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LA SCIENZA E LA SAPIENZA – AGOSTINO DI IPPONA – DE TRINITATE, DAI LIBRI XII E XIII (LETTERE PAOLINE)

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LA SCIENZA E LA SAPIENZA – AGOSTINO DI IPPONA – DE TRINITATE, DAI LIBRI XII E XIII (LETTERE PAOLINE)

Se la scienza è conoscenza delle cose temporali, la sapienza è conoscenza delle cose eterne. Ambedue, però, sono rivelate in pienezza in Cristo, nostra scienza e nostra sapienza. XII, 14. Perché anche la scienza è benefica alla sua maniera, se ciò che in essa gonfia o suole gonfiare è dominato dall’amore delle cose eterne, che non gonfia, ma che, come sappiamo, edifica (1Cor 8, 1). Senza la scienza infatti non possono esistere nemmeno le virtù con le quali si possa dirigere questa misera vita in modo da raggiungere quella eterna, che è veramente beata. 14, 22. C’è tuttavia una differenza tra la contemplazione delle cose eterne e l’azione con la quale facciamo buon uso delle cose temporali: quella si attribuisce alla sapienza, questa alla scienza. Sebbene infatti anche la sapienza possa venir chiamata scienza, come lo mostra l’affermazione dell’Apostolo, che dice: “Ora conosco parzialmente, allora conoscerò come sono conosciuto” (1Cor13, 12), per questa scienza egli intende certamente la contemplazione di Dio, che sarà il premio supremo dei santi; tuttavia dove l’Apostolo dice: “Ad uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza secondo lo stesso Spirito” (1Cor 12, 8), distingue, senza dubbio, l’una dall’altra, benché non spieghi la natura della loro differenza, e i caratteri che permettano di distinguerle. Ma dopo aver scrutato le molteplici ricchezze delle sante Scritture, trovo scritta nel libro di Giobbe questa sentenza del santo uomo: “Ecco, la pietà è la sapienza, la fuga dal male è la scienza” (Gb 28, 28). Questa distinzione ci fa comprendere che la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l’azione. In questo passo Giobbe identifica la pietà con il culto di Dio, che in greco si dice qeosbeia . È questa la parola che si trova presso i codici greci in questo passo. E fra le cose eterne che vi è di più eccellente di Dio, che solo possiede una natura immutabile? E che è il culto di Dio, se non l’amore di lui, amore che ci fa desiderare di vederlo, che ci fa credere e sperare che lo vedremo, perché nella misura in cui progrediamo lo vediamo ora per mezzo di uno specchio, in enigma, ma un giorno lo vedremo nella sua piena manifestazione? È ciò che dice l’apostolo Paolo quando parla della «visione» faccia a faccia (1Cor 13, 12), è anche quello che dice l’apostolo Giovanni: “Carissimi, ora siamo figli di Dio, e ciò che saremo un giorno non è stato ancora manifestato; ma sappiamo che al momento di questa manifestazione saremo simili a lui, perché lo vedremo come è” (1Gv 3, 2). In questi passi e in passi simili si tratta proprio, mi pare, della sapienza (1Cor 12, 8). Astenersi invece dal male (Gb 28, 28), ciò che Giobbe chiama scienza, appartiene certamente all’ordine delle cose temporali. Perché è in quanto siamo nel tempo che siamo soggetti al male, che dobbiamo evitare, per giungere ai beni eterni. Perciò tutto quanto compiamo con prudenza, forza, temperanza e giustizia, appartiene a quella scienza o regola di condotta, che guida la nostra azione nell’evitare il male e nel desiderare il bene e le appartiene pure tutto ciò che, come esempio da evitare o da imitare e come conoscenza necessaria tratta da avvenimenti adatti ad illuminare la nostra vita, raccogliamo attraverso la conoscenza della storia […]. XIII, 19. 24. Tutto ciò che il Verbo fatto carne (Gv 1, 14) ha fatto e sofferto per noi nel tempo e nello spazio appartiene, secondo la distinzione che abbiamo cominciato a chiarire, alla scienza, non alla sapienza (cf. 1Cor 12, 8; Col 2, 3). Invece ciò che il Verbo è al di fuori del tempo e dello spazio, è coeterno al Padre e tutto intero in ogni luogo; di questo, se qualcuno può, per quanto gli è possibile, parlare secondo verità, ciò che dirà apparterrà alla sapienza (1Cor 12, 8); per questo motivo il Verbo fatto carne, Cristo Gesù, possiede i tesori della sapienza e della scienza (Gv 1, 14; Col 2, 2-3). Ecco perché l’Apostolo scrive ai Colossesi: “Voglio infatti che voi sappiate quanto grande sia la lotta che io sostengo per voi e per questi che sono a Laodicea e per tutti coloro che non mi hanno mai veduto di persona, affinché siano consolati i loro cuori e, intimamente uniti in carità, possano essere del tutto arricchiti d’una pienezza d’intelligenza, per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 1-3). Chi può sapere in quel misura l’Apostolo conosceva questi tesori, quanto era penetrato in essi, quali misteri aveva scoperto? Da parte mia tuttavia, secondo ciò che sta scritto: “La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno di noi per utilità: infatti ad uno è dato dallo Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza, secondo lo stesso Spirito” (1Cor 12, 7-8), se la differenza tra la sapienza e la scienza risiede in questo: che la sapienza si riferisce alle cose divine, la scienza a quelle umane, riconosco l’una e l’altra in Cristo e con me la riconosce ogni fedele di Cristo. E quando leggo: “Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi” (Gv 1, 14), nel Verbo vedo con l’intelligenza il vero Figlio di Dio (2Cor 1, 19), nella carne riconosco il vero figlio dell’uomo (Dan 7, 13; Mt 9, 6; Mc 2, 10; Lc 5, 24; Gv 5, 27), l’uno e l’altro uniti nella sola persona del Dio-uomo, per un dono ineffabile della grazia. Per questo l’Evangelista aggiunge: “E abbiamo contemplato la sua gloria, gloria uguale a quella dell’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità (Gv 2, 14). Se riferiamo la grazia alla scienza, la verità alla sapienza (cf. 1Cor 12, 8), penso che non andiamo contro la distinzione tra scienza e sapienza, che abbiamo proposto. Infatti, nell’ordine delle cose che traggono la loro origine nel tempo, la grazia più alta è l’unione dell’uomo con Dio nell’unità della stessa persona, nell’ordine delle cose eterne la più alta verità è, a ragione, attribuita al Verbo di Dio. Ora, quello stesso che è l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 14), l’incarnazione fa sì che egli sia pure quello stesso il quale agisce per noi nel tempo affinché, purificati per mezzo della fede in lui, lo contempliamo per sempre nell’eternità. I più grandi filosofi pagani poterono, per mezzo della creazione, contemplare con l’intelligenza le perfezioni invisibili di Dio (Rm 1, 20); tuttavia poiché filosofarono senza il Mediatore, cioè senza il Cristo uomo e non hanno creduto ai Profeti che vaticinarono la sua venuta, né agli Apostoli che proclamarono tale venuta, hanno tenuta imprigionata la verità, come sta scritto di loro, nell’ingiustizia (Rm 1, 18). Posti in quest’ultimo grado della creazione, non poterono infatti che cercare dei mezzi per giungere a quelle realtà di cui avevamo compreso la grandezza; così facendo sono caduti negli inganni dei demoni che hanno fatto loro scambiare la gloria di Dio incorruttibile con delle immagini rappresentanti l’uomo corruttibile, uccelli, quadrupedi e rettili ( Rm 1, 23). Infatti sotto tali forme hanno costruito degli idoli e hanno reso loro culto (cf. Rm 1, 25). Dunque la nostra scienza è Cristo (cf. 1Cor 12, 8); la nostra sapienza è ancora lo stesso Cristo. È Lui che introduce in noi la fede che concerne le cose temporali, Lui che ci rivela la verità concernente le cose eterne. Per mezzo di Lui andiamo a Lui, per mezzo della scienza tendiamo alla sapienza; senza tuttavia allontanarci dal solo e medesimo Cristo in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2, 3). Ma ora parliamo della scienza, riservandoci di parlare in seguito della sapienza, per quanto Egli ci donerà di farlo. Tuttavia guardiamoci dal prendere queste parole in un’accezione così precisa che ci impedisca di parlare di sapienza a riguardo delle cose umane, e di scienza a riguardo delle cose divine. In senso lato si può parlare di sapienza in ambedue i casi ed in ambo i casi si può parlare di scienza. Tuttavia l’Apostolo non avrebbe scritto mai: “ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza (1Cor 12, 8), se ciascuna di queste parole non avesse un’accezione propria. La Trinità, XII, 14,22 e XIII, 19,24, in “Opere di Sant’Agostino”, tr. it. di Giuseppe Beschin, Città Nuova, Roma 1987, vol. IV, pp. 491-492 e 551-555.

