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PADRE CANTALAMESSA : LA PACE DI CRISTO REGNI NEI VOSTRI CUORI (COL 3,15)

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PADRE CANTALAMESSA : LA PACE DI CRISTO REGNI NEI VOSTRI CUORI (COL 3,15)

20 DICEMBRE 2014

1. La pace frutto dello Spirito
San Paolo pone la pace al terzo posto tra i frutti dello Spirito: “Il frutto dello Spirito, dice, è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé” (Gal 5, 22). Cosa sono “i frutti dello Spirito”, lo scopriamo proprio analizzando il contesto in cui tale idea ricorre. Il contesto è quello della lotta tra la carne e lo spirito, cioè tra il principio che regola la vita dell’uomo vecchio, pieno di concupiscenze e voglie terrene, e quello che regola la vita dell’uomo nuovo, condotto dallo Spirito di Cristo. Nell’espressione “frutti dello Spirito”, “spirito” non indica lo Spirito Santo in se stesso, quanto il principio della nuova esistenza, o anche “l’uomo che si lascia guidare dallo Spirito”.
A differenza dei carismi, che sono opera esclusiva dello Spirito, che li dà a chi vuole e quando vuole, i frutti sono il risultato di una collaborazione tra la grazia e la libertà. Sono, dunque, ciò che intendiamo oggi per virtù, se diamo a questa parola il senso biblico di un abituale agire “secondo Cristo”, o “secondo lo Spirito”, anziché il senso filosofico aristotelico di un abituale agire “secondo retta ragione”. Ancora, a differenza dei doni dello Spirito che sono diversi da persona a persona, i frutti dello Spirito sono identici per tutti. Non tutti nella Chiesa possono essere apostoli, profeti, evangelisti; ma tutti indistintamente, dal primo all’ultimo, possono e debbono essere caritatevoli, pazienti, umili, pacifici.
La pace frutto dello Spirito è dunque distinta dalla pace dono di Dio e dalla pace come compito per cui lavorare. Indica la condizione abituale (habitus), lo stato d’animo e lo stile di vita di chi, mediante lo sforzo e la vigilanza, ha raggiunto una certa pacificazione interiore. La pace frutto dello spirito è la pace del cuore. Ed è di questa cosa tanto bella e tanto desiderata che oggi parleremo. Essa è, sì, distinta dal compito di essere operatori di pace, ma serve meravigliosamente anche a questo scopo. Il titolo del messaggio di papa Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 1984 diceva: “La pace nasce da un cuore nuovo” e Francesco d’Assisi, mandando i suoi frati per il mondo, raccomandava loro: “La pace che annunciate con la bocca, abbiatela anzitutto nei vostri cuori”.[1]
2. La pace interiore nella tradizione spirituale della Chiesa
Il raggiungimento della pace interiore o del cuore ha impegnato lungo i secoli tutti i grandi cercatori di Dio. In Oriente, a cominciare dai Padri del deserto, tale sforzo si è concretizzato nell’ideale della hesychia, cioè dell’esicasmo, o della quiete. In esso si è osato proporsi e proporre agli altri un traguardo altissimo, se non addirittura sovraumano: sottrarre alla mente ogni pensiero, alla volontà ogni desiderio, alla memoria ogni ricordo, per lasciare alla mente il solo pensiero di Dio, alla volontà il solo desiderio di Dio e alla memoria il solo ricordo di Dio e di Cristo (la mneme Theou). Una lotta titanica contro i pensieri (logismoi), non solo quelli cattivi, ma anche quelli buoni. Esempio estremo di questa pace ottenuta con una guerra feroce, è rimasto nella tradizione monastica il monaco Arsenio il quale, alla domanda “che devo fare per salvarmi?”, si senti rispondere da Dio: “ Arsenio, fuggi, taci e mantieniti nella quiete” (alla lettera, pratica l’hesychia)[2].
Più tardi questa corrente spirituale darà luogo alla pratica della preghiera del cuore, o preghiera ininterrotta, tuttora largamente praticata nella cristianità orientale e di cui “I racconti di un pellegrino russo” sono l’esempio più suggestivo. All’inizio però non si identificava con essa. Era un modo per giungere alla perfetta tranquillità del cuore; non una tranquillità vuota e fine a se stessa, ma una tranquillità piena, simile a quella dei beati, un cominciare a vivere in terra la condizione dei santi in cielo.
La tradizione occidentale ha perseguito lo stesso ideale ma per altre vie, accessibili sia a quelli che praticano la vita contemplativa che a quelli che praticano una vita attiva. La riflessione comincia con Agostino. Egli dedica un libro intero del De civitate Dei a riflettere sulle diverse forme della pace, dando per ognuna una definizione che ha fatto scuola fino ai nostri giorni, tra cui quella classica della pace come “tranquillitas ordinis”, tranquillità dell’ordine.
Ma è soprattutto con quello che dice nelle Confessioni che Agostino ha influito nel delineare l’ideale della pace del cuore. Egli rivolge a Dio, all’inizio del libro una parola destinata ad avere una risonanza immensa in tutto il pensiero successivo: “Tu ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]. Più avanti egli illustra questa affermazione con l’esempio della gravità. Scrive:
“Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo, a motivo del suo peso, tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo… Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto”.[4]
Finché siamo su questa terra il luogo del nostro riposo è la volontà di Dio, l’abbandono ai suoi voleri. “Non si trova requie se non si consente alla volontà di Dio senza resistenza”[5]. Dante Alighieri riassumerà questo pensiero agostiniano nel suo celebre verso: “En la sua volontate è nostra pace”[6].
Solo in cielo questo luogo di riposo sarà Dio stesso. Agostino termina, perciò, la sua trattazione del tema della pace con un appassionato elogio della pace della Gerusalemme del cielo che vale la pena ascoltare per infiammarci anche noi del desiderio di essa:
“Vi è poi la pace finale […] In quella pace non è necessario che la ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma Dio dominerà l’uomo, l’anima spirituale il corpo e sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sottomissione, quanto è grande la delizia del vivere e dominare. E allora in tutti e singoli questa condizione sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene”.[7]
La speranza di questa pace eterna ha improntato tutta la liturgia dei defunti. Espressioni come “Pax”, “In pace Christi”, “Requiescat in pace” sono le più frequenti sulle tombe dei cristiani e nelle preghiere della Chiesa. La Gerusalemme celeste, con allusione all’etimologia del nome, è definita “beata pacis visio”[8], beata visione di pace.
3. La via della pace
La visione di Agostino della pace interiore come adesione alla volontà di Dio trova una conferma e un approfondimento nei mistici. Maestro Eckhart scrive: “Nostro Signore dice: ‘In me soltanto avrete pace’ (cf. Gv 16,33). Più si penetra in Dio, più si penetra nella pace. Chi ha ormai il suo io in Dio ha la pace; chi ha il suo io fuori di Dio non ha la pace”[9]. Non si tratta quindi soltanto di aderire alla volontà di Dio, ma di non avere altra volontà che quella di Dio, di morire del tutto alla propria volontà. La stessa cosa si legge, sotto forma di esperienza vissuta, in santa Angela da Foligno: “Successivamente la divina bontà, di due volontà, ne fece una sola, di modo che non posso volere se non come vuole Dio.[…] Non mi trovo più nella solita condizione, ma sono stata condotta a una pace, in cui sto con lui e sono contenta di ogni cosa”[10].
Uno sviluppo diverso, ascetico più che mistico, si ha con sant’Ignazio di Loyola con la sua dottrina della “santa indifferenza”.[11] Essa consiste nel porsi in uno stato di totale disponibilità ad accogliere la volontà di Dio, rinunciando, in partenza, a ogni preferenza personale, come una bilancia pronta a inclinarsi dal lato dove sarà il peso maggiore. L’esperienza della pace interiore diventa così il criterio principale in ogni discernimento. È da ritenersi conforme al volere di Dio, la scelta, che dopo prolungata ponderazione e preghiera, è accompagnata da maggior pace del cuore.
Nessuna sana corrente spirituale però, né in Oriente né in Occidente, ha mai pensato che la pace del cuore sia una pace a basso prezzo e senza sforzo. Provò a sostenerlo, nel medio evo, la setta “del libero Spirito” e nel secolo XVII, il movimento quietista, ma furono entrambi condannati dalla gerarchia e dalla coscienza della Chiesa. Per mantenere e accrescere la pace del cuore bisogna domare, momento per momento, specie agli inizi, una rivolta: quella della carne contro lo spirito.
Gesú lo aveva detto in mille modi: “Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso”, “chi ama la propria vita la perderà, chi perde la propria vita la troverà” (cf. Mc 8, 34-35). C’è una falsa pace che Gesú dice di essere venuto a togliere, non a portare sulla terra (cf. Mt 10, 34). Paolo tradurrà tutto questo in una specie di legge fondamentale della vita cristiana:
“Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio…. Se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rom 8, 5-13).
L’ultima frase contiene un insegnamento importantissimo. Lo Spirito Santo non è la ricompensa ai nostri sforzi di mortificazione, ma ciò che li rende possibili e fruttuosi; non è solo alla fine ma anche all’inizio del processo: “Se, mediante lo Spirito, fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. In questo senso si dice che la pace è frutto dello Spirito; essa è il risultato del nostro sforzo, reso possibile dallo Spirito di Cristo. Una mortificazione volontaristica e troppo fiduciosa di se stessa può diventare (e lo è diventata spesso) anch’essa un’opera della carne.
Tra coloro che hanno illustrato lungo i secoli questa via alla pace del cuore, spicca, per concretezza e realismo, l’autore della Imitazione di Cristo. Egli immagina una specie di dialogo tra il Maestro divino e il discepolo, come tra un padre e il proprio figlio:
Maestro:“Figlio mio, ora ti insegnerò la via della pace e della vera libertà”.
Discepolo: “Fa’, o Signore, come tu dici; mi è gradito ascoltare il tuo insegnamento”.
Maestro: “Studiati, o figlio, di fare la volontà di altri, piuttosto che la tua. Scegli sempre di aver meno, che più. Cerca sempre di avere il posto più basso e di essere inferiore a tutti. Desidera sempre, e prega, che in te si faccia interamente la volontà di Dio. Un uomo che faccia tali cose, ecco, entra nel regno della pace e della tranquillità”.
