Archive pour la catégorie 'Padri della Chiesa – Sant’Ambrogio'

Una croce come trono. Una decapitazione come corona (di Inos Biffi – L’inno di Ambrogio per la memoria dei santi Pietro e Paolo)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/205539

Una croce come trono. Una decapitazione come corona

L’inno di Ambrogio per la memoria dei santi Pietro e Paolo. Da « L’Osservatore Romano » del 29 giugno 2008

di Inos Biffi

Quando Ambrogio compone per i suoi fedeli di Milano l’inno per la memoria dei santi Pietro e Paolo, che essi celebravano, si avverte che il suo affettuoso pensiero è rivolto alla Chiesa di Roma, il luogo fisico del loro martirio e dei loro sepolcri, di cui non cesserà mai di subire il fascino.
Sembrano tornare alla mente del vescovo l’emozionante ricordo e la gioiosa visione della festa, che in loro onore era solennemente celebrata nell’Urbe, la patria della sua gens e della sua fede, che non ha mai cessato di portare nel cuore e che, non senza compiacenza, al termine dell’inno definirà come l’«eletta, capo ai popoli, / e sede del maestro delle genti!».
Il cardinale Schuster – lui pure romano diventato arcivescovo di Milano – esaminando l’L'idea di Roma nella Liturgia di sant’Ambrogio, scriveva: «Il mio stato d’animo mi fa pensare che Ambrogio, anche a Milano, pensasse romanamente, e vivesse in un mondo che era assai più vasto del quadrilatero della Mediolanum Gallica», aggiungendo: «Fuori della cerchia delle mura (di Milano) si snoda la via romana, bella inizialmente con un magnifico porticato e un arco trionfale. Spingendo più giù lo sguardo, Ambrogio cerca tuttavia di scoprire la città dei sette colli con lo sfondo della basilica di San Pietro. Quasi a rifarsene, al principio stesso della via romana erige il suo Apostoleion in onore dei santi apostoli, e lo consacra con le reliquie che gli apporta da Roma il prete Simpliciano».
Ma veniamo all’inno: la passione dei due apostoli – incomincia – ha reso santo un giorno comune e secolare (dies saeculi). Gli «eventi divini (facta divina)», secondo Ambrogio, trasfigurano i giorni degli uomini, e così è avvenuto per il martirio di Pietro, una sconfitta diventata gloriosa vittoria (è ambrosiana l’espressione: sanguis triumphalis), e per quello di Paolo, che gli ha meritato la corona del «buon atleta». «Con il trionfo nobile (triumphus nobilis) di Pietro / – inizia dunque in tono lieto e vibrante il canto, con un verso che verrà citato da Agostino – e la corona di Paolo (Pauli corona) / la passione degli apostoli / questo, esaltando, consacrò tra i giorni».
Ambrogio si compiace di mettere in luce la parità dei due apostoli, assimilati e uniti dall’effusione del sangue, e incoronati dalla fede in Cristo, che ugualmente li aveva fatti discepoli del Signore: «Una morte cruenta e gloriosa (cruor triumphalis necis) / li assimilò e congiunse; / la fede in Cristo incoronò gli eroi / che alla divina sequela si posero». Più volte il vescovo di Milano sottolinea la natura gloriosa del martirio ed è abituale in lui connotare col tratto della trionfalità la morte dei martiri, che, imitando la preziosa effusione del sangue di Cristo – il pretiosus cruor Domini – ha dentro di sé lo splendido pegno della vittoria. Così, egli parla di cruor triumphalis e di victimae triumphales riguardo a Protaso e Gervaso, di proelium triumphale, di triumphales gemitus, di triumphalia vulnera a proposito dei fratelli Maccabei. E, infatti, la croce di Pietro si trasforma nel trono di un re vittorioso e la decapitazione di Paolo diventa una corona.
Sullo stesso tema della parità dei due apostoli prosegue la strofa successiva, con i richiami biblici su Pietro, nominato nei vangeli come primo – «Primo Simone, chiamato Pietro» (Matteo 10, 12) – al quale appartiene il primato passato alla Chiesa di Roma, e su Paolo, definito negli Atti «vaso di elezione» (9, 15), equiparato a Pietro nella grazia e nella fede: «Il primo apostolo è Pietro, / ma non minore è Paolo per grazia, / che fu santo strumento di elezione / e Pietro eguagliò nella fede».
Ambrogio afferma più volte nei suoi scritti questa loro uguaglianza: «Un’identica grazia rifulgeva in coloro che l’unico Spirito aveva eletto. Né Paolo fu inferiore a Pietro, benché quello fosse il fondamento della Chiesa e questi il sapiente architetto».
Sul tipo di morte a cui andò incontro Paolo l’inno non dice nulla, mentre, intessendo le notizie degli Atti di Pietro e i passi del Vangelo di Giovanni, si sofferma su quella di Simone, che subì lo stesso martirio di Gesù, la crocifissione, ma «su capovolta croce», o sulla croce dal piede capovolto (verso crucis vestigio).
Egli, glorificando Dio, senza resistenza e spontaneamente (volens), vi salì, a somiglianza di Gesù che, allo stesso modo, «ascese sulla croce» – come canta l’inno ambrosiano all’ora di terza – e avverò così le parole profetiche del Signore: «In verità, in verità ti dico: “Quand’eri giovane, ti annodavi da te la cintura e andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti annoderà la cintura e ti condurrà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio» (Giovanni 21, 18-19).
Ambrogio trasforma in chiari versi didascalici questa profezia: «Su capovolta croce / ascende Simone, e sospeso / glorifica Dio, non dimentico / del vaticinio antico. / Secondo il detto, vecchio ormai fu cinto / ed elevato da un altro; / condotto dove non vorrebbe, docile / vinse una morte crudele». Anche nel caso di Pietro, come di tutti i martiri, e anzitutto di Gesù Cristo, la morte non ottiene il sopravvento, ma subisce la sconfitta.
L’interesse del poeta si intrattiene ora sulle felici conseguenze di quella «morte crudele» per la città di Roma: edificata sul sangue di Pietro e resa illustre da così eccellente vescovo – o, se ci si riferisce a Paolo, dalla figura di tanto dottore – l’Urbe e pervenuta all’apice della fede cristiana: «Su tale sangue fondata, / nobilitata da tanto vescovo, / Roma ha toccato l’eccelso vertice / della pietà religiosa (celsum verticem devotionis)».
Essa ha, così, rinnovato le ragioni del suo prestigio e della sua celebrità: in questi versi «il poeta cristiano fonde parecchi ricordi virgiliani, tra cui una famosa esaltazione della Roma di Augusto. E, tuttavia, non si tratta più della Roma pagana e della sua grandezza materiale, ma della Roma cristiana e della sua grandezza religiosa (Duval)».
A questo punto, quasi migrando da questa sua Chiesa, Ambrogio si sente trasportato alle festose e animate celebrazioni romane dei due apostoli. Egli le ha conservate fisse nella memoria e si direbbe le voglia descrivere ai milanesi, che una volta rimprovererà per averne disertato la veglia e trascurato il digiuno in loro onore.
Egli rivede l’intera città animata e rigurgitante di fedeli, che si riversano lungo le tre vie che portano ai loro luoghi di culto: la via Trionfale o Aurelia, dove è sepolto Pietro, la via Ostiense, dove si trova Paolo, e la via Appia, alle catacombe di san Sebastiano, presso le quali, secondo la testimonianza di Papa Damaso (vescovo di Roma dal 366 al 384), in circostanze o modalità che non ci sono note, avevano abitato i due apostoli (habitasse [...] cognoscere debes). «Folle di popolo fitte si muovono / per l’ampia distesa dell’Urbe: / su tre diverse strade si celebra / la festa dei martiri santi».
Nello spettacolo di tanta gente che si accalca nell’Urbe per venerare i due apostoli, al poeta sembra di vedere sia lo stiparsi dei fedeli di tutta la terra sia l’affluire con loro anche degli angeli: «Pare qui si riversi il mondo intero / e accorra insieme la schiera celeste». Da qui la triplice e appassionata acclamazione rivolta alla città di Roma, che, per i meriti di Pietro e di Paolo, è stata elevata a una dignità e a una grandezza nuova: «Eletta, capo ai popoli, e sede del maestro delle genti!».
Roma è l’«Eletta»: e il titolo richiama la Prima lettera di Pietro che, secondo alcune versioni, lo assegna alla Chiesa romana, «l’eletta che è in Babilonia» (5, 13). Essa è «capo ai popoli»: come altrove la definisce lo stesso Ambrogio, che parla della «Chiesa di Roma capo di tutto il mondo romano» e della «sacrosanta fede degli apostoli», da cui «si diffondono in tutte le Chiese i princìpi che stabiliscono la venerabile comunione che le unisce».
Roma è, infine, la «sede del maestro delle genti», ossia di Pietro, ed è ancora Ambrogio a riconoscere la «Chiesa romana (Ecclesia romana)» come la «custode intemerata del simbolo degli apostoli», dove «fu vescovo» e «dove siede il primo degli apostoli, Pietro», e ad affermare che «non possiede l’eredità di Pietro chi non possiede la sede di Pietro».
Un inno come l’Apostolorum passio, col suo calore e la sua passione, poteva sgorgare solo dalla penna e dalla vena poetica di un poeta che aveva l’animo colmo di ammirazione per la fede di quella Chiesa, che conservava la memoria viva della sua pietà e si sentiva fiero di provenire da essa, anche se, prima dell’elezione all’episcopato di Milano, non vi aveva ancora fatto intimamente parte, non essendo ancora battezzato. Anche in quest’inno, che tutto «rivela mentalità, linguaggio e arte di sant’Ambrogio» (Schuster), sono fusi, in felice composizione, un’ortodossia limpida e precisa – come il riconoscimento alla Chiesa Romana del primato della fede a motivo di Pietro – i riferimenti della storia, con, forse, alcuni elementi di leggenda, e, sullo sfondo, a conferire slancio e vivacità, alcuni accenti o allusioni di autobiografia e di ricordi.