COMPRENDERE LA GRAZIA DI DIO – DAL «COMMENTO ALLA LETTERA AI GALATI» DI SANT’AGOSTINO

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COMPRENDERE LA GRAZIA DI DIO

DAL «COMMENTO ALLA LETTERA AI GALATI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO

(Introduzione; PL 35, 2105-2107)

L’Apostolo scrive ai Galati perché capiscano che la grazia li ha sottratti dal dominio della Legge. Quando fu predicato loro il vangelo, non mancarono alcuni venuti dalla circoncisione i quali, benché cristiani, non capivano ancora il dono del vangelo, e quindi volevano attenersi alle prescrizioni della Legge che il Signore aveva imposto a chi non serviva alla giustizia, ma al peccato. In altre parole, Dio aveva dato una legge giusta a uomini ingiusti. Essa metteva in evidenza i loro peccati, ma non li cancellava. Noi sappiamo infatti che solo la grazia della fede, operando attraverso la carità, toglie i peccati. Invece i convertiti dal giudaismo pretendevano di porre sotto il peso della Legge i Galati, che si trovavano già nel regime della grazia, e affermavano che ai Galati il vangelo non sarebbe valso a nulla se non si facevano circoncidere e non si sottoponevano a tutte le prescrizioni formalistiche del rito giudaico. Per questa convinzione avevano incominciato a nutrire dei sospetti nei confronti dell’apostolo Paolo, che aveva predicato il vangelo ai Galati e lo incolpavano di non attenersi alla linea di condotta degli altri apostoli che, secondo loro, inducevano i pagani a vivere da Giudei. Anche l’apostolo Pietro aveva ceduto alle pressioni di tali persone ed era stato indotto a comportarsi in maniera da far credere che il vangelo non avrebbe giovato nulla ai pagani se non si fossero sottomessi alle imposizioni della Legge. Ma da questa doppia linea di condotta lo distolse lo stesso apostolo Paolo, come narra in questa lettera. Dello stesso problema si tratta anche nella lettera ai Romani. Tuttavia sembra che ci sia qualche differenza, per il fatto che in questa san Paolo dirime la contesa e compone la lite che era scoppiata tra coloro che provenivano dai Giudei e quelli che provenivano dal paganesimo. Nella lettera ai Galati, invece, si rivolge a coloro che erano già stati turbati dal prestigio dei giudaizzanti che li costringevano all’osservanza della Legge. Essi avevano incominciato a credere a costoro, come se l’apostolo Paolo avesse predicato menzogne, invitandoli a non circoncidersi. Perciò così incomincia: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo» (Gal 1, 6). Con questo esordio ha voluto fare un riferimento discreto alla controversia. Così nello stesso saluto, proclamandosi apostolo, «non da parte di uomini, né per mezzo di uomo» (Gal 1, 1), – notare che una tale dichiarazione non si trova in nessun’altra lettera – mostra abbastanza chiaramente che quei banditori di idee false non venivano da Dio ma dagli uomini. Non bisognava trattare lui come inferiore agli altri apostoli per quanto riguardava la testimonianza evangelica. Egli sapeva di essere apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (cfr. Gal 1, 1).