Un altro mezzo suggerito al discepolo è di evitare la vana curiosità:
“Figliolo, non essere curioso; non prenderti inutili affanni. Che t’importa di questo e di quello? «Tu seguimi » (Gv 21,22). Che ti importa che quella persona sia di tal fatta, o diversa, o quell’altra agisca e dica così e così? Tu non dovrai rispondere per gli altri; al contrario renderai conto per te stesso. Di che cosa dunque ti vai impicciando? Ecco, io conosco tutti, vedo tutto ciò che accade sotto il sole e so la condizione di ognuno: che cosa uno pensi, che cosa voglia, a che cosa miri la sua intenzione. Tutto deve essere, dunque, messo nelle mie mani. E tu mantieniti in pace sicura, lasciando che altri si agiti quanto crede, e metta agitazione attorno a sé: ciò che questi ha fatto e ciò che ha detto ricadrà su di lui, poiché, quanto a me, non mi può ingannare” [12].
4. “Pace perché in te ha fiducia”
Senza pretendere di sostituire questi mezzi ascetici tradizionali, la spiritualità moderna mette l’accento su altri mezzi più positivi per conservare la pace interiore. Il primo è la fiducia e l’abbandono in Dio. “Tu gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia”, si legge in Isaia (26, 3). Gesú, nel Vangelo, motiva il suo invito a non temere e a non essere in ansia per il domani, con il fatto che il Padre celeste sa di che abbiamo bisogno, lui che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo “ (cf. Mt 6, 5 ss).
Questa è la pace di cui è diventata maestra e modello Teresa di Gesú Bambino. Un esempio eroico di questa pace che viene dalla fiducia in Dio è stato anche il martire del nazismo Dietrich Bonhöffer. Mentre era in carcere e in attesa della esecuzione capitale, egli scrisse alcuni versi che sono diventati un inno liturgico in molti paesi anglosassoni:
Da forze amiche a meraviglia avvolti
attendiamo fiduciosi l’avvenire.
Dio è con noi di sera e di mattino,
sarà con noi in ogni giorno nuovo[13].
Il nome rivelato da Dio a Mosè, secondo alcuni grandi esegeti moderni (G. von Rad) non indica tanto l’essenza divina quanto la sua esistenza; non dovrebbe perciò tradursi “Colui che è”, l’Essere per se”, ma “Colui che c’è, che è con noi e per noi, “sempre vicino nelle angosce” (Sal 46,2). E’ l’affermazione che più ha colpito sulla bocca dell’attore che, nella settimana scorsa, ha commentato in TV i Dieci comandamenti, ma essa non è nuova e ha solide basi.
Uno studioso francescano, Eloi Leclerc, nel suo libro La saggezza d’un povero, racconta come Francesco d’Assisi ritrovò la pace in un momento di profondo turbamento. Era rattristato dalla resistenza di alcuni al suo ideale e sentiva il peso della responsabilità della numerosa famiglia che Dio gli aveva affidato. Partì dalla Verna e andò a San Damiano a trovare Chiara. Chiara lo ascoltò e per incoraggiarlo gli portò un esempio.
“Supponiamo che una delle nostre sorelle venisse da me a scusarsi d’aver rotto un oggetto. Ebbene, io le farei senza dubbio un’osservazione e le infliggerei, come d’uso, una penitenza. Ma se ella venisse a dirmi d’aver dato fuoco al convento e che tutto è bruciato o quasi, credo che in tal caso non avrei nulla da ribattere. Io mi sorprenderci sopraffatta da un avvenimento più grande di me. La distruzione del convento è un fatto troppo grande perché io possa esserne profondamente turbata. Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide”.
Francesco capì la lezione e rispose:
“L’avvenire di questa grande famiglia religiosa che il Signore ha affidato alle mie cure costituisce un fatto troppo importante perché possa dipendere da me solo e dalle mie deboli forze, sì ch’io ne resti turbato. È un fatto, questo, di Dio. Voi l’avete ben detto. Ma pregate che questa parola fiorisca in me come un seme di pace”[14].
Il Poverello tornò tra i suoi rasserenato, ripetendo a se stesso lungo la strada: “Dio c’è, e tanto basta! Dio c’è e tanto basta!” Non è un episodio storicamente documentato, ma interpreta bene, nello stile dei Fioretti, un momento della vita di Francesco e contiene una importante lezione.
Ma ci avviciniamo al Natale e io vorrei mettere in luce quello che credo sia il mezzo più efficace per conservare la pace del cuore e cioè la certezza di essere amati da Dio. “Pace in terra agli uomini che Dio ama”, alla lettera: “Pace in terra agli uomini del (divino) beneplacito (eudokia)” (Lc 2, 14). La Volgata traduceva tale termine con “buona volontà” (bonae voluntatis), intendendo con essa la buona volontà degli uomini, o gli uomini di buona volontà. Ma si tratta di una interpretazione errata, oggi riconosciuta da tutti come tale, anche se per rispetto alla tradizione, nel Gloria della Messa, si continua ancora, almeno in italiano, a dire “e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Le scoperte di Qumran hanno apportato la prova definitiva. “Uomini, o figli, della benevolenza” sono detti, a Qumran, i figli della luce, gli eletti della setta[15]. Si tratta dunque degli uomini che sono oggetto della benevolenza divina.
Presso gli esseni di Qumran “il divino beneplacito” discrimina; sono soltanto gli adepti della setta. Nel vangelo “gli uomini della divina benevolenza” sono tutti gli uomini, senza eccezione. È come quando si dice “gli uomini nati da donna”; non si intende dire che alcuni sono nati da donna e altri no, ma solo caratterizzare tutti gli uomini in base al loro modo di venire al mondo. Se la pace fosse accordata agli uomini per la loro “buona volontà”, allora sì che essa sarebbe limitata a pochi, a quelli che la meritano; ma siccome è accordata per la buona volontà di Dio, per grazia, essa è offerta a tutti.
“Assueta vilescunt”, dicevano i latini; le cose ripetute spesso sviliscono, perdono mordente, e questo succede purtroppo anche con le parole di Dio. Dobbiamo fare in modo che non succeda anche in questo Natale. Le parole di Dio sono come dei fili elettrici. Se ci passa dentro la corrente, a toccarli danno la scossa; se non ci passa nessuna corrente, o si hanno dei guanti isolanti, si possono maneggiare quanto si vuole, non danno nessuna scossa.
La potenza e la luce dello Spirito è sempre in atto, ma dipende da noi raccoglierla, mediante la fede, il desiderio e la preghiera. Che forza, che novità, contenevano quelle parole: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”, quando furono proclamate per la prima volta! Dobbiamo rifarci un orecchio vergine, l’orecchio dei pastori che l’udirono per primi e “senza indugio”, si misero in viaggio.
San Paolo ci indica un metodo per superare tutte le nostre ansietà e ritrovare ogni volta la pace del cuore, mediante la certezza di essere amati da Dio. Scrive:
“Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? […] Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati.” (Rom 8, 31-37)
La persecuzione, i pericoli, la spada: non si tratta di un elenco astratto o immaginario; sono i motivi di angoscia che egli ha sperimentato, di fatto, nella sua vita; li descrive ampiamente nella Seconda Lettera ai corinzi (cf 2 Cor 11, 23 ss). L’Apostolo li passa ora in rassegna nella sua mente e constata che nessuno di essi è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Dio. Implicitamente, l’Apostolo invita a fare lo stesso anche noi: a guardare la nostra vita, così come essa ci si presenta, a portare a galla le paure e i motivi di tristezza che vi si annidano e che non ci fanno accettare serenamente noi stessi: quel complesso, quel difetto fisico o morale, quell’insuccesso, quel ricordo penoso; esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio ci ama e concludere con l’Apostolo: “In tutte queste cose, posso essere più che vincitore, in virtù di colui che mi ha amato”.
Dalla sua vita personale, l’Apostolo passa, subito dopo, a considerare il mondo che lo circonda. Scrive:
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati; né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 37-39).
Egli osserva il “suo” mondo, con le potenze che lo rendevano allora minaccioso: la morte con il suo mistero, la vita presente con le sue lusinghe, le potenze astrali o quelle infernali che incutevano tanto terrore all’uomo antico. Siamo invitati, anche qui, a fare lo stesso: a guardare, alla luce dell’amore di Dio, il mondo che ci circonda e che ci fa paura. Quello che Paolo chiama l’“altezza” e la “profondità”, sono per noi ora l’infinitamente grande in alto e l’infinitamente piccolo in basso, l’universo e l’atomo. Tutto è pronto a schiacciarci; l’uomo è debole e solo in un universo tanto più grande di lui e divenuto, per giunta, ancora più minaccioso, in seguito alle sue scoperte scientifiche, alle guerre, alle malattie incurabili, oggi al terrorismo… Ma nulla di tutto ciò può separarci dall’amore di Dio. Dio c’è, e tanto basta!
Santa Teresa d’Avila, ci ha lasciato una specie di testamento, che è utile ripeterci ogni volta che abbiamo bisogno di ritrovare la pace del cuore: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; a chi ha Dio nulla gli manca. Solo Dio basta”[16].
Che il Natale del Signore, Santo Padre, Venerabili padri, fratelli e sorelle, sia davvero per noi, come diceva san Leone Magno, “il natale della pace”: con Dio, con il prossimo e nei nostri cuori!
*
NOTE
[1] Legenda dei tre compagni, 58 (Fonti Francescane, n.1469)
[2] Apophtegmi, Arsenio 1-2
[3] S. Agostino, Confessioni, I, 1.
[4] Ib. XIII, 9.
[5] S. Agostino, Adnotationes in Iob, 39
[6] Paradiso, 3, v.85
[7] S. Agostino, De civitate Dei, XIX, 27.
[8] Inno dell’ufficio della Dedicazione della Chiesa.
[9] Meister Eckhart, Prediche, 7 (Ed. J. Quint, Deutsche Werke, I,. Stuttgart 1936, p. 456)
[10] Il libro della Beata Angela, VII (ed. Quaracchi, 1985, p. 296).
[11] Cf. G. Bottereau, Indifference, in “Dictionnaire de Spiritualité , vol 7, coll. 1688 ss
[12] Imitazione di Cristo, III, 23-24.
[13] Von guten Mächten wunderbar geborgen /erwarten wir getrost, was kommen mag.
Gott ist mit uns am Abend und am Morgen / und ganz gewiss an jedem neuen Tag.
[14] E. Leclerc, La sagesse d’un pauvre, Paris, Desclée de Brouwer, 22e éd. 2007.
[15] Cf Inni, I QH, IV, 32 s, (XI, 9) (I manoscritti di Qumran, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino 1971, pp. 386 e 428).
[16] “Nada te turbe, nada te espante, todo se pasa, Dios no se muda; la paciencia todo lo alcanza; quien a Dios tiene nada le falta. Solo Diòs basta”.

SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO

TERZA PREDICA DI QUARESIMA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

23 Marzo 2012

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 23 marzo 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano.

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1. La fede termina alle cose
Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose1.
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà2. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”3. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purchè fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”4.
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium5. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”6. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”7.
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”8.
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”9
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione10. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.
Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:
“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”11.
dell’Anafora che porta il nome di san Basilio – che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio – non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito12.

4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”13.
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l’a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell’esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all’anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l’antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l’oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l’immagine dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell’archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”14.
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo – la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo. Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”15.
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito.  Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace;  infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo;  e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne;  perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”16.
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: « In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori! ». E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all’angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta « terra » e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: « In questo pezzo di pietra è nascosta l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo! » E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall’esterno, ma collaborano anch’essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:
« Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: ‘Guarda là!’, ma lui ri­sponde al suo pensiero: ‘No, non guardo!’, e spezza la sua volontà »17.
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: « Partecipa anche tu; di’ quello che sai. Ma tu ri­spondi: « No! ». E mortifichi l’uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”18.
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto –nota il Bouyer – che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”19. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

Terza Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap: « Vi annuncio una grande gioia »

http://www.zenit.org/article-34647?l=italian

« VI ANNUNCIO UNA GRANDE GIOIA »

Terza Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 21 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo integrale della Terza Predica di Avvento 2012, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.
***
“Vi annuncio una grande gioia”
Evangelizzare mediante la gioia
Dopo aver riflettuto sulla grazia dell’anno fede e sull’anniversario del Vaticano II, dedichiamo questa ultima meditazione di Avvento al terzo grande tema dell’anno, l’evangelizzazione. Il papa ha invitato la Chiesa a fare di questo anno l’occasione per riscoprire “la gioia dell’incontro con Cristo”, la gioia di essere cristiani. Facendomi eco di questa esortazione, parlerò di come evangelizzare attraverso la gioia. Lo faccio rimanendo il più possibile legato al tempo liturgico in atto, in modo che serva anche come preparazione al Santo Natale.
1. Il giubilo escatologico
Nei “vangeli dell’infanzia”, Luca, “mosso dallo Spirito Santo”, è riuscito non solo a presentarci dei fatti e dei personaggi, ma anche a ricreare l’atmosfera e lo stato d’animo con cui furono vissuti quei fatti. Uno degli elementi più evidenti di questo mondo spirituale è la gioia. La pietà cristiana non si è sbagliata, quando ha dato agli avvenimenti dell’infanzia di Gesù il nome di “misteri gaudiosi”, misteri della gioia.
A Zaccaria, l’angelo promette che avrà “gioia ed esultanza” per la nascita del figlio e che molti “si rallegreranno” per essa (cf Lc 1, 14). C’è un termine greco che, a partire da questo momento, ricomparirà sulla bocca dei vari personaggi come una specie di nota continua ed è il termine agallìasis che indica “il giubilo escatologico per l’irrompere del tempo messianico”. Al saluto di Maria, il bambino “esultò di gioia” nel seno di Elisabetta (Lc 1, 44), preannunciando, con ciò, la gioia dell’“amico dello sposo” per la presenza dello sposo (cf Gv 3, 29 s). Quella nota raggiunge un primo vertice nel grido di Maria: “Il mio spirito esulta (egallìasen) in Dio!” (Lc 1, 47); si diffonde nella gioia quieta degli amici e dei parenti intorno alla culla del Precursore (cf Lc 1, 58), per esplodere, infine, in tutta la sua forza, alla nascita di Cristo, nel grido degli angeli ai pastori: “Vi annuncio una grande gioia!” (Lc 2, 10).
Non si tratta solo di alcuni accenni sparsi alla gioia, ma piuttosto di un impeto di gioia calma e profonda che percorre i “vangeli dell’infanzia”, dall’inizio alla fine e si esprime in mille modi diversi: nello slancio con cui Maria si alza per recarsi da Elisabetta e i pastori per recarsi a vedere il Bambino, nei gesti umili e tipici della gioia che sono le visite, gli auguri, i saluti, le congratulazioni, i doni. Ma soprattutto si esprime nello stupore e nella gratitudine commossa di questi protagonisti: “Dio ha visitato il suo popolo! [...] Si è ricordato della sua santa alleanza!”. Ciò che tutti gli oranti avevano chiesto – che Dio si ricordasse delle sue promesse – ora è accaduto! I personaggi dei “vangeli dell’infanzia” sembrano muoversi e parlare nell’atmosfera di sogno cantata dal Salmo 126, il Salmo del ritorno dall’esilio:
“Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.
Allora si diceva tra i popoli:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia”.
Maria fa sua l’ultima espressione di questo Salmo, quando esclama: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente!”. Siamo davanti al più puro esempio di “sobria ebbrezza” dello Spirito. La loro è una vera “ebbrezza” spirituale, ma è “sobria”. Non si esaltano, non si preoccupano di avere un posto più o meno importante nell’incipiente regno di Dio. Non si preoccupano neppure di vedere la fine; Simeone, anzi, dice che ora il Signore può anche lasciare che egli se ne vada in pace, che scompaia. Quello che conta è che l’opera di Dio vada avanti, non importa se con loro o senza di loro.
2. Dalla liturgia alla vita
Passiamo ora dalla Bibbia e dalla liturgia alla vita. A ciò mira sempre la parola di Dio. L’intento dell’evangelista Luca non è solo di narrare, ma anche di coinvolgere gli uditori e trascinarli, come i pastori, in un corteo gioioso verso Betlemme. “Chi legge queste righe – commenta un esegeta moderno – è chiamato a condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli può essere all’altezza di questi testi”[1].
Questo spiega perché i vangeli dell’infanzia hanno così poco da dire a chi cerca in essi solo la storia, e hanno invece tanto da dire a chi vi cerca anche il significato della storia, come fa il Santo Padre nel suo ultimo volume su Gesù. Vi sono tanti fatti che sono accaduti, ma non sono “storici” nel senso pregnante del termine, perché non hanno lasciato traccia nella storia, non hanno creato nulla. Gli eventi relativi alla nascita di Gesù sono fatti “storici” nel senso più forte, perché non solo sono accaduti, ma hanno inciso – e in modo determinante – nella storia del mondo.
Ma torniamo al tema della gioia. Da che cosa nasce la gioia? La sua fonte ultima è Dio, la Trinità. Ma noi siamo nel tempo e Dio è nell’eternità; come può scorrere la gioia tra questi due piani così distanti? Difatti, se interroghiamo meglio la Bibbia, scopriamo che la scaturigine immediata della gioia è nel tempo: è l’agire di Dio nella storia. Dio che agisce! Nel punto in cui “cade” un’azione divina, si produce come una vibrazione e un’ondata di gioia che si propaga, poi, per generazioni, anzi – trattandosi di azioni consegnate nella Rivelazione –, per sempre.
L’agire di Dio è, ogni volta, un miracolo che riempie di stupore il cielo e la terra: “Esultate, cieli, perché il Signore ha agito – esclama il profeta –; giubilate, profondità della terra!” (Is 44, 23; 49, 13). La gioia che erompe dal cuore di Maria e degli altri testimoni degli inizi della salvezza si fonda tutta su questo motivo: Dio ha soccorso Israele! Dio ha agito! Ha fatto cose grandi!
Come può, questa gioia per l’agire di Dio, raggiungere la Chiesa di oggi e contagiarla? Lo fa, anzitutto, per via di memoria, nel senso che la Chiesa “ricorda” le opere meravigliose di Dio a suo favore. La Chiesa è invitata a fare sue le parole della Vergine: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente”. Il Magnificat è il cantico che Maria ha intonato per prima, come corifea, e ha lasciato alla Chiesa perché lo prolunghi nei secoli. Grandi cose ha fatto, in realtà, il Signore per la Chiesa, in questi venti secoli!
Noi abbiamo, in un certo senso, più ragioni oggettive per gioire, di quante ne avessero Zaccaria, Simeone, i pastori e, più in generale tutta la Chiesa nascente. Essa partiva “portando la semente da gettare”, come dice il Salmo 126 ricordato sopra; aveva ricevuto delle promesse: “Io sono con voi!” e delle consegne: “Andate in tutto il mondo!”. Noi abbiamo visto il compimento. Il seme è cresciuto, l’albero del Regno è divenuto immenso. La Chiesa di oggi è come il seminatore che “torna con giubilo, portando i suoi covoni”.
Quante grazie, quanti santi, quanta sapienza di dottrina e ricchezza di istituzioni, quanta salvezza operata in lei e attraverso di lei! Quale parola di Cristo non ha trovato il suo perfetto compimento? Ha trovato certo compimento la parola: “Nel mondo avrete tribolazione” (Gv 16, 33), ma l’ha trovato anche la parola: “Le porte degli inferi non prevarranno!” (Mt 16, 18).
Con quanta ragione la Chiesa può fare suo, dinanzi alle schiere senza numero dei suoi figli, lo stupore dell’antica Sion e dire: “Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di figli e sterile; questi chi li ha allevati?” (Is 49, 21). Chi, guardando indietro con gli occhi della fede, non vede adempiute perfettamente nella Chiesa le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme ricostruita dopo l’esilio: “Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano [...]. Le tue porte saranno sempre aperte, [...] per lasciare introdurre da te le ricchezze dei popoli” (Is 60, 4.11).
Quante volte la Chiesa ha dovuto allargare, in questi venti secoli – anche se non sempre ciò è avvenuto prontamente e senza resistenze –, lo “spazio della sua tenda”, cioè la capacità di accoglienza, per far entrare le ricchezze umane e culturali dei diversi popoli! A noi, figli della Chiesa che ci nutriamo “dall’abbondanza del suo seno”, è rivolto l’invito del profeta a rallegrarci per la Chiesa, a “sfavillare di gioia per essa”, dopo aver partecipato al suo lutto (cf Is 66, 10).
La gioia per l’agire di Dio raggiunge, dunque, noi credenti di oggi per via di memoria, perché vediamo le cose grandi che Dio ha fatto per noi in passato. Ma ci raggiunge anche in un altro modo non meno importante: per via di presenza, perché constatiamo che anche ora, al presente, Dio agisce in mezzo a noi, nella Chiesa.
Se la Chiesa di oggi vuole ritrovare, in mezzo a tutte le angustie e le tribolazioni che la stringono, le vie del coraggio e della gioia, deve aprire bene gli occhi su ciò che Dio sta compiendo oggi stesso in lei. Il dito di Dio, che è lo Spirito Santo, sta scrivendo ancora nella Chiesa e nelle anime e sta scrivendo storie meravigliose di santità, tali che un giorno – quando sarà scomparso nel nulla tutto il negativo e il peccato faranno, forse, guardare alla nostra epoca con stupore e santa invidia. Chiudiamo forse gli occhi, così facendo, ai tanti mali che affliggono la Chiesa e ai tradimenti di tanti suoi ministri? No, ma dal momento che il mondo e i suoi media non mettono in risalto, della Chiesa, che queste cose, è bene una volta sollevare lo sguardo e vedere anche il lato luminoso di essa, la sua santità.
In ogni epoca – anche nella nostra – lo Spirito dice alla Chiesa, come al tempo del Deuteroisaia: “Ora ti faccio udire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti. Ora sono create e non da tempo” (Is 48, 6-7). Non è una “cosa nuova e segreta” questo soffio potente dello Spirito che rianima il popolo di Dio e suscita in mezzo ad esso carismi di ogni genere, ordinari e straordinari? Questo amore per la parola di Dio? Questa partecipazione attiva dei laici alla vita della Chiesa e all’evangelizzazione? L’impegno costante del magistero e di tante organizzazioni a favore dei poveri e dei sofferenti e l’anelito a ricomporre l’unità spezzata del Corpo di Cristo? In quale epoca passata la Chiesa ha avuto una tale serie di Sommi Pontefici dotti e santi come da un secolo e mezzo a questa parte e tanti martiri della fede?
3. Un diverso rapporto tra gioia e dolore
Dal piano ecclesiale passiamo al piano esistenziale e personale. Qualche anno fa ci fu una campagna promossa dall’ala militante dell’ateismo, il cui slogan pubblicitario, affisso sui mezzi di trasporto pubblico di Londra, diceva: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life”.
L’elemento più insidioso di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste” (che è tutta da dimostrare), ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Bisogna dare una risposta a questa insinuazione che tiene lontani dalla fede soprattutto i giovani.
Gesù ha operato, a proposito della gioia, una rivoluzione di cui è difficile esagerare la portata e che ci può essere di grande aiuto nell’evangelizzazione.  È un pensiero che credo di avere già espresso in questa stessa sede, ma l’argomento lo richiede. Esiste un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un non so che di amaro – ha scritto il poeta pagano Lucrezio -  sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[2]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.
Cristo ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza  che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9).  La croce termina con il Venerdì Santo, la beatitudine e la gloria della Domenica di risurrezione si prolungano in eterno.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette perfino nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Anche per la liturgia, la solennità comincia con i vespri della vigilia. Che significa questo? Che senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio, è una notte (a volte, una “notte oscura”), ma termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.
Dobbiamo però prevenire una facile obiezione: la gioia è dunque solo per dopo la morte? Questa vita non è, per i cristiani, che una “valle di lacrime”? Al contrario, nessuno sperimenta in questa vita la vera gioia quanto i veri credenti. Si narra di un santo che un giorno gridò a Dio: “Basta con la gioia! Il mio cuore non ne può contenere di più”. I credenti, esorta l’Apostolo sono “spe gaudentes”, lieti nella speranza (Rom 12, 12), il che non significa solo che “sperano di essere felici” (s’intende, nell’al di là), ma anche che “sono felici di sperare”, felici già ora, grazie alla speranza.
La gioia cristiana è interiore; non viene dal di fuori, ma dal di dentro, come certi laghi alpini che si alimentano, non da un fiume che vi si getta dall’esterno, ma da una sorgente che zampilla nel suo stesso fondo. Nasce dall’agire misterioso e attuale di Dio nel cuore dell’uomo in grazia. Può far sì perciò che si abbondi di gioia anche nelle tribolazioni (cf 2 Cor 7, 4). È “frutto dello Spirito” (Gal 5, 22; Rom 14, 17) e si esprime in pace del cuore, pienezza di senso, capacità di amare e di lasciarsi amare e soprattutto in speranza, senza la quale non ci può essere gioia.
Nel 1972 il Consiglio d’Europa, su proposta di Herbert von Karajan, adottò come inno ufficiale dell’Europa unita l’inno alla gioia che conclude la Nona Sinfonia di Beethoven. Si tratta certamente di uno dei vertici della musica mondiale, ma la gioia cantata in esso è una gioia vagheggiata, non realizzata; è un grido che si leva dal cuore umano, più che una risposta ad esso.
Nell’ode di Schiller, da cui è tratto il testo dell’inno, si leggono parole inquietanti: “Chi ha avuto la gioia di possedere un amico o una buona moglie, chi ha conosciuto, non fosse che per un’ora sola, cos’è l’amore, questi si accosti pure; ma chi non ha conosciuto nulla di tutto ciò, ebbene che si allontani, piangendo, dalla nostra cerchia”. Come si vede, la gioia che gli uomini “bevono dai seni della natura” non è per tutti, ma solo per alcuni privilegiati della vita.
Siamo ben lontani dal linguaggio di Gesù che dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Il vero inno cristiano alla gioia è il Magnificat di Maria. Esso parla di una esultanza (agalliasis) dello spirito per quello che Dio ha fatto in lei e fa per tutti gli umili e gli affamati della terra.
4. Testimoniare la gioia
Questa la gioia che dobbiamo testimoniare. Il mondo cerca la gioia. “Al solo sentirla nominare – scrive sant’Agostino – tutti si drizzano e ti guardano, per così dire, nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno”[3]. Tutti vogliamo essere felici. È la cosa che accomuna tutti, buoni e cattivi. Chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non sarebbe cattivo, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice[4]. Se tutti amiamo la gioia è perché, in qualche modo misterioso, l’abbiamo conosciuta; se infatti non l’avessimo conosciuta – se non fossimo fatti per essa –, non l’ameremmo[5]. Questa nostalgia della gioia è il lato del cuore umano naturalmente aperto a ricevere il “lieto messaggio”.
Quando il mondo bussa alle porte della Chiesa – perfino quando lo fa con violenza e con ira – è perché cerca la gioia. I giovani soprattutto cercano la gioia. Il mondo intorno a loro è triste. La tristezza, per così dire, ci prende alla gola, a Natale più che nel resto dell’anno. Non è una tristezza che dipende dalla mancanza di beni materiali perché è molto più evidente nei paesi ricchi che in quelli poveri.
In Isaia leggiamo queste parole, rivolte al popolo di Dio: “Hanno detto i vostri fratelli che vi odiano e vi respingono a causa del mio nome: Mostri il Signore la sua gloria e voi fateci vedere la vostra gioia!” (Is 66, 5). La stessa sfida è rivolta, silenziosamente, al popolo di Dio, anche oggi. Una Chiesa malinconica e timorosa non sarebbe, perciò, all’altezza del suo compito; non potrebbe rispondere alle attese dell’umanità e soprattutto dei giovani.
La gioia è l’unico segno che anche i non credenti sono in grado di recepire e che può metterli seriamente in crisi. Non tanto i ragionamenti e i rimproveri. La testimonianza più bella che una sposa può dare al suo sposo è un volto che mostra la gioia, perché esso dice, da solo, che egli è stato capace di riempirle la vita, di renderla felice. Questa è anche la testimonianza più bella che la Chiesa può rendere al suo Sposo divino.
San Paolo, rivolgendo ai cristiani di Filippi quell’invito alla gioia che dà il tono a tutta la terza settimana di Avvento: “Rallegratevi nel Signore sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi!”, spiega anche come si può testimoniare, nella pratica, questa allegrezza: “La vostra affabilità – dice – sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4, 4-5). La parola “affabilità” traduce qui un termine greco (epieikès) che indica tutto un complesso di atteggiamenti fatto di clemenza, indulgenza, capacità di saper cedere, di non essere puntigliosi. (È lo stesso vocabolo da cui deriva la parola epicheia, usata nel diritto!).
I cristiani testimoniano, perciò, la gioia quando mettono in pratica queste disposizioni; quando, evitando ogni acredine e inutile risentimento nel dialogo con il mondo e tra loro, sanno irradiare fiducia, imitando, in tal modo, Dio, che fa piovere la sua acqua anche sugli ingiusti. Chi è felice, in genere, non è amaro, non sente il bisogno di puntualizzare tutto e sempre; sa relativizzare le cose, perché conosce qualcosa che è troppo più grande. Paolo VI, nella sua “Esortazione apostolica sulla gioia”, scritta negli ultimi anni del suo pontificato, parla di uno “sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d’uno spirito umano illuminato e dello Spirito Santo”[6].
Anche dentro la Chiesa, non solo verso quelli di fuori, c’è bisogno vitale della testimonianza della gioia. San Paolo diceva di sé e degli altri apostoli: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, ma siamo i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24). Che splendida definizione del compito dei pastori nella Chiesa! Collaboratori della gioia: coloro che infondono sicurezza alle pecorelle del gregge di Cristo, i valorosi capitani che, con il solo loro sguardo tranquillo, rincuorano i soldati impegnati nella lotta.
In mezzo alle prove e alle calamità che affliggono la Chiesa, specialmente in alcune parti del mondo, i pastori possono ripetere, anche oggi, quelle parole che Neemia, un giorno, dopo l’esilio, rivolse al popolo d’Israele affranto e in lacrime: “Non fate lutto e non piangete [...], perché la gioia del Signore è la vostra forza!” (Ne 8, 9-10).
Che la gioia del Signore, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, sia davvero, la nostra forza, la forza della Chiesa. Buon Natale!
*
NOTE
[1] H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, , I, Paideia, Brescia 1983, p. 172.
[2] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
[3] Agostino, De ordine, I, 8, 24.
[4] Cf Id., Sermone 150, 3, 4 (PL 38, 809).
[5] Cf Id., Confessioni, X, 20.
[6] Paolo VI, Gaudete in Domino, in “L’Osservatore Romano”, 17 maggio 1975.

