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LUNEDÌ 6 OTTOBRE 2009 – XXVII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 6 OTTOBRE 2009 – XXVII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla prima lettera a Timoteo di san Paolo, apostolo 2, 1-15

Esortazione alla preghiera
Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo — dico la verità, non mentisco — , maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese. Alla stessa maniera facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d’oro, di perle o di vesti sontuose, ma di opere buone, come conviene a donne che fanno professione di pietà.
La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.

Responsorio   1 Tm 2, 5-6; Eb 2, 17
R. Uno solo è Dio, uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù; * egli ha dato se stesso in riscatto per tutti.
V. Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare misericordioso:
R. egli ha dato se stesso in riscatto per tutti.

Seconda Lettura
Dal trattato «Caino e Abele» di sant’Ambrogio, vescovo
(Lib. 1, 9. 34. 38-39; CSEL 32, 369. 371-372)

Si deve pregare in modo speciale per tutto il corpo della Chiesa
«Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli all’Altissimo i tuoi voti» (Sal 49, 14). Chi promette a Dio e mantiene quello che gli ha promesso, lo loda. Perciò viene privilegiato sugli altri quel samaritano il quale, mondato dalla lebbra per comando del Signore insieme agli altri nove, ritorna a Cristo da solo, magnifica Dio e lo ringrazia. Di esso Gesù affermò: «Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero? E gli disse: Alzati e và, la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17, 18-19).
Il Signore Gesù ti ha fatto conoscere in modo divino la bontà del Padre che sa concedere cose buone, perché anche tu chieda a lui, che è buono, ciò che è buono. Ha raccomandato di pregare intensamente e frequentemente, non perché la nostra preghiera si prolunghi fino al tedio, ma piuttosto ritorni a scadenze brevi e regolari. Infatti la preghiera troppo prolissa spesso diventa meccanica e d’altra parte l’eccessivo distanziamento porta alla
negligenza.
Quando domandi perdono per te, allora è proprio quello il momento di ricordarti che devi concederlo agli altri. Così l’opera sarà una commendatizia alla tua preghiera. Anche l’Apostolo insegna che si deve pregare senza ira e senza contese perché la preghiera non venga turbata e falsata. Insegna anche che si deve pregare in ogni luogo (cfr. 1 Tm 2, 8), laddove il Salvatore dice: «Entra nella tua camera» (Mt 6, 6). Intendi non una camera delimitata da pareti dove venga chiusa la tua persona, ma la cella che è dentro di te dove sono racchiusi i tuoi pensieri, dove risiedono i tuoi sentimenti.  Questa camera della tua preghiera è con te dappertutto, è segreta dovunque ti rechi, e in essa non c’è altro giudice se non Dio solo.
Ti si insegna ancora che si deve pregare in maniera tutta speciale per il popolo, cioè per tutto il corpo, per tutte le membra della tua madre: sta in questo il segno della carità vicendevole. Se, infatti, preghi per te, pregherai soltanto per il tuo interesse. E se i singoli pregano soltanto per se stessi, la grazia è solo in proporzione della preghiera di ognuno, secondo la sua maggiore o minore dignità. Se invece i singoli pregano per tutti, tutti pregano per i singoli e il vantaggio è maggiore.
Dunque, per concludere, se preghi soltanto per te, pregherai per te, ma da solo, come abbiamo detto. Se invece preghi per tutti, tutti pregheranno per te. Perché nella totalità ci sei anche tu. La ricompensa è maggiore perché le preghiere dei singoli messe insieme ottengono a ognuno quanto chiede tutto intero il popolo. In questo non vi è alcuna presunzione, ma maggiore umiltà e frutto più abbondante.

Sant’Ambrogio: « Il vostro Padre celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090811

Meditazione del giorno
Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento al Salmo 118, 22, 27-30 ; CSEL 62, 502-504

« Il vostro Padre celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli »

Vieni, Signore Gesù, a cercare il tuo servo ; cerca la tua pecora affaticata ; vieni, pastore… Mentre ti tratteni sui monti, la tua pecora sta errando : su, lascia le novantanove altre che pure sono tue, e vieni a cercare l’unica che si è smarrita. Vieni, senza farti aiutare, senza farti annunciare ; ora, sei tu che io attendo. Non prendere la frusta. Prendi il tuo amore ; vieni con la dolcezza del tuo Spirito. Non esitare a lasciare sui monti queste tue novantanove pecore. Sulle cime dove le hai poste, i lupi non hanno accesso… Vieni a me, che mi sono smarrito lontano dai greggi di lassù, dove avevi posto anche me, ma i lupi della notte mi hanno fatto abbandonare i tuoi ovili.

Cercami Signore, poiché la mia preghiera ti cerca. Cercami, trovami, rialzami, portami ! Quello che cerchi, puoi trovarlo ; quello che trovi, degnati di rialzarlo ; e quello che rialzi, mettitelo in spalla. Non ti stanca questo pietoso fardello, non ti è di peso portare colui che hai giustificato. Su, vieni Signore, perché anche se è vero che sto errando, « non ho dimenticato la tua parola » (cf. Sal 119/118), e nutro speranza di essere guarito. Vieni, Signore, sei l’unico a poter ancora chiamare la tua pecora perduta ; alle altre che avrai lasciato, non causerai alcuna tristezza. Anche esse si rallegreranno al vedere tornare il peccatore. Vieni, e ci sarà salvezza sulla terra, e ci sarà gioia in cielo (Lc 15, 7).