 

CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO – UFFICIO DELLE LETTURE – SECONDA LETTURA

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CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO – UFFICIO DELLE LETTURE – SECONDA LETTURA

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50, 477-480)

Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante, lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3, 13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invita tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2, 18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12, 10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2, 14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa. Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato, però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro. Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi. Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)

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LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)

Il titolo è volutamente provocatorio. Il Platonismo è stato una grande filosofia che ha animato molte persone e ispirato generazioni di studiosi. Non si vuole criticare la dottrina platonica in sé, dunque, ma rivolgersi con un poco d’ironia a coloro che, sostenendo la soggiacenza del pensiero patristico al Platonismo, alla fine lo relegano in quest’ultimo come se ne fosse un’appendice. Oltre che contrario alla realtà dei fatti, questo modo di pensare è molto pericoloso per dei cristiani: il Platonismo e i Padri – non più visti come testimoni di fede ma come quasi prosecutori di una filosofia – verrebbero inevitabilmente relegati al passato, dal momento che il pensiero filosofico odierno è ben distante dal Platonismo. È ovvio che i fondamenti delle dottrine platoniche non sono conciliabili con quelle cristiane. Ritenere che vi siano dei cristiani-platonici significa, quindi, ritenere che il loro Cristianesimo sia in un certo senso “malato” di platonismo, data l’inconciliabilità delle due realtà. Si afferma ciò, nonostante l’esistenza di una certa sicura influenza platonica in qualche autore cristiano (influenza decisamente più evidente e corposa nei seguaci delle correnti ereticali). Per quanto riguarda i Padri in genere, si nota che, pur utilizzando il vocabolario platonico, essi non trasmetterebbero reali dottrine platoniche. I Padri vogliono portare i loro lettori in una direzione totalmente differente da quella dei platonici e il metodo argomentativo da loro adottato non è puramente filosofico ma spirituale. (Sarebbe necessario evidenziare la differenza tra questi due metodi ma, per il momento, la diamo per scontata). Facciamo un rapido ma attento excursus assumendo come termine di paragone per la nostra indagine, un tema antropologico (non si può scegliere simultaneamente altri temi altrimenti saremo obbligati a fare una tesi di laurea cosa che nessuno ci può chiedere!). Il tema di confronto prescelto è il modo di considerare il corpo e l’anima. Questo tema ci permette di delimitare il campo segnalando determinate problematicità e l’eventuale chiara influenza di concetti di ordine platonico. Data la sede siamo obbligati ad essere più sintetici possibile sapendo bene che questo comporta il rischio di una certa sommarietà.   CORPO E ANIMA NELLA DOTTRINA PLATONICA Nella dottrina platonica emerge evidente la superiorità dell’anima rispetto al corpo, realtà addirittura da disprezzare dal momento che è una distrazione per l’anima.  “E allora quand’è […] che l’anima tocca la verità? Che se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in inganno. […] E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la verità? – Sì. – E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità. – È così. – Non dunque anche in questa ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni altra cosa il corpo, e fugge da esso, e si sforza anzi di essere tutta sola raccolta in se stessa? – È chiaro” (Fedone, X).  Nel Fedone si sviluppa pure la linea del ‘corpo come prigione dell’anima’. Il corpo è la ‘vera prigione’: È dunque compito dell’anima liberarsi dal corpo, come da catene. La morte è lo ‘scioglimento’ dell’anima dalle sue catene.  “E quella parola che si ode pronunciare in certi misteri, che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e che quindi non possiamo liberarcene da noi medesimi e tanto meno svignarcela” (Fedone, VI). Evidentemente non si può riassumere l’antropologia platonica solo in questi due elementi. Mi pare, però, corretto evidenziare che, in ciò, esistono profonde differenze con la primitiva dottrina cristiana, nonostante si riscontri in essa la presenza di risonanze platoniche (ma anche aristoteliche, stoiche, ecc.). Avremo modo di accennarvi rapidamente.   CORPO E ANIMA NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO Nell’epistola ai Romani (7, 24), san Paolo prorompe in un’incredibile domanda che s’imprime negli ascoltatori per la sua particolare forza:      “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”.  L’apostolo aveva appena affermato che con la sua interiorità segue il Vangelo di Cristo ma con il suo corpo la legge del peccato. Sembrerebbe che in quest’espressione esista una profonda parentela, se non un’identità, con quanto affermato nella dottrina platonica: il corpo è un peso, un ostacolo per l’anima! Sembrerebbe che vi sia un concetto duale di uomo, anima e corpo, in cui la prima viene oppressa dal secondo. Nonostante ciò le “somiglianze” non ci devono trarre in inganno. Infatti è celebre il famoso passo in cui san Paolo, predicando la resurrezione del corpo, viene dileggiato e abbandonato dagli uditori pagani (At 17,32). Per il mondo pagano, intriso di platonismo, un corpo che risorge e vive in eterno finisce per essere un’eterna prigione dell’anima! È viva, dunque, la differenza tra l’antropologia del Cristianesimo primitivo (di fatto erede del monismo antropologico semitico dove l’uomo è un’unità di corpo, anima e spirito) e quella pagana. “Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyché né al pneyma come ad una facoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica” (G.S. ROMANIDES, Il peccato originale secondo san Paolo).