Il Libro della Fede; un tale dogma coinvolge la retta nozione dei misteri principali della nostra religione: la Santissima Trinità e l’Incarnazione del Verbo e tutto quello che con essi si connette. E’con la Maternità di Maria che si sostengono o cadono le altre verità della Fede13. Ambrogio, ha spesso argomentato contro gli avversari della fede e primi tra tutti contro gli ariani. Come prova irrefutabile mette in campo la persona della Divina Madre e la dottrina ortodossa intorno a lei. Ario riteneva il Verbo una pura creatura; il primogenito di ogni creatura più perfetta delle altre, ma pur sempre una semplice creatura; non consostanziale al Padre; era un Dio in senso metaforico, incarnandosi aveva preso un corpo senz’anima. Il Santo vescovo di Milano opporrà la Maternità Divina di Maria e la vera generazione da lei di un uomo perfetto, in corpo ed anima ragionevole, per opera dello Spirito Santo, con una testimonianza imponente di prove14. Gli errori intorno a Cristo che serpeggiavano nei primi tre secoli e che indirettamente, ma logicamente, conducevano alla negazione della Divina Maternità di Maria non erano ignoti ad Ambrogio. Nelle sue opere quali i cinque libri Della Fede, nella Esposizione del Vangelo di San Luca, nell’opera sul  Mistero dell’Incarnazione  ed in altri scritti fa sovente menzione: – degli Gnostici che, partendo dal loro erroneo preconcetto della perversità della materia, nonché del suo autore, ammettevano la materia corporale solo apparente in Gesù; – dei Doceti o Fantasiasti, un ramo gnostico, che insegnavano che l’umanità di Gesù non fu reale, ma solo apparente ed immaginaria. Il corpo umano di Gesù, a loro giudizio, era un fantasma; – degli Apollinaristi che supponevano una confusione della natura umana e divina; – dei Valentiniani che asserivano il corpo di Gesù essere stato portato dal cielo, non assunto da Maria15. L’esposizione ortodossa del dogma della Divina Maternità di Maria, chiaramente deducibile dalla Sacra Scrittura, doveva necessariamente formare la base dell’argomentazione dei Padri, poiché Maria non è Madre di Dio in quanto generò la Divinità, il che sarebbe un assurdo, ma unicamente in quanto diede a Lui l’umanità. Se questa umanità è reale, se essa è veramente umana, Gesù è un vero uomo proprio e naturale come gli altri. Perciò Ambrogio non poteva ignorare Maria in una lotta cristologica così multiforme e accanita16. Inoltre, prima di Ambrogio forse nessun Padre o Scrittore ha insistito come il Santo Vescovo di Milano sull’ideale della verginità e sulle questioni affini di purezza, di candore; sulle cause, gli effetti, i pericoli, l’eminente bellezza di una tale virtù, i modelli più insigni della medesima. Per cui come avrebbe egli in una simile trattazione potuto omettere colei che è la Vergine delle vergini e che nessuno mai uguaglierà in santità e candore? In Maria anche tutte le altre virtù hanno avuto, dopo che in Gesù, la massima espressione, lo specchio più fulgido. Era dunque evidente che il grande Moralista Milanese parlasse di Maria. L’alto concetto che egli ha della Regina dell’universo lo manifesta in mille passi delle sue opere immortali: queste pietre raccolte insieme formano un mosaico stupendo, dove campeggia colei alla quale: … guarda il Ciel dalla superna altezza con amanti pupille; e per lei sola s’apparenta dell’uom alla bassezza”17.