Non mandare i tuoi servi, non mandare mercenari, vieni tu, a cercare la tua pecora. Rialzami in questa carne che, con Adamo, è caduta. Con questo gesto, riconoscimi non come un figlio di Eva, ma come il figlio di Maria, vergine pura, vergine per grazia, senza nessun sospetto di peccato. Poi, portami fino sulla tua croce. Essa è la salvezza degli erranti, il solo riposo degli affaticati, l’unica vita di tutti quelli che muoiono.

IL MARTIRIO DI SAN LORENZO NEL RACCONTO DI AMBROGIO

dal sito:

http://www.madonnadelcolle.it/phpblog/index.php?module=articlezoom&articleid=40

IL MARTIRIO DI SAN LORENZO NEL RACCONTO DI AMBROGIO
 
10 Ago 2008
 
San Lorenzo appare specialmente caro a sant’Ambrogio: come gli apostoli Pietro e Paolo, l’arcidiacono di Papa Sisto ii, martire nella persecuzione di Valeriano nel 258, gli richiamava la sua Chiesa d’origine, con la sua fede: la « fede romana » (romana fides). Ma il santo era anche particolarmente venerato nella sua famiglia. Ambrogio ricorda che a lui si era raccomandato il fratello Satiro prima di mettersi in viaggio per la Sicilia e l’Africa: « Con le tue preghiere al santo martire Lorenzo avevi ottenuto di metterti in viaggio ».
Il suo richiamo, con le circostanze della sua passio, torna soprattutto nel De officiis, come a volerlo porre a modello del suo clero, specialmente per l’amore ai poveri, ai quali vanno destinati e distribuiti l’oro e il patrimonio della Chiesa. Parlando della fortezza dei martiri scrive: « Non trascuriamo san Lorenzo, che, vedendo il suo vescovo Sisto condotto al martirio, cominciò a piangere non perché quello era condotto a morire, ma perché egli doveva sopravvivergli. Cominciò dunque a dirgli a gran voce: « Dove vai, padre, senza tuo figlio? Dove ti affretti, o santo vescovo, senza il tuo diacono ». (…) Allora Sisto gli rispose: « Non ti lascio, non ti abbandono, o figlio; ma ti sono riservate prove più difficili. A noi, perché vecchi, è stato assegnato il percorso di una gara più facile; a te, perché giovane, è destinato un più glorioso trionfo sul tiranno. Presto verrai, cessa di piangere: fra tre giorni mi seguirai. (…) Perché mi chiedi di condividere il mio martirio? Te ne lascio l’intera eredità »".
E continuava, ricordando i particolari della morte, con la battuta di spirito arguta e raccapricciante del martire, che arrostiva sui tizzoni ardenti: « Nessun desiderio spingeva san Lorenzo, se non quello d’immolarsi per il Signore. E anch’egli, tre giorni dopo, mentre, beffato il tiranno, veniva bruciato su una graticola: « Questa parte è cotta, disse, volta e mangia ». Così, con la sua forza d’animo, vinceva l’ardore del fuoco ».
E anche la beffa di Lorenzo al persecutore è menzionata nel De officiis: « A chi gli chiedeva i tesori della Chiesa il santo martire Lorenzo promise di mostrarli. Il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo: « Questi sono i tesori della Chiesa ». (…) Tali tesori mostrò Lorenzo e vinse, perché nemmeno il persecutore poté sottrarglieli ».
Anche per questo inno Ambrogio raccoglie i dati sparsi nella sua prosa e li compone a formare un insieme poetico stupendo, dove il racconto si fonde con l’ispirazione e l’emozione con la scenografia, e da cui spicca la figura vigorosa e affascinante dell’intrepido e ironico diacono che la Chiesa di Roma venera con ammirazione e tenerezza, e al quale si sente legatissima, come al suo speciale patrono, con gli apostoli romani Pietro e Paolo.
L’autenticità dell’inno, più volte citato da Agostino, appare indubbia: « Lo stile grafico di Ambrogio, – osserva il Biraghi – la somiglianza di frasi, certi vocaboli tutti suoi, varie voci da legale, i passi paralleli ad altri delle Opere, tutto ci rivela a chiare note l’origine Ambrosiana ».
L’inizio dell’inno è una prima grande esaltazione del diacono di Sisto, quasi equiparato a Pietro e Paolo, e insignito della gloria eterna del martirio dalla fede feconda della Chiesa che risiede in Roma: « Lorenzo, l’arcidiacono, / pari quasi agli apostoli (apostolorum supparem), / la fede romana (fides romana) ha immortalato / con la corona propria dei martiri ».
E questa corona gli è preannunciata assai vicina da Papa Sisto, che – come scrive Ambrogio – lo aveva fatto suo amministratore e « partecipe della celebrazione dei sacri misteri », e che ora lo precede sulla via del sacrificio: « Mentre seguiva il martire Sisto, / un responso profetico ne ottenne: / « Cessa, figlio, d’affliggerti: / mi seguirai fra tre giorni »".