È evidente che per il Cristianesimo primitivo la carne non può essere un male, dal momento che il Figlio di Dio la assume e la strappa alla morte con la sua resurrezione. San Paolo, tuttavia, sa che è indebolita dal momento che in essa vi dimora parassitariamente il peccato (cfr. Rom 7, 17-18), l’inclinazione al male. Ma nel contesto paolino la malattia e la corruzione non riguarda solo la carne ma pure l’anima che non è una realtà sana in se stessa. Cristo giunge per l’una e l’altra portando la sanità nell’uomo intero. Questo è, ancora una volta, un fondamentale elemento di differenza con il mondo pagano.    CORPO E ANIMA IN AGOSTINO D’IPPONA Il vescovo d’Ippona, Aurelio Agostino, che così tanto ha influito nel pensiero occidentale nel corso dei secoli, evidentemente confessava con san Paolo la resurrezione della carne. Agostino in un primo tempo conobbe l’eresia dei manichei e un suo capo, il vescovo Fausto, contro il quale scrisse un trattato in difesa del Cristianesimo. È noto che i manichei avessero un’idea molto negativa del corpo considerandolo un male in sé. Essi evitavano accuratamente anche le relazioni sessuali. Agostino combatté i manichei ma la sua idea assai negativa della sessualità finì per allungare un’ombra anche sul senso e il valore del corpo. “Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?” (De Trinitate, 8,2). Dal passo citato è evidente che ci sono delle risonanze che riportano alla memoria le credenze platoniche. Quello che si nota in questo passo è l’insistenza sul corpo soggetto alla corruzione per il “glutine della passione?, mentre l’anima non pare essere luogo in cui vi può essere malattia. Essa, addirittura, sarebbe in grado di cogliere subitaneamente il concetto di “verità” ed è oscurata in questa sua capacità solo dai limiti che il corpo, con le sue pulsioni animali, le impone. In un altro passo la spiccata fobia per il sesso di Agostino porta il lettore a concludere che l’aspetto corporeo nell’uomo è una cosa negativa in sé: “Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca l’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio” (Soliloquia, 1, 10).  Le posizioni sul corpo in Agostino che questi due passi fanno intuire, sono mirabilmente sintetizzate nelle seguenti parole:  “L’impianto generale della filosofia agostiniana è quello platonico. Agostino stesso dichiara ripetutamente di appartenere alla ‘setta’ (scuola) dei platonici. Questo vale anche per l’antropologia, che rimane sostanzialmente di stampo platonico, anche se con qualche notevole variazione (rapporti tra anima e corpo, dottrina della illuminazione, importanza del fattore volitivo, ecc.). Agostino è contrario a ridurre – come fa Platone – l’uomo all’anima […]. Tuttavia nei confronti del corpo Agostino ha la stessa diffidenza e disprezzo che aveva manifestato Platone […]: ‘E affinché l’anima sia meno ostacolata nell’aderire tutta al tutto della verità, la morte è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazione dal corpo’ (De quantitate animæ 33, 76)” (B. MONDIN, L’uomo secondo il disegno di Dio, p. 51-52).  È evidente che, nonostante le molte precisazioni cristiane (come, ad esempio, quelle presenti nella polemica contro i platonici in La Città di Dio, XXII, 11), l’antropologia agostiniana alla fine subisce una pesante influenza di ordine platonico dove corpo e anima si contrappongono suggerendo che la salvezza cristiana si realizza solo con la fuga dell’anima dal corpo. Questo elemento si ripercuoterà portando ad un certo disprezzo della carne, cosa che caratterizzerà ogni ambiente cristiano che acriticamente si legherà al pensiero del vescovo ipponate esaltandone alcuni aspetti decisamente critici.   CORPO E ANIMA IN DIONIGI L’AREOPAGITA La visione dell’uomo che anima Dionigi è quella di un uomo totalmente trasfigurato (corpo e anima), “deificato”, termine che Agostino non usa mai. Per Dionigi questa visione teologica non è teoria, speculazione filosofica astratta o plagio da autori pagani. Per questo egli ammonisce severamente:  “Perciò coloro che temerariamente rivelano gli insegnamenti divini prima di avervi conformato la propria condotta e la propria vita, sono empi e completamente estranei alla santa legislazione” (DIONIGI AREOPAGITA , La Gerarchia ecclesiastica, III, 14).  In questo senso, è interessante osservare come Massimo il Confessore descriva Dionigi:  “Come uno specchio non offuscato da alcuna macchia di passioni, [le parole di Dionigi] avevano la forza di comprendere e di esporre chiaramente ciò che gli uditori non potevano neppure percepire”. (MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, Proemio).  Questo dimostra che le osservazioni di Dionigi attorno all’uomo e alla sua deificazione non sono il frutto di un’ardita operazione intellettuale, di un ingegnoso “incastro” tra Cristianesimo e Platonismo ma nascono prima di tutto da una percezione di tipo interiore, da un dono divino. Quello che sta al centro dell’opera di Dionigi, seppure vi siano risonanze di tipo platonico, è la realtà della Grazia che cambia la visione e i ragionamenti sull’uomo. In altri termini Dionigi non osserva l’uomo con gli occhiali dell’ideologia platonica ma dal pinnacolo della contemplazione divina. Questo aspetto per uno studioso di oggi può passare completamente inosservato ed è per questo che l’unica conclusione alla quale egli può giungere è quella di ritenere il lavoro di Dionigi un incontro più o meno riuscito tra concetti cristiani e concetti platonici.