2.2. Posto onorifico che gli compete e carattere eminentemente pratico della sua mariologia La posizione che Ambrogio occupa nella storia della Mariologia è particolarmente importante. La copia dei pensieri, l’ampiezza nell’esposizione dei misteri mariani in genere, l’impulso dato al suo culto e specialmente la novità, rispetto ai suoi tempi, di certe vie battute da lui nel dipingerci con sorprendente intuizione psicologica il ritratto della persona morale di Maria gli hanno valso il titolo di “Padre della Mariologia” e di “Patrono della Venerazione di Maria”.18  È vero che San Gerolamo fu il primo dei Padri Latini a dedicare alla Vergine uno scritto proprio e particolare19, egli fu pure uno strenuo difensore della Perpetua Verginità di Maria. È vero altresì che molti altri anche prima di Ambrogio lo «precederanno nella rivendicazione di questo dogma, sostenendo importanti polemiche e formulando conclusioni che ebbero il plauso incondizionato della posterità e che segnarono l’orientazione seguita nelle successive speculazioni. Ma il merito non piccolo del Santo di Milano fu quello di aver contribuito in una misura, che non gli può essere contesa da nessun altro, ad illustrare il grande privilegio della Benedetta tra le donne, sotto tutti i possibili aspetti […]. Vi contribuì difendendolo vigorosamente e vittoriosamente dagli assalti, coi quali al suo tempo lo si impugnava, vi contribuì infine con quel suo mirabile ed indefesso apostolato che fu una delle sue più spiccate caratteristiche, per sviluppare e moltiplicare le vocazioni di coloro che abbracciavano lo stato di volontaria e perenne verginità, ai quali poi non mancava mai di proporre come supremo, incantevole modello Maria ».20 Ma il pregio della mariologia di Ambrogio non si esaurisce nella trattazione della Verginità Mariana; tutto quello che allora entrava nell’ambito delle dispute intorno alla Madre di Dio, fu svolto da Ambrogio e, se egli prese molto a prestito dai Greci, non ne fu solo pedissequo imitatore, ma molto vi aggiunse di proprio, dove Ambrogio si afferma originalissimo e battistrada ai posteri è nel dipingerci la psicologia di Maria21. Il genio di Ambrogio è anzitutto il genio moralista. Il suo carattere di pratico romano traspare da ogni suo scritto; il vescovo conserverà il senso ed il contegno dei suoi impegni consolari precedenti. Egli sarà prima di tutto un uomo di governo, un pastore acceso di zelo, una guida illuminata delle anime. Il romano si rivela in tutte le questioni pratiche di disciplina ed ordinamento interiore della comunità. Altri Padri saranno più di lui teologi, oratori, apologisti della Fede; egli è soprattutto «Vescovo»22. È l’uomo provvidenziale della Chiesa: per il suo carattere naturale, la sua formazione di magistrato, il temperamento della razza latina, infine per quello che l’opera della grazia e lo studio conferiranno in abbondanza al suo spirito. Tutto ciò egli porrà in servizio dell’emancipazione, dell’esaltazione e, dell’organizzazione della Chiesa di Cristo. Egli, infatti, con squisita analisi psicologica ci ha regalato un ritratto delle virtù di Maria così vivo, animato e completo come mai né prima né dopo di lui fu tracciato da penna alcuna. Ambrogio studia Maria in tutte le contingenza della vita: nei suoi rapporti con Dio, con il prossimo, con se stessa. Nel primo stadio della mariologia due erano i  grandi temi: la Maternità Divina e la Perpetua Verginità23. Fonte esclusiva di tale argomenti era la Sacra Scrittura, che è relativamente parca nel discorrere di Maria quanto agli avvenimenti esterni che la riguardano;   quanto ai sentimenti poi, che ne nobilitavano l’animo, più che descriverli, ce li lascia intravedere di sotto un velo che solo un lungo studio ed un grande amore potevano togliere e rivelare al mondo le sublimi ricchezze morali che il Dio aveva concesso a colei che si era scelta per Madre. Lo studio psicologico, su così vasta scala resta una felice innovazione di Ambrogio nella mariologia. In merito a quest’osservazione un dotto teologo moderno, il Campana, scrive: «Quegli che per il primo ha saputo far germogliare e svolgersi in fiori preziosi i semi delle grandi verità, che sul conto della Madonna contengono i Libri Ispirati, merita un posto di eterna riconoscenza nella storia della Teologia Mariana. Per riguardo alla Psicologia di Maria, questa gloria spetta a Sant’Ambrogio, il quale, inoltrandosi per il primo, senza alcun anteriore esempio in questa via, la frugò con sì attenta diligenza, che vi fece scoperte rimaste definitive e la percorse tanto addentro, da togliere pressoché ogni speranza di poterlo oltrepassare. Si potrà variare i termini delle espressioni od inquadrare l’argomento in altri schemi etici o psicologici; si potranno sviluppare più ampiamente le considerazioni che il Santo Dottore accenna appena [...] ma gettare luce più schietta, più originale, più rivelatrice, di quanto egli fece, lo crediamo impossibile».24 Questo grande quadro tratteggiato con mano maestra da Ambrogio, è nell’opera che il Dottore scrisse nel terzo anno del suo episcopato, cioè nel 377, e porta il titolo:  De Virginibus ad Marcellinam sororem25. Secondo Ambrogio la Madonna prende un posto singolarissimo nel piano e nel compimento della Redenzione. La Mediazione e la Corredenzione Universale di Maria sono attestate da lui con frequenti accenni ed in questo egli supera tutti gli scrittori ecclesiastici precedenti. Anche intorno alla morte della SS. Vergine il Patrono di Milano sarà il primo che tratterà esplicitamente una tale questione, se prescindiamo da Epifanio che affrontando il problema vi rispose in senso opposto, sostenendo cioè l’immortalità corporale della Madonna26. Del nome di Maria, riferito alla Madonna, Ambrogio darà una soluzione sua propria, che, se non trovò altri fautori, è però in se stessa una fonte vivace di profonde considerazioni. Il culto, poi di Maria assume in Ambrogio una importanza del tutto nuova e capitale.