Lorenzo riceve, così, in eredità il sangue stesso versato da Papa Sisto, e quindi una garanzia sicura – siglata dalla promessa e suggellata dal sangue – del proprio destino, anticipato e rimirato, con animo intrepido e compassionevole, nel martirio del proprio vescovo: « Non atterrì il supplizio / il designato erede di quel sangue, / che con occhio pietoso anzi contempla / la sorte che sarà sua ». Nel sacrificio del suo Pontefice l’arcidiacono inizia la propria immolazione: « Già in quel martirio il martire trionfa, / successore legittimo: / tiene un impegno siglato / dalla voce e dal sangue ».
Commenta il Biraghi: « Non atterrito dalla profezia di morte, ma lieto di dover essere erede del di lui sangue, stette osservando con fermo e divoto sguardo quel supplizio che doveva tra poco subire egli pure. Anzi col cuore già egli pure fe’ il sacrificio insieme con Sisto, e con lui già trionfò, egli erede, egli successore a pari condizioni, egli che già ne aveva il codicillo (syngrapham) fatto di voce e col sangue di Sisto ».
In questi versi limpidi e icastici viene mirabilmente delineata, in tutta la sua suggestione e la sua forza, la figura commovente e vigorosa di san Lorenzo, che continuerà a suscitare ammirazione e tenerezza in tutte Chiese, dove il suo culto sarà assai diffuso e vivo. E ne è un segno la Chiesa di Milano, per la quale stende l’inno Ambrogio, che del martire romano vi ha portato o certamente incrementato la memoria. « Milano fin dal principio del secolo v ebbe una chiesa in onore di san Lorenzo, che fu una delle più celebri » (Biraghi).
Viene poi volto in poesia l’episodio dei « tesori della Chiesa » (thesauri Ecclesiae), come li denomina sant’Ambrogio, e il particolare dell’inganno tramato da Lorenzo, che li presenta argutamente al persecutore. Il tutto sarà raccolto largamente nella tradizione della Chiesa, dove contribuirà a illustrare ciò che in essa si trova di più pregevole e di più caro – i poveri – e insieme a raffigurare nell’ »erede del martirio » di Papa Sisto l’icona della diaconia a servizio dei poveri: « Dopo tre giorni gli impongono / di consegnare i tesori ecclesiali (census sacratos); / docilmente promette, non rifiuta, / aggiungendo una beffa alla vittoria ».
L’ispirazione del poeta indugia a descrivere e a destare meraviglia per l’incantevole visione di questi tesori della Chiesa, dei quali al suo clero aveva detto: « Quali tesori più preziosi ha Cristo di quelli nei quali ha detto di trovarsi? »; « Sono veramente tesori quelli in cui c’è Cristo, in cui c’è la fede di Cristo ». Recitano i versi: « Che spettacolo splendido! (spectaculum pulcherrimum!) / Raduna le schiere dei poveri / ed esclama, quei miseri additando: / « Eccovi le ricchezze della Chiesa! » // Certo, vere e perenni ricchezze / son dei fedeli i poveri ».
Sennonché, all’irrisione canzonatoria e smaliziata di Lorenzo, segue la rivalsa del tiranno: « Ma la derisa avidità si rode/ e la vendetta con le fiamme appresta ». Ambrogio aveva scritto: « Per la singolare accortezza della sua preveggenza, Lorenzo ottenne la ricca corona del martirio ».
E, finalmente, il compimento del desiderio di Lorenzo, come lo chiama ancora il vescovo di Milano, di « immolarsi per il Signore ». Ossia quella consumazione del martirio sulla graticola, che tanto profondamente è rimasta impressa nell’animo e nella rappresentazione agiografica della Chiesa, anche per la richiesta impressionante e canzonatoria rivolta al tiranno, scottato dal fuoco da lui stesso acceso, di essere rigirato in vista di una cottura accurata e pronta per una idonea consumazione: « Però si ustiona da sé il carnefice / e fugge dalla sua vampa. / « Giratemi », invita il martire, / « e, se è a punto, mangiate »".
Mettendo in versi per la preghiera e il canto dei suoi fedeli milanesi, quest’altro « miracolo della fortezza cristiana » (Biraghi), nato dalla « fede romana », come la martire Agnese, Ambrogio ha soddisfatto la sua devozione personale verso san Lorenzo; ha esaltato, una volta ancora, la fecondità e la pietà della sua Chiesa d’origine, con la quale coltivò sempre un intimo legame e un affettuoso ricordo; e ha suscitato e rinvigorito nella Chiesa, che Dio gli aveva affidato tanto inaspettatamente, una più accesa devozione per l’eroico e vittorioso arcidiacono di Sisto.