Tuttavia, se si pone sul banco di prova la definizione di Dionigi come platonico, osservando i suoi scritti da un semplice punto di vista tematico, i “conti” non tornano.

Infatti, secondo la filosofia ellenistica, l’anima è illuminata dalla gnosi, con la quale è rimandata al suo stato originario. L’anima non necessita assolutamente di un rinnovamento ontologico o di una trasfigurazione operata da un Dio incarnato, né è necessario superare uno stato di “peccato”. Nella mentalità degli antichi filosofi ellenisti Dio e il “nuovo uomo” si raggiungevano tramite la gnosi, la conoscenza e la contemplazione intellettuale. Viceversa, nell’insegnamento cristiano Dio non è mai essenzialmente raggiungibile dall’intelletto e la rivelazione spirituale oltrepassa ogni capacità di conoscenza umana.  Se non si ha presente questi fondamenti, è facile equivocare ritenendo che il Cristianesimo patristico a cui Dionigi appartiene, soggiace a categorie platoniche. Ma possiamo anche fare una verifica diversa interrogando direttamente un autore cristiano dei primi secoli cristiani. Avremo una risposta inequivocabile. Giustino, il quale sempre per una pessima semplificazione viene denominato “il primo cristiano platonico”, confessa:  “Decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere divenuto un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla immediata visione di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone” (GIUSTINO, Dialogo con Trifone, II, 6, 91). La differenza sui fondamenti è evidente ed è proprio quella ad opporre Giustino ai Platonici. Anche per Dionigi possiamo trarre le medesime conclusioni: per quanto usi un linguaggio affine al mondo platonico, non aderisce al Platonismo ma al Cristianesimo. Per questo non lo si può definire “platonico”. D’altronde, la sua antropologia lo dimostra chiaramente, seppure non sia trattata in modo sistematico e si possa rinvenire qua e là all’interno delle sue opere. Un concetto di anima santa e di corpo puro non è assolutamente propria al platonismo eppure è fermamente confessata da Dionigi: “Le anime sante che in questa vita potevano lasciarsi andare all’inclinazione verso il peggio, nella resurrezione avranno uno stato divinissimo e immutabile; d’altra parte, i corpi puri che hanno la stessa condizione e le stesse vicissitudini delle anime sante, che sono stati arruolati insieme e insieme hanno combattuto in divine fatiche, riceveranno la propria risurrezione nella stabilità immutabile delle anime riguardo alla vita divina. Infatti, i corpi, dopo essersi uniti alle sante anime con le quali erano uniti durante questa vita, resi come membra di Cristo, riceveranno una quiete divina, incorruttibile, immortale e beata” (DIONIGI AREOPAGITA, Gerarchia Ecclesiastica, 1. 552D-B). Che Dionigi sia assolutamente contro coloro che, come pure gli gnostici, partono da una concezione negativa della materia, lo si nota qualche riga oltre:  “Altri, poi, attribuiscono alle anime la possibilità di congiungersi con altri corpi [non materiali], commettendo ingiustizia, io credo, per quanto sta in loro, verso i corpi che hanno sofferto con le loro divine anime e rifiutando empiamente le sacre ricompense ai corpi che sono giunti al termine delle corse divinissime” (Ib., 556C). In questi significavi passi Dionigi qualifica l’anima con il termine di “santa”, “divina” e il corpo con quello di “puro”. A monte di queste qualificazioni sta evidentemente la dottrina cristiana per la quale né il corpo né l’anima sono santi in sé ma vengono resi santi e puri dalla purificazione, illuminazione e divinizzazione per Grazia. Questo concetto di “redenzione totale” operata da Dio, redenzione dell’anima e del corpo, è chiara in Dionigi: “Se infatti il defunto nell’anima e nel corpo ha passato una vita cara a Dio, il suo corpo meriterà di essere associato agli onori dell’anima santa con cui ha diviso il combattimento e i santi sudori. Allora la divina giustizia dà in dono all’anima, insieme con il proprio corpo, un riposo adeguato ad esso, in quanto compagno e compartecipe della vita santa o di quella contraria. Perciò la legge divina dà in dono ad entrambi la partecipazione tearchica alle cose sante: all’anima nella pura contemplazione e nella scienza dei misteri, al corpo simbolicamente nell’unguento divinissimo e nei simboli molto sacri della santa comunione, santificando tutto l’uomo e santamente operando tutta la sua salvezza, e annunciando che la sua risurrezione sarà perfettissima con le purificazioni totali” (Ib. III, 565B-C).  Se si soppesano attentamente questi passi antropologici non v’è possibilità alcuna di ritenerli “platonici”, né di ritenere platonico il suo autore. Tra le opere dionisiane, quella su “I nomi divini” può parere la più “platonica”. Ma anche qui Dionigi tiene conto della rivelazione ricevuta dalla Chiesa, la quale si presenta notevolmente diversa dal pensiero dei neoplatonici suoi interlocutori. Per quanto riguarda il nostro tema, Dionigi tiene conto della realtà dell’Incarnazione, cioè del fatto che il Figlio di Dio si è unito personalmente, per sempre, ad una sostanza umana completa divenendo realmente uomo (Cfr. ID., Sui nomi divini, II, 10). Si è sempre sottolineato che nel Platonismo le realtà invisibili sono più elevate e importanti di quelle visibili, dal momento che viene posto un evidente dualismo nella spiegazione di tutta la realtà compresa quella umana. Ci chiediamo sinceramente se questa è pure l’idea di Dionigi. Notiamo che, invece, a Dionigi sta a cuore mostrare che Dio, posto al di sopra di tutto, non coincide con la semplice immaterialità in modo da poterla contrapporre alla materialità. Lo Spirito, per Dionigi, “sta al di sopra di ogni immaterialità e divinizzazione che si possa pensare” (Ib., II, 8). Così la vera distinzione non si ha tra “spiritualità” e “materialità”, tra “anima” e “corpo” ma tra quella che poi verrà definita come “realtà increata” (Dio) e “realtà creata” (il mondo spirituale e materiale).

CONCLUSIONE Agostino e Dionigi non sono rimasti lettera morta. Le loro impostazioni antropologiche hanno influito, seppur in modo diversificato, nel pensiero e nel cammino delle Chiese. Agostino, che si muove da un pensiero piuttosto pessimistico della natura umana e del corpo in particolare, sarà un autore al quale Tommaso d’Acquino ricorrerà molto spesso. Tommaso, a sua volta, è stato per secoli il riferimento principale della teologia latina e, in parte, lo è anche oggi. La Chiesa latina non mancherà di soffermarsi sul pessimismo antropologico agostiniano finendo a volte a illustrare una visione cupa della sessualità e del corpo. Non si può dimenticare che, per una consuetudine popolare spiritualista non ancora morta, la Salvezza operata da Cristo è stata spesso trattata come una questione di “salvezza dell’anima”, non di salvezza totale: “salvatevi l’anima”, ripetevano i predicatori fino a qualche tempo fa. In questo contesto il corpo pare evidentemente secondario e non si può non ravvedere in ciò un chiaro influsso antropologico agostiniano. Il pessimismo antropologico non mancherà d’impressionare l’animo tormentato e sensibile del monaco agostinano Lutero il quale perverrà a conclusioni ancor più estreme. Sul versante opposto, quello del Cristianesimo orientale, la dottrina spirituale di Dionigi sarà ripresa da Massimo il Confessore ma, prima di lui, quest’impostazione caratterizzerà anche autori come Gregorio di Nissa. Questa dottrina spirituale non trascura la realtà del corpo dal momento che conformemente alla Rivelazione cristiana, Cristo assume un corpo, risorge con un corpo, ascende al cielo con un corpo. Perciò l’appartenenza del corpo all’essenza dell’uomo e alla persona stessa fu fortemente sottolineata nei primi secoli dai Padri contro lo gnosticismo e, nuovamente, nel IV e V secolo contro l’origenismo e le differenti forme con il quale il platonismo si ripresentava (tra cui il neoplatonismo). Fu infine riaffermata nel XIV secolo nel quadro della difesa della spiritualità esicasta che accordava al corpo un posto fondamentale. Come Dionigi, i Padri greci sono stati definiti “platonici”. Dal poco che è stato accennato si comprende che tale aggettivo fa torto alla realtà dei fatti. D’altra parte secondo lo studioso greco Cavarnos:  “[I Padri] non avrebbero avuto alcuna obiezione ad essere chiamati semplicemente ‘filosofi’, a chiamare il Cristianesimo ‘filosofia’, ‘divina filosofia’ e a caratterizzare serie riflessioni su alcuni problemi o argomenti, come quelli da essi affrontati, con il termine ‘filosofare’. Ma nessuno di loro ha chiamato se stesso o qualche altro cristiano predecessore, dal quale avevano imparato, ‘platonico’, ‘aristotelico’, ‘cristiano platonico’ o ‘cristiano aristotelico’. Simili caratterizzazioni erano per loro impensabili” (C. CAVARNOS, The Hellenic-Christian Philosophical Tradition, p. 17).  Da questo quadro bisogna invece estrapolare come un caso a parte e singolare Agostino, dal momento che egli non è mai riuscito a superare completamente le posizioni dualistiche assimilate nel suo periodo pre-cristiano e il suo singolare disprezzo per la corporeità. Sulla base di ciò alcuni hanno coerentemente concluso che “così l’Occidente ricevette come cristiano un insegnamento che era in realtà pagano in molti dei suoi aspetti” (A. KALOMIROS, Il fiume di fuoco).   Chiaranz Pietro    