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IN SANCTI PETRI ET PAULI

Apostolorum passio
diem sacravit saeculi,
Petri triumphum nobilem,
Pauli coronam praeferens.

Coniunxit aequales viros
cruor triumphalis necis,
Deum secutos presulem
Christi coronavit fides.

Primus Petrus apostolus
nec Paulus inpar gratia;
electionis vas sacrae
Petri adaequavit fidem.

Verso crucis vestigio
Simon, honorem dans Deo,
suspensus ascendit, dati
non inmemor oraculi.

Praecinctus, ut dictum est, senex
et elevatus ab altero
quo nollet ivit, sed volens
mortem subegit asperam.

Hinc Roma celsum verticem
devotionis extulit,
fundata tali sanguine
et vate tanto nobilis.

Tantae per urbis ambitum
stipata tendunt agmina:
trinis celebratur viis
festum sacrorum martyrum.

Prodire quis mundum putet,
concurrere plebem poli:
electa gentium caput,
sedes magistri gentium!
__________

Con il trionfo nobile di Pietro
e la corona di Paolo
la passione degli Apostoli
questo, esaltando, consacrò tra i giorni.

Una morte cruenta e gloriosa
li assimilò e congiunse;
la fede in Cristo incoronò gli eroi
che alla divina sequela si posero.

Il primo apostolo è Pietro,
ma non minore è Paolo per grazia,
che fu santo strumento di elezione
e Pietro eguagliò nella fede.

Su capovolta croce
ascende Simone, e sospeso
glorifica Dio, non dimentico
del vaticinio antico.

Secondo il detto, vecchio ormai fu cinto
ed elevato da un altro;
condotto dove non vorrebbe, docile
vinse una morte crudele.

Su tale sangue fondata,
nobilitata da tanto vescovo,
Roma ha toccato l’eccelso vertice
della pietà religiosa.

Folle di popolo fitte si muovono
per l’ampia distesa dell’Urbe:
su tre diverse strade si celebra
la festa dei martiri santi.

Pare qui si riversi il mondo intero
e accorra insieme la schiera celeste:
eletta, capo ai popoli,
e sede del maestro delle genti!
__________

 L’Osservatore Romano

Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo (Sant’Ambrogio)

dal sito:

http://www.aquilaepriscilla.it/5ord_merc.htm

Dalle  » Lettere  » di sant’Ambrogio, vescovo

Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo

Come dice l’Apostolo, colui che per mezzo dello Spirito fa morire le opere del corpo, vivrà. Nessuna meraviglia che viva, perché chi ha lo Spirito di Dio diventa figlio di Dio. t figlio di Dio, e conseguentemente, non riceve uno spirito da schiavi, ma uno spirito da figli adottivi. Per questo lo Spirito Santo attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E la testimonianza dello Spirito Santo consiste nel fatto che è proprio lui che grida nei nostri cuori:  » Abbà, Padre! « , come è scritto nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Quella testimonianza, poi, che siamo figli di Dio è veramente grande: perché siamo  » eredi di Dia e coeredi di Cristo  » (Rin 8, 17). Coerede di Cristo è colui che partecipa alla sua gloria; ma partecipa alla sua gloria solo chi, soffrendo per lui, partecipa alle sue pene. Per  esortarci alla sofferenza, aggiunge che tutto .quello che soffriamo è inferiore e non paragonabile al premio riservato a chi sopporta tali pene. Grande infatti sarà la mercede di beni futuri che si rivelerà in noi, quando, riformati sull’immagine di Dio, meriteremo di contemplare la sua gloria faccia a faccia. Per esaltare, poi, la grandezza della rivelazione futura, afferma che anche la creazione, ora sottomessa alla caducità non per suo volere, ma nella speranza di essere liberata, attende con impazienza la liberazione dei figli di Dio. Essa spera da Cristo .la grazia che spetta alla sua funzione. Anch’essa sarà liberata dalla corruzione e ammessa alla libertà della gloria dei figli di Dio. Ci sarà un’unica libertà, quella della creazione e quella dei figli di Dio, allorquando sarà manifestata la loro gloria. Frattanto. mentre tale manifestazione viene procrastinata, tutta la creazione geme nell’attesa della gloria della nostra adozione e della nostra redenzione. Sospira fin d’ora di dare alla luce quello spirito di salvezza e brama di essere liberata dalla schiavitù della caducità. Il concetto è chiaro. I fedeli, che possiedono le primizie dello Spirito, gemono interiormente aspettando l’adozione a figli. L’adozione a figli è la redenzione di tutto il corpo mistico. Si verificherà quando esso vedrà Dio, sommo ed eterno bene, quasi fosse tutto suo figlio adottivo. L’adozione a figli si ha però già ora nella Chiesa del Signore poiché già ora lo Spirito grida:  » Abbà, Padre! « , come si legge nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Ma essa sarà perfetta solamente quando tutti quelli che meriteranno di vedere il volto di Dio risorgeranno incorruttibili, splendidi e gloriosi. Allora la creatura umana potrà dirsi davvero liberata. -Perciò l’Apostolo si gloria dicendo:-  » Nella speranza noi siamo stati salvati  » (Rm 8, 24). Ci salva, infatti la speranza, cosi come ci salva la fede, della quale è detto:  » La tua fede ti ha salvato  » (Lc 18, 42).

