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I Carismi (Ef 4,7-8) (da un insegnamento di Padre Raniero Cantalamessa)

dal sito:

http://www.rinnovamentocarismatico.org/grandi%20carismatici/i_carismi_da_un_insegnamento_di%20padre%20raniero%20cantalamessa.htm

I CARISMI

da un insegnamento di Padre Raniero Cantalamessa

A ciascuno di noi… è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini  » (Ef 4,7-8).

Questa parola dell’Apostolo ci mette dinanzi l’evento fondamentale dal quale deve partire ogni riflessione sui carismi; tale evento è questo: Cristo, risorto e asceso al cielo, ha mandato lo Spirito Santo, ha distribuito doni agli uomini. è dunque il Cristo Signore che deve occupare il centro della nostra attenzione, lui che non soltanto allora, ma sempre, anche in questo momento, dona lo Spirito alla sua Chiesa. E’ lui la sorgente alla quale dobbiamo guardare, la « roccia spirituale », dalla quale scaturisce quel « fiume che, con i suoi ruscelli (i carismi!) rallegra la città di Dio » (cfr. Sa] 46,5).

Il modo più sicuro di parlare dei carismi è di commentare alcuni testi basilari che si leggono nel Nuovo Testamento su questo argomento. Il primo di questi è proprio il capitolo 4 dell’epistola agli Efesini, di cui abbiamo ascoltato, all’inizio, alcune frasi: « Un solo corpo, un solo Spirito…un solo Dio Padre di tutti… E lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti…  (Ef 4,4.6.11).

Questo testo ci dice che nella realtà della Chiesa si distinguono due livelli: il livello dell’unità, o della comunione (koinonía) e il livello della diversità, o del servizio (diakonía) e ci dice anche che i carismi appartengono a questo secondo piano. In altre parole, la Chiesa è fatta di alcune realtà comuni a tutti e identiche per tutti, che sono: un solo Dio Padre, un solo Signore Gesù Cristo, In solo Spirito, una sola fede, una sola speranza, un solo battesimo; e di altre realtà, che sono invece diverse per ciascuno, cioè i ministeri e i carismi. Questi sono l’espressione della ricchezza, del dinamismo, della varietà della Chiesa; essi fanno sì che la Chiesa sia, non solo un « corpo ben compaginato e connesso », ma anche « articolato secondo l’energia propria di ogni membro ».

CARISMI E SACRAMENTI

Tra le cose comuni a tutti, S. Paolo pone il battesimo, come abbiamo sentito, e quindi tutti i sacramenti. Infatti la differenza tra unità e diversità si riflette nella differenza che c’è tra sacramenti e carismi, e sulla quale vogliamo ora riflettere un po’ più da vicino.
Nella prima lettera ai Corinzi, leggiamo: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti ». Ritorna, in questo testo, la stessa distinzione marcata tra ciò che nella Chiesa è diverso (carismi, ministeri, operazioni) e ciò che è, invece, « uno solo e identico ». Tra le cose che sono uguali per tutti, l’Apostolo pone, anche qui, i sacramenti; scrive infatti poco più avanti: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo… e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito  » (1 Cor 12,13). L’espressione « abbeverati a un solo Spirito » potrebbe alludere velatamente all’eucaristia che nell’iniziazione cristiana delle origini veniva ricevuta, la prima volta, unitamente al battesimo. E’ certo, in ogni caso, che anche l’eucaristia fa parte di questo piano della comunione; immediatamente prima, infatti, l’Apostolo ha parlato dell’eucaristia, dicendo: “Poiché c’è un solo pane, noi… siamo un corpo solo”(1 Cor 10, 17).

Che rapporto c’è, dunque, tra i carismi e i sacramenti? 1 sacramenti fanno parte di quell’ambito comune, nel quale non c’è distinzione alcuna tra i credenti, che tutti ricevono allo stesso modo e nel quale, se c’è una distinzione, questa dipende unicamente dalla fede personale e dal grado di santità di ognuno e non dal posto che occupa nella Chiesa. L’eucaristia che riceve il papa è la stessa, identica eucarestia che ricevono i vescovi, i sacerdoti e i laici. Il battesimo è sempre lo stesso, sia che venga amministrato dal papa, sia che venga amministrato da un sacerdote o, in caso di necessità, da un semplice laico. 1 sacramenti sono dunque quelle realtà comuni, grazie alle quali la Chiesa è anzitutto comunione e unità. I carismi invece sono « una manifestazione particolare dello spirito data a ciascuno » (cfr. 1 Cor 12,7). Essi non sono perciò per tutti uguali; anzi, nessuno è in realtà uguale all’altro.

Nella sua infinita sapienza, Dio ha stabilito, dunque, come due canali distinti per santificare la Chiesa, come due diverse direzioni dalle quali soffia lo Spirito. C’è, per così dire, lo Spirito che Viene dall’alto e che si trasmette attraverso il papa, i vescovi, i sacerdoti, che agisce nel Magistero della Chiesa, nella gerarchia, nell’autorità e soprattutto nei sacramenti. In questo caso, lo Spirito, o la grazia, viene a noi attraverso dei canali istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa istituzionale. A tali canali nessuno può apportare dei cambiamenti, neppure la stessa gerarchia della Chiesa.

Possiamo paragonare i sacramenti a delle « prese » do corrente, collocate in punti precisi della casa. C’è lassù sui monti, una grande centrale che produce elettricità; attraverso  dei grossi fili, essa supera monti e valli e giunge alla città e, ramificandosi, arriva fino alle prese di corrente che ci sono on ogni casa; ogni volta che si accosta la spina, da quella presa si sprigiona calore, energia, luce, secondo i bisogni: Così è sul piano della grazia: c’è un’unica centrale di grazia che è il sacrificio redentivo di Cristo consumato sulla croce; da esso, attraverso i canali stabiliti da Cristo, la grazia fluisce ininterrottamente fino a noi e noi l’attingiamo nei sacramenti.

Fin qui la direzione che ho chiamato « dall’alto »; c’è, però, una direzione, in certo senso, opposta, da cui soffia lo Spirito ed è la direzione « dal basso », cioè dalla base, o dalle cellule del corpo, che è la Chiesa. Questo è davvero quel vento, di cui Gesù diceva che « spira dove vuole » (cfr. Gv 3,8). S. Paolo sembra riprendere questo concetto di Gesù, quando, parlando dei carismi, dice: « Tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera distribuendole a ciascuno, come vuole » (1 Cor 12,11). « Come vuole »: qui regna sovrana la libertà di Dio, non legata da scelte fatte una volta per sempre, all’inizio della Chiesa, ma sempre nuova e imprevedibile. 1 carismi sono manifestazioni concrete di questo Spirito che soffia « dove vuole » e che nessuno può prevedere o stabilire in anticipo. Se i sacramenti sono 1e prese » della grazia, i carismi sono 1e sorprese » della grazia e dello Spirito Santo!

La Chiesa completa, organismo vivo, irrorato e animato dallo Spirito Santo, è l’insieme di questi due canali, o il risultato delle due direzioni della grazia. I sacramenti sono il dono fatto a tutti per l’utilità di ciascuno, il carisma è il dono fatto a ciascuno per l’utilità di tutti. I sacramenti sono doni dati all’insieme della Chiesa per santificare i singoli; i carismi sono doni dati ai singoli per santificare l’insieme della Chiesa.

Si comprende facilmente, allora, quale perdita sarebbe per la Chiesa, se, a un certo punto, si pensasse di poter fare a meno dell’uno o dell’altro di quei due canali: o dei sacramenti o dei carismi, o dello Spirito che scende dall’alto, o dello Spirito che è diffuso alla base della Chiesa. Ora, purtroppo, dobbiamo dire che una cosa del genere è avvenuta nella Chiesa, almeno a livello pratico, se non in linea di principio. Dopo il Concilio Vaticano 11, tutti riconoscono che in passato era avvenuta una certa decurtazione dell’organismo santificante della Chiesa, a spese, appunto, dei carismi. Tutto passava solamente attraverso i canali cosiddetti « verticali », costituiti dalla gerarchia o affidati alla gerarchia; attraverso essi il popolo cristiano riceveva la Parola di Dio, i sacramenti, la profezia (questa era intesa, di solito, come il carisma di insegnare infallibilmente la verità, inerente al Magistero della Chiesa!). Si era alla famosa Chiesa « piramidale », in cui si supponeva che tutto dovesse seguire una trafila ben precisa e unidirezionale: da Dio al papa, dal papa ai vescovi, da questi ai sacerdoti e dai sacerdoti ai fedeli. Era inevitabile che da ciò risultasse una certa inerzia del laicato.

All’origine di questo impoverimento dottrinale c’era una certa concezione della Chiesa che si era andata formando in epoca moderna e che è stata chiamata, per analogia, la concezione « deista » della Chiesa (H. Múhlen). C’era stata, con Cartesio, una concezione deista del mondo: secondo tale concezione, Dio aveva creato, all’inizio, il mondo e, dopo averlo, per cosi dire, messo in moto, si era ritirato, lasciando che funzionasse per conto suo, secondo le leggi inscritte in esso una volta per sempre. Si chiamava anche concezione « meccanica » del mondo. Si negava, praticamente, la provvidenza e l’attuale, incessante governo di Dio sul mondo.

Per analogia, si chiama concezione « deista » della Chiesa quella che la considerava come un organismo perfetto creato da Gesù e dotato, fin dall’origine, di tutti i poteri e i mezzi (sacramenti, gerarchia, Magistero) per camminare da sola fino alla parusia. Anche qui, senza rendersene conto, si metteva in ombra l’attuale, incessante signoria di Cristo sulla sua Chiesa che si esprime nella libertà di intervenire, momento per momento, con il suo Spirito, sulla Chiesa stessa e di preparare sorprese sempre nuove alla sua Sposa. In pratica, si restringeva lo spazio in cui si situano i carismi. E infatti di carismi non si parlava quasi più in teologia, o se ne parlava in un senso tutto particolare, per designare le grazie e i fenomeni straordinari che si riscontravano nella vita di alcuni santi.

 Con il Concilio Vaticano II, questa immagine di Chiesa un po’ statica e « meccanica » è mutata. Si è ripreso coscienza che la Chiesa non può fare a meno dell’immensa ricchezza di grazia diffusa capillarmente nel corpo della Chiesa, in tutti i suoi membri, e che si manifesta nei doni, o carismi, di ognuno.

 Ecco cosa ha scritto, in proposito, il Concilio in un testo giustamente famoso: « Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma « distribuendo a ciascuno i propri doni come Piace a Lui » (cfr. 1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi varie opere ed uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: ‘A ciascuno… la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio » (cfr. 1 Cor 12,7). E questi carismi straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adatti e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione » (Lumen gentium, 12). ripristinato, in questo testo, il duplice movimento dello Spirito; di esso infatti si dice che agisce « non solo attraverso i sacramenti », cioè dall’alto, ma anche dal basso, attraverso quella fitta rete di grazie che sono i carismi di tutti i battezzati. Nell’uno e nell’altro caso si tratta, inoltre, di un’azione destinata a « santificare » il popolo di Dio, cioè a qualcosa di essenziale e di costitutivo della Chiesa, e non semplicemente a un suo abbellimento o arricchimento accidentale.

CARISMI E SERVIZIO

Dal testo conciliare risulta chiaro qual è lo scopo dei carismi: essi sono destinati a rendere i fedeli « adatti e pronti » ad assumersi delle responsabilità in ordine al rinnovamento interiore e all’espansione esterna della Chiesa. In ciò il Concilio non fa che riproporre il più puro insegnamento del Nuovo Testamento sui carismi. S. Paolo scrive che è Dio che « ha stabilito alcuni conte apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero (cioè il servizio), alfine di edificare il corpo di Cristo » (Ef 4,11). S. Pietro, da parte sua, raccomanda: « Ciascuno viva secondo la grazia (charisma) ricevuta, mettendola a servizio (diakonìa) degli altri » (1 Pt4,10).

 Lo scopo dei carismi è, dunque, la diakonía, il servizio, il ministero. Quest’ultimo termine, ministero, è il più usato nelle nostre traduzioni della Bibbia; tuttavia, è diventato, nel nostro linguaggio corrente, talmente vago e ambiguo che ha bisogno di essere ben compreso, per non essere frainteso (esistono anche i « rninisteri » politici e governativi, che non sono sempre organismi di servizio, o almeno non sono avvertiti dalla gente come tali). Quello che la parola ministero significa nel Nuovo Testamento è semplicemente servizio (da ministrare, che significa servire). Lo scopo dei carismi non è dunque quello di dare lustro, prestigio o fama di santità a chi li riceve; non è quello di dargli delle sicurezze o dei
poteri sugli altri. Assolutamente! Cosi. si stravolgono i carismi. Quando Gesù, ascendendo al cielo, ha riversato, come una pioggia, i suoi doni sugli uomini, aveva in mente il suo corpo, la Chiesa; è essa che amava e voleva « edificare ». Commentando il capitolo 4, versetto 8, della lettera agli Efesini, S. Agostino nota che l’Apostolo dice:  » … ha distribuito doni agli uomini, mentre il versetto del salmo che sta citando dice: « ha ricevuto doni dagli uomini » (cfr. Sal 68,19), e spiega che entrambe le cose sono vere in Cristo: egli ha donato i carismi agli uomini in quanto Capo e li ha ricevuti in quanto corpo (poiché il Cristo totale è Capo e corpo insieme, Cristo e la Chiesa insieme). Ciò che ognuno riceve in dono dallo Spirito Santo, è la Chiesa che lo riceve (cfr. S. Agostino, De Trinitate, XV, 19,34).