NEI GIORNI DI PASQUA – DISCORSO DI S. AGOSTINO SUL VANGELO DI GIOVANNI, CAP. 21 DISCORSO 252/A

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_350_testo.htm

NEI GIORNI DI PASQUA – DISCORSO DI S. AGOSTINO SUL VANGELO DI GIOVANNI, CAP. 21 DISCORSO 252/A

1. Dall’evangelista Giovanni sono stati descritti molti particolari sulle apparizioni del Signore Gesù ai discepoli dopo la sua resurrezione. Una volta apparve loro mentre pescavano. Questa pesca durante la quale il Signore volle mostrarsi ai discepoli fu iniziata presso il mare di Tiberiade e contiene un grande sacramento, che, sebbene da voi conosciuto, noi dobbiamo quest’oggi brevemente ricordare.

Le pésche miracolose di cui nel Vangelo e relativo simbolismo. 2. Ripensate a quell’altra pesca in occasione della quale chiamò coloro che erano pescatori di pesci e li fece pescatori di uomini. Essa avvenne agli inizi della sua predicazione, molto tempo prima della sua passione. Quella volta, come dovreste ben ricordare, si avvicinò ai discepoli, non ancora discepoli, ed essi, abbandonate le reti, lo seguirono. S’accorse che durante l’intera notte non avevano preso niente e disse loro: Gettate in mare le vostre reti 1. Ve le gettarono e presero una quantità di pesci così grande da riempire due barche, appesantendole in maniera tale che stavano per affondare. La quantità di pesci fu tanta che le reti si rompevano. Fu allora che rivolse loro le parole: Venite dietro a me; io vi farò pescatori di uomini 2. E tali effettivamente li rese: gli Apostoli gettarono le reti della parola nel mare del mondo e presero molti pesci. Se volete farvi un’idea di questo numero di pesci, numero incalcolabile, guardate alla moltitudine dei cristiani. Sono infatti i cristiani quelli che furono presi da quelle sante reti, presi per conseguire la vita, non per finire nella morte. Tuttavia fra questa moltitudine di gente presa nelle reti son sorti anche numerosi scismi. Dice appunto che le reti si squarciarono. Anche le due barche, cioè le due imbarcazioni che furono riempite, hanno un significato: significano i cristiani provenienti dalla circoncisione e dall’incirconcisione, cioè la Chiesa raccolta dal mondo giudeo e da quello pagano. In relazione a ciò Cristo è detto pietra angolare: perché in quell’angolo si baciano, per così dire, le pareti che provengono da direzioni opposte. Orbene, quelle barche furono riempite, quasi sovraccaricate, al punto che stavano per affondare. Si allude ai cristiani che vivono male e con i loro cattivi costumi sono un peso per la Chiesa. Le barche peraltro non affondarono: la Chiesa sa reggere il peso di coloro che vivono male; può essere gravata, non sommersa. Adesso, cioè dopo la sua resurrezione, Cristo ci fornisce, l’immagine della Chiesa quale sarà dopo la nostra resurrezione. Allora, Chiesa felice, essa sarà formata da soli buoni e non avrà mescolato alcun cattivo.

Al presente le reti della Chiesa contengono pesci buoni e cattivi. 3. Cosa disse ai discepoli dopo la resurrezione? Gettate le reti dalla parte destra 3. Nella pesca precedente non aveva detto: Dalla parte destra, perché non fossero indicati soltanto i buoni; e nemmeno: Dalla parte sinistra, per non indicare soltanto i cattivi. In diverse direzioni furono gettate le reti, perché dovevano raccogliere e i buoni e i cattivi. In tal senso il Signore Gesù Cristo raccontò anche una parabola. Disse: Il regno dei cieli è simile a una rete gettata in mare, nella quale si raccoglie ogni sorta di pesci. Quando l’hanno tirata a riva, si seggono e scelgono i pesci buoni, che mettono nei loro recipienti, mentre buttano via i pesci cattivi. Così la formulò, ma poi ne diede la spiegazione. Disse: Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e prenderanno i cattivi di fra mezzo ai giusti e li getteranno nella fornace col fuoco acceso, dove sarà pianto e stridore di denti 4. Lasciamo dunque nuotare per ora i pesci buoni insieme con i cattivi e i cattivi insieme con i buoni. Basta che nuotino dentro la rete e non la rompano! Coloro che rompono la rete sono cattivi; mentre coloro che restano dentro la rete possono essere e buoni e cattivi. Ma, questo solo per il tempo presente.

La separazione dei cattivi dai buoni. 4. Dopo la resurrezione in effetti cosa disse? Gettate la rete dalla parte destra 5. Che significa: Dalla parte destra? Gettandola dalla parte destra prenderete coloro che alla fine saranno alla destra. E a quelli che staranno alla destra dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno 6. A questi si riferiva quando ordinava di gettare le reti dalla parte destra. Le reti furono calate e presero molti grandi pesci. Se ne precisa anche il numero. Nella pesca antecedente, che sta a indicare i buoni e i cattivi, non ci si dice il numero: c’erano infatti pesci in soprannumero. E chi sono questi pesci in sopra numero? Coloro che non rientrano nel numero dei santi. Tali coloro che strappano la rete creando scismi; tali coloro che rinunziano al mondo a parole ma non nei fatti, coloro che ricevono il sacramento dell’uomo nuovo ma continuano a vivere secondo l’uomo vecchio. Gente come questa sarebbe stata dentro quelle reti: perciò non si menziona la parte destra e si tace il numero. Tutti costoro sono in soprannumero, come dice il salmo: Ho annunziato e ho parlato; son diventati molti, oltrepassano il numero 7. C’era, allora, un numero di santi, ma ce n’erano molti fuori di quel numero; adesso al contrario non c’è nessuno che non rientri in quel numero.