GIOVEDÌ 17 FEBBRAIO 2011 – VI SETTIMANA DEL T.O.

GIOVEDÌ 17 FEBBRAIO 2011 – VI SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sui salmi» di sant’Ambrogio, vescovo
(Sal 36, 65-66; CSEL 64, 123-125)

Apri la tua bocca alla parola di Dio
Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la nostra lingua esprima la giustizia. La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore (cfr. Sal 36, 30). Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6, 7). Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la Parola di Dio. Infatti è stato scritto anche questo: Apri la tua bocca alla parola di Dio.
Chi riecheggia i suoi discorsi e medita le sue parole la diffonde. Parliamo sempre di lui. Quando parliamo della sapienza, è lui colui di cui parliamo, così quando parliamo della virtù, quando parliamo della giustizia, quando parliamo della pace, quando parliamo della verità, della vita, della redenzione, è di lui che parliamo.
Apri la tua bocca alla parola di Dio, sta scritto. Tu la apri, egli parla. Per questo Davide ha detto: Ascolterò che cosa dice in me il Signore (cfr. Sal 84, 9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80, 11). Ma non tutti possono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele. A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede. Se credi, hai lo spirito di sapienza.
Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio, «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6, 7). Per casa possiamo intendere la chiesa, possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi. Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare. Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come dovessi giudicarti. Parla per strada, per non essere mai ozioso. Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via. In cammino parla a te stesso, parla a Cristo. Senti come devi parlargli: «Voglio, dice, che gli uomini preghino dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1 Tm 2, 8). Parla, o uomo, quando ti corichi affinché non ti sorprenda il sonno di morte. Senti come potrai parlare sul punto di addormentarti: «Non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non trovi una sede per il Signore, una dimora per il Potente di Giacobbe» (Sal 131, 4-5).
Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato. Senti come Cristo ti sveglia. La tua anima dice: «Un rumore! E’ il mio diletto che bussa» (Ct 5, 2) e Cristo dice: «Aprimi, sorella mia, mia amica» (Ivi). Senti come tu devi svegliare Cristo. L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3, 5). L’amore è Cristo.

Responsorio    Cfr. 1 Cor 1, 30-31; Gv 1, 16
R. Cristo Gesù è diventato per noi sapienza e giustizia, santificazione e redenzione. Come sta scritto: *
Chi si vanta, si vanti nel Signore.
V. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia.
R. Chi si vanta, si vanti nel Signore.

MERCOLEDÌ 9 FEBBRAIO 2011 – V SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MERCOLEDÌ 9 FEBBRAIO 2011 – V SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 3, 15 – 4, 7

Il compito della legge
Fratelli, ecco, vi faccio un esempio comune: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furon fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma «e alla tua discendenza» (Gn 12,7), come a uno solo, cioè Cristo. Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa. Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa.
Perché allora la legge? Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore. Ora non si dá mediatore per una sola persona e Dio è uno solo. La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge; la Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo.
Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto; ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre. Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.

Responsorio   Cfr. Gal 3, 27. 28; Ef 4, 24
R. Battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.
Non c’è più Giudeo né Greco. * tutti voi siete uno in Cristo Gesù.
V. Rivestite l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera:
R. tutti voi siete uno in Cristo Gesù.

Seconda Lettura
Dalle «Lettere» di sant’Ambrogio, vescovo
(Lett. 35, 4-6. 13; PL 16, 1078-1079. 1081)

Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo
Come dice l’Apostolo, colui che per mezzo dello Spirito fa morire le opere del corpo, vivrà. Nessuna meraviglia che viva, perché chi ha lo Spirito di Dio diventa figlio di Dio. E’ figlio di Dio, e conseguentemente non riceve uno spirito da schiavi, ma uno spirito da figli adottivi. Per questo lo Spirito Santo attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E la testimonianza dello Spirito Santo consiste nel fatto che è proprio lui che grida nei nostri cuori: «Abbà, Padre!», come è scritto nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Quella testimonianza, poi, che siamo figli di Dio è veramente grande: perché siamo «eredi di Dio e coeredi di Cristo» (Rm 8, 17). Coerede di Cristo è colui che partecipa alla sua gloria; ma partecipa alla sua gloria solo chi, soffrendo per lui, partecipa alle sue pene.
Per esortarci alla sofferenza, aggiunge che tutto quello che soffriamo è inferiore e non paragonabile al premio riservato a chi sopporta tali pene. Grande infatti sarà la mercede di beni futuri che si rivelerà in noi, quando riformati sull’immagine di Dio, meriteremo di contemplare la sua gloria faccia a faccia.
Per esaltare, poi, la grandezza della rivelazione futura, afferma che anche la creazione, ora sottomessa alla caducità non per suo volere, ma nella speranza di essere liberata, attende con impazienza la liberazione dei figli di Dio. Essa spera da Cristo la grazia che spetta alla sua funzione. Anch’essa sarà liberata dalla corruzione e ammessa alla libertà della gloria dei figli di Dio. Ci sarà un’unica libertà, quella della creazione e quella dei figli di Dio, allorquando sarà manifestata la loro gloria. Frattanto, mentre tale manifestazione viene procrastinata, tutta la creazione geme nell’attesa della gloria della nostra adozione e della nostra redenzione. Sospira fin d’ora di dare alla luce quello spirito di salvezza e brama di essere liberata dalla schiavitù della caducità. Il concetto è chiaro. I fedeli, che possiedono le primizie dello Spirito, gemono interiormente aspettando l’adozione a figli. L’adozione a figli è la redenzione di tutto il corpo mistico. Si verificherà quando esso vedrà Dio, sommo ed eterno bene, quasi fosse tutto suo figlio adottivo. L’adozione a figli si ha però già ora nella Chiesa del Signore poiché già ora lo Spirito grida: «Abbà, Padre!», come si legge nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Ma essa sarò perfetta solamente quando tutti quelli che meriteranno di vedere il volto di Dio risorgeranno incorruttibili, splendidi e gloriosi. Allora la creatura umana potrà dirsi davvero liberata. Perciò l’Apostolo si gloria dicendo: «Nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8, 24). Ci salva infatti la speranza, così come ci salva la fede, della quale è detto: «La tua fede ti ha salvato» (Lc 18, 42).

Responsorio   Cfr. Rm 8, 17; 5, 9
R. Siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: * se partecipiamo alle sue sofferenze, saremo con lui nella gloria.
V. Giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui,
R. se partecipiamo alle sue sofferenze, saremo con lui nella gloria.

Nell’orazione sant’Ambrogio sintetizza diversi aspetti di una personalità particolarmente ricca

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/284q05a1.html

Nell’orazione sant’Ambrogio sintetizza diversi aspetti di una personalità particolarmente ricca