 I carismi sono, dunque, per la Chiesa: per la bellezza della Chiesa, per la vitalità e la varietà della Chiesa. Questo ci mette sulla strada per scoprire come mai S. Paolo chiama la carità 1a via migliore », il carisma dei carismi. Anche qui ci facciamo guidare da S. Agostino. Dopo aver ricordato i vari carismi  elencati dall’Apostolo in 1 Cor 12,8-10, S. Agostino dice: « Forse, tu non hai nessuno di questi doni elencati; ma se ami, quello che Possiedi non è poco. Se infatti ami l’unità, tutto ciò che in essa è Posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che Possiedi tu. L’invidia separa, la carità unisce. Soltanto l’occhio, nel corpo, ha la facoltà di vedere; ma è forse soltanto per se stesso che l’occhio vede? No, egli vede per la mano, per il piede e per tutte le altre membra; se infatti il piede sta per urtare in qualche ostacolo, l’occhio non si volge certo altrove, evitando di Prevenirlo. Soltanto la mano agisce nel corpo; ma forse che essa agisce soltanto per se stessa? No, agisce anche per l’occhio; infatti se sta per arrivare qualche colpo che ha di mira, non la Mano, ma soltanto il volto, forse che la mano dice: ‘Non mi muovo, perché il colpo non è diretto a me ». Così il piede, camminando, serve tutte le membra; le altre membra tacciono e la lingua Parla per tutte. Abbiamo, dunque, lo Spirito Santo se amiamo la Chiesa e l’amiamo se ci manteniamo inseriti nella sua unità e nella sua carità. Infatti lo stesso Apostolo, dopo aver affermato che agli uomini sono stati dati doni diversi, così come vengono assegnati compiti diversi alle membra del corpo, continua dicendo: ‘Io vi mostrerò una via migliore di tutte’ (1 Cor 12,3 1) e comincia a parlare della carità. Antepone la carità alle lingue degli uomini e degli angeli, la preferisce ai miracoli della fede, alla scienza e alla profezia; la mette perfino prima di quelle grandi opere di misericordia che consistono nel donare tutto ciò che si ha ai poveri; la preferisce, da ultimo, anche al martirio del corpo. A tutti questi grandi doni antepone la carità. Abbi dunque la carità e avrai tutto, perché qualsiasi altra cosa tu possa avere, senza di essa, a nulla potrà giovarti » (S. Agostino, In Iohannem, 32,8).

Ecco svelato il segreto perché la carità è « a via migliore »: essa mi fa amare l’unità (cioè la Chiesa e, concretamente, la comunità in cui vivo), e nell’unità, tutti i carismi, non solo alcuni, divengono « miei ». Anzi c’è di più. Se tu ami veramente l’unità, il carisma che io possiedo è più tuo che mio. Supponiamo che io abbia il carisma di « evangelista », cioè di annunciare la Parola di Dio; io posso compiacermene e vantarmene: allora divento « un cembalo squillante » e il carisma- mi dice l’Apostolo-  » a nulla mi giova », mentre a te che ascolti la Parola annunciata, esso non cessa di giovare, nonostante il mio peccato. Per la carità, tu possiedi senza pericolo ciò che un altro possiede con pericolo. Che straordinaria invenzione della sapienza di Dio! La carità moltiplica i carismi; fa del carisma di uno il carisma di tutti.

Ma perché questo miracolo avvenga, bisogna, dice Agostino, bandire l’invidia, cioè morire al proprio « io » individuale ed egoista che cerca la propria gloria, ed assumere invece grande, immenso, di Cristo e della Chiesa. E questo suppone uno stato di profonda conversione. I carismi infatti suppongono che si viva in stato di continua conversione; essi non si mantengono sani ed integri che in tale stato.

 Quando S. Paolo afferma che, senza la carità, anche il più sublime dei carismi « a niente mi giova », adesso sappiamo che questo non vuol dire che senza la carità i carismi non giovano a nessuno e vanno a vuoto; vuol dire soltanto che non giovano a me »; giovano alla Chiesa, anche se non giovano a chi li possiede e li esercita.

 L’ESERCIZIO DEI CARISMI

 Siamo, così, introdotti alla considerazione dell’ultimo punto: l’esercizio concreto dei carismi. Voglio partire da un’espressione di S. Paolo che abbiamo già ascoltato, ma non ancora commentato: « A ciascuno – dice – è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune  » (1 Cor 12,7). Mi preme ora sottolineare le parole: « una manifestazione particolare dello Spirito ». Dunque, il carisma è una manifestazione, o epifania, dello Spirito; è un modo parziale, ma autentico, di manifestarsi dello Spirito. (11 termine greco usato è lo stesso che, nel Nuovo Testamento, indica la manifestazione di Cristo: phanérosis). Con ciò si è detta una cosa molto seria; si è detto che i carismi, o non ci sono affatto in una persona, o, se ci sono, si guasteranno presto, se essi non sono il manifestarsi spontaneo e quasi il riflesso naturale dello Spirito che riempie il suo cuore e la sua vita. Se, in altre parole, sono qualcosa di staccato e di posticcio nella vita di chi li esercita. Gesù ci dice che con i carismi si può finire perfino all’inferno; dice infatti: « Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome (primo carisma!) e cacciato i demoni nel tuo nome (secondo carisma!) e compiuto molti miracoli nel tuo nome (terzo carisma!)? lo però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità  » (Mt 7,21-23).

 Come mai questa gente che profetizza, che scaccia i demoni e opera molti miracoli, si sente dire, nel giorno del giudizio: « Via da me! »? E’ che quei carismi non erano la « manifestazione » autentica di una vita guidata dallo Spirito di Gesù, ma erano qualcos’altro; erano, semmai, ostentazione dello Spirito, non manifestazione dello Spirito. Così avviene quando si abusa dei doni di Dio per la propria gloria o utilità, senza accettare le austere esigenze che lo Spirito stesso pone e che il vangelo espone, che si riassumono nella parola « croce ».

 Dobbiamo perciò entrare in una prospettiva di conversione reale, smettendo di pensare ai carismi come a dei bei doni che, a un certo punto, grazie all’effusione dello Spirito, si sono posati sull’albero della nostra vita. Questo sarebbe, in tal caso, un albero di Natale, non un albero vero. Già un’altra volta ho illustrato la differenza che c’è tra l’albero di Natale e un albero vero. L’albero di Natale, in genere, è un alberello di plastica, al quale si appendono i regali natalizi e che si butta via, appena i regali sono stati staccati e la festa è passata. Un cristiano che presenta dei carismi, senza però la sostanza di una vita improntata al Vangelo, somiglia a quell’alberello di plastica che non serve più a niente e che si butta via non appena sono stati colti i sui doni. Ben diverso è il cristiano la cui vita è simile all’albero che cresce lungo corsi d’acqua: egli porta sempre di nuovo frutto a suo tempo e le sue foglie non appassiranno mai (cfr. Sal 1,3). Costui passerà, sì, attraverso l’inverno, cioè attraverso periodi in cui non sembra aver alcun frutto ed è spoglio di tutto (passerà attraverso lo spogliamento e l’aridità), ma a primavera tornerà a germogliare e, anzi, quando i suoi frutti non si vedono, è proprio allora che ne produce di più.

S. Paolo esprime bene tutto questo quando afferma che i carismi devono essere l’espressione di una vita « secondo lo Spirito »; i carismi infatti sono al sicuro solo in coloro che, « mediante lo Spirito, fanno morire le opere della carne » (cfr. Rin 8,13). Questo ci spiega come mai tante persone si siano fermate per la strada, dopo un inizio folgorante nel Rinnovamento o, addirittura, siano tornate indietro.

 Avviene, dei Rinnovamento, come quando si accende un fuoco in casa; dapprima si appicca il fuoco a del materiale facilmente infiammabile, come carta, paglia, o arbusti secchi. Ma finita quella prima fiammata, o il fuoco è riuscito ad accendere i pezzi di legno grandi, e allora durerà fino al mattino dopo e riscalderà tutta la casa, o non vi è riuscito, e allora non succede proprio nulla; si è trattato, appunto, di un « fuoco di paglia ». Sul piano del rinnovamento spirituale, o la fiamma iniziale si attacca al cuore e lo trasforma da cuore di pietra in cuore di carne, o non giunge al cuore, ma resta alla periferia e allora si consuma presto e non lascia traccia di sé.

Se, nei nostri gruppi, sono ancora così scarsi i « carboni accesi », cioè le vite realmente penetrate dal fuoco dello Spirito che bruciano ormai per la Chiesa, la ragione risiede qui; è che non si è permesso al fuoco di giungere al cuore. Non si è passati attraverso quella che S. Paolo chiama « la circoncisione del cuore » (cfr. Rin 2,29).

 Dobbiamo prendere più sul serio alcune regole basilari di santità che si osservano, appunto, nella vita dei santi riconosciuti tali dalla Chiesa. Io mi stupisco e soffro, e qualche volta fremo anche di sdegno, quando, tra persone del Rinnovamento, sento dire che si deve proclamare la gioia della risurrezione e che non si deve esagerare nel parlare di croce, di rinnegamento di sé, per non tornare a una certa vecchia spiritualità troppo « afflittiva ». Certo che noi dobbiamo spingere la fede e la gioia della risurrezione fino all’estremo, ma l’equilibrio non sta nel dosare un po’ di risurrezione e un po’ di croce. Questo è un modo di pensare tutto umano. L’equilibrio sta nel portare all’estremo l’una e l’altra cosa; l’equilibrio sta nell’accettare fino in fondo la croce, per Poter sperimentare fino in fondo la risurrezione.

 La Chiesa non si smentisce, Gesù non si smentisce; per venti secoli, i santi si sono santificati così. All’inizio del cammino spirituale, la grazia si fa sentire con doni e consolazioni grandi, al fine di staccare la persona dal mondo e farla decidere per Dio; ma in seguito, una volta distaccati dal mondo, lo Spirito spinge tali persone a incamminarsi per la « via stretta » del vangelo, la via della mortificazione, dell’obbedienza, dell’umiltà. Non si vede perché oggi il Signore debba aver cambiato radicalmente metodo e fare i santi attraverso una via diversa, lastricata di dolcezze ed esperienze esaltanti, dall’inizio alla fine. Non si vede perché e come possa farli passare di gloria in gloria, senza farli passare di croce in croce.

Gesù ci ha salvati passando di croce in croce e ha fatto i santi facendoli passare di croce in croce, pur nella gioia pregustata della risurrezione. 1 carismi devono esibire i frutti dello Spirito; e se non ci sono questi, tutto è pericoloso, bisogna fermarsi, riflettere. Gesù ha detto: « Dai frutti li riconoscerete », e i frutti di cui parla sono quelli dello Spirito: amore, gioia, pace, benevolenza, pazienza, umiltà, obbedienza…

E giacché ho nominato l’obbedienza, vorrei insistere un momento su questa virtù. 1 carismi si devono esercitare nell’obbedienza. S. Paolo ci ha detto che i carismi sono di coloro che, mediante lo Spirito, fanno morire le opere della carne; cioè di quanti, attraverso l’obbedienza, mortificano l’amor proprio, l’orgoglio, il proprio punto di vista. In un gruppo dove non c’è clima di obbedienza e di sottomissione (a chi presiede, al sacerdote, o semplicemente reciproca), tutto è in pericolo, tutto è ambiguo; nascono le fazioni e poi le delusioni. L’obbedienza è il marchio per riconoscere se un fratello è animato da un carisma autentico o no; basta vedere se egli è disposto – qualora una voce autorevole glielo chieda – a tirarsi in disparte, a sottomettere il suo carisma alla comunità.

S. Teresa d’Avila aveva delle apparizioni di Gesù; e si trattava davvero di Gesù in persona, non del demonio; ma, dal momento che un certo confessore le aveva detto che c’era un inganno del demonio e che doveva spruzzare la visione di acqua santa, ella obbediva e spruzzava di acqua santa Gesù e Gesù era contento che lei obbedisse al suo confessore. Come si può, allora, sentire tra noi qualcuno che dice: « Mi si mortifica, sono inibito, mentre io sento che il Signore mi chiama a far questo e quello ». Tu senti, tu senti,
ma non ti accorgi, caro fratello, che questo tuo « sentire » ti sta portando fuori strada. L’importante non è ciò che tu senti; l’importante è ciò che « sente » la Chiesa. Se volete proprio avere dei « sentimenti », abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù e cioè, come dice Paolo, l’obbedienza e l’umiltà (cfr. Fil 2,5ss).

 Un’ultima cosa devo dire, qui, circa l’esercizio dei carismi: che essi non possono andare insieme con il peccato. Dunque che bisogna rompere definitivamente con il peccato. Alla vigilia dell’effusione dello Spirito, tutto quello che il Signore vuole da voi è questo. Non è scegliere quale carisma chiedere (è meglio, anzi, non chiedere proprio niente e lasciare che sia lo Spirito a distribuire i suoi doni « come vuole »). La cosa veramente importante è offrire al Signore un cuore contrito e umiliato, un cuore che non ha più attaccamenti al peccato. Beati voi se, in questa circostanza, in un momento di raccoglimento, riuscite a dire a Gesù: « Signore, ho capito qual è la mia vera radice di peccato, il legame che ancora mi impedisce di correre liberamente verso di te; perciò, tremando a causa della mia debolezza, ma pieno di fiducia nella tua grazia, dico: tra me e ‘quel’ peccato, più niente in comune; dico: Basta! Rompo definitivamente con il mio peccato! ».