2. 3.  Compendio della mariologia ambrosiana Come sintesi della dottrina mariologica di Ambrogio si possono riportare le parole del Rauschen nel luogo dove egli afferma: «Non a torto Ambrogio è proclamato Patrono del Culto di Maria: “egli descrive l’ideale della Verginità di Maria; la sua vita come scuola di virtù. Ella è senza macchia del peccato; è apportatrice della salvezza; debellatrice gloriosa del demonio; si oppone ad Eva e a Sara; è il tipo della Chiesa. Ambrogio però ammonisce di guardarsi dal tributarle un culto di latria».27 In conclusione Ambrogio ha avuto una parte molto attiva ed originale nello sviluppo della mariologia. È vero che talvolta anche Ambrogio nella soluzione dei problemi mariologici arrivi a risultati non sempre felici, ma la spiegazione erronea che egli dà, per esempio circa la stirpe davidica e circa l’etimologia del Nome di Maria, non gli sono imputabili a rigore. Esse sono un’inevitabile conseguenza  del difetto di opere e codici critici di alcuni autori neoplatonici28 ai quali Ambrogio aveva creduto di poter attribuire altrettanto coscienziosità nelle loro asserzioni. Quanto alla fisionomia speciale della mariologia ambrosiana, essa è quella che contraddistingue tutta la sua opera. Non incline per temperamento alla metafisica troppo sottile e a questioni troppo astratte, Ambrogio non si abbandonerà ad inquisizioni filosofiche astruse, ma attingerà alla fonte perenne della Sacra Scrittura, della quale dimostra un’ottima conoscenza, se si tiene conto della rapidità della sua preparazione dottrinaria, degli insegnamenti fecondi della sua morale diretta al bene delle anime. Le sue esposizioni mariane susciteranno un’ eco profonda in tutto il mondo d’allora, tanto da condurre all’imitazione di Maria uno stuolo sterminato di anime29. La speculazione non sarà totalmente esclusa, ma avrà un’importanza secondaria; qui egli si lascerà guidare da Clemente Alessandrino, da Origene, in ciò che egli ha di ortodosso, da San Basilio, da Didimo e con minore predilezione anche da Filone ed Ippolito. La parte preponderante delle proprie considerazioni d’ordine pratico e pastorale caratterizzano la peculiarità ed il valore della mariologia di sant’Ambrogio30.