(©L’Osservatore Romano – 10 agosto 2008)

Commento di Inos Biffi, all’Inno di Sant’Ambrogio: « Hic est dies verus Dei »

(ho trovato un bellissimo commento a questo inno di Sant’Ambrogio, San Paolo è citato solo verso la fine del commento, tuttavia, questo commento riferisce poco su Paolo io propongo questo testo perché vorrei cominciare a percorrere alcuni cammini, alcune strade, che possano accompagnarci ed aiutarci a comprendere la fede, quella alla quale siamo, ardentemente ed appassionatamente, coinvolti da Paolo; una di queste strade certamente sono i Padri della Chiesa, anche se forse mi sofferemerò su alcuni, quelli che conosco meglio o desidero conoscere meglio, non tutto si può fare, per il momento vado verso Ambrogio, come, spesso, sono andata e andrò, verso Agostino e Crisostomo; sulla paternità ambrosiana di questo inno non concordano tutti gli studiosi, trovo scritto su: Patrologia, Istitutum Patristicum Agostinianum, vol. III, Marietti 1983, pag 167, ma questo articolo è del Cardinale Inos Biffi, sull’Osservatore Romano, ripreso da sito:

 

http://www.zammerumaskil.com 

il testo latino dell’Inno l’ho aggiunto io)

Hic est dies verus Dei

 

1 Hic est dies verus Dei,

sancto serénus lúmine,

quo díluit sanguis sacer

probrósa mundi crímina.

2 Fidem refúndens pérditis,

coecósque visu illúminans,

quem non gravi solvit metu

latrónis absolútio?

3 Qui praémium mutans cruce

Iesum brevi quaesit fide,

iustúsque praévio gradu

pervénit in regnum Dei.

4 Opus stupent et ángeli,

poenam vidéntes córporis

Christóque adhaeréntem reum

vitam beátam cárpere.

5 Mystérium mirábile!

ut ábluat mundi luem,

peccáta tollat ómnium

carnis vitia mundans caro.

6 Quid hoc potest sublímius,

ut culpa quaerat grátiam?

Metúmque solvat cáritas,

reddátque mors vitam novam?

7 Hamum sibi mors dévoret,

suísque se nodis liget:

moriátur vita ómnium,

resúrgat vita ómnium.  

domenica 23 marzo 2008

di Inos Biffi

 

L’inno « Hic est dies verus Dei » è uno dei tre che sant’Ambrogio – che ne è sicuramente l’autore – dedica ai misteri di Cristo. In uno canta il Natale del Signore, in un altro le sue epifanie, in questo egli trasforma in « voce canora », per il suo popolo, il « mirabile mistero » della Pasqua, colto nel suo compiersi in Cristo e illustrato nel suo rifrangersi nell’uomo, e specialmente come sorprendente opera di misericordia.

Sant’Ambrogio vi raccoglie, fondendoli e componendoli in una luminosa e originale teologia, i motivi pasquali variamente sparsi nelle sue opere. Il canto si apre con un annuncio gioioso e vibrante: « È questo il vero giorno di Dio, / radioso di santa luce ».

Certamente tutti i giorni appartengono a Dio, che ha creato il tempo e la luce e che Ambrogio, nell’ « Aeterne rerum conditor« , chiama « Creatore eterno delle cose » e moderatore delle loro vicissitudini; e nell’inno all’accensione definisce « Creatore degli esseri tutti ».

E, tuttavia, nessun giorno è tanto di Dio quanto il giorno di Pasqua: quasi che, per crearlo, Dio abbia impiegato in maniera unica e incomparabile la sua divina potenza.

Allo stesso modo, nessun giorno è tanto terso, quanto quello pasquale, inondato e rischiarato dal nitore di una « luce santa »: sancto serenus lumine. Ambrogio, forse echeggiando il serena luce di Virgilio, ama il termine « sereno » e usa espressioni come: dies serenius luceat; animi serenitatem; caeleste mysterium serena luce resplendet; aestivae lucis serenitatem.

Il giorno di Pasqua è un giorno sgombro di nubi, perché a renderlo limpido è il sanctum Lumen, o il Signore risorto, che diffonde intorno il suo splendore, che non ha paragone col bel tempo dei giorni che vediamo sorgere e tramontare nel mondo. D’altronde, il motivo di Cristo Luce, che è proprio del vangelo di Giovanni, percorre l’inno intero e gli conferisce un diffuso senso di gioia e di pace: « la tranquillità del cuore e la serenità dell’animo – tranquillitatem cordis et animi serenitatem – come dice lo stesso sant’Ambrogio. Il quale spiega espressamente perché la Pasqua – che con la risurrezione include anche la passione e la morte del Signore e fa dire ad Ambrogio: « la morte di Cristo è l’annuale solennità del mondo » – sia il vero giorno di Dio: « La Scrittura ci insegna che ci sono giorni particolarmente illustri, in cui sono rifulse le imprese divine »; in un giorno come questo « è apparsa agli uomini la risurrezione di Cristo e quindi di questo giorno in modo speciale è stato detto: « Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Esultiamo e rallegriamoci in esso! ». Sebbene quindi tutti i giorni siano stati fatti dal Signore, a questo giorno sopra tutti gli altri è stato concesso il privilegio di essere opera divina. Questo giorno è il giorno illuminato dal Sole di giustizia ». Infatti, la trasparenza del « vero giorno di Dio », riflessa dalla « santa Luce » è tutta spirituale: quel giorno « vide un sangue sacro detergere i vergognosi delitti del mondo – probrosa mundi crimina » – ed è quanto avviene ogni volta nel lavacro battesimale. L’iscrizione del vescovo per il suo nuovo battistero di san Giovanni alle Fonti, richiama esattamente i probrosa crimina vitae lavati nell’ »onda che limpida scorre »: diluere è verbo che ad Ambrogio piace collegare col sangue di Cristo, che « lava questo mondo », e nel quale siamo stati detersi e redenti: suo sanguine nos diluit et redemit.