A proposito di peccato, lasciate che esprima un grido accorato che ho nel cuore da tempo. Ci sono inganni nei gruppi, in alcuni fratelli; ci sono delle situazioni in cui si ha l’aria di scherzare con Dio. S. Paolo dice: « Non ci si può prendere gioco di Dio! » (Gal 6,7); ora ci sono persone che sembrano non aver capito quanto Dio prende sul serio il peccato. Non parlo dei Peccati che commettiamo tutti, che ci colgono di sorpresa e, coMunque, dei quali ci pentiamo e ci confessiamo; parlo di « stato » di peccato, cioè di situazioni chiaramente individuate da tempo come situazioni di grave rottura con Dio e con la Chiesa, con le quali si continua a vivere tranquilli e si va alla preghiera settimanale. t una cosa terribile: l’epistola agli Ebrei dice che chi Vive in questo tipo di peccato « crocifigge di nuovo il Figlio di Dio e lo espone all’infamia » (cfr. Eb 6,6). Chi fa questo e va, senza pentimento, all’incontro di preghiera, è uno che va a battere le mani e lodare Cristo Signore, mentre nel suo cuore lo sta di nuovo crocifiggendo. Se ci sono tra noi casi del genere, pentimento, pentimento, confessione, confessione! Basta, andare ipocritamente in giro dissimulando il proprio peccato. « Oggi, se ascolti la sua voce, non indurire il tuo cuore! ».

 Signore, aiutaci ad avere un cuore contrito e umiliato, che ha tagliato tutti i ponti con il peccato volontario, perché tu possa riversare su di noi il tuo Spirito e arricchirci dei suoi doni per la gloria del Padre e per l’edificazione della tua Chiesa. Amen!

La sobria ebbrezza dello Spirito – Edizioni RnS                                                      

P. Cantalamessa: La Chiesa, una costruzione ben ordinata (Ef. 2, 21) [eggere la citazione che ho estrapolato dal testo]

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=15

La Chiesa, una costruzione ben ordinata (Ef. 2, 21) 
 
2003-03-05- I Predica della Quaresima 2003

1. Una Lettera pericolosa?

[citazione dal testo della predica: Nei confronti degli Ebrei l’unico atteggiamento possibile è prendere alla lettera ciò che dice Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi” (cf. 1 Pt 3, 15); cioè, non prendere noi iniziative di evangelizzazione, ma, all’occorrenza e se richiesti, testimoniare la speranza che Cristo è per noi. Pietro diceva: “con dolcezza e rispetto”, noi aggiungiamo: “e in spirito di sincero pentimento per il passato”. ]
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Nell’ultima parte della Novo Millennio Ineunte, il Papa invita a guardare la Chiesa come “mistero di comunione” che ha nella carità il suo “cuore”. In questo spirito, vorremmo rileggere alcuni brani della Lettera agli Efesini, lo scritto ecclesiologico per eccellenza di tutto il Nuovo Testamento.
Nella Lettera agli Efesini si parla di riconciliazione universale, di inimicizie distrutte, di muri di divisione abbattuti, ma noi siamo costretti a leggerla in un momento in cui intorno a noi non si odono che “rumori di guerra” e l’inimicizia sembra trionfare a livello planetario, tra gli stessi alleati di un tempo. Ma questa è una ragione in più per tornare a riascoltare queste parole. “Cristo è la nostra pace”, si legge nella Lettera agli Efesini. “Egli è venuto ad annunciare pace: pace ai vicini e pace ai lontani” (cf. Ef 2, 14. 17): sono parole che abbiamo sentito risuonare fino all’ultimo, in questi giorni, sulla bocca del vicario di Cristo.
Dedichiamoci dunque all’ascolto della parola di Dio, dal momento che è “in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture” che noi possiamo “tenere viva la nostra speranza” (Rom 15, 4).
Oggi si tende a escludere che la Lettera agli Efesini sia stata scritta di suo pugno da S. Paolo. Essa sarebbe nata in epoca leggermente posteriore all’Apostolo da uno che ne ha raccolto e sviluppato il pensiero. Ma questo ci interessa relativamente. A noi basta sapere che essa fa parte del canone delle Scritture ispirate, per essere sicuri che attraverso di essa è Dio che ci parla con tutta la sua autorità divina.
Come si presenta la Chiesa in Efesini? La novità più rilevante è senz’altro la seguente: fino ad ora la parola “Chiesa” era impiegata, almeno in S. Paolo, esclusivamente per indicare la Chiesa locale (Gerusalemme, Corinto, Filippi ecc.); ora viene impiegata per indicare la Chiesa universale. Universale non solo nello spazio, ma anche nel tempo, in quanto ha la sua origine in Dio prima dei secoli, è celeste e terrestre insieme.
Qualcuno ha veduto in ciò il pericolo di un eccessivo entusiasmo ecclesiologico e di trionfalismo. “Dal punto di vista teologico –ha scritto uno dei più recenti e noti commentatori- l’immagine della Chiesa si avvicina in modo preoccupante a quella di una comunità gloriosa, che risiede più in cielo che sulla terra, legata la suo Signore trionfante; essa è, invece, troppo poco vista sotto la croce, nella sequela del Signore che soffre ed espia: e ciò costituisce un pericolo, per la coscienza ecclesiale suscitata da questo teologo, che noi abbiamo sotto gli occhi in modo più chiaro di quanto non accadesse in secoli precedenti”.
Se questa però è una colpa, io direi che oggi è per noi “una felice colpa”, una colpa provvidenziale. Siamo così inclini a non vedere, della Chiesa, che il lato oscuro che forse una visione più positiva della Chiesa è proprio il correttivo che ci occorre in questo momento. Della nota definizione della Chiesa come “casta meretrix”, si è tanto insistito sul sostantivo “meretrix” da farci venire la nostalgia di sentire qualcosa anche sull’aggettivo “casta”.
Vedremo, del resto, che i pericoli segnalati sono più immaginari che reali. Lungi dall’indulgere ad atteggiamenti quietistici di auto-esaltazione, la lettera è una continua esortazione al cambiamento, al rinnovamento interiore. Il mistero non è evocato se non per farne norma di vita. La croce non è assente perché è in essa, secondo la nostra Lettera, che è stata distrutta l’inimicizia e si è operata la grande riconciliazione (cf. Ef 2, 16).

2. Non più stranieri, né ospiti

E veniamo al tema di questa prima meditazione. Esso è Efesini 2, 19-22, che, attenendoci al metodo della lectio divina, vogliamo anzitutto ascoltare nel testo originale:
“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito”.
Qui la Chiesa ci è presentata con l’immagine-guida dell’edificio e della costruzione. Non un edificio qualsiasi, ma l’edificio sacro per eccellenza, il tempio, la dimora di Dio. È significativo che la parola “chiesa” abbia sempre abbracciato insieme i due significati: quello di edificio materiale e quello di realtà spirituale, di popolo di Dio.
La Lettera agli Efesini non è la sola a parlare della Chiesa con l’immagine della costruzione. Paolo definisce i credenti “il campo di Dio e l’edificio di Dio” (1 Cor 3, 9) e la Prima lettera di Pietro li chiama “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt 2, 5). La frase finale del nostro testo “dimora di Dio per mezzo dello Spirito” richiama l’idea paolina del “tempio dello Spirito Santo” che è ogni credente (1 Cor 3,16).
Nell’inno di benedizione con cui inizia la Lettera vengono indicati i tre architetti che hanno disegnato e, a suo tempo, realizzato il progetto: il Padre che ha concepito il disegno prima della creazione del mondo, Gesù Cristo che lo ha realizzato nella pienezza del tempo e lo Spirito Santo che vi ha posto “il suggello”. Cristo è “la pietra angolare” che sta alla base dell’edificio, o, secondo un’altra interpretazione, “la chiave di volta” che lo corona. Gli apostoli e i profeti ne sono il fondamento, non però per se stessi, ma in quanto attraverso di essi si attinge il fondamento unico che è Cristo (cf. 1 Cor 3,11).
C’è stato un tempo in cui, sulla scia degli autorevoli studi di H. Schlier, si leggeva la Lettera agli Efesini in chiave antignostica, come una risposta cristiana alla esigenza di dare un fondamento celeste alle realtà terrene. Nel nostro testo abbiamo già una prima smentita a questa tesi, oggi del resto abbandonata da tutti. Il termine “costruzione” ha qui sia il senso passivo di edificio costruito, che quello attivo di costruzione dell’edificio. La Chiesa dunque si fa nel tempo; non è una realtà preesistente che ha la sua vera vita solo in cielo. La sua preesistenza celeste è solo intenzionale (nella mente di Dio), mentre la sua esistenza terrena e quella futura, escatologica, è reale.
(Il guaio è quando si applica a Cristo -come avveniva in certe cosiddette “nuove cristologie” degli anni Settanta- ciò che Efesini dice della Chiesa e si interpreta la preesistenza stessa di Cristo come semplice previsione. Il Figlio non esisterebbe, prima dell’Incarnazione, se non in previsione, nella mente di Dio. La Trinità stessa, non solo la Chiesa, in questo caso, si realizza progressivamente nel tempo).

3. Ricostruiamo il muro abbattuto?

La Scrittura, diceva S. Gregorio Magno “crescit cum legentibus”, cresce con coloro che la leggono ; da sempre nuove risposte a misura che le si pongono nuove domande. E così avviene anche con la Lettera agli Efesini. Il capitolo secondo, tema della presente meditazione, ha qualcosa di molto attuale da dirci.
Ai margini del dialogo tra Ebrei e cristiani si stanno facendo strada delle idee che, accolte acriticamente, sarebbero una diretta smentita dell’insegnamento della nostra Lettera. La Lettera agli Efesini dice che Cristo “ha fatto dei due un popolo solo”, che “ha abbattuto il muro di separazione” che c’era tra loro, “riconciliando tutti e due con Dio in un solo corpo” (Ef 2, 14 ss). Egli ha abbattuto il muro di divisione perché non vi fosse che un solo edificio, ma ora, con le migliori intenzioni, si vorrebbe ricostruire quel muro per avere due edifici, separati e indipendenti l’uno dall’altro.
Mi spiego. La Chiesa ufficiale ha riconosciuto in vari documenti il valore permanente dell’Antica alleanza e il suo carattere salvifico per coloro che, in buona coscienza, vivono secondo essa. Alcuni interpretano questo come se la Chiesa con ciò volesse dire che gli ebrei possono fare a meno di Cristo; che la missione cristiana è diretta ai gentili, non agli ebrei, facendo leva sul fatto che, nel mandato missionario, Gesù ordina agli apostoli di andare “a tutte le nazioni” (Mt 28,19), cioè ai popoli pagani. Quello che Paolo dice di Pietro e di sé stesso, all’interno della Chiesa, viene così esteso ai rapporti tra Israele e la Chiesa: uno è per i circoncisi, l’altra per i non-circoncisi (cf. Gal 2, 7-8).
Questo escluderebbe nei cristiani non solo un diretto impegno missionario nei confronti degli ebrei, cioè il proselitismo, ma perfino il desiderio e la speranza che essi arrivino a conoscere il Cristo. “Molti ebrei –ho letto in un’autorevole rivista cattolica- potrebbero dirci: è vero che la Chiesa ha abbandonato ogni tentativo formale di convertire gli ebrei, ma non vi sono cattolici che desiderano ancora in cuor loro la loro conversione? E questo desiderio, non realizzato, non potrebbe un giorno provocare quello che tante volte ha provocato in passato?”
A ciò l’autore rispondeva che questo potrebbe essere vero di qualche cattolico isolato, ma non della Chiesa in generale. La Chiesa avrebbe rinunciato, secondo lui, perfino a pregare per la conversione degli ebrei, perché, se è vero che il Venerdì santo la liturgia prega che gli ebrei “giungano alla pienezza della redenzione”, per pienezza della redenzione non si intenderebbe qui la redenzione di Cristo, ma quella finale, escatologica .
Se fosse così io mi dichiarerei subito uno di quei cattolici isolati, perché io desidero che i fratelli ebrei, che amo, giungano un giorno a riconoscere colui che Simeone definiva insieme “luce delle genti e gloria di Israele” (cf. Lc 2, 32). Vi giungano, non costretti e neppure forse sollecitati da noi, ma autonomamente, per scoperta propria, dall’interno della loro fede, senza perdere nulla della loro identità di “Israele secondo la carne”. Rinunciare perfino a “desiderare” questo significherebbe, per me, non amare né Cristo né gli ebrei.
È assurdo e contrario a tutto il Nuovo Testamento pensare che la missione di Cristo sia per i pagani e non anche per i giudei, quando tutta la predicazione di Cristo e il suo appello alla conversione è rivolto proprio a degli ebrei, e lui stesso dice di non essere venuto se non per le pecore perdute d’Israele (cf. Mt 15,24).
L’equivoco nasce da una falsa interpretazione del significato di conversione. Sulle labbra di Gesù –sicuramente, in ogni caso, nel passo programmatico di Mc 1,15 – , “convertitevi”, non significa passare dall’idolatria al culto del vero Dio, neppure significa rinnegare qualcosa; significa semplicemente “credere al Vangelo”; non significa tornare indietro, ma fare un passo avanti ed entrare nel regno che è venuto. “Il vangelo, scrive lo stesso Apostolo dei gentili, è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rom 1,16).
Forse dobbiamo stare attenti, questo sì, a non mettere sullo stesso piano l’accettazione di Gesù di Nazareth e l’accettazione di ciò che è nato e si sviluppato da lui nei secoli, in pratica il cristianesimo. È vero che non si possono separare Cristo e la Chiesa, ma neppure si possono confondere. Non è infatti per la parola della Chiesa che si accetta Gesù, ma per la parola di Gesù che si accetta la Chiesa. C’è una gradualità e una pedagogia da rispettare, specie quando si tratta del popolo ebraico che ha tanto sofferto in passato dai cristiani e dalla Chiesa.
Nei confronti degli Ebrei l’unico atteggiamento possibile è prendere alla lettera ciò che dice Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi” (cf. 1 Pt 3, 15); cioè, non prendere noi iniziative di evangelizzazione, ma, all’occorrenza e se richiesti, testimoniare la speranza che Cristo è per noi. Pietro diceva: “con dolcezza e rispetto”, noi aggiungiamo: “e in spirito di sincero pentimento per il passato”.
Mi ha commosso il grido di una ebrea convertita, di fronte al pericolo di vedere il vangelo sottratto, anche di diritto, a quelli della sua razza. “Sono cresciuta, a Brooklyn, scrive, in una famiglia ebrea conservatrice. Ho sperimentato su me stessa una buona dose di antisemitismo, spesso proprio da cattolici. Non è difficile per me capire la riluttanza –o meglio l’avversione- che molti ebrei hanno nei confronti del vangelo. Ma, nella sua infinita misericordia, Dio è venuto incontro a ogni membro della mia famiglia ristretta, inclusi i genitori, e ci ha condotti alla comunione con quelli stessi il cui antisemitismo ci aveva provocato tanta sofferenza. Il mistero più grande per me non è l’incredulità d’Israele, ma che, in queste circostanze, io sia giunta alla fede… E tuttavia negare che Cristo solo ci salva, che l’alleanza antica era, come dice Paolo, un pedagogo che doveva condurci a Cristo (Gal 3, 24), che egli è l’unico mediatore tra l’uomo e Dio (1 Tm 2,5), non significa solo privare di Cristo gli Ebrei, ma privare di lui tutto il mondo. Perché se egli non è il Messia d’Israele, allora non è il Messia di nessuno”.
L’ultima affermazione mi ha colpito per la sua verità: se Cristo non è il Messia d’Israele, non lo di nessuno! Questo infatti è ciò che egli ha detto di essere. La Lettera agli Efesini sembra scritta in anticipo per rispondere al problema, che oggi ci assilla, del giusto rapporto con Israele. Tra tutti gli scritti del Nuovo Testamento essa è probabilmente quella che si esprime più positivamente e con più rispetto nei riguardi degli Ebrei. Il suo messaggio centrale è che “i Gentili sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità d’Israele” (Ef 3,6), non a costituire un’alternativa a Israele.