Publié dans:PADRE CANTALAMESSA - PREDICHE |on 21 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Seconda Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa (sul Concilio V. II)

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IL CONCILIO VATICANO II: 50 ANNI DOPO. UNA CHIAVE DI LETTURA

Seconda Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 14 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della Seconda Predica di Avvento 2012, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.
***
1. Il Concilio: l’ermeneutica della rottura e quella della continuità
In questa meditazione vorrei riflettere sul secondo grande motivo di celebrazione di questo anno: il cinquantesimo anniversario dell’inizio del concilio Vaticano II.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i tentativi di tracciare un bilancio  dei risultati del concilio Vaticano II [1]. Non è il caso di proseguire in questa linea, né, d’altra parte, il tempo a disposizione lo permetterebbe.  Parallelamente a queste letture analitiche, c’è stato, fin dagli anni stessi del Concilio, il tentativo di una valutazione sintetica, la ricerca, in altre parole, di una chiave di lettura dell’evento conciliare. Io vorrei inserirmi in questo sforzo e tentare, addirittura, una lettura delle diverse chiavi di lettura.
Esse sono state sostanzialmente tre: aggiornamento, rottura, novità nella continuità. Nell’annunciare al mondo il concilio Giovanni XXIII usò ripetutamente la parola “aggiornamento”, che, grazie a lui, è entrata nel vocabolario universale. Nel discorso di apertura del Concilio diede una prima spiegazione di ciò che intendeva con questo termine:
“Il ventunesimo Concilio Ecumenico vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica […].Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli […]. Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”[2].
A mano a mano però che i lavori e le sessioni del Concilio progredivano, si delinearono due schieramenti opposti a seconda che, delle due esigenze espresse dal papa, si accentuava la prima o la seconda: cioè la continuità con il passato o la novità rispetto ad esso. In seno a questi ultimi, la parola aggiornamento finì per essere sostituita dalla parola rottura. Ma con uno spirito e con intenti ben diversi, a seconda del proprio orientamento. Per l’ala cosiddetta progressista, si trattava di una conquista da salutare con entusiasmo; per il fronte opposto, si trattava di una tragedia per l’intera Chiesa.
Tra questi due fronti  – concordi nell’affermazione del fatto, ma opposti nel giudizio su di esso – si colloca la posizione del Magistero papale che parla di “novità nella continuità”. Paolo VI, nella Ecclesiam suam riprende la parola “aggiornamento” di Giovanni XXIII e dice di volerla tenere presente come “indirizzo programmatico”[3]. All’inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II ribadì il giudizio del suo predecessore [4] e in più occasioni si espresse nella stessa linea. Ma è stato soprattutto l’attuale Sommo Pontefice Benedetto XVI a spiegare cosa intende il Magistero della Chiesa per “novità nella continuità”. Lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, nel noto discorso programmatico alla Curia romana del 22 Dicembre 2005. Ascoltiamone alcuni passaggi:
“Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. […] All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”.
Il papa ammette che una certa discontinuità e  rottura c’è stata, ma essa non riguarda i principi e le verità di base della fede cristiana, ma alcune decisioni storiche. Tra queste annovera la situazione di conflittualità creatasi tra la Chiesa e il mondo moderno, culminata nella condanna in blocco della modernità sotto Pio IX, ma anche situazioni più recenti, come quella creata dagli sviluppi della scienza, dal nuovo rapporto tra le religioni con le implicazioni che esso ha per il problema della libertà di coscienza; non ultimo, la tragedia della Shoa che imponeva un ripensamento dell’atteggiamento verso il popolo ebraico.  Scrive:
“È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.
Se dal piano assiologico, cioè dei principi e dei valori, passiamo al piano cronologico, potremmo dire che il Concilio rappresenta una rottura e una discontinuità rispetto al passato prossimo della Chiesa e rappresenta invece una continuità rispetto al suo passato remoto. In molti punti, soprattutto sul punto centrale che è l’idea di Chiesa, il concilio ha voluto operare un ritorno alle origini, alle fonti bibliche e patristiche della fede.
La lettura del Concilio fatta propria dal Magistero, quella cioè della novità nella continuità, aveva avuto un precursore illustre nel “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” del cardinal Newman, definito spesso, anche per questo, “il Padre assente del Vaticano II”. Newman dimostra che, quando si tratta di una grande idea filosofica o una credenza religiosa, come è il cristianesimo,
“non si può giudicare dai suoi inizi quelle che sono le sue virtualità e le mete a cui tende. […]. A seconda delle nuove relazioni che essa si trova ad avere, sorgono pericoli e speranze e principi antichi riappaiono sotto forma nuova. Essa muta insieme a loro per restare sempre identica a se stessa. In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”[5]
San Gregorio Magno anticipava, in qualche modo, questa convinzione quando affermava che la Scrittura “cum legentibus crescit”, “cresce con coloro che la leggono”[6]; cioè, cresce a forza di essere letta e vissuta, a misura che sorgono nuove domande e nuove sfide dalla storia. La dottrina della fede muta, dunque, ma per restare fedele a se stessa; muta nelle contingenze storiche, per non mutare nella sostanza, come diceva Benedetto XVI.
Un esempio banale, ma indicativo è quello della lingua. Gesù parlava la lingua del suo tempo; non l’ebraico che era la lingua nobile e delle Scritture (il latino del tempo!), ma l’aramaico parlato dalla gente. La fedeltà a questo dato iniziale non poteva consistere, e non consistette,  nel continuare a parlare in aramaico ai tutti i futuri ascoltatori del vangelo, ma nel parlare greco ai Greci, latino ai Latini, armeno agli Armeni, copto ai Copti, e così di seguito fino ai nostri giorni.  Come diceva Newman, è proprio mutando che spesso si è fedeli al dato originario.
2. La lettera uccide, lo Spirito da la vita
Con tutto il rispetto e l’ammirazione dovuti all’immenso e pionieristico contributo del cardinal Newman, a distanza di un secolo e mezzo dal suo saggio e con quello che la cristianità ha vissuto nel frattempo, non si può, tuttavia, non rilevare anche una lacuna nello svolgimento del suo argomento: la quasi totale assenza dello Spirito Santo. Nella dinamica di sviluppo della dottrina cristiana, non si tiene sufficiente conto del ruolo preminente che Gesù aveva riservato al Paraclito nel rivelare ai discepoli quelle verità di cui essi non potevano ancora “portare il peso” e nel condurli “alla verità tutta intera” (Gv. 16,12-13).
Che cos’é che permette di risolvere il paradosso e parlare di novità nella continuità, di permanenza nel cambiamento, se non appunto l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa?  Lo aveva capito perfettamente sant’Ireneo quando afferma che la rivelazione è  come un “deposito prezioso contenuto in un vaso di valore che, grazie allo Spirito di Dio,  ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [7]. Lo Spirito Santo non dice parole nuove, non crea nuovi sacramenti, nuove istituzioni, ma rinnova e vivifica perennemente le parole, i sacramenti e le istituzioni create da Gesù. Non fa cose nuove, ma fa nuove le cose!
L’insufficiente attenzione al ruolo dello Spirito Santo spiega molte delle difficoltà createsi nella recezione del Concilio Vaticano II. La Tradizione, in nome della quale alcuni hanno rifiutato il concilio, era una Tradizione dove lo Spirito Santo non giocava alcun ruolo. Era un insieme di credenze e di pratiche fissato una volta per tutte, non l’onda della predicazione apostolica che avanza e si propaga nei secoli e, come ogni onda, non si può cogliere se non in movimento. Congelare la Tradizione e farla partire, o terminare, a un certo punto, significa farne una morta tradizione e non come la definisce Ireneo una “vivente Tradizione”. Charles Péguy esprime, da poeta, questa grande verità teologica:
“Gesù non ci ha dato delle parole morte
Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (O in grandi)
E che dobbiamo conservare in olio rancido…
Come le mummie d’Egitto.
Gesù Cristo non ci ha dato delle conserve di parole da conservare.
Ma ci ha dato delle parole vive da nutrire…
È da noi che dipende, infermi e carnali,
Di far vivere e di nutrire e mantenere vive nel tempo
Quelle parole pronunciate vive nel tempo”[8].
Bisogna dire subito però che sul fronte dell’opposto estremismo le cose non andavano diversamente. Qui si parlava volentieri dello “spirito del Concilio”, ma non si trattava, purtroppo, dello Spirito Santo. Per “spirito del Concilio si intendeva quel di più di slancio, di coraggio innovativo, che non sarebbe potuto entrare nei testi del Concilio a causa delle resistenze di alcuni e del necessario compromesso tra le parti.
Vorrei ora cercare di illustrare quella che a me sembra la vera chiave di lettura pneumatica del Concilio, cioè qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’attuazione del Concilio. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino a proposito del detto paolino sulla lettera e lo Spirito (2 Cor 3,6), san Tommaso d’Aquino scrive:
“Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[9].
Nello stesso contesto, il santo Dottore afferma: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[10]. I precetti del Vangelo sono anch’essi la legge nuova, ma in senso materiale, quanto al contenuto; la grazia dello Spirito Santo è la legge nuova in senso formale, in quanto dà la forza di mettere in pratica gli stessi precetti evangelici. È quella che Paolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8, 2).
Questo è un principio universale che si applica a ogni legge. Se perfino i precetti evangelici, senza la grazia dello Spirito Santo, sarebbero “lettera che uccide”, cosa dire dei precetti della Chiesa, e cosa dire, nel nostro caso, dei decreti del Concilio Vaticano II? La “implementazione”, o l’attuazione del Concilio non avviene dunque recto tramite, non bisogna cercarla nell’applicazione letterale e quasi meccanica del Concilio, ma “nello Spirito”, intendendo con ciò lo Spirito Santo e non un vago “spirito del concilio” aperto a ogni soggettivismo. Il Magistero papale è stato il primo a riconoscere questa esigenza. Giovanni Paolo II, nel 1981, scriveva:
“Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato – rinnovamento che deve essere ad un tempo «aggiornamento» e consolidamento in ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa – non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza”[11].
3. Dove cercare i frutti del Vaticano II