Nello stesso « vero giorno di Dio », grazie al sangue che ha cancellato le colpe, negli smarriti riprende a brillare la fede, e ai ciechi nello spirito è ridonata la vista e tornano a vedere: « Agli smarriti ridonò la fede; / ridiede luce, con la vista ai ciechi – fidem refundens perditis / caecosque visu inluminans ».

Quello degli occhi dei ciechi schiusi alla luce ridonata da Cristo è tema che ritorna in sant’Ambrogio, al quale appare particolarmente gradito il verbo refundere. Egli ama parlare della « luce » miracolosamente « reinfusa ai ciechi – caecis refundi lumen » – e, in contesto battesimale, del Salvatore, che « col suo comando reinfondeva la luce agli occhi », spenti dal peccato – « per il fumo dell’iniquità si trova accecato l’occhio dell’anima – oculus animae caecatur« . Alla comunità che cantava quest’inno il pensiero certamente riandava alla Luce della notte pasquale, e a quanti « Cristo aveva rischiarato con la grazia spirituale » ed erano chiamati « gli illuminati ».

Ma probabilmente non manca un’altra allusione: quella ai due viandanti di Emmaus, smarriti e sfiduciati dopo la passione di Gesù, e dal cuore stolto e tardo, e dalla vista ottenebrata che loro impedivano di ritrovare e di vedere il Messia paziente nelle Scritture. Gesù, nelle sembianze del viandante, ridonò loro la fede e ridiede la luce.

A questo punto, l’inno si intrattiene su un particolare del « vero giorno di Dio » che tuttavia, per Ambrogio, è come la sintesi della grazia pasquale: in quel giorno non solo è ridonata la fede agli increduli e negli occhi dei ciechi è riaccesa la luce, ma anche è vinta ogni angoscia, dal momento che persino il ladro confitto sulla croce riceve subito il perdono: « Chi sarà ancora oppresso da timore/ dopo il perdono al ladro? ».

Si direbbe che due eventi del Vangelo hanno profondamente impressionato sant’Ambrogio: lo sguardo di Gesù su Pietro, dopo il rinnegamento, con le lacrime purificatrici dell’apostolo, e il perdono concesso in un attimo al brigante crocifisso con lui, a motivo della sua pur « breve fede »: « uno splendido esempio – egli commenta – di conversione ».

Nel commento al vangelo di Luca il vescovo di Milano parla della « breve fede » – brevis fides - anche dell’emorroissa, subito compensata dalla misericordia; ma, più a lungo, si sofferma a considerare soprattutto « il fatto che il perdono sia concesso tanto in fretta – tam cito – a un malfattore, e il dono superi in abbondanza la domanda »: « Quegli pregava che il Signore si ricordasse di lui, quando fosse giunto al suo Regno, ma il Signore gli rispose: « In verità, in verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso »". « Il Signore subito – cito – lo perdona, perché colui subito si converte ».

È esattamente il tratto di prosa che è convertito in poesia.

Il ladrone – continua dunque l’inno –  » (…) mutò la sua croce in un premio, / Gesù acquistando con rapida fede; / così, giustificato, / arrivò primo nel regno di Dio ». Il castigo del malfattore, cioè la sua croce, mirabilmente si trasforma in premio; un attimo di fede riesce a procurargli l’acquisto di Gesù, a renderlo giusto e a farlo giungere, primo, nel regno di Dio – iustusque praevio gradu / pervenit in regnum Dei – o, secondo un’altra lezione del testo, a farlo entrare in quel regno prima dei giusti – iustosque previo gradu / praevenit in regnum Dei.

« Il ladrone crocifisso – scrive sant’Ambrogio – viene assolto: lui ha riconosciuto Cristo nei dolori del supplizio. Ha confessato il proprio peccato a Cristo, che poteva perdonarlo, perché sulla croce ha contemplato con gli occhi dello spirito il regno di Dio. Drago infernale, esultavi perché avevi sottratto a Cristo un suo apostolo, ma hai perso più di quanto hai guadagnato, perché ti tocca vedere un ladrone trasportato in paradiso ».

Nella figura del ladro pentito e perdonato Ambrogio trova il simbolo esemplare della clemenza divina, in presenza di un sincero atto di fede, ossia di affidamento a Gesù crocifisso, che agisce efficacemente e rapidamente, senza condizionamenti di tempo o affannose complicazioni penitenziali.