4. Ciascuno stia attento a come costruisce

Non potevo tralasciare di accennare a questo problema, ma è chiaro che la nostra preoccupazione principale, trattandosi di una meditazione quaresimale, non è di carattere teologico, quanto spirituale e ascetico. Dicevo che, lungi dallo spingerci ad atteggiamenti di autocompiacenza e di falso entusiasmo, la Lettera agli Efesini è un continuo richiamo al cambiamento e alla conversione, e questo vale anche del brano che stiamo commentando.
Cosa si richiede da chi vuole partecipare alla costruzione dell’edificio che è la Chiesa e vuole essere lui stesso “pietra viva” dell’edificio? S. Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi aveva usato la metafora della Chiesa-edificio proprio per rispondere a questa domanda. Il suo discorso ci interessa da vicino in quanto applicato da lui proprio a coloro che, come gran parte dei presenti, sono chiamati a “presiedere” ai lavori di costruzione della casa di Dio, cioè ai capi, ai pastori, non esclusi i predicatori (nel contesto si parla di Paolo, di Cefa, ma anche di Apollo!). Ascoltiamolo:
“Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno” (1 Cor 3, 9-15).
Anche oggi le truffe edilizie sono frequenti. Si mette più sabbia che cemento nell’impasto e tanti edifici dopo un po’ di anni cominciano a sfaldarsi…
Ciò che decide della bontà della nostra opera non è tanto ciò che uno fa, quanto l’intenzione con cui lo fa. Quello che l’anima è per il corpo e la radice per l’albero, l’intenzione lo è rispetto alle nostre azioni. Dobbiamo imparare a usare anche noi, come ogni buon muratore, il filo a piombo. Esso serve a controllare se un muro è veramente diritto o se vi sono sporgenze e storture. La Scrittura ci fornisce diversi di questi “fili a piombo”, o regole, con cui possiamo misurare e rettificare le nostre intenzioni.
Uno è, per esempio, quello che l’Apostolo raccomanda ai Colossesi: “Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3, 23), un altro quello che raccomanda ai Corinzi: “Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31), un altro ancora quello che scrive ai Galati: “È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?” (Gal 1,10).
Dobbiamo, raccomandano i maestri di spirito, imitare i cacciatori quando prendono la mira. Per concentrare la vista, essi chiudono l’occhio sinistro e tengono aperto solo il destro. Noi dobbiamo chiudere l’occhio che guarda gli uomini, e tenere ben aperto quello che guarda Dio.
Sulla scia della Lettera agli Efesini, già nel II secolo, il Pastore di Erma parla della Chiesa come di una torre altissima costruita sulle acque, con pietre più o meno levigate . Questo richiama chiaramente il tema della Chiesa come Antibabele, già presente nel racconto della Pentecoste.
Un tempo si pensava che il peccato dei costruttori della torre di Babele fosse di volere sfidare Dio. Ma oggi sappiamo che non è così. Quello che essi volevano costruire era uno di quei templi a terrazze sovrapposte, chiamati zikkurat, di cui restano tuttora rovine in Mesopotamia. Erano dunque uomini pii e religiosi. Dov’è allora il loro peccato? È nell’intenzione con cui costruiscono la torre. Essi si dicono l’un l’altro: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Essi vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità, ma per farsi un nome…
Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano la costruzione di una torre la cui cima tocca il cielo, la Chiesa. Ma non per farsi un nome, ma per fare un nome a Dio. È scritto che tutti li comprendevano perché essi “proclamavano le grandi opere di Dio” (Atti 2, 11). Non erano più preoccupati di stabilire chi di loro fosse il più grande. Si sono decentrati da se stessi e ricentrati su Cristo.
Dio non ci chiede l’impossibile, cioè di non sentire il desiderio di autoaffermazione, di riuscire nella vita, di non essere neppure sfiorati dalla tentazione della carriera. Queste cose sono insite nella nostra natura, specie dopo il peccato. Ciò che conta è quello che io accolgo nella mia volontà, quello che scelgo e riscelgo continuamente con la mia libertà.
È come navigare con il vento di traverso: non si può lasciare un istante il timone incustodito senza che la barca prenda subito una direzione diversa da quella voluta. La Quaresima non è solo tempo di privazioni, ma anche di correzioni di rotta, di rettificazione delle intenzioni. È questo forse l’esercizio più salutare che in essa possiamo fare.
Una piccola confessione pubblica da parte del predicatore non è forse fuori luogo a questo riguardo. Questa predica sulla rettitudine di intenzione non si concretizzava, era come bloccata, tutto fermo, fino all’altro giorno. Finché una vocina non ha posto dentro di me la domanda più ovvia: “E tu, con che intenzione fai la predica sulla purezza di intenzioni?”. Quel giorno (era martedì scorso), nella Messa c’era un brano evangelico che sembrava essere lì per aiutare il predicatore (e non solo lui) a fare il suo esame di coscienza:
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini…” (Mt 23, 2-7).
È bastato permettere alla parola di Dio di fare il suo lavoro, di convincere di peccato, il tutto seguito da una buona confessione, che la predica, buona o cattiva che sia, si è subito concretizzata nella mia mente e ho potuto scriverla.
La Lettera agli Efesini ci offre una formula breve ma teologicamente assai densa per orientare o rettificare la nostra intenzione: “A Lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen” (Ef 3, 21). 

Padre Cantalamessa: “Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=287

“Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14) 
 
2009-03-27- Quaresima 2009 alla Casa Pontificia

1. Un’era dello Spirito Santo?

“Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.
Sono quattro versetti del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sullo Spirito Santo e in essi risuona per ben sei volte il nome di Cristo. La stessa frequenza si mantiene nel resto del capitolo, se consideriamo anche le volte che ci si riferisce a lui con il pronome o con il termine Figlio. Questo fatto è di fondamentale importanza; ci dice che per Paolo l’opera dello Spirito Santo non si sostituisce a quella di Cristo, ma la prosegue, la compie e la attualizza.

Il fatto che il neo eletto presidente degli Stati Uniti, durante la sua campagna elettorale, si sia riferito per tre volte a Gioacchino da Fiore, ha riacceso l’interesse per la dottrina di questo monaco del medio evo. Pochi di quelli che disquisiscono su di lui, specialmente su internet, sanno, o si preoccupano di sapere, cosa ha detto esattamente questo autore. Ogni idea di rinnovamento ecclesiale o mondiale viene disinvoltamente messa sotto il suo nome, perfino l’idea di una novella Pentecoste per la Chiesa, invocata da Giovanni XXIII.

Una cosa è certa. Sia o no da attribuirsi a Gioacchino da Fiore, quella di una terza era dello Spirito che succederebbe a quella del Padre nell’Antico Testamento e di Cristo nel Nuovo è falsa ed eretica perché intacca il cuore stesso del dogma trinitario. Ben diversa da essa è l’affermazione di san Gregorio Nazianzeno. Egli distingue tre fasi nella rivelazione della Trinità: nell’Antico Testamento, si è rivelato pienamente il Padre ed è stato promesso ed annunciato il Figlio; nel Nuovo Testamento, si è rivelato pienamente il Figlio ed è stato annunciato e promesso lo Spirito Santo; nel tempo della Chiesa, si conosce finalmente appieno lo Spirito Santo e si gode della sua presenza [1].

Solo per avere citato in un mio libro questo testo di san Gregorio sono finito anch’io nella lista dei seguaci di Gioacchino da Fiore, ma san Gregorio parla dell’ordine della manifestazione dello Spirito, non del suo essere o del suo agire, e in tal senso la sua affermazione esprime una verità incontestabile, accolta pacificamente da tutta la tradizione.

La tesi cosiddetta gioachimita è esclusa alla radice da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. Per essi lo Spirito Santo altro non è che lo Spirito di Cristo: oggettivamente perché è il frutto della sua Pasqua, soggettivamente perché è lui che lo effonde sulla Chiesa, come dirà Pietro alle folle il giorno stesso di Pentecoste: “Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (Atti 2, 33). Il tempo dello Spirito è perciò co-estensivo al tempo di Cristo.

Lo Spirito Santo è lo Spirito che procede primariamente dal Padre, che è sceso e si è “riposato” in pienezza su Gesú, storicizzandosi e abituandosi in lui, dice sant’Ireneo, a vivere tra gli uomini, e che nella Pasqua-Pentecoste viene da lui effuso sull’umanità. La riprova di tutto ciò è proprio il grido “Abbà” che lo Spirito ripete nel credente (Gal 4,6) o insegna a ripetere al credente (Rom 8, 15). Come può lo Spirito gridare Abbà al Padre? Egli non è generato dal Padre, non è suo Figlio… Può farlo, nota Agostino, perché è lo Spirito del Figlio e prolunga il grido di Gesú.

2. Lo Spirito come guida nella Scrittura

Dopo questa premessa, vengo al versetto del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sul quale vorrei oggi soffermarmi. “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14).

Il tema dello Spirito Santo-guida non è nuovo nella Scrittura. In Isaia tutto il cammino del popolo nel deserto viene attribuito alla guida dello Spirito. “Lo Spirito del Signore li guidava al riposo” (Is 63, 14). Gesù stesso fu “condotto (ductus) dallo Spirito nel deserto” (Mt 4,1). Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, “condotta dallo Spirito”. Lo stesso disegno di san Luca di far seguire al vangelo gli Atti degli apostoli ha lo scopo di mostrare come lo stesso Spirito che aveva guidato Gesù nella sua vita terrena, ora guida la Chiesa, come Spirito “di Cristo”. Pietro va verso Cornelio e i pagani? E lo Spirito che glielo ordina (cf. At 10,19;11,12); a Gerusalemme, gli apostoli prendono delle decisioni importanti? È lo Spirito che le ha suggerite (15, 28).

La guida dello Spirito si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose piccole. Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia dell’Asia, ma “lo Spirito Santo lo vieta loro”; fanno per dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito di Gesù non lo permette loro” (At 16, 6 s.). Si capisce in seguito il perché di questa guida così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa nascente ad uscire dall’Asia ed affacciarsi su un nuovo continente, l’Europa (cf. At 16,9).

Per Giovanni, la guida del Paraclito si esercita soprattutto nell’ambito della conoscenza. Egli è colui che “guiderà” i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,3); la sua unzione “insegna ogni cosa”, al punto che chi la possiede non ha bisogno di altri maestri (cf. 1 Gv 2, 27). Paolo introduce un’importante novità. Per lui lo Spirito Santo non è solo “il maestro interiore”; è un principio di vita nuova (“quelli che sono guidati da lui diventano figli di Dio”!); non si limita a indicare il da farsi, ma dà anche la capacità di fare ciò che comanda.

In ciò, la guida dello Spirito si differenzia essenzialmente da quella della Legge che permette di vedere il bene da compiere, ma lascia la persona alle prese con il male che non vuole (cf. Rom 7, 15 ss.). “Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge”, aveva detto l’Apostolo in precedenza, nella Lettera ai Galati (Gal 5,18).

Questa visione paolina della guida dello Spirito, più profonda e ontologica (in quanto tocca l’essere stesso del credente) non esclude quella più comune di maestro interiore, di guida alla conoscenza della verità e della volontà di Dio, e in questa occasione è proprio di ciò che vorrei parlare.

Si tratta di un tema che ha avuto un ampio sviluppo nella tradizione della Chiesa. Se Gesù Cristo è “la via” (odòs) che conduce al Padre (Gv 14, 6), lo Spirito Santo, dicevano i Padri, è “la guida lungo la via” (odegòs) [2]. “Questi è lo Spirito, scrive sant’Ambrogio, nostro capo e guida (ductor et princeps), che dirige la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole e volge verso l’alto i nostri passi” [3]. L’inno Veni creator raccoglie questa tradizione nei versetti: “Ductore sic te praevio vitemus omne noxium”: con te che ci fai da guida eviteremo ogni male. Il concilio Vaticano II si inserisce in questa linea quando parla di se stessa come “del popolo di Dio che crede di essere condotto dallo Spirito del Signore” [4].