Grande il numero degli eletti, uniti per sempre nella lode di Dio. 5. E quanti erano? Centocinquantatré 8. Questo è il numero globale di tutti i santi? Non permetta il Signore che ad un numero così esiguo si debbano ridurre nemmeno coloro ai quali stiamo parlando in questa chiesa. E allora? Chi fra noi non comprende la cosa deve cominciare a capirla; chi invece la comprende deve ricordarla. La prima cosa la si ottenga mediante il mio suggerimento, la seconda attraverso la riflessione, perché non sopravvenga la dimenticanza. Centocinquantatré, dice. E l’Evangelista si premura di aggiungere: Pur essendo così grandi, la rete non si squarciò 9. Sembra dirlo in riferimento a quella pesca antecedente in cui le reti si squarciarono. Adesso invece come andò? Pur essendo così grandi, la rete non si squarciò. Chi temerà che lassù ci siano scismi, dove non potrà rompersi il nodo dell’unità e il germoglio della madre Chiesa? Non ci sarà amico che sarà separato da lei né nemico che le si aggreghi. Quanti aderiranno a lei saranno santi e perfetti. Saranno migliaia e migliaia, anzi saranno più che miriadi, ma saranno tutti inclusi in quel numero.

Legge e grazia nell’opera della giustificazione e della salvezza eterna. 6. Questo numero scaturisce da diciassette. Chi vuol contare tutti i numeri da uno fino a diciassette e farne la somma troverà che è così. Si metta uno e vi si aggiunga due: si avrà tre. Si aggiunga ancora tre e si avrà sei; si aggiunga quattro e si avrà dieci. Procedendo in questa maniera fino a diciassette si avrà centocinquantatré. Non resta altro se non che mi si chieda quale significato abbiano il dieci e il sette. Se troviamo il significato di questo numero base, cioè diciassette, sarà chiaro anche il sacramento del numero più alto, cioè centocinquantatré. Nel diciassette c’è la radice, nell’altro numero l’albero. Che significa dunque il numero diciassette? Il dieci significa la legge. Sono infatti dieci i comandamenti della legge, scritti dal dito di Dio su due tavole di pietra, come dice la legge stessa, come attestano i Libri sacri. Nel numero dieci troviamo rappresentata la legge. Ma questa legge chi è in grado di osservarla senza aiuto? Nessuno assolutamente. Se infatti – dice l’Apostolo – fosse stata data una legge capace di dare la vita, certamente dalla legge sarebbe provenuta la giustizia. Ma la Scrittura racchiuse ogni cosa sotto il peccato, perché la promessa fosse data a coloro che credono, mediante la fede in Gesù Cristo 10. Fu dunque data la legge, la quale, per non dilungarmi, ha tra gli altri precetti quello di non desiderare la roba del tuo prossimo 11. Non devi desiderarla. Passando davanti alla bella casa di un altro, non devi sospirare perché è attraente. Non devi desiderare la roba del tuo prossimo. Del Signore è la terra e quanto contiene 12; e se tu possiedi Dio, che cosa non è in tuo dominio? Comunque, la roba del tuo prossimo tu non la devi desiderare. Questa legge gli uomini l’avevano ascoltata e, almeno certuni, si sforzavano di trattenersi dal compiere il male per paura del castigo; tuttavia non riuscivano a frenare il piacere cattivo. Donaci quindi, o Signore, il tuo aiuto! Difatti colui che ha dato la legge darà anche la benedizione 13. In questo testo si afferma che darà la benedizione colui che aveva dato la legge: darà cioè l’aiuto dello Spirito Santo perché si possa osservare la legge, come è detto della sapienza di Dio: Essa reca sulla lingua la legge e la misericordia 14. Se recasse con sé solo la legge, chi ne sorreggerebbe il peso? Si esigerebbero le opere conformi alla legge e tutti saremmo trovati colpevoli. Ma ecco sopraggiungere la misericordia. Con essa si ha l’aiuto per praticare la legge e il perdono quando non la si pratica. Questa misericordia è dono dello Spirito Santo, al quale nelle Scritture si fa riferimento ove si usa il numero sette. Ricordo un solo passo, quello dì Isaia, che dice: In lui dimorerà lo Spirito Santo; ed elenca: Spirito dì sapienza e d’intelletto, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di scienza e di pietà, Spirito del timore dì Dio 15. Giunge questo Spirito e ottengono realizzazione e i sette e i dieci. Sì, quando i sette si aggiungono ai dieci, vengono fuori i santi, coloro cioè che non ripongono la propria fiducia nella legge ma confidano nell’aiuto di Dio. Rivolti al loro Signore così si esprimono: Sii tu il mio aiuto! Non abbandonarmi, non dimenticarmi, Dio, mia salvezza. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto 16. Costoro hanno appreso a dire come voi: Padre nostro che sei nei cieli. La misericordia dunque si è aggiunta alla legge; perciò noi, che ci troviamo nel numero diciassette, non dobbiamo in alcun modo temere: se siamo nel diciassette giungeremo al centocinquantatrè, e se giungeremo al centocinquantatrè, saremo alla sua destra, e se saremo alla sua destra avremo in eredità il regno.