Sant’Ambrogio è il dottore della grazia misericordiosa; il peccato non lo angustia e non lo distrae, persuaso com’è della « pazienza del Signore – patientia Domini » – e della forza rinnovatrice e rasserenante dell’ »assoluzione ». Per lui, la colpa non sconvolge il disegno di Dio; al contrario, una volta « assorbita », diviene l’ »occasione » che rivela il senso e il contenuto di quel disegno: Dio, infatti, non crea per manifestare ed esaltare l’innocenza, ma per rendere visibile il suo amore nella forma del perdono: « Felice caduta, che trova una rinascita più bella! ».

È un disegno che suscita lo stupore anche negli angeli che vedono il Figlio di Dio subire il supplizio del malfattore, e il malfattore, strettamente congiunto con lui, ottenere in sorte il Regno – « dove c’è Cristo, là c’è il regno » .

Recita l’inno: « Persino gli angeli ne stupiscono, / contemplando lo strazio delle membra / e, tutto stringendosi a Cristo, / il reo carpire la vita beata ».

Ricorrono in sant’Ambrogio sia lo « stupore degli angeli di fronte al celeste », o al « grande mistero », sia l’espressione « carpire la vita eterna – vitam carpere aeternam » – sia la contemplazione di Cristo che, « pendente dalla croce, tra i supplizi, ferito », « dona il regno celeste », e proclama: « Sarai con me in paradiso ».

A meno che il corpo straziato sia quello del ladro, allora « la meraviglia degli angeli deriva dal contrasto tra il castigo subito e la beatitudine guadagnata » (Hervé Savon).

Si tratta di un « mistero mirabile », o di un disegno divino dalle componenti paradossali e inimmaginabili: « Una carne purifica i vizi della carne, / deterge il contagio del mondo / e toglie i peccati di tutti! ».

Ambrogio lo ripete nei suoi scritti: grazie al sacrificio di Cristo, « anche le colpe più gravi sono rimesse »; egli « lava col proprio sangue il mondo ». È come impensabile quello che è avvenuto sul Calvario: il ladro – la colpa – che cerca Gesù – la grazia – l’amore di Cristo che allontana la paura; la morte che genera la vita.

Nulla ci potrebbe essere di più elevato – prosegue il poeta : « Che c’è di più sublime? / Cerca grazia la colpa, / è dall’amore vinta la paura, / la morte ci ridona a vita nuova ».

Si comprende che il sentimento specialmente diffuso in questo canto pasquale, tutto rivolto alla Croce, sia quello di una gioia intima ed estasiata per quanto Dio ha compiuto, trasfigurando una passione in risurrezione, uno strazio in letizia, una carne crocifissa in una carne redenta e santa. Ma prima di terminare il suo canto esultante, il poeta ferma uno sguardo irridente e sprezzante sulla morte, che si è autodistrutta. Essa, nel tentativo di mordere la preda, cioè il corpo di Cristo, messole dinanzi con sottile tranello, ne ha ingoiato letalmente l’amo, restando, insieme, avviluppata nella sua stessa rete.

Ambrogio usa altrove l’espressione « abboccare all’amo – hamum vorare » – e quanto ai lacci scrive: « Il modo migliore per spezzare il laccio – teso dall’inganno del diavolo – era quello di mostrare al diavolo la preda » – appunto il corpo di Cristo « affinché, slanciandosi d’impeto su di essa, si impigliasse nella sua stessa rete – suis laqueis ligaretur« .

È quanto il poeta traduce nel suo auspicio: « Si divori la morte il proprio amo, / nei suoi lacci s’impigli », dove è facile sentire l’eco delle parole di Paolo (e di Isaia e Osea): « La morte è stata ingoiata nella vittoria ». « Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? » (1 Corinzi, 15, 54).

Così, paradossalmente, proprio dalla morte della « Vita di tutti » – ossia di Cristo (Colossesi, 3, 4) – scaturisce la risurrezione di tutti, ed è l’auspicio dei versi che chiudono la strofa: « muoia la vita di tutti/ di tutti la vita risorga ».

Certo, l’esperienza della morte è universale, essendo dilagata – pertransiit – tra tutti gli uomini (Romani, 5, 12); sarà però altrettanto universale anche l’esperienza della vita, dal momento che « tutti saranno vivificati in Cristo » (1 Corinzi, 15, 22).

Su queste affermazioni della Scrittura, ancora una volta in forma di voto, l’Inno è condotto al termine: « Poi che tutti la morte avrà falciato – cum mors per omnes transeat – / tutti i morti risorgano; / e, da se stessa annientata – consumata morso ictu suo – la morte / d’esser perita lei sola si dolga »: è il compiacimento per la vittoria pasquale della vita, a cui, come per contraccolpo, segue la soddisfazione per la sconfitta della morte, l’unica irreversibilmente destinata a soccombere in un lamento senza speranza.

Nessun inno, come questo di sant’Ambrogio, ha saputo tanto splendidamente far cantare nella Chiesa la Pasqua di Cristo, ossia la trionfale e inimmaginabile riuscita della croce, l’esaltazione dell’incontenibile perdono divino, e l’estrema e definitiva disfatta del peccato e della morte.