3. Lo Spirito guida attraverso la coscienza

Dove si esplica questa guida del Paraclito? Il primo ambito, o organo, è la coscienza. C’è una relazione strettissima tra coscienza e Spirito Santo. Cos’è la famosa “voce della coscienza”, se non una specie di “ripetitore a distanza”, attraverso cui lo Spirito Santo parla a ogni uomo? “Me ne dà testimonianza la mia coscienza, nello Spirito Santo”, esclama san Paolo, parlando del suo amore per i connazionali ebrei (cf. Rom 9, 1).

Attraverso questo “organo”, la guida dello Spirito Santo si estende anche fuori della Chiesa, a tutti gli uomini. I pagani “mostrano che, quanto la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rom 2, 14 s.). Proprio perché lo Spirito Santo parla in ogni essere ragionevole attraverso la coscienza, diceva san Massimo Confessore, “vediamo molti uomini, anche tra i barbari e nomadi, volgersi a una vita decorosa e buona, e disprezzare le leggi selvagge che fin dalle origini avevano dominato tra di loro”[5].
La coscienza è anch’essa una specie di legge interiore, non scritta, diversa e inferiore rispetto a quella che esiste nel credente per la grazia, ma non in disaccordo con essa, dal momento che proviene dallo stesso Spirito. Chi non possiede che questa legge “inferiore”, ma le obbedisce, è più vicino allo Spirito di chi possiede quella superiore che viene dal battesimo, ma non vive in accordo con essa.

Nei credenti questa guida interiore della coscienza è come potenziata ed elevata dall’unzione che “insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce” (1 Gv 2, 27), guida cioè infallibilmente, se ascoltata. Proprio commentando questo testo, sant’Agostino ha formulato la dottrina dello Spirito Santo come “maestro interiore”. Cosa vuol dire, si domanda, “non avete bisogno che alcuno vi istruisca”? Forse che il singolo cristiano sa già tutto per conto suo e che non ha bisogno di leggere, di istruirsi, di ascoltare nessuno? Ma se fosse così, a che scopo l’apostolo avrebbe scritto questa sua lettera? La verità è che c’è bisogno di ascoltare maestri esterni e predicatori esterni, ma che solo capirà e approfitterà di quello che essi dicono colui al quale parla nell’intimo lo Spirito Santo. Questo spiega perché molti ascoltano la stessa predica e lo stesso insegnamento, ma non tutti capiscono allo stesso modo [6].

Quale consolante sicurezza da tutto ciò! La parola che un giorno risuonò nel vangelo: “Il maestro è qui e ti chiama!” (Gv 11, 28), è vera per ogni cristiano. Lo stesso maestro di allora, Cristo, che parla ora attraverso il suo Spirito, è dentro di noi e ci chiama. Aveva ragione san Cirillo di Gerusalemme di definire lo Spirito Santo “il grande Didascalo, cioè maestro, della Chiesa” [7].

In questo ambito intimo e personale della coscienza, lo Spirito Santo ci istruisce con le “buone ispirazioni”, o le “illuminazioni interiori” di cui tutti hanno fatto qualche esperienza nella vita. Sono spinte a seguire il bene e a fuggire il male, attrazioni e propensioni del cuore che non si spiegano naturalmente, perché spesso vanno in direzione opposta a quella che vorrebbe la natura.

È proprio basandosi su questa componente etica della persona che taluni eminenti scienziati e biologi odierni sono giunti a superare la teoria che vede l’essere umano come risultato casuale della selezione delle specie. Se la legge che governa l’evoluzione è solo la lotta per la sopravvivenza del più forte, come si spiegano certi atti di puro altruismo e perfino di sacrificio di sé per la causa della verità e della giustizia?[8]

4. Lo Spirito guida attraverso il magistero della Chiesa

Fin qui, il primo ambito in cui si esercita la guida dello Spirito Santo, quello della coscienza. Ne esiste un secondo che è la Chiesa. La testimonianza interna dello Spirito Santo si deve coniugare con quella esterna, visibile e oggettiva, che è il magistero apostolico. Nell’apocalisse, al termine di ognuna delle sette lettere, ascoltiamo l’ammonimento: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7 ss.).

Lo Spirito parla anche alle chiese e alle comunità, non solo agli individui. San Pietro negli Atti riunisce le due testimonianze -interiore ed esteriore, personale e pubblica- dello Spirito Santo. Ha appena finito di parlare alle folle di Cristo messo a morte e risuscitato, e quelle si sono sentite “compunte” (cf. At 2, 37); ha fatto lo stesso discorso davanti ai capi del sinedrio, e quelli si sono infuriati (cf. At 4, 8 ss). Stesso discorso, stesso predicatore, ma effetto del tutto diverso. Come mai? La spiegazione è in queste parole che l’apostolo pronuncia in quella circostanza: “Di queste cose siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32).

Due testimonianze devono unirsi perché possa sbocciare la fede: quella degli apostoli che proclamano la parola e quella dello Spirito che permette di accoglierla. La stessa idea è espressa nel vangelo di Giovanni, quando, parlando del Paraclito, Gesù dice: “Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza” (Gv 15, 26).

È ugualmente fatale pretendere di fare a meno dell’una o dell’altra delle due guide dello Spirito. Quando si trascura la testimonianza interiore, si cade facilmente nel giuridismo e nell’autoritarismo; quando si trascura quella esteriore, apostolica, si cade nel soggettivismo e nel fanatismo. Nell’antichità, rifiutavano la testimonianza apostolica, ufficiale, gli gnostici. Contro di essi, sant’Ireneo scriveva le note parole:
“Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata…Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa… Separatisi dalla verità, essi si agitano in ogni errore lasciandosi sballottare da esso; secondo i momenti, pensano sempre diversamente sugli stessi argomenti, senza mai avere un pensiero stabile” [9].

Quando si riduce tutto al solo ascolto personale, privato, dello Spirito, si apre la strada a un processo inarrestabile di divisioni e suddivisioni, perché ognuno crede di essere nel giusto e la stessa divisione e moltiplicazione delle denominazioni e delle sette, spesso in contrasto tra loro su punti essenziali, dimostra che non può essere in tutti lo stesso Spirito di verità a parlare, perché altrimenti egli sarebbe in contraddizione con se stesso.

Questo, si sa, è il pericolo a cui è maggiormente esposto il mondo protestante, avendo eretto la “testimonianza interna” dello Spirito Santo a unico criterio di verità, contro ogni testimonianza esterna, ecclesiale, che non sia quella della sola Parola scritta [10]. Alcune frange estreme andranno tanto oltre da staccare la guida interiore dello Spirito anche dalla parola della Scrittura; si avranno allora i vari movimenti di “entusiasti” e di “illuminati” che hanno punteggiato la storia della Chiesa, sia cattolica che ortodossa e protestante. L’approdo più frequente di questa tendenza, che concentra tutta l’attenzione sulla testimonianza interna dello Spirito, è che insensibilmente lo Spirito… perde la lettera maiuscola e viene a coincidere con il semplice spirito umano. È quello che è successo con il razionalismo.

Dobbiamo però riconoscere che esiste anche il rischio opposto: quello di assolutizzare la testimonianza esterna e pubblica dello Spirito, ignorando quella individuale che si esercita attraverso la coscienza illuminata dalla grazia. In altre parole, di ridurre la guida del Paraclito al solo magistero ufficiale della Chiesa, impoverendo così l’azione variegata dello Spirito Santo. Facilmente prevale, in questo caso, l’elemento umano, organizzativo e istituzionale; si favorisce la passività del corpo e si apre la porta alla emarginazione del laicato e alla eccessiva clericalizzazione della Chiesa.

Anche in questo caso, come sempre, dobbiamo ritrovare l’intero, la sintesi, che è il criterio veramente “cattolico”. L’ideale è una sana armonia tra l’ascolto di ciò che lo Spirito dice a me, singolarmente, con ciò che dice alla Chiesa nel suo insieme e attraverso la Chiesa ai singoli. Con il suo decreto sulla libertà di coscienza il concilio Vaticano II ha voluto operare appunto questa sintesi.

5. Il discernimento nella vita personale

Veniamo ora alla guida dello Spirito nel cammino spirituale di ogni credente. Essa va sotto il nome di discernimento degli spiriti. Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso, “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte però questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro a una scelta.

Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri [11]. Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine…Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.

Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).

Il pericolo, in alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento, è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” [12].

Il frutto concreto di questa meditazione potrebbe essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla se non è lo Spirito Santo, di cui la nuvola, secondo la tradizione, era figura, a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).

San Tommaso parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” [13]. È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).

Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse ripetere di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa mosso dallo Spirito Santo” [14].

[1] Cf. S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi, XXXI, 26 (PG 36, 161 s.).
[2] S. Gregorio Nisseno, Sulla fede (PG 45, 1241C): cf. Ps.-Atanasio, Dialogo contro i Macedoniani, 1, 12 (PG 28, 1308C).
[3] S. Ambrogio, Apologia di David, 15, 73 (CSEL 32,2, p. 348).
[4] Gaudium et spes, 11.
[5] S. Massimo Confessore, Capitoli vari, I, 72 (PG 90, 1208D).
[6] Cf. S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,13; 4,1 (PL 35, 2004 s.).
[7] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVI, 19.
[8] Cf. F. Collins, The Language of God
[9] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
[10] Cf. J.-L. Witte, Esprit-Saint et Eglises séparées, in Dict.Spir. 4, 1318-1325.
[11] Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
[12] Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
[13] S. Tommaso, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5. 

Fr. Raniero Cantalamessa: “Fino alla morte, e alla morte di croce” (Lettere)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=301

Fr. Raniero Cantalamessa, ofmcap

“Fino alla morte, e alla morte di croce” 
 
2009-04-10- Predica del Venerdì Santo 2009 nella Basilica di S. Pietro

“Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis”: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce”. Nel bi-millenario della nascita dell’apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggiati parole sul mistero della morte di Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio di lui può aiutarci a comprenderne il significato e la portata.

Ai Corinzi scrive a modo di manifesto: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). La morte di Cristo ha una portata universale: ”Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2 Cor 5, 14). La sua morte ha dato un senso nuovo alla morte di ogni uomo e di ogni donna.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l’inimicizia (cf. Ef. 2,14-16). Da qui la primitiva tradizione svilupperà il tema della croce albero cosmico che con il braccio verticale unisce cielo e terra e con il braccio orizzontale riconcilia tra loro i diversi popoli del mondo. Evento cosmico e nello stesso tempo personalissimo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Ogni uomo, scrive l’Apostolo, è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,15).

Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l’uomo si innalza nella fede: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6, 14).

Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l’albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto. Ha fissato per sempre il quadro dell’annuncio cristiano. I vangeli, scritti dopo di lui, ne seguiranno lo schema, facendo del racconto della passione e morte di Cristo il fulcro verso cui tutto è orientato.

Si resta stupiti di fronte all’impresa portata a termine dall’Apostolo. Per noi oggi è relativamente facile vedere le cose in questa luce, dopo che la croce di Cristo, come diceva Agostino, ha riempito la terra e brilla ora sulla corona dei re [1]. Quando Paolo scriveva, essa era ancora sinonimo della più grande ignominia, qualcosa che non si doveva neppure nominare tra persone educate.

Lo scopo dell’anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell’Apostolo (questo gli studiosi lo fanno da sempre, senza contare che la ricerca scientifica richiede tempi più lunghi di un anno); è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede.

Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life.”

L’elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste”, ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida, spiegando l’origine e il senso di ogni sofferenza, a partire da quella di Cristo.

Perché “era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria”? (Lc 24, 26). A questa domanda si dà talvolta una risposta “debole” e, in un certo senso, rassicurante. Cristo, rivelando la verità di Dio, provoca necessariamente l’opposizione delle forze del male e delle tenebre e queste, come era avvenuto nei profeti, porteranno al suo rifiuto e alla sua eliminazione. “Era necessario che il Cristo patisse” andrebbe dunque inteso nel senso di “era inevitabile che il Cristo patisse”.

Paolo da una risposta “forte” a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l’idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione: la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l’idea stessa di Dio.

Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo “a servire come strumento di espiazione” (Rom 3,25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo. “Si può dire che sia Dio stesso, non l’uomo, che espia il peccato… L’immagine è più quella della rimozione di una macchia corrosiva o la neutralizzazione di un virus letale che quella di un’ira placata dalla punizione”[2].

Cristo ha dato un contenuto radicalmente nuovo all’idea di sacrificio. In esso “non è più l’uomo ad esercitare un’influenza su Dio perché questi si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui e verso il prossimo. La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio: ‘Lasciatevi riconciliare con Lui” (1 Cor 2,6 ss)”[3].

Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell’infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, non Dio! Esso rinchiude la creatura umana nella “menzogna” e nella “ingiustizia” (Rom 1, 18 ss.; 3, 23), condanna lo stesso cosmo materiale alla “vanità” e alla “corruzione” (Rom 8, 19 ss.) ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l’umanità.

Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato? L’elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti “contromano”.

L’Apostolo definisce l’avarizia insaziabile una “idolatria” (Col 3,5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro “la radice di tutti i mali” (1 Tim 6,10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?

Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell’Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. “È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25): i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.

E’ un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un so che di amaro – ha scritto il poeta pagano Lucrezio – sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[4]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9). E non lo avrà neppure su di noi.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Non è senza significato che Gesù morì di sera e risorse di mattino. Senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio è una notte che termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita… Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole: “Probabilmente Dio non c’è: goditi dunque la vita!” E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l’ultima speranza di riscatto. L’ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.

Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. “Dio probabilmente non esiste”: dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni ed ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. “Quante pecore ci sono fuori dell’ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!”: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus! ”[5].

Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. Che cosa aveva fatto Saulo di Tarso per meritare quell’incontro straordinario con Cristo? Che cosa aveva creduto, sperato, sofferto? A lui si applica ciò che Agostino diceva di ogni elezione divina: “Cerca il merito, cerca la giustizia, rifletti e vedi se trovi altro che grazia” [6]. È così che egli spiega la propria chiamata: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15, 9-10).

La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l’anno paolino un’occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca. Una cosa parla a loro favore davanti a Dio: la sofferenza! Come il resto dell’umanità, anche gli atei soffrono nella vita, e la sofferenza, da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé, ha un potere redentivo quasi sacramentale. È un canale, scriveva Giovanni Paolo II nella “Salvifici doloris”, attraverso cui le energie salvifiche della croce di Cristo sono offerte all’umanità[7].

All’invito a pregare “per coloro che non credono in Dio”, seguirà, tra poco, una toccante preghiera in latino del Santo Padre. Tradotta in italiano, essa dice così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e Padre di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore.

[1] S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 54, 12 (PL 36, 637).
[2] J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 227.
[3] G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, p. 573.
[4] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
[5] S. Agostino, In Ioh. Evang. 45,12.
[6] S. Agostino, La predestinazione dei santi 15, 30 (PL 44, 981).
[7] Cf. Enc. “Salvifici doloris”, 23. 

Prima predica di p. Raniero Cantalamessa per la Quaresima 2009: « Tutta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto » (Rom 8, 22)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17513?l=italian

Prima predica di p. Raniero Cantalamessa per la Quaresima 2009

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 13 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della prima predica di Quaresima di p. Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questo venerdì mattina Cappella « Redemptoris Mater » del Palazzo Apostolico Vaticano alla presenza di Benedetto XVI.

Il tema delle meditazioni quaresimali è « La legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù » (Rm 8, 2) – Meditazioni sul capitolo VIII della Lettera ai Romani.

Le successive tre prediche di Quaresima verranno pronunciate da p. Cantalamessa venerdì 20 marzo, venerdì 27 marzo e venerdì 3 aprile.

* * *
 

Prima Predica di Quaresima

« Tutta la creazione geme e soffre

nelle doglie del parto » (Rom 8, 22)

Lo Spirito Santo, nella creazione e nella trasformazione del cosmo.

1. Un mondo in stato di attesa

In Avvento san Paolo ci ha introdotto alla conoscenza e all’amore per Cristo; in questa Quaresima l’Apostolo ci farà da guida alla conoscenza e all’amore per lo Spirito Santo. Ho scelto, a questo scopo, il capitolo ottavo della Lettera ai Romani perché esso costituisce, nel corpus paolino e nell’intero Nuovo Testamento, la trattazione più completa e più profonda sullo Spirito Santo.

Il brano sul quale oggi vogliamo riflettere è il seguente:

« Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto » (Rom 8, 19-22).

Un problema esegetico dibattuto fin dall’antichità circa questo testo è quello del significato del termine creazione, ktisis. Con il termine creazione, ktisis, san Paolo a volte designa l’insieme degli uomini, il mondo umano, a volte il fatto o l’atto divino della creazione, a volte il mondo nel suo complesso, cioè l’umanità e il cosmo insieme, a volte la nuova creazione che risulta dalla Pasqua di Cristo.

Agostino[1] seguito ancora da qualche autore moderno[2], pensa che qui il termine designi il mondo umano e che quindi si debba escludere dal testo ogni prospettiva cosmica, riferita alla materia.  La distinzione tra la « creazione intera » e « noi che possediamo le primizie dello Spirito », sarebbe una distinzione interna al mondo umano e equivarrebbe alla distinzione tra l’umanità irredenta e l’umanità redenta da Cristo.

L’opinione però oggi quasi unanime è che il termine ktisis designa la creazione nel suo complesso, cioè sia il mondo materiale che il mondo umano. L’affermazione che la creazione è stata assoggettata alla vanità « senza sua colpa », non avrebbe senso se non riferita appunto alla creazione materiale.

L’Apostolo vede questa creazione pervasa da un’attesa, in uno « stato tensionale ».  L’oggetto di questa attesa è la rivelazione della gloria dei figli di Dio. « La creazione nella sua esistenza apparentemente chiusa in se stessa ed immobile…aspetta con ansia l’uomo glorificato, del quale essa sarà il ‘mondo’, anch’esso quindi glorificato » [3].

Questo stato di sofferta attesa è dovuto al fatto che la creazione, senza sua colpa, è stata trascinata dall’uomo nello stato di empietà che l’Apostolo ha descritto all’inizio della sua lettera (cf. Rom 1, 18 ss.). Lì egli definiva tale  stato « ingiustizia » e « menzogna », qui usa i termini di  « vanità » (mataiotes) e corruzione (phthora) che dicono la stessa cosa: « perdita di senso, irrealtà, assenza della forza, dello splendore, dello Spirito e della vita »

Questo stato però non è chiuso e definitivo. C’è una speranza per il creato! Non perché il creato, in quanto tale, sia in grado sperare soggettivamente, ma perché Dio ha in mente per esso un riscatto. Questa speranza è legata all’uomo redento, il « figlio di Dio », che, con un movimento contrario a quello di Adamo, trascinerà un giorno definitivamente il cosmo nel proprio stato di libertà e di gloria.

Di qui la responsabilità più profonda dei cristiani nei confronti del mondo: quella di manifestare, fin d’ora, i segni della libertà e della gloria a cui tutto l’universo è chiamato, soffrendo con speranza, sapendo che « le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi ».

Nel versetto finale l’Apostolo fissa questa visione di fede in una immagine ardita e drammatica: l’intera creazione è paragonata a una donna che soffre e geme nei dolori del parto. Nell’esperienza umana, questo è un dolore  sempre  misto a gioia, ben diverso dal pianto sordo e senza speranza del mondo, che Virgilio ha  racchiuso nel verso dell’Eneide: « sunt lacrimae rerum », piangono le cose[4].

2. La tesi dell’ »Intelligent design »: scienza o fede?

Questa visione di fede e profetica dell’Apostolo ci offre l’occasione per toccare il problema oggi così dibattuto della presenza o meno di un senso e di un progetto divino interno al creato, senza con ciò voler sovraccaricare il testo  paolino di significati scientifici o filosofici che evidentemente non ha. La ricorrenza del bicentenario della nascita di Darwin (12 Febbraio 1809) rende ancora più attuale e necessaria una riflessione in tal senso.

Nella visione di Paolo Dio è all’inizio e al termine della storia del mondo; lo guida misteriosamente a un fine, facendo servire ad esso anche le impennate della libertà umana. Il mondo materiale è in funzione dell’uomo e l’uomo è in funzione di Dio. Non si tratta di un’idea esclusiva di Paolo. Il tema della liberazione finale della materia e della sua partecipazione alla gloria dei figli di Dio trova un parallelo nel tema dei « cieli nuovi e terra nuova » della Seconda Lettera di Pietro (3,13) e dell’Apocalisse (21,1).

La prima grande novità di questa visione, è che essa ci parla di liberazione della  materia, non di liberazione dalla materia, come invece avveniva in quasi tutte le concezioni antiche della salvezza: platonismo, gnosticismo, docetismo, manicheismo,  catarismo. Sant’Ireneo ha combattuto tutta la vita contro l’affermazione gnostica, secondo cui « la materia è incapace di salvezza »[5].

Nel dialogo attuale tra scienza e fede il problema si presenta in termini diversi, ma la sostanza è la stessa. Si tratta di sapere se il cosmo  è stato pensato e voluto da qualcuno, o se è frutto del « caso e della necessità »; se il suo cammino  mostra i segni di un’intelligenza e avanza verso un traguardo preciso, o se si evolve per così dire alla cieca, obbedendo solo a leggi proprie e a meccanismi biologici.

La tesi dei credenti a questo riguardo ha finito per cristallizzarsi nella formula che in inglese suona Intelligent design, il disegno intelligente, s’intende del Creatore. Quello che ha creato tanta discussione e contestazione circa questa idea è stato, a mio parere, il fatto di non distinguere abbastanza chiaramente il disegno intelligente come teoria scientifica, dal disegno intelligente come verità di fede.

Come teoria scientifica, la tesi del « disegno intelligente » afferma che è possibile provare dall’analisi stessa del creato, quindi scientificamente, che il mondo ha un autore esterno a sé e mostra i segni di una intelligenza ordinatrice. È questa affermazione che la maggioranza degli scienziati intende (e la sola che può!) contestare, non l’affermazione di fede, che il credente ha dalla rivelazione e di cui anche la sua intelligenza sente l’intima verità e necessità.

Se, come pensano molti scienziati (non tutti!), è pseudo-scienza fare del « disegno intelligente »  una conclusione scientifica, è altrettanto pseudo-scienza quella che esclude l’esistenza di un « disegno intelligente »  in base ai risultati della scienza. La scienza potrebbe avanzare questa pretesa se potesse da sola spiegare tutto: non solo cioè il « come » del mondo, ma anche il « che » e il « perché ». Questo la scienza sa bene che non è in suo potere farlo. Anche chi elimina dal suo orizzonte l’idea di Dio, non elimina con ciò il mistero. Resta sempre una domanda senza risposta: perché l’essere e non il nulla?  Lo stesso nulla è forse per noi un mistero meno impenetrabile dell’essere, e il caso un enigma meno inspiegabile di Dio?

In un libro di divulgazione scientifica, scritto da un non credente, ho letto questa significativa ammissione: se ripercorriamo indietro la storia del mondo, come si sfoglia un libro dall’ultima pagina in su, arrivati alla fine, ci accorgiamo che è come se mancasse la prima pagina, l’incipit. Sappiamo tutto del mondo, eccetto perché e come è cominciato. Il credente è convinto che la Bibbia ci fornisce proprio questa pagina iniziale mancante; in essa, come nel frontespizio di ogni libro, è indicato il nome dell’autore e il titolo dell’opera!

Una analogia ci può aiutare a conciliare la nostra fede nell’esistenza di un disegno intelligente di Dio sul mondo con l’apparente casualità e imprevedibilità messa in luce da Darwin e dalla scienza attuale. Si tratta del rapporto tra grazia e libertà. Come nel campo dello spirito la grazia lascia spazio all’imprevedibilità della libertà umana e agisce anche attraverso di essa, così nel campo fisico e biologico tutto è affidato al gioco delle cause seconde (la lotta per la sopravvivenza delle specie secondo Darwin, il caso e la necessità secondo Monod), anche se questo stesso gioco è previsto e fatto proprio dalla provvidenza di Dio. Nell’uno e nell’altro caso, Dio, come dice il proverbio, « scrive diritto per linee storte ».

3. L’evoluzione e la Trinità

Il discorso su creazionismo ed evoluzionismo si svolge di solito in dialogo con la tesi opposta, di natura materialistica e atea, in chiave, perciò, necessariamente apologetica. In una riflessione fatta tra credenti e per credenti, come è la presente, non possiamo fermarci a questo stadio. Fermarci qui, significherebbe rimanere prigionieri di una visione « deistica », e non ancora trinitaria, e quindi non specificamente cristiana, del problema.

Chi ha aperto il discorso sull’evoluzione a una dimensione trinitaria è stato Pierre Teilhard de Chardin. L’apporto di questo studioso nella discussione sull’evoluzione è consistito essenzialmente nell’aver introdotto in essa la persona di Cristo, di averne fatto un problema anche cristologico[6].

Il suo punto di partenza biblico è l’affermazione di Paolo, secondo cui « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16). Cristo appare in questa visione come il Punto Omega, cioè come senso e approdo finale dell’evoluzione cosmica e umana.  Si posssono discutere il modo e gli argomenti con cui lo studioso gesuita giunge a questa conclusione, ma non la conclusione stessa. Ne spiega bene il motivo Maurice Blondel in una nota scritta in difesa del pensiero di Teilhard de Chardin:  « Davanti agli orizzonti ingranditi della scienza della natura e dell’umanità, non si può, senza tradire il cattolicesimo, rimanere su spiegazioni mediocri e a modi di vedere limitati che fanno del Cristo un incidente storico, che lo isolano nel Cosmo come un episodio posticcio, e sembrano fare di lui un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo »[7]. 

Quello che manca ancora, per una visione compiutamente trinitaria del problema, è una considerazione del ruolo dello Spirito Santo nella creazione e nell’evoluzione del cosmo. Lo esige il principio basilare della teologia trinitaria secondo cui le opere ad extra di Dio sono comuni a tutte e tre le persone della Trinità, ognuna delle quali vi partecipa con la sua caratteristica propria.

Il testo paolino che stiamo meditando ci permette proprio di colmare questa lacuna.  L’accenno al travaglio da parto della creazione è fatto nel contesto del discorso di Paolo sulle diverse operazioni dello Spirito Santo. Egli vede una continuità tra il gemito della creazione e quello del credente che è messo apertamente in rapporto con lo Spirito: « Essa (la creazione) non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente ». Lo Spirito Santo è la forza misteriosa che spinge la creazione verso il suo compimento. Parlando dell’evoluzione dell’ordine sociale, il concilio Vaticano II afferma che « lo Spirito di Dio che, con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra, è presente a tale evoluzione »[8].

Egli che è « il principio della creazione delle cose » [9], è anche il principio della sua evoluzione nel tempo. Questa infatti altro non è se non la creazione che continua. Nel discorso rivolto, il 31 Ottobre 2008, ai partecipanti al simposio sull’evoluzione, promosso dalla Pontificia Accademia delle scienze, il Santo Padre Benedetto XVI sottolinea questo concetto: « Affermare, diceva, che il fondamento del cosmo e dei suoi sviluppi è la sapienza provvida del Creatore non è dire che la creazione ha a che fare soltanto con l’inizio della storia del mondo e della vita. Ciò implica, piuttosto, che il Creatore fonda questi sviluppi e li sostiene, li fissa e li mantiene costantemente ».