C’è stata, nella realtà, questa sospirata “nuova Pentecoste”?  Un  noto studioso di Newman, Ian Ker, ha messo in luce il contributo che egli può dare, oltre che alla comprensione dello svolgimento del Concilio, anche alla comprensione del post-Concilio[12]. A seguito della definizione dell’infallibilità papale nel Concilio Vaticano I nel 1870, il cardinal Newman fu indotto a fare una riflessione generale sui concili e sul senso delle loro definizioni. La sua conclusione fu che i concili possono avere spesso effetti non intesi sul momento da quelli che vi parteciparono. Questi vi possono vedere molto di più, o molto di meno, di quello che in seguito tali decisioni produrranno.
In questo modo, Newman non faceva che applicare alle definizioni conciliari il principio dello sviluppo che aveva illustrato a proposito della dottrina cristiana in genere. Un dogma, come ogni grande idea, non si comprende appieno se non dopo che se ne sono viste le conseguenze e gli sviluppi storici. Dopo che il fiume –per usare la sua immagine – dal terreno accidentato che l’ha visto nascere, scendendo, trova infine il suo letto più ampio e profondo[13]. Successe così alla definizione dell’infallibilità papale che nel clima acceso del momento sembrò a molti contenere molto di più di quello che di fatto la Chiesa e il papa stesso desunsero da essa. Essa non rese ormai inutile ogni futuro concilio ecumenico, come qualcuno sul momento temette o sperò; il Vaticano II ne è la conferma[14].
Tutto ciò trova una singolare conferma nel principio ermeneutico di Gadamer della “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), secondo cui per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa[15]. È quello che avviene in modo esemplare nella lettura spirituale della Scrittura. Essa non spiega il testo solo alla luce di ciò che lo ha preceduto, come fa la lettura storico-filologica con la ricerca delle fonti, ma anche alla luce di ciò che lo ha seguito, spiega la profezia alla luce della sua realizzazione in Cristo, l’Antico testamento alla luce del Nuovo.
Tutto questo getta una singolare luce sul tempo del post-Concilio. Anche qui le vere realizzazioni si collocano forse da una parte diversa da quella dove noi guardavamo. Noi guardavamo al cambiamento nelle strutture e istituzioni, a una diversa distribuzione del potere, alla lingua da usare nella liturgia, e non ci accorgevamo di quanto queste novità fossero piccole in confronto a quella che lo Spirito Santo stava operando. Abbiamo pensato di rompere con le nostre mani gli otri vecchi, mentre Dio ci offriva il suo metodo di rompere gli otri vecchi che consiste nel mettere in essi il vino nuovo.
Alla domanda se c’è stata una nuova Pentecoste, si deve rispondere senza esitazione: Sì! Quale ne è il segno più convincente? Il rinnovamento della qualità della vita cristiana, là dove tale Pentecoste è stata accolta. Il fatto dottrinalmente più qualificante del Vaticano II sono i primi due capitoli della Lumen gentium, nei quali si definisce Chiesa come sacramento e come popolo di Dio in cammino sotto la guida dello Spirito Santo, animata dai suoi carismi, sotto la guida della gerarchia. La Chiesa, insomma, come  mistero e istituzione; come koinonia, prima che gerarchia. Giovanni Paolo II ha rilanciato questa visione facendo della sua attuazione l’impegno prioritario al momento di entrare nel nuovo millennio” [16].
Ci domandiamo: dov’è che questa immagine di Chiesa dai documenti è passata alla vita? Dov’è che essa ha preso “carne e sangue”[17]? Dov’è che la vita cristiana è vissuta secondo “la legge dello Spirito”, con gioia e convinzione, per attrazione e non per costrizione? Dov’è che la parola di Dio è tenuta in sommo onore, si manifestano i carismi, è più sentita l’ansia per una nuova evangelizzazione e per l’unità dei cristiani?
Trattandosi di un fatto interiore che avviene nel cuore delle persone, la risposta ultima a queste domande la conosce solo Dio. Dovremmo ripetere, a proposito della nuova Pentecoste, quello che Gesù diceva del regno di Dio: “Nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché il regno di Dio è in mezzo voi” (Lc 17, 21). Possiamo tuttavia cogliere dei segni, aiutati anche dalla sociologia religiosa che si occupa di queste cose. Da questo punto di vista, la risposta che da più parti si da a quella domanda è: nei movimenti ecclesiali!
Bisogna precisare subito una cosa. Dei movimenti ecclesiali, fanno parte, nella sostanza se non nella forma, anche quelle parrocchie, associazioni di fedeli e nuove comunità, nelle quali si vive la stessa koinonia e la stessa qualità di vita cristiana. Da questo punto di vista, movimenti e parrocchie non vanno visti in opposizione o in concorrenza tra di loro, ma unite nella realizzazione, in modo diverso, di uno stesso modello di vita cristiana. Tra di esse vanno annoverate anche talune delle cosiddette “comunità di base, quelle in cui il fattore politico non ha preso il sopravvento su quello religioso.
Si deve insistere sul corretto nome: movimenti “ecclesiali”, non movimenti “laicali”. La maggioranza di essi sono formati, non da una sola, ma da tutte le componenti ecclesiali: laici, certo, ma anche vescovi, sacerdoti, religiosi, suore.  Rappresentano l’insieme dei carismi, il “popolo di Dio” della Lumen gentium. È solo per ragioni pratiche (perché esiste già la Congregazione del clero e quella dei religiosi) se di essi si occupa il “Pontificio Consiglio dei laici”.
Giovanni Paolo II vedeva in questi movimenti e comunità parrocchiali vive “i segni di una nuova primavera della Chiesa”[18]. Nello stesso senso si è espresso, in diverse occasioni, Papa Benedetto XVI [19]. Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012 ha detto:
 “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.
Parlando dei segni di una nuova Pentecoste, non si può fare a meno di menzionare in particolare, se non altro per la vastità del fenomeno, il Rinnovamento carismatico, o Rinnovamento nello Spirito, anche se esso non è, propriamente parlando, un movimento ecclesiale nel senso sociologico del termine (non ha un fondatore, una struttura, una spiritualità propria), ma è piuttosto una corrente di grazia destinata a disperdersi nella Chiesa come una scarica elettrica nella massa.
Quando, per la prima volta, nel 1973, uno degli artefici maggiori del Vaticano II, il cardinal Suenens, sentì parlare  del fenomeno, stava scrivendo un libro intitolato “Lo Spirito Santo – fonte delle nostre speranze”, ed ecco cosa racconta nelle sue memorie:
“Smisi di scrivere il libro. Pensai che era una questione della più elementare coerenza prestare attenzione all’azione dello Spirito Santo, per quanto essa potesse manifestarsi in modo sorprendente. Ero particolarmente interessato dalla notizia del risveglio dei carismi, dal momento che il Concilio aveva invocato un tale risveglio”.
Ed ecco cosa scrisse dopo aver costatato di persona e vissuto dal di dentro tale esperienza, condivisa ora da milioni di altre persone:
“Improvvisamente, san Paolo e gli Atti degli apostoli sembrano  diventare vivi e divenire parte del presente; quello che era autenticamente vero nel passato, sembra accadere di nuovo sotto i nostri occhi. È una scoperta della vera azione dello Spirito Santo che è sempre all’opera, come Gesù stesso ha promesso. Egli mantiene la sua parola. È di nuovo una esplosione dello Spirito di Pentecoste, una gioia che era diventata sconosciuta alla Chiesa”[20].
I movimenti ecclesiali e le nuove comunità non esauriscono certo tutte le potenzialità e le attese di rinnovamento del Concilio, ma rispondono alla più importante di esse, almeno agli occhi di Dio. Essi non sono esenti da debolezze e a volte anche da derive parziali; ma quale altra grande novità  è apparsa nella storia della Chiesa senza sbavature umane? Non avvenne la stessa cosa quando, nel secolo XIII, apparvero gli ordini mendicanti? Anche allora furono i pontefici romani, soprattutto Innocenzo III, a riconoscere ed accogliere per primi la grazia del momento e ad incoraggiare il resto dell’episcopato a fare altrettanto.
4. Una promessa adempiuta
Allora, qual è, ci domandiamo, il significato del Concilio, inteso come l’insieme dei documenti da esso prodotti, la Dei Verbum, la Lumen gentium, Gaudium et spes, Nostra aetate,  ecc.? Li lasceremo da parte per attenderci tutto dallo Spirito? La risposta è contenuta nella frase con cui Agostino riassume il rapporto tra la legge e la grazia: “È stata data la legge perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [21]. Lo Spirito non dispensa dunque dal valorizzare  anche la lettera, cioè i decreti, del Vaticano II; al contrario, è proprio lui che spinge a studiarli e a metterli in pratica. E difatti, fuori dell’ambito scolastico e accademico dove essi sono materia di discussione e di studio, è proprio nelle realtà ecclesiali ricordate sopra che essi sono tenuti in maggiore considerazione.
L’ho sperimentato su me stesso. Io mi sono liberato dai pregiudizi contro gli ebrei e contro i protestanti, assorbiti negli anni della formazione, non per aver letto Nostra aetate, ma per aver fatto anch’io, nel mio piccolo e per merito di alcuni fratelli, l’esperienza della nuova Pentecoste. Dopo ho sentito il bisogno di rileggere Nostrae aetate, come ho riletto la Dei Verbum dopo che lo Spirito ha fatto nascere in me un amore nuovo per la parola di Dio e per l’evangelizzazione. Il movimento però può essere nei due sensi: alcuni  – per usare il linguaggio di Agostino – dalla lettera sono indotti a cercare lo Spirito, altri dallo Spirito sono spinti ad osservare la lettera.
Il poeta Thomas S. Eliot ha scritto dei versi che ci possono illuminare sul senso delle celebrazioni in atto per i 50 anni del Vaticano II:
“Non dobbiamo arrestarci nella nostra esplorazione
E il termine del nostro esplorare
Sarà arrivare là donde siamo partiti
E conoscere il luogo per la prima volta” [22]
Dopo tante esplorazioni e controversie, siamo ricondotti anche noi là da dove siamo partiti, cioè all’evento del Concilio. Ma tutto il lavorio intorno ad esso non è stato vano perché, nel senso più profondo, solo ora noi siamo in grado di “conoscere il luogo per la prima volta”, cioè di valutarne il vero significato, sconosciuto agli stessi Padri del concilio.
Questo permette di dire che l’albero cresciuto dal concilio è coerente con il seme da cui è nato. Da che cosa è nato infatti l’evento del Vaticano II? Le parole con cui Giovanni XXIII descrive la commozione che accompagnò  “l’improvviso fiorire nel suo cuore e dalle sue labbra della semplice parola concilio”[23], hanno tutti i segni di una ispirazione profetica.  Nel discorso di chiusura della prima sessione egli parlò del concilio come  di “una nuova desiderata Pentecoste, che arricchirà abbondantemente la Chiesa di energie spirituali”[24].
A 50 anni di distanza non possiamo che costatare il compimento da parte di Dio della promessa fatta alla Chiesa per bocca del suo umile servitore, il beato Giovanni XXIII.  Se ci sembra che parlare di una nuova Pentecoste, sia per lo meno esagerato, visti tutti i problemi e le controversie sorti nella Chiesa dopo e a causa del Concilio, non dobbiamo far altro che andare a rileggerci gli Atti degli apostoli e costatare come problemi e controversie non mancarono neppure dopo la prima Pentecoste. E non meno accesi di quelli di oggi!