(L’Osservatore Romano – 23 marzo 2008)

SABATO 18 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

SABATO 18 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal trattato «Sui misteri» di sant’Ambrogio, vescovo
(Nn. 52-54. 58; SC 25 bis, 186-188. 190)

Questo sacramento che ricevi si compie con la parola di Cristo
Noi costatiamo che la grazia ha maggiore efficacia della natura, ma la grazia della benedizione profetica è ancora superiore. Se poi la parola del profeta, cioè di un uomo, ha avuto tanta forza da cambiare la natura, che dire della benedizione fatta da Dio stesso dove agiscono le parole medesime del Signore e Salvatore? Giacché questo sacramento che tu ricevi si compie con la parola di Cristo. Che se la parola di Elia ebbe tanta potenza da far scendere il fuoco dal cielo, la parola di Cristo non sarà capace di cambiare la natura degli elementi? A proposito delle creature di tutto l’universo tu hai detto: «Egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste» (Sal 32, 9). La parola di Cristo, dunque, che ha potuto creare dal nulla quello che non esisteva, non può cambiare le cose che sono in ciò che esse non erano? Infatti non è meno difficile dare alle cose un’esistenza che cambiarle in altre.
Ma perché servirci di argomentazioni? Serviamoci dei suoi esempi e proviamo la verità del mistero con il mistero stesso della incarnazione. Forse che fu seguito il corso ordinario della natura quando Gesù Signore nacque da Maria? Se cerchiamo l’ordine della natura, la donna suole generare dall’unione con l’uomo. E’ chiaro dunque che la Vergine ha generato al di fuori dell’ordine della natura. Ebbene, quello che noi ripresentiamo è il corpo nato dalla Vergine. Perché cerchi qui il corso della natura nel corpo di Cristo, mentre lo stesso Signore Gesù Cristo è stato generato dalla Vergine all’infuori del corso della natura? E’ la vera carne di Cristo che fu crocifissa, che fu sepolta. E’ dunque veramente il sacramento della sua carne.
Lo stesso Signore Gesù proclama: «Questo è il mio corpo». Prima della benedizione delle parole celesti la parola indica un particolare elemento. Dopo la consacrazione ormai designa il corpo e il sangue di Cristo. Egli stesso lo chiama suo sangue. Prima della consacrazione lo si chiama con altro nome. Dopo la consacrazione è detto sangue. E tu dici: «Amen», cioè. «E’ così». Ciò che pronunzia la bocca, lo affermi lo spirito. Ciò che enunzia la parola, lo senta il cuore.
Anche la Chiesa vedendo una grazia così grande, esorta i suoi figli esorta i suoi intimi ad accorrere ai sacramenti dicendo: «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari» (Ct 5, 1). Quello poi che mangiamo, quello che beviamo, lo Spirito Santo te lo ha specificato altrove per mezzo del Profeta dicendo: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia» (Sal 33, 9). In quel sacramento c’è Cristo, perché è il corpo di Cristo. non è dunque un cibo corporale, ma un nutrimento spirituale. Onde anche l’Apostolo della sua figura dice: «I nostri padri tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale» (1 Cor 10, 3). Infatti il corpo di Dio è un corpo spirituale, il corpo di Cristo è il corpo dello spirito divino, perché Cristo è spirito, come leggiamo: Cristo Signore è spirito davanti al nostro volto (cfr. Lam 4, 20 secondo i LXX). Questo nutrimento rinsalda il nostro cuore e questa bevanda «allieta il cuore dell’uomo» (Sal 103, 15) come ha ricordato il profeta.

VENERDÌ 17 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

VENERDÌ 17 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal trattato «Sui misteri» di sant’Ambrogio, vescovo
(Nn. 43. 47. 49; SC 25 bis, 178-180. 182)

Sull’Eucaristia ai neofiti
Così lavata e ricca di tale abbigliamento, la schiera dei neofiti avanza verso gli altari di Cristo dicendo: «Verrò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia, del mio giubilo» (Sal 42, 4). Infatti, deposte le spoglie dell’antico errore, e rinnovata nella giovinezza dell’aquila (cfr. Sal 102, 5), s`’affretta ad accorrere a quel banchetto celeste. Viene dunque, e vedendo il sacro altare tutto adorno, esclama: «Davanti a me tu prepari una mensa» (Sal 22, 5). Davide così fa parlare ciascuna delle nuove reclute: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». E più avanti: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca» (Sal 22, 1-5).
E’ mirabile che Dio abbia fatto piovere la manna per i padri e che si nutrissero con un alimento quotidiano disceso dal cielo. Per cui fu detto: «L’uomo mangiò il pane degli angeli» (Sal 77, 25). Ma quelli che mangiarono quel pane «morirono tutti» nel deserto; invece questo alimento che tu ricevi, questo «pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6, 51) somministra il sostentamento della vita eterna, e chiunque ne avrà mangiato «non morirà in eterno» (Gv 11, 26) perché è il corpo di Cristo.
Ora fa’ attenzione se sia più eccellente il pane degli angeli mangiato dagli Ebrei nel deserto o la carne di Cristo la quale è indubbiamente un corpo che dà la vita. Quella manna veniva dal cielo, questo corpo è al di sopra del cielo. Quella era del cielo, questo del Signore dei cieli. Quella, se si conservava per il giorno seguente, si guastava. Questo è alieno da ogni corruzione. Chiunque lo gusta con sacra riverenza non potrà soggiacere alla corruzione. Per gli Ebrei scaturì acqua dalla rupe, per te sangue del Cristo. L’acqua dissetò loro per un momento, te, invece, il sangue lava per sempre. Il giudeo beve e ha sete, tu quando avrai bevuto non potrai aver mai più sete. Quell’evento era figura, questo è verità.
Se quello che tu ammiri è ombra, quanto grande è la realtà presente di cui tu ammiri l’ombra! Senti come è ombra quello che si verificò presso i padri: «Bevevano», dice, «da una roccia che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto. Ora ciò avvenne come esempio, per noi» (1 Cor 10, 4-6). Hai conosciuto ciò che vale di più: è migliore la luce dell’ombra, migliore la verità della figura, migliore il corpo del Creatore della manna del cielo.