Quando la riflessione diventa preghiera

di Inos Biffi

Chi legga le opere di sant’Ambrogio incontra il biblista sottile e fantasioso, il teologo occupato a illustrare i misteri della fede, il mistagogo paziente che spiega ai suoi fedeli i riti sacri, il maestro persuasivo ed esperto di vita evangelica, il dottore ardente della mistica cristiana; e, ancora, il polemista lucido e stringente, il retore dal discorso curato e persino artificioso, il poeta dal gusto raffinato, e dalla lirica con momenti felicissimi. Tutto questo incontra.
Ma, oltre a ciò, e forse soprattutto, il lettore di sant’Ambrogio si imbatte nell’uomo di preghiera:  di una preghiera che sgorga spontanea, con un trapasso senza preavviso. Vuol dire che allora la riflessione è diventata orazione; che il pensiero si è acceso in invocazione e al concatenarsi del ragionamento è succeduto il colloquio, effuso talora lungamente, come a lasciare espandere i sentimenti che irresistibilmente urgono nel cuore.
Senza dubbio, il dettato di sant’Ambrogio appare spesso laborioso e complicato, di comprensione non immediata; le sue esegesi, talora macchinose e stravaganti, non mancano di lasciare perplessi e un po’ divertiti, e non tutta la materia dei suoi libri si rivela compiutamente risolta in unità letteraria e redazionale.
Ma, quando al predicatore o allo scrittore tracima inattesa la preghiera – che non raramente si sublima negli accenti della poesia – ecco che lo sforzo per seguirlo viene a cessare, e ci si sente trasferiti con lui nella contemplazione distesa e ammirata o nell’implorazione intensa che sale dal cuore. Forse, più dell’operosità della pastorale, più della dignità e fermezza del governo, e più della nobiltà del comportamento – energico e paziente, tenace e misericordioso, abile e lungimirante – sono la poesia e la preghiera del vescovo di Milano a introdurre alla conoscenza più profonda del suo animo, alla sorgente della sua azione efficace e incisiva.
Nessun altro Padre della Chiesa erompe con frequenza, come Ambrogio, nelle invocazioni a Cristo.
Un fatto di stile o di costume letterario, a giudizio di Michele Pellegrino, non basterebbe spiegare questi testi oranti. Lo spiegano, invece, « un atteggiamento mistico nel senso che questa parola assume nella spiritualità cristiana », ossia l’ »esperienza vitale di un rapporto personale con Cristo », che d’altronde affiora anche là dove espressamente non ricorre la forma della preghiera. « La fede in Cristo e la contemplazione del suo mistero »:  ecco dove si unificano e trovano soluzione la figura e l’opera di sant’Ambrogio.
Il « Signore Gesù » – come si compiace di chiamarlo – ha, infatti, rappresentato la grande attrattiva del vescovo di Milano. Egli ne ha vissuto con un’intimità unica l’amicizia, illuminandone il mistero col più ardente attaccamento:  non, quindi, come l’argomento solo della massima importanza, ma ancora astratto; e non con la semplice preoccupazione dell’ortodossia oggettiva.
Gesù è il termine di un amore acceso, confidente, aperto, capace di dare senso e serenità alla vita; un amore specialmente sentito come il gesto della pietà divina. La povertà di Cristo, la sua umiltà, la sua passione, il suo essere prossimo:  questo di Gesù Cristo sant’Ambrogio ha sentito con una intensità e un’affezione tutta propria.
« Il mio Gesù » – come scriverà un giorno in una lettera (Epistolae, 40) – è la ragione per la quale l’antico consolare, eletto vescovo, si era convertito e l’infaticabile pastore avrebbe lavorato e patito fino all’ultimo, fino a quando, pochi giorni prima di morire, vide – lo attesta Paolino nella Vita (47, 1) – « il Signore Gesù venire a lui e sorridergli ».
« Grande era la sua assiduità alla preghiera di giorno e di notte » (38, 1), scrive lo stesso biografo, che, rievocando gli ultimi momenti della vita di Ambrogio, annota:  « Dalle ore cinque del pomeriggio fino all’ora in cui rese l’anima, pregò con le braccia aperte in forma di croce:  noi vedevamo le sue labbra muoversi, ma non udivamo nessun suono di voce » (47, 1).
Ambrogio stesso dirà come mai la preghiera a Gesù gli salisse spontanea dal cuore:  « Mentre parlo, Gesù è con me, in questo punto, in questo momento preciso » (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 13). « Dai suoi scritti – scrive il cardinale Carlo Maria Martini – si ricava l’impressione di trovarci di fronte a un uomo innamorato di Cristo e della Sacra Scrittura, che contemplando la Chiesa la vede immensa come il mondo e come il cielo, con Gesù per sole ».
Pregare con sant’Ambrogio – dice lo stesso cardinale – significa « ritrovare Cristo con amore appassionato, nelle lacrime e nella compunzione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fratelli »; significa « vivere la trepida certezza nella misericordia perdonante di Dio, fonte di ogni riconciliazione »; significa « avere una ferma speranza nella potenza della Parola » vivente nella Chiesa. Ed è come dire mettersi sulla strada della « santità popolare », per intercessione di colui che, secondo l’espressione di Giovanni Battista Montini, fu propriamente un « Santo popolare »

(L’Osservatore Romano 7-8 dicembre 2009)

L’inno di sant’Ambrogio per la festa del Natale: «Non da seme virile ma per l’azione arcana dello Spirito»

dal sito:

http://cristianesimocattolico.splinder.com/post/19426860

L’inno di sant’Ambrogio per la festa del Natale

«Non da seme virile ma per l’azione arcana dello Spirito»

di Inos Biffi,

da L’Osservatore Romano (25/12/08)