NOTE SUL SITO

L’ANNO DELLA FEDE E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (prediche di Avvento P. Cantalamessa)

http://www.zenit.org/article-34375?l=italian

L’ANNO DELLA FEDE E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

Prima Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito il testo della Prima Predica di Avvento 2012, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.
***
L’ANNO DELLA FEDE,
e il catechismo della Chiesa Cattolica
1. Il libro “mangiato”
Nella predicazione alla Casa Pontificia, cerco di farmi guidare, nella scelta dei temi, dalle grazie o dalle ricorrenze speciali che la Chiesa vive in un dato momento della sua storia. Di recente abbiamo avuto l’apertura dell’anno della fede, il cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II e il Sinodo per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana. Ho pensato perciò di svolgere in Avvento una riflessione su ognuno di questi tre eventi.
Comincio con l’anno della fede. Per non smarrirmi in un tema, la fede, che è vasto come il mare,  mi concentro su un punto della lettera “Porta fidei” del Santo Padre, precisamente là dove esorta caldamente a fare del  Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui, tra l’altro, ricorre quest’anno il ventesimo anniversario di pubblicazione) lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la grazia di questo anno. Scrive il papa nella sua lettera:
“L’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”[1].
Non parlerò certo del contenuto del CCC, delle sue ripartizioni, criteri informativi; sarebbe come voler spiegare la Divina Commedia a Dante Alighieri.  Piuttosto vorrei sforzarmi di mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori. La passione secondo Matteo di Bach rimase per quasi due secoli una partitura scritta, conservata in archivi musicali, finché nel 1829 Felix Mendelssohn  ne allestì a Berlino una esecuzione  magistrale e da quel giorno il mondo seppe che melodie e cori sublimi erano racchiusi in quelle pagine rimaste fino allora mute.
Sono realtà diverse, è vero, ma qualcosa del genere avviene con ogni libro che parla della fede, compreso il CCC: si deve passare dalla partitura all’esecuzione, dalla pagina muta a qualcosa di vivo che fa vibrare l’anima. La visione di Ezechiele della mano tesa che porge un rotolo ci aiuta a capire cosa si richiede perché questo avvenga:
“Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai. Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele” (Ez 2,9-3,3).
Il Sommo Pontefice è  la mano che, in quest’anno, porge di nuovo alla Chiesa il CCC, dicendo a ogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”. Che significa mangiare un libro? Non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne e sangue del proprio sangue, “assimilarlo”, come si fa materialmente con il cibo che mangiamo. Trasformarlo da fede studiata in fede vissuta.
Questo non è possibile farlo con tutta la mole del libro, e con tutte e singole le cose in esso contenute. Non è possibile farlo analiticamente, ma solo sinteticamente. Mi spiego. Bisogna cogliere il principio che informa e unifica il tutto, insomma il cuore pulsante del CCC. E cos’è questo cuore? Non è un dogma, o una verità, una dottrina o un principio etico; è una persona: Gesù Cristo! “Pagina dopo pagina –scrive il Santo Padre a proposito del CCC, nella stessa lettera apostolica – si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa”.
Se tutta la Scrittura, come afferma Gesù stesso, parla di lui (cf. Gv 5,39), se essa è gravida di Cristo e si riassume tutta quanta in lui, potrebbe essere diversamente per il CCC che, della stessa Scrittura, vuole essere una esposizione sistematica, elaborata dalla Tradizione, sotto la guida del Magistero?
Nella Parte prima, dedicata alla fede, il CCC ricorda il grande principio di san Tommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà” (Fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem”)[2]. Ora, qual è la realtà, la “cosa” ultima della fede? Dio, certamente! Non, però, un dio qualsiasi che ognuno si raffigura a suo gusto e piacimento, ma  il Dio che si è rivelato in Cristo, che si “identifica” con lui al punto di poter dire: “Chi vede me vede il Padre” e “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Quando diciamo fede “in Gesù Cristo” non stacchiamo il Nuovo dall’Antico Testamento, non facciamo iniziare la vera fede con la venuta in terra di Cristo. Se così fosse, escluderemmo dal numero dei credenti lo stesso Abramo che chiamiamo “nostro padre nella fede” (cf. Rom 4,16). Identificando il Padre suo con “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Mt 22, 32) e  con il Dio “della legge e dei profeti” (Mt 22, 40), Gesù ha autenticato la fede ebraica, ne ha mostrato il carattere profetico, affermando che è di lui che essi parlavano (cf. Lc 24, 27. 44; Gv 5, 46). È questo che rende la fede ebraica diversa, agli occhi dei cristiani, da ogni altra fede e che giustifica la statuto speciale di cui gode, dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con gli ebrei rispetto a quello con altre religioni.
2. Kerygma e didachè
All’inizio della Chiesa era chiara la distinzione tra kerygma e didaché. Il kerygma, che Paolo chiama anche “il vangelo”, riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte e risurrezione, e consisteva in formule brevi di fede, come quella che si deduce dal discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e lo ha costituito Signore” (cf. Atti 2, 23-36), oppure: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Rom 10,9).
La didaché indicava invece l’insegnamento successivo alla venuta alla fede, lo sviluppo e la formazione completa del credente.  Si era convinti (Paolo soprattutto) che la fede, come tale, sbocciava solo in presenza del kerygma. Esso non era un riassunto della fede o una parte di essa, ma il seme da cui nasce tutto il resto. Anche i 4 Vangeli furono scritti dopo, precisamente per spiegare il kerygma.
Anche il più antico nucleo del credo riguardava Cristo, di cui metteva in luce la duplice componente, umana e divina. Un esempio di esso è ritenuto il versetto della Lettera ai Romani che parla di Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,  dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,3-4). Ben presto questo nucleo primitivo, o credo cristologico, venne inglobato in un contesto più ampio, come il secondo articolo del simbolo di fede. Nascono, anche per esigenze legate al battesimo, i simboli trinitari giunti fino a noi.
Questo processo fa parte di quello che Newman chiama “lo sviluppo della dottrina cristiana”; è un arricchimento, non un allontanamento dalla fede originaria. Sta a noi oggi –in primo luogo ai vescovi, ai predicatori, ai catechisti – far risaltare il carattere “a parte” del kerygma come momento germinativo della fede. In un’opera lirica, per riprendere l’immagine musicale, c’è il recitativo e c’è il cantato e nel cantato ci sono gli “acuti” che scuotono l’uditorio e provocano emozioni forti, a volte anche brividi.  Ora sappiamo qual è l’acuto di ogni catechesi.
La nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevano davanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi, almeno per certi versi e in certi ambienti, un mondo post-cristiano da rievangelizzare. Dobbiamo ritornare al loro metodo, riportare alla luce “la spada dello Spirito” che è l’annuncio, in Spirito e potenza, di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom 4,25).
Il kerygma non è però solo l’annuncio di alcuni fatti o verità di fede ben precisi; è anche un certo clima spirituale che si può creare qualunque cosa si dica, uno sfondo sul quale tutto si colloca.  Sta all’annunciatore, mediante la sua fede, permettere allo Spirito Santo di creare questa atmosfera.
Qual è allora, ci chiediamo, il senso del CCC? Lo stesso di quello che nella chiesa apostolica era la didachè: formare la fede, darle un contenuto, mostrarne le esigenze etiche e pratiche, portare la fede a rendersi “operante nella carità” (cf. Gal 5,6). Lo mette bene in luce un paragrafo dello stesso CCC. Dopo aver ricordato il principio tomistico che “la fede non termina nelle formulazioni, ma nella realtà”, esso aggiunge:
“Tuttavia, queste realtà noi le accostiamo con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverne più intensamente”[3].
In questo appare l’importanza della terza “C” del titolo “Catechismo della Chiesa Cattolica”, cioè dell’aggettivo “cattolica”. La forza di alcune Chiese non cattoliche è di puntare tutto sul momento iniziale, la venuta alla fede, l’adesione al kerygma e l’accettazione di Gesù come Signore, visto come un “nascere di nuovo”, o come “seconda conversione”. Ma questo può divenire un limite se ci si ferma ad esso e tutto continua a ruotare intorno ad esso.
Noi cattolici abbiamo da imparare qualcosa da tali chiese, ma abbiamo anche tanto da dare. Nella Chiesa cattolica tutto ciò è l’inizio, non la fine della vita cristiana. Dopo quella decisione, si apre il cammino verso la crescita e la pienezza della vita cristiana e, grazie alla sua ricchezza sacramentale, al magistero, all’esempio di tanti santi, la chiesa cattolica è in una situazione privilegiata per condurre i credenti alla perfezione della vita di fede. Scrive il papa nella citata lettera “Porta fidei”:
“Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”.
3. L’unzione della fede
Ho parlato del kerygma come dell’”acuto” della catechesi. Ma per produrre questo acuto non basta alzare il tono della voce, occorre altro. “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ [è questo l’acuto per eccellenza!] se non nello Spirito Santo” (1 Cor 15,3). L’evangelista Giovanni fa una applicazione del tema dell’unzione che si rivela particolarmente attuale in questo anno della fede. Scrive:
“Quanto a voi, avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete conoscenza […]. L’unzione che avete ricevuta da lui rimane in voi, e non avete bisogno dell’insegnamento di nessuno; ma siccome la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera, e non è menzogna, rimanete in lui come essa vi ha insegnato” (1 Gv 2, 20.27).
L’autore di questa unzione è lo Spirito Santo, come si deduce dal fatto che altrove la funzione di “insegnare ogni cosa” è attribuita al Paraclito come “Spirito di verità” (Gv 14, 26). Si tratta, come scrivono diversi Padri, di una “unzione della fede”: “L’unzione che viene dal Santo –scrive Clemente Alessandrino – si realizza nella fede”; “L’unzione è la fede in Cristo”, dice un altro scrittore della stessa scuola[4].
Nel suo commento, Agostino rivolge, a questo proposito, una domanda all’evangelista. Perché, dice, hai scritto la tua lettera, se quelli ai quali ti rivolgevi avevano ricevuto l’unzione che insegna ogni cosa e non avevano bisogno che alcuno li istruisse?  Perché questo stesso nostro parlare e istruire i fedeli? Ed ecco la sua risposta, basata sul tema del maestro interiore:
“Il suono delle nostre parole  percuote l’orecchio, ma il vero maestro sta dentro […] Io ho parlato a tutti, ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza avere nulla appreso […]. È dunque  interiore il maestro che veramente istruisce; è Cristo, è la sua ispirazione ad istruire”[5].
C’è dunque bisogno di istruzione dall’esterno, c’è bisogno di maestri; ma la loro voce penetra nel cuore solo se ad essa si aggiunge quella interiore dello Spirito. “Noi siamo testimoni di queste cose e anche lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli ubbidiscono” (Atti 5, 32). Con queste parole, pronunciate davanti al sinedrio, l’apostolo Pietro non solo afferma la necessità della testimonianza interiore dello Spirito, ma indica anche qual è la condizione per riceverla: la disponibilità a obbedire, a sottomettersi alla Parola.
È l’unzione dello Spirito che fa passare dalle enunciazioni di fede alla loro realtà. È un tema caro all’evangelista Giovanni quello del credere che è anche conoscere: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore  che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). “Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). “Conoscere”, in questo caso, come in genere in tutta la Scrittura, non significa quello che significa per noi oggi e cioè avere l’idea o il concetto di una cosa. Significa sperimentare, entrare in relazione con la cosa o con la persona [6]. L’affermazione della Vergine: “Non conosco uomo”, non voleva certo dire non so cos’è un uomo…
Fu un caso di evidente unzione della fede quello che Pascal sperimentò nella notte del 23 Novembre 1654 e che fissò con brevi frasi esclamative in uno scritto trovato dopo la morte cucito all’interno della sua giacca:
“Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […]. Lo si trova soltanto per le vie del Vangelo. […]. Gioia, gioia. Gioia, lacrime di gioia. […] Questa è la vita eterna, che essi conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato: Gesù Cristo”[7].
L’unzione della fede avviene di solito quando, su una parola di Dio o su una affermazione di fede, cade improvvisamente l’illuminazione dello Spirito Santo, accompagnata di solito da una forte emozione. Ricordo che un anno, nella festa di Cristo Re, ascoltavo nella prima lettura della Messa la profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo:
“Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto” (Dan 7,13-14).
Il Nuovo Testamento, si sa, ha visto realizzata la profezia di Daniele in Gesù; lui stesso davanti al sinedrio la fa sua (cf. Mt 26, 64); una frase del testo è entrata perfino nel credo (“cuius regnum non erit finis”). Io conoscevo, dai miei studi, tutto questo, ma  in quel momento era un’altra cosa. Era come se la scena si svolgesse lì, sotto i miei occhi. Sì, quel figlio dell’uomo che si avanzava era proprio lui, Gesù. Tutti i dubbi e le spiegazioni alternative degli studiosi, che pure conoscevo, mi sembravano, in quel momento, semplici pretesti per non credere. Sperimentavo, senza saperlo, l’unzione della fede.
Un’altra volta (credo di aver condiviso già in passato questa esperienza che però aiuta a capire) assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:
“Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nella centonovantacinquesima Olimpiade,
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel  quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,
Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.
Giunti a queste ultime parole provai una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”: prima di lui, dopo di lui. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.
L’unzione dello Spirito Santo produce anche un effetto, per così dire, “collaterale” nell’annunciatore: gli fa sperimentare la gioia di proclamare Gesù e il suo Vangelo. Trasforma l’evangelizzazione da incombenza e dovere, in un onore e un motivo di vanto. È la gioia che conosce bene il messaggero che reca a una città assediata l’annuncio che l’assedio è stato tolto, o l’araldo che nell’antichità correva avanti a portare al popolo l’annuncio di una vittoria decisiva ottenuta sul campo dal proprio esercito. La “lieta notizia”, prima ancora che chi la riceve, rende lieto chi la reca.
La visione di Ezechiele del rotolo mangiato si è realizzata una volta nella storia in senso anche letterale e non solo metaforico. È stato quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in una sola Parola, il Verbo. Il Padre l’ha porto a Maria; Maria lo ha accolto, se ne è riempita, anche fisicamente, le viscere, e poi l’ha dato al mondo, lo ha “proferito” partorendolo. Lei è il modello di ogni evangelizzatore e di ogni catechista. Ci insegna a riempirci di Gesù per darlo agli altri. Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogni annunciatore.
Il Santo Padre conclude la sua lettera di indizione dell’anno della fede con un richiamo alla Vergine: “Affidiamo, scrive, alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45), questo tempo di grazia”[8]. A lei chiediamo di ottenerci la grazia di sperimentare, in questo anno, tanti momenti di unzione della fede. “Virgo fidelis, ora pro nobis”. Vergine credente, prega per noi.
*
NOTE
[1] Benedetto XVI, Lett. apost. “Porta fidei”, n.11
[2] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 1,2,ad 2; cit. in CCC, n.170.
[3] CCC, n. 170
[4] Clemente Al. Adumbrationes in 1 Johannis (PG 9, 737B); Homéliies paschales (SCh 36, p.40): testi citati da  I. de la Potterie, L’unzione del cristiano con la fede, in Biblica 40, 1959, 12-69.
[5] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 3,13  (PL  35, 2004 s).
[6] Cf. C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Brescia, Paideia1974, pp. 195 s.
[7] B. Pascal, Memoriale, ed. Brunschvicg.
[8] “Porta fidei”, nr. 15.