Responsorio    Cfr. 1 Cor 10, 1-2. 11. 3-4
R. I nostri padri attraversarono il mare, tutti in Mosè furono battezzati nella nube e nel mare. * Queste cose accaddero a loro come segno ed esempio.
V. Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale.
R. Queste cose accaddero a loro come segno ed esempio.

GIOVEDÌ 16 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

GIOVEDÌ 16 LUGLIO 2009 – XV SETTIMANA DEL T.O.

BEATA VERGINE DEL MONTE CARMELO (m.f., solennità per i carmelitani)

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal trattato «Sui misteri» di sant’Ambrogio, vescovo
(Nn, 29-30. 34-35. 37. 42; SC 25 bis, 172-178)
 
Catechesi sui riti postbattesimali
Uscito dal fonte battesimale tu sei salito dal sacerdote. Pensa a ciò che è avvenuto dopo. Non forse ciò che dice Davide: «E’ come olio profumato sul capo, che scende sulla barba di Aronne»? (Sal 132, 2). E’ l’unguento del quale Salomone dice così: «Profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano» (Ct 1, 3) e ti hanno attratto a sé. Quante anime rinnovate oggi ti hanno amato, o Signore Gesù, e hanno detto: Attiraci dietro a te, noi correremo dietro la fragranza delle tue vesti (cfr. Ct 1, 4). Esse volevano sentire la fragranza della risurrezione del Signore. Cerca di capire come questo avvenga «Poiché il saggio ha gli occhi in fronte» (Qo 2, 14). Per questo scende sulla barba di Aronne, perché tu diventi «stirpe eletta», sacerdotale, preziosa (1 Pt 2, 9). Noi tutti, infatti, siamo unti con la grazia spirituale per formare il regno di Dio e il suo sacerdozio.
In seguito hai ricevuto le vesti bianche come segno che ti sei spogliato dell’involucro dei peccati e ti sei rivestito delle caste vesti dell’innocenza delle quali il Profeta dice: «Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve» (Sal 50, 9). Infatti chi è battezzato, appare purificato, sia secondo la legge, sia secondo il vangelo. Secondo la legge, perché Mosè aspergeva il sangue dell’agnello con un mazzetto di issopo. Secondo il vangelo, perché proprio il vangelo dice che, mentre Cristo mostrava la gloria della sua risurrezione, le sue vesti erano candide come neve. Colui al quale viene rimessa la colpa diventa bianco «più della neve». Così il Signore dice per mezzo di Isaia: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve» (Is 1, 18).
La Chiesa, con queste vesti che ha indossato «mediante un lavacro di rigenerazione» (Tt 3, 5) dice con le parole del Cantico: Nera sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme (cfr. Ct 1, 5). Nera a cagione della fragilità dell’umana condizione, bella per la grazia. Nera perché formata da peccatori, bella per il sacramento della fede. Scorgendo queste vesti, le figlie di Gerusalemme esclameranno stupefatte: Chi è costei che sale tutta vestita di bianco? Era nera, come mai d’un tratto è divenuta bianca?
Cristo, vedendo in vesti candide la sua Chiesa — per la quale egli, come leggi nel libro del profeta Zaccaria, aveva indossato le sue vesti immonde (cfr. Zc 3, 3) — ossia vedendo l’anima monda e lavata nel lavacro della rigenerazione, dice: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe» (Ct 4, 1). E nella figura della colomba lo Spirito Santo è disceso dal cielo.
Ricordati così che hai ricevuto il sigillo spirituale «spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di pietà, spirito di timore del Signore» (Is 11, 2), e conserva quello che hai ricevuto. Dio Padre ti ha marcato di un segno, Cristo Signore ti ha confermato e, come hai appreso dalla lettura dell’Apostolo, «ha impresso nel tuo cuore, come sigillo» lo Spirito (cfr. 2 Cor 1, 22).

Responsorio    Ef 1, 13-14; 2 Cor 1, 21-22
R. Voi che credete, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo promesso, caparra della nostra eredità, * in attesa della piena redenzione di coloro che Dio si è acquistato.
V. Dio stesso ci ha segnato con l’unzione e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori,
R. in attesa della piena redenzione di coloro che Dio si è acquistato.

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