Nell’inno che sant’Ambrogio compone per la festa del Natale di Cristo – forse da lui stesso dalla liturgia romana introdotta in quella milanese – diventa poesia il dogma dell’incarnazione del Figlio di Dio nel grembo verginale di Maria, così come nell’inno Splendor paternae gloriae diventa poesia e canto il mistero della Trinità.
Anche in quest’inno appare la genialità santambrosiana nell’accordare e fondere ispirazione e linguaggio biblico, chiarezza didascalica e profondità teologica, allusione ed espressione, rigore dottrinale e creatività artistica, e se ne potrebbe definire il risultato come un trattato di cristologia nicena nella forma di un piccolo poema, luminoso e pieno di emozione.
D’altra parte, la materia è di quelle che Ambrogio sente più vive e più urgenti da illustrare e far assimilare alla sua Chiesa, fino a pochi anni prima infelicemente segnata dalla presenza dell’eresia ariana – che non accoglie Gesù come Figlio di Dio, eternamente generato – e ancora attraversata da eretici, che rigettavano la verità di Maria che nella verginità e perenne illibatezza concepisce e dà alla luce il Verbo fatto uomo.
Anche in questo caso, il vescovo di Milano ci offre un esempio luminoso di ortodossia, che, delineando il mistero di Cristo nei rigorosi termini niceni, lo contempla nella “duplice sostanza” di arcana verità divina e di pochezza umana, lo guarda con gioiosa meraviglia e ne fa trasparire l’incanto estetico.
Il Natale di Gesù rappresenta il compimento del disegno iniziato in Israele. Quando egli viene alla luce ed è deposto nel suo presepe si avvera la teofania di Dio, intensamente attesa dall’Antico Testamento, interprete del bisogno e del desiderio di tutta l’umanità. Passa allora sulle nostre labbra oranti l’ardente invocazione del Salmo 79, che occupa tutta la prima strofa dell’inno, e che una inavveduta critica – contro la stessa logica dell’inno e l’ottonario simbolico delle strofe – ha ritenuto inautentica e posteriormente aggiunta. È abituale in Ambrogio, che mostra di saper usare con abile maestria le regole della metrica latina, innestare nei suoi versi ampie citazioni bibliche, così annodando felicemente Bibbia e poesia.
Com’è con la prima strofa del suo inno: «Volgiti a noi, – prega la Chiesa – tu che guidi Israele, / assiso sui Cherubini, / mostrati in faccia a Efraim, ridesta / la tua potenza e vieni». Tutta una domanda appassionata e in crescente intensità si eleva a invocare l’apparizione e la venuta di Dio: «volgiti», «mostrati in faccia», «ridesta la tua potenza», «vieni»! Anzi, l’invocazione che, elevata un giorno da Israele, ora sale dalla Chiesa, diviene subito più precisa nell’indicazione del suo desiderio: è il «Redentore delle genti», il liberatore universale, implorato perché venga a rivelare il parto che conviene a Chi è Dio e da cui ogni epoca rimanga sorpresa e affascinata: «O Redentore delle genti, vieni: / rivela al mondo il parto della Vergine; / ogni età della storia stupisca: / è questo un parto che si addice a Dio». Così, mediante il magistero e l’arte del suo vescovo la comunità ambrosiana professa luminosamente la sua fede in Gesù, Figlio di Dio.
Quel parto, che di tutti i prodigi divini è il più grande e ineffabile, avviene, infatti, non per opera dell’uomo, ma per uno spirare pieno di mistero: mystico spiramine, come scrive Ambrogio, con rara finezza, quasi attingendo la penna nella luce spirituale. Altrove parlerà dello spiramen di Dio onnipotente: «Non da seme virile, / ma per l’azione arcana dello Spirito / il Verbo di Dio si è fatto carne, / fiorito a noi come frutto di un grembo». La radice è la progenie giudaica; il rampollo è Maria, il virgulto di Maria è Cristo, che come il frutto di un albero buono, fiorisce.
Una intatta verginità, per pura grazia, si ritrova, così, miracolosamente feconda: e, per il Verbo che si fa uomo in lei, Maria diviene l’aula di Dio; le sue virtù sono come insegne imperiali dispiegate a indicare la presenza del monarca nel suo palazzo: «Il verginale corpo s’inturgida, / senza che il puro chiostro si disserri, / brillano le virtù come vessilli: / Dio nel suo tempio ha fissato dimora». La vergine madre è la nuova «arca dell’alleanza», il luogo nuovo della Gloria, «l’aula regale del grembo verginale (aula regalis uteri virginalis)» o «aula celeste (aula caelestis)» – come altrove ancora Maria è chiamata dallo stesso Ambrogio.
Venuto nel mondo come «Redentore delle genti», simile a un «Gigante dotato di duplice sostanza», Gesù percorre alacremente la sua «corsa salvifica» (Giacomo Biffi): «Esca da questo talamo nuziale, / aula regia di santo pudore, / il Forte che sussiste in due nature / e sollecito compia il suo cammino». E così, il vescovo fa cantare e professare alla sua Chiesa l’altro dogma cristologico, le due nature, divina e umana di Gesù, nell’unica persona del Figlio di Dio, che «A noi viene dal Padre / e al Padre fa ritorno; / si slancia fino agli inferi / e riguadagna la sede di Dio». È il «cerchio salvifico» giovanneo: «Sono uscito dal Padre – scrive l’evangelista Giovanni – e sono venuto al mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre» (Giovanni, 16, 28).