Cosa apporta di specifico e di « personale » lo Spirito nella creazione? Ciò dipende, come sempre, dai rapporti interni alla Trinità. Lo Spirito Santo non è all’origine, ma per così dire, al termine della creazione, come non è all’origine, ma al termine del processo trinitario. Nella creazione -scrive san Basilio – il Padre è la causa principale, colui dal quale sono tutte le cose; il Figlio la causa efficiente, colui per mezzo del quale tutte le cose sono fatte; lo Spirito Santo è la causa perfezionante[10].

L’azione creatrice dello Spirito è all’origine dunque della perfezione del creato; egli, diremmo, non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere formato e perfetto. In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato dal caos al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un « mondo » appunto, secondo il significato originario di questa parola. Sant’Ambrogio osserva:

  »Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ « [11].

Non che l’azione creatrice del Padre fosse stata « caotica » e bisognosa di correzione, ma è il Padre stesso, nota san Basilio nello stesso testo citato, che vuole fare esistere tutto per mezzo del Figlio e vuole portare alla perfezione le cose per mezzo dello Spirito.

« In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque » (Gen 1,1-2). La Bibbia stessa, come si vede,  allude al passaggio da uno stato informe e caotico dell’universo, a uno stato in via di progressiva formazione e differenziazione delle creature e menziona lo Spirito di Dio come il principio di questo passaggio o evoluzione. Essa presenta questo passaggio come repentino e immediato, la scienza ha rivelato che esso si è esteso su un arco di miliardi di anni ed è ancora in atto. Ma questo non dovrebbe creare problemi, una volta conosciuto lo scopo e il genere letterario del racconto biblico.

Fondandosi sul senso di analoghe espressioni presenti nei poemi cosmogonici babilonesi, oggi si tende a dare all’espressione « spirito di dio » (ruach ‘elohim) di Genesi 1,2 il senso puramente naturalistico di vento impetuoso, vedendo in essa un elemento del caos primordiale, al pari dell’abisso e delle tenebre, legandolo quindi a ciò che precede, e non a ciò che segue, nel racconto della creazione[12]. Ma l’immagine del « soffio di Dio » ritorna nel capitolo successivo della Genesi (Dio « soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente ») con un senso « teologico » e non certo naturalistico.

Escludere, dal testo, ogni riferimento, per quanto embrionale, alla realtà divina dello Spirito, attribuendo l’attività creatrice unicamente alla parola di Dio, significa  leggere il testo solo alla luce di ciò che lo precede e non anche alla luce di ciò che lo segue nella Bibbia, alla luce degli influssi che ha subito e non anche dell’influsso che ha esercitato, contrariamente a ciò che suggerisce la tendenza più recente dell’ermeneutica biblica. (Il modo più sicuro per stabilire la natura di un seme sconosciuto non è forse vedere quale tipo di pianta da esso nasce?).

Avanzando nella rivelazione, troviamo accenni via via sempre più espliciti a un’attività creatrice del soffio di Dio, in stretta connessione con quella della sua parola. « Dalla parola (dabar) del Signore furono fatti i cieli, dal soffio (ruach) della sua bocca ogni loro schiera » (Sal 33, 6; cf. anche Is 11.4:  « La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio »). Spirito o soffio non indica certamente, in questi testi, il vento naturale. A quello stesso testo si rifà un altro salmo quando dice: « Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra » (Sal 104, 30). Qualunque interpretazione si voglia dare, perciò, a Genesi 1,2, è certo che il seguito della Bibbia attribuisce allo Spirito di Dio un ruolo attivo nella creazione.

Questa linea di sviluppo diventa chiarissima nel Nuovo Testamento che descrive l’intervento dello Spirito Santo nella nuova creazione, servendosi proprio delle immagini del soffio e del vento che si leggono a proposito dell’origine del mondo (cf. Gv 20, 22 con Gen 2,7). L’idea della ruach creatrice non può essere nata dal nulla. Non si può, in uno stesso commentario o edizione della Bibbia, tradurre Genesi 1,2 con « un vento di Dio soffiava sopra le acque » e poi rimandare a quello stesso testo per spiegare la colomba nel battesimo di Gesù![13].

Non è, dunque, scorretto continuare a rifarsi a Gen 1,2 e alle altre testimonianze posteriori, per trovarvi un fondamento biblico al ruolo creatore dello Spirito Santo, come facevano i Padri. « Se tu adotti questa spiegazione – diceva san Basilio, seguito in ciò da Lutero – ne trarrai grande profitto »[14]. Ed è vero: scorgere nello « Spirito di Dio » che aleggiava sulle acque un primo embrionale accenno all’azione creatrice dello Spirito dischiude la comprensione di tanti passi successivi della Bibbia, di cui altrimenti non si spiegherebbe l’origine.  

4. Pasqua, passaggio dalla vecchiaia alla gioventù

Cerchiamo ora di individuare alcune conseguenze pratiche che questa visione biblica del ruolo dello Spirito Santo può avere per la nostra teologia e per la nostra vita spirituale. Quanto alle applicazioni teologiche, ne ricordo solo una:  la partecipazione dei cristiani all’impegno per il rispetto e la salvaguardia del creato. Per il credente cristiano l’ecologismo non è solo una necessità pratica di sopravvivenza o un problema solo politico ed economico, ha un fondamento teologico. Il creato è opera dello Spirito Santo!

Paolo ci ha  parlato di una creazione che « geme e soffre nelle doglie del parto ». A questo suo pianto da parto, oggi si mescola un pianto di agonia e di morte. La natura è sottoposta,  ancora una volta « senza suo volere », a una vanità e corruzione, diverse da quelle di ordine spirituale intese da Paolo, ma derivate dalla stessa sorgente che è il peccato e l’egoismo dell’uomo.

Il testo paolino che stiamo meditando potrebbe ispirare più d’una considerazione sul problema dell’ecologia: noi che abbiamo ricevuto  le primizie dello Spirito stiamo affrettando « la piena liberazione del cosmo e la sua partecipazione alla gloria dei figli di Dio », o la stiamo ritardando, come tutti gli altri?

Ma veniamo all’applicazione più personale. Diciamo che l’uomo è un microcosmo; a lui dunque come individuo, si applica tutto ciò che abbiamo detto in generale del cosmo. Lo Spirito Santo è colui che fa passare ognuno di noi dal caos al cosmo: dal disordine, dalla confusione e dalla dispersione, all’ordine, all’unità e alla bellezza. Quella bellezza che consiste nell’essere conformi alla volontà di Dio e all’immagine di Cristo, nel passare dall’uomo vecchio e all’uomo nuovo.

Con un accenno velatamente autobiografico, l’Apostolo scriveva ai corinzi: « Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno » (2 Cor 4,16). L’evoluzione dello spirito non si svolge nell’uomo  parallelamente a quello del corpo, ma in senso contrario. 

In questi ultimi giorni, per via dei tre Oscar che ha ricevuto e la celebrità del protagonista, si è parlato molto di un film intitolato « Il caso curioso di Benjamin Button », tratto da un racconto dello scrittore Francis Scott Key Fitzgerald. È la storia di un uomo che nasce vecchio, con i tratti mostruosi di un ottantenne, e, crescendo, ringiovanisce fino a morire da vero bambino. La storia è naturalmente paradossale, ma può avere un’applicazione quanto mai vera se trasferita sul piano spirituale. Noi nasciamo « uomini vecchi » e dobbiamo diventare « uomini nuovi ». Tutta la vita, non solo l’adolescenza, è una « età evolutiva »!

Secondo il vangelo, bambini non si nasce ma si diventa! Un Padre della Chiesa, san Massimo di Torino, definisce la Pasqua un passaggio « dai peccati alla santità, dai vizi alla virtù, dalla vecchiaia alla gioventù: una gioventù s’intende non di età ma di semplicità. Eravamo infatti cadenti per la vecchiaia dei peccati, ma per la risurrezione di Cristo siamo stati rinnovati nell’innocenza dei bambini »[15].

La Quaresima è il tempo ideale per applicarsi a questo ringiovanimento. Un prefazio di questo tempo dice: « Tu hai stabilito per i tuoi figli un tempo di rinnovamento spirituale, perché si convertano a te con tutto il cuore, e liberi dai fermenti del peccato vivano le vicende di questo mondo, sempre orientati verso i beni eterni ». Una orazione, risalente al Sacramentario Gelasiano del VII secolo e ancora in uso nella veglia pasquale, proclama solennemente: « Tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova, e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo che è il principio di tutte le cose ».

Lo Spirito Santo è l’anima di questo rinnovamento e di questo ringiovanimento. Iniziamo le nostre giornate dicendo, con il primo verso dell’inno in suo onore: « Veni, creator Spiritus »: Vieni Spirito creatore, rinnova nella mia vita il prodigio della prima  creazione, aleggia sul vuoto, le tenebre e il caos del mio cuore, e guidami verso la piena realizzazione del « disegno intelligente » di Dio sulla mia vita.

[1] Cf. S. Agostino, Esposizione sulla Lettera ai Romani,  45 (PL 35, 2074 s.).

[2] A. Giglioli, L’uomo o il creato? Ktisis in S. Paolo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1994.

[3] H. Schlier,  La lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982, p. 429.

[4] Virgilio, Eneide, I, 462.

[5] Cf. S. Ireneo, Adv. haer. V, 1,2; V,3,3.

[6] Cf. C. F. Mooney, Teilhard de Chardin et le mystère du Christ, Aubier, Paris  1966.

[7] M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1965.

[8] Gaudium et Spes, 26.

[9] Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, IV, 20, n. 3570 (Marietti, Torino 1961, vol. 3, p. 286).

[10] S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 136).

[11] S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.

[12] Così G. von Rad, in Genesi. Traduzione e commento di G. von Rad, Paideia, Brescia  1978, pp. 56-57; da notare, tuttavia, che in Enuma Elish il vento appare come un alleato del dio creatore, non un elemento ostile che gli si oppone: cf. R. J. Clifford-R. E. Murphy, in The New Jerome Biblical Commentary, 1990, p. 8-9.

[13] Così avviene nella « Bibbia di Gerusalemme »: cf. note a Gen 1,2 e Mt 3,16 e in The  New Jerome Biblical Commentary, Prentice Hall 1990, pp. 10 e  638.

[14] S. Basilio, Esamerone, II, 6 (SCh 26, p. 168); Lutero, Sulla Genesi (WA 42, p. 8)..

[15] S. Massimo di Torino, Sermo de sancta Pascha, 54,1 (CC 23, p. 218).

Terza predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa (Gal 4,4)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16587?l=italian

Terza predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa (Gal 4,4)

Alla presenza del Santo Padre e dei membri della Curia romana

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la terza predica d’Avvento pronunciata questo venerdì, nella Cappella « Redemptoris Mater », alla presenza di Benedetto XVI, da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia, sul tema: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Suo Figlio nato da donna » (Gal 4, 4).

ZENIT ha pubblicato i testi delle precedenti prediche di padre Cantalamessa il 5 e il 12 dicembre.  

* * *

1. Paolo e il dogma dell’incarnazione
Premettiamo, anche questa volta, il brano paolino sul quale intendiamo meditare:
“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4, 4-7).
Ascolteremo spesso questo brano nel tempo natalizio, a cominciare dai Primi Vespri della solennità del Natale. Diciamo anzi tutto qualcosa sulle implicazioni teologiche di questo testo. È il passo in cui si va più vicino, nel corpo paolino, all’idea di preesistenza e di incarnazione. L’idea di “invio” (“Dio mandò, exapesteilen, il suo Figlio”) è messa in parallelo con l’invio dello Spirito di cui si parla due versetti dopo e richiama ciò che nell’AT si dice dell’invio della Sapienza e del santo Spirito sul mondo da parte di Dio (Sap 9, 10.17). Questi accostamenti indicano che non si tratta di un invio “dalla terra”, come nel caso dei profeti, ma “dal cielo”.