2.4. Solida impostazione dei problemi mariani in relazione con il complesso degli altri dogmi

2.5. Autorevole giudizio di San Gerolamo in favore dei pregi di tale dottrina

SAN GIOVANNI DAMASCENO – 4 DICEMBRE

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SAN GIOVANNI DAMASCENO

DOTTORE DELLA CHIESA

BIOGRAFIA Nacque a Damasco nella seconda metà del secolo VII, da una famiglia di cristiani. Dopo aver ricevuto un’ottima istruzione filosofica, divenne monaco nel monastero di San Saba a Gerusalemme e fu ordinato sacerdote. Scrisse molte opere di dottrina teologica, in particolare contro gli iconoclasti. Morì verso la metà del secolo VIII.

DAGLI SCRITTI…

DALLA «DICHIARAZIONE DI FEDE» DI SAN GIOVANNI DAMASCENO, DOTTORE DELLA CHIESA

Tu mi hai chiamato, Signore, a servire i tuoi discepoli Tu, Signore, mi hai tratto dai fianchi di mio padre; tu mi hai formato nel grembo di mia madre; tu mi hai portato alla luce, nudo bambino, perché le leggi della nostra natura obbediscono costantemente ai tuoi precetti. Tu hai preparato con la benedizione dello Spirito Santo la mia creazione e la mia esistenza, non secondo volontà d’uomo o desiderio della carne, ma secondo la tua ineffabile grazia. Hai preparato la mia nascita con una preparazione che trascende le leggi della nostra natura, mi hai tratto alla luce adottandomi come figlio, mi hai iscritto fra i discepoli della tua Chiesa santa e immacolata. Tu mi hai nutrito di latte spirituale, del latte delle tue divine parole. mi hai sostentato con il solido cibo del Corpo di Gesù Cristo nostro Dio, Unigenito tuo santissimo, e mi hai inebriato con il calice divino del suo Sangue vivificante, che egli ha effuso per la salvezza di tutto il mondo. Tutto questo, Signore, perché ci hai amati e hai scelto come vittima, invece nostra, il tuo diletto Figlio unigenito per la nostra redenzione, ed egli accettò spontaneamente; senza resistere, anzi come uno che era destinato al sacrificio, quale agnello innocente si avviò alla morte da se stesso, perché, essendo Dio, si fece uomo e si sottomise, di propria volontà, facendosi «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 8). E così, o Cristo mio Dio, tu hai umiliato te stesso per prendere sulle tue spalle me, pecorella smarrita, e farmi pascolare in pascolo verdeggiante e nutrirmi con le acque della retta dottrina per mezzo dei tuoi pastori, i quali, nutriti da te, han poi potuto pascere il tuo gregge eletto e nobile. Ora, o Signore, tu mi hai chiamato per mezzo del tuo sacerdote a servire i tuoi discepoli. non so con quale disegno tu abbia fatto questo; tu solo lo sai. Tuttavia, Signore, alleggerisci il pesante fardello dei miei peccati, con i quali ho gravemente mancato; monda la mia mente e il mio cuore; guidami per la retta viva come una lampada luminosa; dammi una parola franca quando apro la bocca; donami una lingua chiara e spedita per mezzo della lingua di fuoco del tuo Spirito e la tua presenza sempre mi assista. Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri, perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra, ma il tuo Spirito buono mi indirizzi sulla retta via perché le mie azioni siano secondo la tua volontà e lo siano veramente fino all’ultimo. Tu poi, o nobile vertice di perfetta purità, o nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore; con essa si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri.

Colletta Signore, che in san Giovanni Damasceno hai dato alla tua Chiesa un insigne maestro della sapienza dei padri, fà che la vera fede, che egli insegnò con gli scritti e con la vita, sia sempre nostra forza e nostra luce. Per il nostro Signore…

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