A sant’Ambrogio piace l’immagine del «gigante, biforme» – «uno nella doppia natura, partecipe della divinità e della corporeità» – insieme alla visione delle tappe del suo rapido itinerario di salvezza: «Dal cielo nella Vergine, dal grembo nel presepe, dal presepe al Giordano, dal Giordano alla croce, dalla croce al sepolcro e dal sepolcro al cielo».
La nostra salvezza si compie per un singolare intreccio di grandezza – l’uguaglianza con il Padre – e di umiltà – la nostra carne destinata al trionfo o la povera veste della nostra carne. Noi siamo redenti per l’infusione del vigore divino nella nostra debolezza umana, e si direbbe che Ambrogio si fermi in estasiata e commossa ammirazione di questo mistero: «Consostanziale e coeterno al Padre, / dell’umiltà della carne rivèstiti: / con il tuo indefettibile vigore / rinsalda in noi la corporea fiacchezza»: «Consostanziale e coeterno al Padre» – ripete sant’Ambrogio – ed è il tema anti-ariano che ritorna da Nicea: Gesù è «della stessa sostanza del Padre», «Dio vero da Dio vero, generato non creato».
Ora lo sguardo finale di Ambrogio è rapito dall’incanto del presepe, sentito soprattutto come una sorgente inesausta di luce: «Già il tuo presepe rifulge / e la notte spira una luce nuova; / nessuna tenebra più la contamini / e la rischiari perenne la fede». Secondo il commento di Giacomo Biffi: «Quasi a riposare dalle altezze vertiginose del mistero, il canto si conclude sul quadro incantevole, per semplicità e grazia, del presepe betlemitico, segno nei secoli dell’incredibile “umiltà di Dio”, fonte della sola luce – la fede – che può vincere la tenebra avvolgente del mondo».
Il tema e il linguaggio della luce, a cui contrastano le tenebre, ritorna nella prosa di Ambrogio, e già con gli accenti e la suggestione della poesia. Egli parla della grande luce della divinità, «non alterata da nessuna ombra di morte (quam nulla umbra mortis interpolat)», o dei «veri giorni non corrotti da alcuna caligine di notte», mentre ricorre la stessa espressione della poesia, nell’esposizione del Salmo 118, dove richiama il «chiarore di un fulgore perenne, non alterato da nessuna notte (claritas, quam nox nulla interpolat)».
Abitualmente in sant’Ambrogio la luce è il simbolo della fede incorrotta e tersa, a cui fa da contrasto la notte con le sue ombre e le sue tenebre, e sulla quale non cessa di vigilare, perché ritorni o si conservi limpida e integra nella sua Chiesa.
Il vescovo, con la sua poesia, ha così dotato la sua comunità di un inno per la celebrazione natalizia, che diventerà un’eredità preziosa e diffusa in tutta la Chiesa. «Il beato Ambrogio – scrive Cassiodoro – compose l’inno del Natale del Signore col più bel fiore della sua eloquenza».
Ma non è privo di interesse, infine, osservare l’intimo legame che nella sua visione unisce la concezione verginale del Verbo nel grembo di Maria sia con il mistero della Chiesa sia con lo stato della verginità consacrata, in cui quella concezione per opera dello Spirito si riverbera, poiché ne è la genesi e la forma.
Ambrogio parla della Chiesa «sposa per l’amore e vergine per l’illibatezza caritate uxor, integritate virgo», del «materno grembo della santa vergine Chiesa, ricca di una fecondità immacolata, per generare il popolo di Dio», motivo dell’allegrezza degli angeli. Predicando, poi, a quante hanno ricevuto «la grazia della verginità (virginitatis gratia)» e sono sposate «con il Verbo di Dio» – che a loro volta fanno gioire gli angeli – presenta come loro modello la «santa Chiesa immacolata, feconda nel parto, vergine per la castità e madre per la prole».
Chi non comprende e non stima la verginità consacrata non riesce a comprendere né il mistero di Cristo, apparso per la grazia dello Spirito, né il mistero della Chiesa con la sua “fecondità immacolata”, né alla fine lo stesso matrimonio cristiano, in cui si riflette il vincolo indissolubile di Cristo e della Chiesa, adombrati nell’unione profetica di Adamo e di Eva.
Un’ultima considerazione, per sottolineare la bellezza e quasi la nostalgia di una Chiesa, che con il proprio vescovo esalta nel canto la propria fede in Gesù Figlio di Dio. Poiché l’eresia ariana – che a Gesù concede tutto tranne di essere Figlio di Dio – è ancora un’insidia serpeggiante, risalta in tutta la sua attualità soprattutto l’antico concilio di Nicea che, assieme agli altri primi concili, ha mirabilmente fissato per la Chiesa la sua intramontabile fede cristologica.
mdeledda