LA CROCE SIA LA TUA GIOIA ANCHE IN TEMPO DI PERSECUZIONE -SAN CIRILLO DI GERUSALEMME, VESCOVO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2004/Riv0304/Riv0304_04.htm

DALLE “CATECHESI” DI SAN CIRILLO DI GERUSALEMME, VESCOVO

(Catech. 13, 1. 3. 6. 23; PG 33, 771-774. 779. 799. 802)

La croce sia la tua gioia anche in tempo di persecuzione

Senza dubbio ogni azione di Cristo è fonte di gloria per la Chiesa cattolica; ma la croce è la gloria delle glorie. È proprio questo che diceva Paolo: Lungi da me il gloriarmi se non nella croce di Cristo (cfr. Gal 6, 14). Fu certo una cosa straordinaria che quel povero cieco nato riacquistasse la vista presso la piscina di Siloe: ma cos’è questo in paragone dei ciechi di tutto il mondo? Cosa eccezionale e fuori dell’ordine naturale che Lazzaro, morto da ben quattro giorni, ritornasse in vita. Ma questa fortuna toccò a lui e a lui soltanto. Che cosa è mai se pensiamo a tutti quelli che, sparsi nel mondo intero, erano morti per i peccati? Stupendo fu il prodigio che moltiplicò i cinque pani fornendo il cibo a cinquemila uomini con l’abbondanza di una sorgente. Ma che cosa è questo miracolo quando pensiamo a tutti coloro che sulla faccia della terra erano tormentati dalla fame dell’ignoranza? Così pure fu degno di ammirazione il miracolo che in un attimo liberò dalla sua infermità quella donna che Satana aveva tenuta legata da ben diciotto anni. Ma anche questo che cos`è mai in confronto della liberazione di tutti noi, carichi di tante catene di peccati? La gloria della croce ha illuminato tutti coloro che erano ciechi per la loro ignoranza, ha sciolto tutti coloro che erano legati sotto la tirannide del peccato e ha redento il mondo intero. Non dobbiamo vergognarci dunque della croce del Salvatore, anzi gloriamocene. Perché se è vero che la parola “croce” è scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, per noi è fonte di salvezza. Se per quelli che vanno in perdizione è stoltezza, per noi, che siamo stati salvati, è fortezza di Dio. Infatti non era un semplice uomo colui che diede la vita per noi, bensì il Figlio di Dio, Dio stesso, fattosi uomo. Se una volta quell’agnello, immolato secondo la prescrizione di Mosé, teneva lontano l’Angelo sterminatore, non dovrebbe avere maggiore efficacia per liberarci dai peccati l’Agnello che toglie il peccato del mondo? Se il sangue di un animale irragionevole garantiva la salvezza, il sangue dell’Unigenito di Dio non dovrebbe recarci la salvezza nel vero senso della parola? Egli non morì contro la sua volontà, né fu la violenza a sacrificarlo, ma si offrì di propria volontà. Ascolta quello che dice: Io ho il potere di dare la mia vita e il potere di riprenderla (cfr. Gv 10, 18). Egli dunque andò incontro alla sua passione di propria volontà, lieto di un’opera così sublime, pieno di gioia dentro di sé per il frutto che avrebbe dato, cioè la salvezza degli uomini. Non arrossiva della croce, perché procurava la redenzione al mondo. Né era un uomo da nulla colui che soffriva, bensì Dio fatto uomo, e come uomo tutto proteso a conseguire la vittoria nell’obbedienza. Perciò la croce non sia per te fonte di gaudio soltanto in tempo di tranquillità, ma confida che lo sarà parimenti nel tempo della persecuzione. Non ti avvenga di essere amico di Gesù solo in tempo di pace e poi nemico in tempo di guerra. Ora ricevi il perdono dei tuoi peccati e i grandi benefici della donazione spirituale del tuo re e così, quando si avvicinerà la guerra, combatterai da prode per il tuo re. È stato crocifisso per te Gesù, che nulla aveva fatto di male: e tu non ti lasceresti crocifiggere per lui che fu inchiodato sulla croce per te? Non sei tu a fare un dono, ma a riceverlo prima ancora di essere in grado di farlo, e in seguito, quando vieni a ciò abilitato, tu rendi semplicemente il contraccambio della gratitudine, sciogliendo il tuo debito a colui che per tuo amore fu crocifisso sul Golgota.

DALLE «OMELIE SUI VANGELI» DI SAN GREGORIO MAGNO, PAPA – GIOVANNI 20, 24

http://www.padreguglielmo.it/new/omelia-3-7-15/

DALLE «OMELIE SUI VANGELI» DI SAN GREGORIO MAGNO, PAPA – GIOVANNI 20, 24

(Om. 26, 7-9; PL 76, 1201-1202)

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (Gv 20, 24). Questo solo discepolo era assente. Quando ritornò udì il racconto dei fatti accaduti, ma rifiutò di credere a quello che aveva sentito. Venne ancora il Signore e al discepolo incredulo offrì il costato da toccare, mostrò le mani e, indicando la cicatrice delle sue ferite, guarì quella della sua incredulità. Che cosa, fratelli, intravedere in tutto questo? Attribuite forse a un puro caso che quel discepolo scelto dal Signore sia stato assente, e venendo poi abbia udito il fatto, e udendo abbia dubitato, e dubitando abbia toccato, e toccando abbia creduto? No, questo non avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell’incredulità. L’incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede degli altri discepoli. Mentre infatti quello viene ricondotto alla fede col toccare, la nostra mente viene consolidata nella fede con il superamento di ogni dubbio. Così il discepolo, che ha dubitato e toccato, è divenuto testimone della verità della risurrezione. Toccò ed esclamò: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto» (Gv 20, 28-29). Siccome l’apostolo Paolo dice: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», è chiaro che la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Le cose che si vedono non richiedono più la fede, ma sono oggetto di conoscenza. Ma se Tommaso vide e toccò, come mai gli vien detto: «Perché mi hai veduto, ha creduto?» Altro però fu ciò che vide e altro ciò in cui credette. La divinità infatti non può essere vista da uomo mortale. Vide dunque un uomo e riconobbe Dio, dicendo: «Mio Signore e mio Dio!». Credette pertanto vedendo. Vide un vero uomo e disse che era quel Dio che non poteva vedere. Ci reca grande gioia quello che segue: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 28). Con queste parole senza dubbio veniamo indicati specialmente noi, che crediamo in colui che non abbiamo veduto con i nostri sensi. Siamo stati designati noi, se però alla nostra fede facciamo seguire le opere. Crede infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede. Dice invece san Paolo di coloro che hanno la fede soltanto a parole: «Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti» (Tt 1, 16). E Giacomo scrive: «La fede senza le opere è morta» (Gc 2, 26).

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