Ora il principe di questo mondo è gettato fuori, Padre Cantalamessa

http://www2.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=13

Ora il principe di questo mondo è gettato fuori, Padre Cantalamessa

2001-04-13- Venerdì Santo – Basilica di S. Pietro

(non riesco a ricostruire quale anno liturgico fosse il 2001, ABC, scusate)

L’Evangelista san Luca termina il racconto delle tentazioni di Gesù dicendo che “il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4, 13). Quale fosse questo “tempo fissato”, ce lo fa capire Cristo stesso quando dice, nell’imminenza della sua passione: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12, 31).
Questa è l’interpretazione unanime che hanno dato della morte di Cristo gli autori del Nuovo Testamento. Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, “ha ridotto all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2, 14-15).
La Passione di Cristo non si riduce, certo, alla vittoria su Satana. Il suo significato è ben più vasto e positivo; egli “doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (cf. Gv 11, 52). Tuttavia si banalizza la passione di Cristo se le si toglie questo aspetto di vittoria sul demonio, oltre che sul peccato e sulla morte.
Questa lotta continua dopo Cristo, nel suo corpo. L’Apocalisse dice che, sconfitto da Cristo, “il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12, 17). Per questo l’apostolo Pietro raccomanda ai cristiani: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).
?Tutto questo ha dato all’esistenza cristiana di tutti i tempi un carattere drammatico, di lotta, e di lotta “non solo contro creature fatte di carne e di sangue” (cf. Ef 6,12). Il rito del battesimo riflette tutto ciò con quella drastica “scelta di campo” che lo precede: “Rinunci a Satana? -Credi in Cristo?”.
?Nulla, allora, è cambiato con la morte di Cristo? Tutto è come prima? Al contrario! La potenza di Satana non è più libera di agire per i suoi fini. Egli crede di agire per uno scopo e ottiene esattamente il suo contrario; serve involontariamente la causa di Gesù e dei suoi santi. Egli è “quella potenza che sempre vuole il male e opera il bene” . ?Dio fa servire l’azione del demonio alla purificazione e all’umiltà dei suoi eletti. “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi” (2 Cor 12, 7). Un canto spiritual negro lo dice in tono leggero ma teologicamente perfetto: “Il vecchio Satana è matto, è cattivo. Ha sparato un colpo per uccidere la mia anima. Ma ha sbagliato mira e ha colpito il mio peccato”.
Ma ora tutto questo è finito. Il silenzio è calato su Satana; la lotta è diventata solo contro “la carne e il sangue”, cioè contro mali alla portata dell’uomo. L’inventore della demitizzazione ha scritto: “Non si può usare la luce elettrica e la radio, non si può ricorrere in caso di malattia a mezzi medici e clinici e al tempo stesso credere al mondo degli spiriti” . Nessuno è stato mai così contento di essere demitizzato come il demonio, se è vero – come è stato detto – che “la sua più grande astuzia è far credere che egli non esiste” .
?L’uomo moderno manifesta una vera e propria allergia a sentir parlare di questo argomento. Si è finito per accettare una spiegazione tranquillizzante. Il demonio? È la somma del male morale umano, è una personificazione simbolica, un mito, uno spauracchio, è l’inconscio collettivo o l’alienazione collettiva.
?Quando Paolo VI osò ricordare ai cristiani la “verità cattolica” che il demonio esiste (“Il male –disse in un’occasione- non è soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa” ), una parte della cultura reagì stracciandosi le vesti scandalizzata.
?Lo stesso si è ripetuto di recente, quando un vescovo ha richiamato l’attenzione su questo punto della fede cristiana. “Abbiamo dimenticato che in passato ci si è serviti del demonio per perseguitare streghe, eretici e altra gente simile?”. No, non lo abbiamo dimenticato; ma, per questi e altri scopi simili, ci si è serviti –e purtroppo ci si serve – di Dio ancor più che del demonio. Aboliamo anche Dio?
?Perfino molti credenti e alcuni teologi si lasciano intimidire: “Sì, ma potrebbe, effettivamente, bastare l’ipotesi simbolica, la spiegazione mitica o quella psicanalitica …”. Qualcuno pensa che la Chiesa stessa stia rinunciando a questa credenza, dal momento che ne parla sempre meno.
?Ma qual è il risultato di questo silenzio? Un cosa stranissima. Satana, scacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra; scacciato dalla fede è rientrato dalla superstizione. Il mondo moderno, tecnologico e industrializzato, pullula di maghi, di spiritisti, di dicitori di oroscopi, di venditori di fatture e di amuleti e di sètte sataniche vere e proprie.
?La nostra situazione non è molto diversa da quella dei secoli XIV-XVI, tristemente famosi per l’importanza accordata in essi ai fenomeni diabolici. Non ci sono più roghi di indemoniati, caccia alle streghe e cose simili; ma le pratiche che hanno al centro il demonio, come pure le vittime fisiche o morali di tali pratiche, non sono meno numerose di allora, e non solo tra i ceti poveri e popolari. È divenuto un fenomeno sociale -e commerciale!- di ingenti proporzioni.
?Un settimanale americano a diffusione mondiale ha dedicato qualche tempo fa tutto un servizio alla credenza del demonio ai giorni nostri. Mi colpì la conclusione tirata da uno degli intellettuali intervistati. L’oblio del demonio, diceva, non ha reso più serena e razionale la vita degli uomini sul pianeta, ma al contrario ci ha reso più ottusi e assuefatti di fronte agli orrori del male. Niente ci fa più rabbrividire.
Quelli che negano l’esistenza del demonio, una scusa, a dir vero, ce l’hanno. Quello che conoscono al riguardo -casi di possessione diabolica, storie e film di esorcismi- ha quasi sempre una spiegazione patologica, facilmente riconoscibile. Se c’è un appunto che si può loro muovere è di fermarsi qui, di ignorare tutto un altro livello in cui la spiegazione patologica non basta più.
?Si ripete l’equivoco in cui è caduto Freud e tanti dopo di lui: a forza di occuparsi di casi di nevrosi religiosa (perché per questo si ricorreva a lui) egli finì per credere che la religione in sé non è che una nevrosi. Come se uno volesse stabilire il livello di sanità mentale di una città, dopo aver visitato il locale manicomio!
?La prova più forte dell’esistenza di Satana non si ha nei peccatori o negli ossessi, ma nei santi. È vero che il demonio è presente e operante in certe forme estreme e “disumane” di male, sia individuale che collettivo, ma qui egli è di casa e può celarsi dietro mille sosia e controfigure. Avviene come con certi insetti, la cui tattica consiste nel mimetizzarsi, posandosi su un fondo del loro stesso colore.
?Al contrario, nella vita dei santi egli è costretto a venire allo scoperto, a mettersi “contro luce”; la sua azione si staglia nero su bianco. Nel vangelo stesso la prova più convincente dell’esistenza dei demoni non si ha nelle storie di liberazione di ossessi (a volte è difficile distinguere in esse la parte che svolgono le credenze del tempo sull’origine di certe malattie), ma si ha nell’episodio delle tentazioni di Gesù.
?Chi più chi meno, tutti i santi e i grandi credenti (alcuni dei quali, come san Giovanni della Croce, intellettuali di prim’ordine), testimoniano della loro lotta con questa oscura realtà. San Francesco d’Assisi un giorno confidò a un suo intimo compagno: “Se sapessero i frati quante e che gravi tribolazioni e afflizioni mi danno i demoni, non ci sarebbe alcuno di loro che non si muoverebbe a compassione e pietà di me” .
?Il Francesco che compone il sereno Cantico delle creature è lo stesso che lotta con i demoni; Caterina da Siena che incide nella storia anche politica del suo tempo, è la stessa che il confessore dichiara “martirizzata” dai demoni ; il Padre Pio che progetta la Casa sollievo della sofferenza è lo stesso che di notte sostiene lotte furibonde con i demoni. Non si può vivisezionare la loro personalità e prenderne solo una parte. Non lo permette l’onestà e neppure una sana psicologia. Questa gente non ha lottato contro i mulini a vento! Quello che san Giovanni della Croce dice, descrivendo la notte oscura dello spirito, non è campato in aria.
?Si ripete la vicenda di Giobbe (cf. Gb 1, 6 ss). Dio “consegna” nelle mani di Satana i suoi amici più cari per dare ad essi l’occasione di dimostrare che non lo servono solo per i suoi benefici e per potersi “vantare” di loro di fronte al suo nemico. Gli dà potere non solo sul loro corpo, ma a volte, misteriosamente, anche sulla loro anima, o almeno su una parte di essa. Nel 1983 fu beatificata una carmelitana, Maria di Gesù Crocifisso, detta la Piccola Araba perché di origine palestinese. Nella sua vita, quando era già molto avanti nella santità, vi furono due periodi di vera e propria possessione diabolica, documentata negli atti del processo . E il caso è tutt’altro che isolato…
Perché allora, anche tra i credenti, alcuni sembrano non accorgersi di questa tremenda battaglia sotterranea in atto nella Chiesa? Perché così pochi mostrano di sentire i sinistri ruggiti del “leone” che gira cercando chi divorare? È semplice! Essi cercano il demonio nei libri, mentre al demonio non interessano i libri, ma le anime e non si incontra frequentando gli istituti universitari, le biblioteche, ma le anime.
?Un altro equivoco regna a volte tra i credenti. Ci si lascia impressionare da quello che pensano, dell’esistenza del demonio, gli uomini di cultura “laici”, come se vi fosse una base comune di dialogo con loro. Non si tiene conto che una cultura che si dichiara atea non può credere nell’esistenza del demonio; è bene, anzi, che non vi creda. Sarebbe tragico se si credesse nell’esistenza del demonio, quando non si crede nell’esistenza di Dio. Allora sì che sarebbe da disperarsi.
?Che cosa può sapere di Satana chi ha avuto a che fare sempre e solo, non con la sua realtà, ma con l’idea, le rappresentazioni e le tradizioni etnologiche su di lui? Quelli che passano in rassegna i fenomeni che la cronaca presenta come diabolici (possessione, patti con il diavolo, caccia alle streghe…), per poi concludere trionfalmente che è tutta superstizione e che il demonio non esiste, somigliano a quell’astronauta sovietico che concludeva che Dio non esiste, perché lui aveva girato in lungo e in largo per i cieli e non lo aveva incontrato da nessuna parte. In tutti e due i casi, si è cercato dalla parte sbagliata.
Detto questo, possiamo e dobbiamo anche ridimensionare il demonio. Nessuno è pronto a farlo più del credente. Satana non ha, nel cristianesimo, un’importanza pari e contraria a quella di Cristo. Dio e il demonio non sono due principi paralleli, eterni e indipendenti tra di loro, come in certe religioni dualistiche. Per la Bibbia, il demonio non è che una creatura di Dio “andata a male”; tutto ciò che esso è di positivo viene da Dio, solo che egli lo corrompe e lo svia, usandolo contro di lui. Abbiamo, con ciò, spiegato tutto? No. L’esistenza del Maligno rimane un mistero, come è quella del male in genere, ma non è l’unico mistero della vita…
?Non è neppure giusto dire che noi crediamo “nel” demonio. Noi crediamo “in” Dio e “in” Gesù Cristo, ma non crediamo “nel” demonio, se credere significa fidarsi di qualcuno e affidarsi a qualcuno. Crediamo “il” demonio, non nel demonio; egli è un oggetto e, per giunta, negativo della nostra fede, non il movente o il termine di essa. ?Non c’è da avere eccessiva paura di lui. Dopo la venuta di Cristo, dice un antico autore, “il demonio è legato, come un cane alla catena; non può mordere nessuno, se non chi, sfidando il pericolo, gli va vicino…Può latrare, può sollecitare, ma non può mordere, se non chi lo vuole. Non è infatti costringendo, ma persuadendo, che nuoce; non estorce da noi il consenso, ma lo sollecita” . ?La credenza del demonio non sminuisce la libertà umana. Bisogna solo stare attenti a non addossare su di lui la responsabilità di ogni nostro sbaglio o di ogni malanno che ci capita addosso. Vedere il demonio dappertutto non è meno fuorviante che non vederlo da nessuna parte. “Quando viene accusato, il diavolo ne gode. Addirittura, vuole che tu lo accusi, accoglie volentieri ogni tua recriminazione, se questo serve a non farti fare la tua confessione!” .
Concludiamo tornando alla nostra liturgia. Un Padre della Chiesa descrive così ciò che avvenne sul Calvario il Venerdì Santo. Immagina, dice, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno della città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, semplice spettatore; non hai combattuto, non hai faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore . ?Ricordiamoci di queste parole, quando, fra poco, sarà elevato in mezzo a noi il Crocifisso e noi ci accosteremo per baciargli i piedi.

« Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo » (Ef 2,14-18) (P. Cantalamessa)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/riconcilia.htm

« Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo »

Omelia del Predicatore della Casa Pontificia
p. Raniero Cantalamessa O.F.M. Cap.

Giovanni Paolo II ha presieduto nel pomeriggio del 10 aprile 1998, Venerdì Santo, nella Basilica di san Pietro la Celebrazione della Passione del Signore.
Al termine della Liturgia della Parola, il Predicatore della Casa Pontificia, Padre Raniero Cantalamessa, ha tenuto questa omelia il cui testo è stato pubblicata da « L’Osservatore Romano » Domenica 12 Aprile 1998.