Mercoledì della III settimana di Avvento : « Sei tu colui che viene ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php
 
Mercoledì della III settimana di Avvento : Lc 7,19-23
Meditazione del giorno

Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento sul Vangelo di Luca, 5, 99-102 ; CCL 14, 167-168

« Sei tu colui che viene ? »

        Il Signore, sapendo che nessuno può credere con pienezza senza il Vangelo, perché la fede comincia dall’Antico Testamento, ma ha compimento nel Nuovo, quando lo interrogarono sulla sua identità, dimostrò di essere lui non con le parole, ma coi fatti : « Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete : i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella ». Tale testimonianza è perfetta, poiché da lui era stato profetizzato : « Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto… Il Signore regna per sempre » (Sal 145, 7s). Queste non sono i segni di un potere umano bensì  divino.

        Eppure questi esempi della testimonianza del Signore sono ancora poco : pienezza della fede è la croce del Signore, la sua morte, la sua sepoltura. Perciò alle parole suddette aggiunse : « Beato colui che non si scandalizza di me «  (Mt 11,6). La croce potrebbe essere uno scandalo anche per gli eletti, ma per quanto riguarda la Persona divina, non può esistere testimonianza più valida di questa, nulla vi è che trascenda le cose umane quanto il volontario sacrificio di tutto se stesso, e di sé solo, per la salvezza del mondo : con questo unico atto egli dimostra pienamente di essere il Signore. Per questo Giovanni lo indica con le parole : « Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29).

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