L’idea della preesistenza di Cristo è implicita nei testi paolini in cui si parla di un ruolo di Cristo nella creazione del mondo (1 Cor 8,6; Col 1, 15-16) e quando Paolo dice che la roccia che seguiva il popolo nel deserto era Cristo (1 Cor 10,4). L’idea di incarnazione, a sua volta, è soggiacente nell’inno cristologico di Filippesi, 2: “Essendo nella forma di Dio spogliò se stesso, assumendo la forma di servo”.
Nonostante questo, bisogna ammettere che preesistenza e incarnazione in Paolo sono delle verità in gestazione, non ancora giunte alla piena formulazione. Il motivo è che il centro dell’interesse e il punto di partenza di tutto per lui è il mistero pasquale, cioè l’operato, più che la persona del Salvatore. Il contrario di Giovanni, per il quale il punto di partenza e l’epicentro dell’attenzione è proprio la preesistenza e l’incarnazione.
Si tratta di due “vie”, o percorsi diversi, nella scoperta di chi è Gesù Cristo: una, quella di Paolo, parte dall’umanità per giungere alla divinità, dalla carne per giungere allo Spirito, dalla storia di Cristo, per arrivare alla preesistenza di Cristo; l’altra, quella di Giovanni, segue il cammino inverso: parte dalla divinità del Verbo per giungere ad affermare la sua umanità, dalla sua esistenza nell’eternità per scendere alla sua esistenza nel tempo; una pone come cerniera tra le due fasi la risurrezione di Cristo, e l’altra vede il passaggio da uno stato all’altro nell’incarnazione.
Appena si passa all’epoca successiva, le due vie tendono a consolidarsi dando luogo a due modelli o archetipi e finalmente a due scuole cristologiche: la scuola antiochena che si richiama di preferenza a Paolo e la scuola alessandrina che si richiama di preferenza a Giovanni. Nessuno dei seguaci dell’una o dell’altra via ha coscienza di scegliere tra Paolo e Giovanni; ognuno è sicuro di averli entrambi dalla propria parte. Ciò è senz’altro vero; sta di fatto però che i due influssi rimangono ben visibili e distinguibili, come due fiumi che, pur confluendo insieme, continuano a distinguersi per il colore diverso delle rispettive acque.
Questa differenziazione si riflette per esempio nel modo diverso con cui viene interpretata, nelle due scuole, la kenosi di Cristo di Filippesi 2. Fino dal II-III secolo si delineano, di questo testo, due letture diverse che si ritrovano anche nell’esegesi moderna. Secondo la scuola alessandrina, il soggetto iniziale dell’inno è il Figlio di Dio preesistente nella forma di Dio. La kenosi perciò in questo caso sarebbe consistita nell’incarnazione, nel farsi uomo. Secondo l’interpretazione dominante nella scuola antiochena, il soggetto unico dell’inno dall’inizio alla fine è il Cristo storico, Gesù di Nazareth. In questo caso la kenosi, consisterebbe nell’abbassamento insito nel suo farsi servo, nel sottoporsi alla passione e alla morte.
La differenza tra le due scuole non è tanto che alcuni seguono Paolo e altri Giovanni, ma che alcuni interpretano Giovanni alla luce di Paolo e altri interpretano Paolo alla luce di Giovanni. La differenza è nello schema, o nella prospettiva di fondo, che si adotta per illustrare il mistero di Cristo. Nel confronto tra queste due scuole si può dire che si sono formate le linee portanti del dogma e della teologia della Chiesa, rimaste operanti fino ad oggi.

2. Nato da donna
Il relativo silenzio sull’incarnazione comporta, in Paolo, un silenzio quasi totale su Maria, la Madre del Verbo incarnato. L’inciso “nato da donna” (factum sub muliere) del nostro testo è l’allusione più esplicita che si ha a Maria nel corpo paolino. Essa è l’equivalente dell’altra espressione: “dal seme di David secondo la carne” “factum ex semine David secundum carnem” (Rom 1,3).
Per quanto scarna, però, questa affermazione dell’Apostolo è importantissima. Essa fu uno dei cardini nella lotta contro il docetismo gnostico, dal II secolo in poi. Dice infatti che Gesù non è un’apparizione celeste; grazie alla sua nascita da donna, egli è pienamente inserito nell’umanità e nella storia, “in tutto simile agli uomini” (Fil 2, 7). “Perché diciamo che Cristo è uomo, scrive Tertulliano, se non perché è nato da Maria che è una creatura umana?”[1]. A pensarci bene, “nato da donna” è più adatto a esprimere la vera umanità di Cristo che non il titolo “figlio dell’uomo”. In senso letterale, Gesù non è figlio dell’uomo, non avendo avuto per padre un uomo, mentre è realmente “figlio della donna”.
Il testo paolino sarà anche al centro del dibattito sul titolo di madre di Dio (theotokos) nelle dispute cristologiche posteriori, e questo spiega perché la liturgia ce lo farà ascoltare nella seconda lettura della messa della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, del primo Gennaio.
È da notare un particolare. Se Paolo avesse detto: “nato da Ma­ria “, si sarebbe trattato solo di un dettaglio biografico; avendo detto “nato da donna “, ha dato alla sua affermazione una por­tata universale e immensa. È la donna stessa, ogni donna, che è stata elevata, in Maria, a tale incredibile altezza. Maria è qui la donna per antonomasia.

3. “Che giova a me che Cristo sia nato da Maria?”

Noi meditiamo il testo paolino nell’imminenza del Natale e nello spirito della lectio divina. Non possiamo perciò indugiare troppo sul dato esegetico, ma dopo aver contemplato la verità teologica contenuta nel testo, dobbiamo trarre da esso spunti per la nostra vita spirituale, mettendo in luce il “per me” della parola di Dio.
Una frase di Origene, ripresa da sant’Agostino, san Bernardo, da Lutero e da altri, dice: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima? “. La maternità divina di Maria si realizza su due piani: su un piano fisico e su un piano spirituale. Maria è Madre di Dio non solo perché l’ha portato fisicamente nel grembo, ma anche perché l’ha concepito prima nel cuore, con la fede. Noi non possiamo, naturalmente, imitare Maria nel primo senso, generando di nuovo Cristo, ma possia­mo imitarla nel secondo senso, che è quello della fede. Gesù stesso iniziò questa applicazione alla Chiesa del titolo di “Madre di Cristo “, quando dichiarò: “Mia madre e miei fratel­li sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pra­tica” (Lc 8, 21; cf. Mc 3, 31 s; Mt 12, 49).
Nella tradizione, questa verità ha conosciuto due livelli di ap­plicazione complementari tra di loro, una di tipo pastorale e l’altra di tipo spirituale. In un caso, si vede realizzata questa maternità, nella Chiesa presa nel suo insieme, in quanto “sa­cramento universale di salvezza “; nell’altro, la si ve­de realizzata in ogni singola persona o anima che crede.
Uno scrittore del Medio Evo, il Beato Isacco della Stella, ha fatto una specie di sintesi di tutti questi motivi. In una omelia famosa che abbiamo letto nella Liturgia delle ore di sabato scorso, scrive: “Ma­ria e la Chiesa sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre, l’una e l’altra vergine… Per questo, nelle Scritture divinamente ispirate, ciò che si dice in modo uni­versale della Vergine Madre Chiesa, lo si intende in modo sin­golare della Vergine Madre Maria; e ciò che si dice in modo speciale di Maria lo si intende in senso generale della Vergine Madre Chiesa… Infine, ogni anima fedele, sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta anch’essa a suo modo vergine e feconda”.
Il Con­cilio Vaticano II si colloca nella prima prospettiva quando scrive: “La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio” .
Noi ci concentriamo sull’applicazione perso­nale ad ogni anima: “Ogni anima che crede, scrive sant’Ambrogio, concepisce e gene­ra il Verbo di Dio… Se secondo la carne una sola è la Madre di Cristo, secondo la fede, tutte le anime generano Cristo quando accolgono la parola di Dio” . Gli fa eco un altro Padre dall’orien­te: “Il Cristo nasce sempre misticamente nell’anima, prendendo carne da coloro che sono salvati e facendo dell’anima che lo genera una madre vergine” .
Come si di­venta, in concreto, madre di Gesù, ce lo ha indicato lui stesso nel vangelo: ascoltando la Parola e mettendola in pratica (cf. Lc 8,21; Mc 3, 31 s.; Mt 12,49). Ripen­siamo, per capire, a come divenne madre Maria: concependo Gesù e partorendolo. Nella Scrittura vediamo sottolineati questi due momenti: “Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio”, si legge in Isaia, e “Concepirai e darai alla luce un Figlio”, dice l’angelo a Maria.
Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, del­l’aborto. Essa avviene quando si concepisce una vita, ma non la si dà alla luce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo dell’aborto era l’unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all’opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Avviene nel caso di figli con­cepiti in provetta e immessi, in un secondo momento, nel seno di una donna, e nel caso dell’utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce, non vie­ne da lei, non è concepito “prima nel cuore che nel corpo “.
Purtroppo anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità di maternità incompleta. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Pa­rola, senza metterla in pratica, chi continua a fare un aborto spi­rituale dietro l’altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a me­tà strada; chi si comporta verso la Parola come l’osservatore frettoloso che guarda il suo volto nello specchio e poi se ne va dimenticando subito com’era (cf. Gc 1, 23-24). Insomma, chi ha la fede, ma non ha le opere.
Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall’abitudi­ne, dall’ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare. Insomma, chi ha le opere ma non ha la fede.
San Francesco d’Assisi ha una pa­rola che riassume, in positivo, in che consiste la vera maternità nei confronti di Cristo: “Sia­mo madri di Cristo – dice – quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio… Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa, avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore No­stro Gesù Cristo!” . Noi – vuol dire il santo – concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere san­te che lo manifestano al mondo.

4. Le due feste di Gesù Bambino

San Bonaventura, discepolo e figlio del Poverello, ha raccolto e svilup­pato questo pensiero in un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù Bambino “. Nell’introduzione al libro, egli racconta co­me un giorno, mentre era in ritiro sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l’anima di Dio devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell’Al­tissimo, può spiritualmente concepire il benedetto Verbo e Fi­glio Unigenito del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa­dre nel suo tempio.
Di questi cinque momenti, o feste di Gesù Bambino, che l’a­nima deve rivivere, ci interessano soprattutto le prime due: il concepimento e la nascita. Per san Bonaventura, l’anima conce­pisce Gesù quando, scontenta della vita che conduce, stimolata da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac­candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondata spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova. È avvenuta la conce­zione di Cristo!
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen­to, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, l’anima mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin­ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Ma è necessario insistere su una cosa: questo proposito di vi­ta nuova deve tradursi, senza indugio, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. E uno dei tanti aborti spirituali. Non si celebrerà mai “la seconda festa “ di Ge­sù Bambino che è il Natale! È uno dei tanti rinvii che sono una delle ragioni principali per cui così pochi si fanno santi.
Se decidi di cambiare stile di vita ed entrare a far parte di quella categoria di poveri ed umili, che, come Maria, cercano so­lo di trovare grazia presso Dio, senza curarsi di piacere agli uomini, allora, scrive san Bonaventura, devi armarti di coraggio, perché ce ne sarà biso­gno. Dovrai affrontare due tipi di tentazione. Ti si presenteran­no dapprima gli uomini carnali del tuo ambiente a dirti: “È troppo arduo ciò che intraprendi; non ce la farai mai, ti mancheranno le forze, ne andrà di mezzo la tua salute; queste cose non si addicono al tuo stato, compro­metti il tuo buon nome e la dignità della tua carica… “.
Superato questo ostacolo, si presenteranno altri che hanno fama di essere e, forse, sono anche di fatto, persone pie religiose, ma che non credono veramente nella potenza di Dio e del suo Spirito. Que­ste ti diranno che, se cominci a vivere in questo modo – dando tanto spazio alla preghiera, evitando di prendere parte a pettegolezzi e a chiacchiere inutili, fa­cendo opere di carità -, sarai ritenuto presto un santo, un uomo devoto, spirituale, e poiché tu sai benissimo di non esserlo an­cora, finirai per ingannare la gente ed essere un ipocrita, atti­rando su di te la riprovazione di Dio che scruta i cuori.
A tutte queste ten­tazioni, bisogna rispondere con fede: “Non è divenuta troppo corta la mano del Signore da non poter salvare!” (Is 59, 1) e, quasi adirandoci con noi stessi, esclamare, come Agostino alla vigilia della sua conversione: “Se questi e queste ce la fanno, perché non anch’io? Si isti et istae, cur non ego? “

5. Maria ha detto Sì

L’esempio della Madre di Dio ci suggerisce cosa fare in concreto per imprimere alla nostra vita spirituale questo nuovo slancio, per concepire e far nascere davvero Gesù in noi in questo Natale. Maria disse un Sì deciso e pieno a Dio. Si insiste molto sul Fiat di Maria, su Maria come “la Vergine del fiat”. Ma Maria non parlava latino e perciò non disse fiat; non disse neppure genoito che è la parola che troviamo, a quel punto, nel testo greco di Luca, perché non parlava greco.
Se è lecito cer­care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que­sta deve essere stata la parola “amen “. Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si leggeva una volta “fiat, fiat “, ora nella nuova versione dai testi originali si legge: Amen, Amen. Lo stesso per la parola greca: ogni volta che nella Bibbia dei Settanta si legge in quei medesimi salmi génoito, génoito, l’originale ebraico porta: Amen, amen!
Con l’“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro­la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf. Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: “Così parla l’Amen…” (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui, aggiunge Paolo, che ogni “amen “ pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). 
In quasi tutte le lingue umane la parola che esprime il consenso è un monosillabo: sì, ja, yes, oui, tag… La più corta parola del vocabolario, ma quella con cui sia gli sposi che i consacrati decidono della loro vita per sempre. Anche nel rito della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale c’è infatti un momento in cui viene pronunciato un sì.
C’è una sfumatura nell’Amen di Maria che è importante raccogliere. Nelle lingue moderne noi usiamo del verbo il modo indicativo per indicare una cosa accaduta o che accadrà, il modo condizionale per indicare qualcosa che potrebbe accadere a certe condizioni e così via; il greco conosce un modo particolare che si chiama l’ottativo. È un modo che si usa quando si vuole esprimere desiderio o impazienza che una certa cosa accada. Ora il verbo usato da Luca, genoito, è proprio in tale modo!
San Paolo dice che “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Chiediamole che ci ottenga la grazia di dire a Dio un gioioso e rinnovato Sì e così concepire e dare alla luce anche noi, in questo Natale, il Figlio suo Gesù Cristo.

 Tertulliano, De carne Christi, 5,6 (CC,2, p. 881).

 Origene, Commento al vangelo di Luca, 22,3 (SCh, 87, p. 302).

 Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863 s.).

 Lumen gentium 64.

S. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 26 (CSEL 32,4, p.55).

 S. Massimo Confessore, Commento al Padre nostro (PG 90, 889).

 S. Francesco d’Assisi, Lettera ai fedeli, 1 (Fonti Francescane, n. 178).

 S. Bonaventura, Le cinque feste di Gesù Bambino, prologo (ed. Quaracchi 1949, pp. 207 ss.).

 S. Agostino, Confessioni, VIII,8,19.

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