Nella sua lettera apostolica Tertio Millennio adveniente, che, come stella cometa, sta guidando la Chiesa cattolica verso il Giubileo del duemila, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha scritto: « È giusto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli… Essa non può varcare le soglie del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi » (n. 33).
Tra questi peccati assume un rilievo particolare quello commesso nei confronti del popolo ebraico. A conclusione del Simposio che si è tenuto in Vaticano dal 30 ottobre al 1° novembre dell’anno scorso sui cristiani e l’antisemitismo, il Papa affermava: « Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza, generando sentimenti di ostilità verso questo popolo. Essi hanno contribuito ad addormentare le coscienze, di modo che, quando si è scatenata sull’Europa l’ondata delle persecuzioni ispirate da un antisemitismo pagano… la resistenza spirituale di molti non è stata quella che l’umanità era in diritto di aspettarsi da parte dei discepoli di Cristo » (Discorso rivolto ai partecipanti al Simposio il 31 ottobre 1997).
Da tempo sono stati messi in chiaro i fondamenti teologici che permettono questa coraggiosa assunzione di responsabilità, senza intaccare minimamente la nostra fede nella Chiesa, per se stessa, (cfr Lumen Gentium 8: la Chiesa <>).
Ma in queste richieste di perdono da parte della Chiesa c’è un significato anche teologico che non deve passare inosservato. Quando la Chiesa si assume la responsabilità delle colpe dei suoi membri, compie l’atto forse più bello che possa fare sulla terra: scagiona Dio, proclama: Dio è innocente, anaitios o Theos, Dio non ci ha colpa; siamo noi che abbiamo peccato. Dice col profeta: <> (Bar 1,15).
Il Venerdì Santo è stato, lungo i secoli, il terreno di cultura privilegiato dell’incomprensione e ostilità verso gli ebrei. È giusto dunque che dal Venerdì Santo parta l’opera di riconciliazione e di < >. S. Paolo ci dà questa interpretazione dell’evento della croce: <> (Ef 2,14-18). I <>, si sa, sono i Giudei e i pagani.
Questa visione profetica dell’Apostolo è stata fortemente oscurata nei fatti. Fu proprio nel corso di un’omelia tenuta un <> in Asia Minore, nel II secolo (ne abbiamo letto un brano nella Liturgia delle ore di ieri) che fu lanciata, per la prima volta, da Melitone di Sardi l’accusa indiscriminata di deicidio nei confronti degli Ebrei: <> (Sulla Pasqua, 73-96: SCh 123, pp.102-116).
È nel contesto di questa polemica antigiudaica, che viene formandosi, già in Melitone, il genere degli Improperia, o Rimproveri, entrato più tardi anche nella liturgia latina dell’adorazione della croce. Si elencano uno ad uno i benefici di Dio per Israele e a ognuno si oppone l’ingratitudine del popolo. <>.
È vero che in questo ed altri testi simili bisogna fare una larga parte alla retorica, in particolare al genere della diatriba allora in voga. Ma il seme era gettato e lascerà il suo segno nella liturgia (si pensi al famoso aggettivo usato nella preghiera per gli ebrei e ora soppresso), nell’arte e nello stesso folclore, contribuendo a diffondere lo stereotipo negativo dell’Ebreo.
L’icona bizantina della crocifissione quasi sempre mostra ai lati della croce di Cristo due figure femminili. In alcuni casi, tutte e due sono rivolte verso la croce, ma più spesso una guarda la croce, l’altra le volta le spalle, o è addirittura spinta da un angelo ad allontanarsi dalla croce. Sono la Chiesa e la Sinagoga. Si è persa di vista l’affermazione di Paolo che Cristo è morto sulla croce per unire le due realtà, non per dividerle.
Tutto ciò, come notava il Santo Padre, ha reso meno vigilanti i cristiani quando, nel nostro secolo, si è scatenato contro gli ebrei il furore nazista. Ha favorito, insomma, indirettamente, la Shoah, l’Olocausto. Ma già ben prima di questo epilogo fatale, la polemica è servita a giustificare molteplici vessazioni e ha causato al popolo ebraico non poca sofferenza da parte delle popolazioni cristiane e delle stesse istituzioni della Chiesa.
Ma vengo alla cosa che mi sembra più urgente chiarire. In occasione al recente dibattito seguito alla pubblicazione del documento del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani <>, un autorevole uomo di cultura ha formulato un giudizio radicale su tutta la questione: <>.
L’unico rimedio – prosegue l’autore – sarebbe <>. Siccome, però, non si può chiedere ai cristiani di fare questo (e sarebbe anzi una perdita se lo facessero), non resta che coltivare ognuno le proprie radici religiose, in spirito di tolleranza, tendendo a quei valori universali che sono al di là di ogni religione e che tutte le accomuna (P. Citati, <>, in <>, 18 marzo 1998).
Un discorso, come si vede, di grande pacatezza. Ma a me sembra di scorgere in esso un equivoco fondamentale. Paolo non considera <> solo quello dei Patriarchi, ma quello di tutta l’umanità prima di Cristo. <> (Rm 3,1-2).
Come si può accusare Paolo di non riconoscere in Abramo il <>, se proprio per questo egli è definito da lui < >? (cfr Rm 4,16). Molta confusione, a proposito di S. Paolo, deriva dall’aver scambiato per polemica <>, quella che è, in realtà, polemica contro <>.
D’altra parte, le cose, del resto, che Paolo e Giovanni dicono degli ebrei sono un niente, in confronto a quello che dicono dei pagani. Essi sono definiti <> (Ef 2,11). La stessa <> dell’Apocalisse, sede della Bestia e del Dragone, sappiamo che non è da identificarsi primariamente con Gerusalemme, ma con la Roma pagana, la città <> (Ap 17,9).
La risposta giusta al problema sollevato, credo sia nelle parole del Papa ricordate sopra: « Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico>>. L’antisemitismo non nasce da fedeltà alle Scritture cristiane, ma da infedeltà ad esse. In questo senso, la situazione nuova che si è creata nel dialogo tra ebrei e cristiani si rivela utile per capire meglio le stesse nostre Scritture. È anch’essa un segno dei tempi. E vediamo in che senso.
Rifacciamoci alla più antica formulazione del mistero pasquale, al kerigma. Esso non menziona mai gli ebrei come causa della morte di Cristo, ma <>: <> (Rm 4,25; 1Cor 15,3). Gli stessi simboli di fede, che pure fanno il nome di Ponzio Pilato, mai menzionano gli Ebrei, parlando della crocifissione e morte di Cristo.
Certo, alcuni capi giudei hanno svolto un ruolo attivo nella condanna di Gesù. Ce lo ha ricordato il racconto della passione che abbiamo appena ascoltato. Ma sono state cause materiali. Nella misura in cui si insiste su queste circostanze concrete, dando loro un valore teologico, oltre che storico, si perde di vista la portata universale e cosmica della morte di Cristo. Si banalizza il dramma della redenzione, facendone il risultato di circostanze contingenti. <> (1 Gv 2,2). Di tutto il mondo: anche di chi non lo sa, o non lo crede!
Un altro fatto viene dimenticato nella polemica contro gli Ebrei: essi hanno agito per ignoranza (anche se questo non vuole dire senza colpa). Lo dice Cristo sulla croce: <> (Lc 23,34). <>, dice Pietro dopo la Pentecoste (At 3,17; cfr At 13,27). <>, dice Paolo (1Cor 2,8).
Vogliamo dunque continuare a parlare di deicidio? Facciamolo pure, dal momento che un deicidio, secondo le Scritture e la nostra dogmatica, c’è stato. Ma sappiamo che a commetterlo non sono stati solo gli ebrei: siamo stati tutti noi.
Ma se <> non sono nel Nuovo Testamento, dove sono? Come e quando si è prodotta la frattura? Io credo che non sia difficile scoprirlo. Gesù, gli apostoli, il diacono Stefano (cfr At 7) hanno polemizzato contro i capi giudei, usando, a volte, toni durissimi. Ma con che animo lo facevano? Gesù, quando annunciava la distruzione di Gerusalemme, piangeva, come sulla morte dell’amico Lazzaro. Stefano moriva gridando: <>.
Paolo, il principale imputato in tutta questa vicenda, arriva a dire parole che vanno venire i brividi: <> (Rm 9,1-3). Paolo, per il quale Cristo è <> (<>), accetterebbe di essere separato da lui, scomunicato, se questo potesse servire a fare accettare il Messia dai suoi consanguinei secondo la carne!
Questi uomini parlavano dall’interno del popolo ebraico, sentendosi solidali con esso, appartenenti alla stessa realtà religiosa e umana. Potevano dire: <>. Quando si ama si può parlare anche così. I profeti, Mosè stesso, erano stati forse meno severi nei confronti di Israele? A volte lo erano stati assai di più! E’ da essi che sono mutuate le espressioni più severe del Nuovo Testamento. Gli stessi <>, dove hanno la loro fonte ultima, se non nel genere letterario del processo sacrale (il rib) che Dio intenta, nell’Antico Testamento, nei confronti del suo popolo? (cfr Dt 32; Michea 6, 3-4; i Salmi 77 e 105).
Ma forse che gli Ebrei si sono sentiti offesi da Mosè e dai profeti e li hanno accusati , per questo, di antisemitismo? Sanno bene che, all’occorrenza, Mosè è pronto a farsi radiare lui stesso dal libro della vita, piuttosto che salvarsi da solo, senza il suo popolo. In fondo, non è diverso di quello che avviene anche tra noi. Dante Alighieri rivolge agli italiani invettive tali che, se uno straniero si azzardasse a farne propria una minima parte, ne faremmo una tragedia. Da lui le accettiamo; sentiamo che è dei nostri, che parla con amore, non con disprezzo.
Cosa è successo, invece, nel passaggio dalla primitiva Chiesa Giudeo-cristiana alla Chiesa dei gentili? I gentili hanno raccolto la polemica di Gesù e degli apostoli contro il giudaismo, ma non il loro amore per i Giudei! La polemica si è trasmessa, l’amore no. Quando parleranno dell’avvenuta distruzione di Gerusalemme, i Padri della Chiesa non lo fanno piangendo. Tutt’altro!
La radice del problema è tutta qui: mancanza d’amore, cioè infedeltà al precetto centrale del Vangelo: Noi cristiani abbiamo continuato a lagnarci fino alla vigilia della Shoah, dell’odio anticristiano degli Ebrei, della loro opposizione alla diffusione del Vangelo (ciò che, specie agli inizi, fu certamente vero), ma non ci accorgevamo della trave che c’era nel nostro cuore!
Non si tratta di fare un processo sommario al passato. <>. Si riteneva infatti unanimemente, allora, che i diritti della verità venissero prima di quelli della persona.
Non si tratta dunque di intentare un processo al passato. E tuttavia, prosegue la lettera del Papa, <> (TMA, 35). (Quando la Chiesa parla dei suoi <>, sappiamo che include in essi anche i suoi < >!).
Quando io parlo della colpa contro i fratelli Ebrei, non penso solo a quella degli altri, delle generazioni che mi hanno preceduto. Penso anche alla mia. Ricorderò sempre il momento in cui iniziò la mia conversione su questo punto. Ero sull’aereo di ritorno dal mio primo viaggio in Terra Santa. Leggevo la Bibbia e mi cadde sotto gli occhi la frase della Lettera agli Efesini: <> (Ef 5,29). Capii che essa si applica anche al rapporto di Gesù con il suo popolo. E di colpo i miei pregiudizi, se non proprio ostilità, nei confronti degli Ebrei, assorbiti insensibilmente negli anni di formazione, mi apparvero una offesa recata a Gesù stesso.
Egli ha assunto tutto di noi, eccetto il peccato. Ma l’amore della propria patria e la solidarietà con la propria gente non è un peccato, è un valore. Dunque, in forza della stessa incarnazione, Gesù – chiamiamolo ormai con il suo nome ebraico Yeshua – ama il popolo d’Israele. Di un amore così forte e puro quale nessun patriota al mondo ha mai avuto per la sua patria. Il peccato contro gli ebrei è anche un peccato contro l’umanità di Cristo.
Ho capito che dovevo convertirmi a Israele, <>, come lo chiama l’Apostolo, che non coincide necessariamente e in tutto con l’Israele politico, anche se non si può neppure separare da esso. Ho capito che questo amore non è una minaccia per nessun altro popolo, non forma alleanze e blocchi contro nessuno, perché Gesù ci ha insegnato che il nostro cuore cristiano deve aprirsi all’universalità e aiutare Israele stesso a farlo. <> (cfr Rm 3,29).
Questo mi ha reso particolarmente cara la figura di Edith Stein, questa nuova Rebecca che ha portato nel suo grembo due nazioni e due popoli in lotta tra loro, la Chiesa e la Sinagoga, e le ha riconciliate, versando il suo sangue per l’una e per l’altra. Edith Stein è il modello del nuovo amore cristiano per Israele, che trova in Gesù di Nazareth, non un ostacolo, ma il suo più grande incentivo. <>.
Sentire scorrere nelle proprie vene lo stesso sangue di Cristo, la riempiva di commozione e di fierezza.
Sono diventate celebri le parole da lei scritte alle prime avvisaglie della persecuzione nazista contro gli Ebrei: <>. Quando lei e sua sorella Rosa escono dalla porta della clausura tra due gendarmi, per essere deportate ad Auschwitz, qualcuno dei presenti vede Edith stringere forte la mano della sorella e sussurrarle: <>.
Ma abbiamo un modello più grande di Edith Stein, Maria – chiamiamo anche lei con il suo bel nome ebraico Miriam – , la Madre di Gesù. Ella è <> anche in questo. Modello di una Chiesa non ancora macchiata di alcuna colpa contro Israele, non sfiorata da alcuna ostilità. I sentimenti di Maria verso il suo popolo sono espressi nel Magnificat:

< ricordandosi della sua misericordia.
Come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza per sempre>>.

<>: stessa commozione di appartenere al popolo dell’alleanza. << Alla sua discendenza per sempre>>: stessa certezza, come in Paolo, della irrevocabilità della promessa fatta a Israele.
Ritorniamo, per finire, al passo della lettera agli Efesini. Il muro di inimicizia, abbattuto sulla croce, si è riformato e ispessito nei secoli. Dobbiamo abbatterlo di nuovo, mediante il pentimento e la richiesta di perdono a Dio e ai fratelli Ebrei. Bisogna che i gesti e le parole di riconciliazione posti ai vertici della Chiesa non restino nei documenti, ma arrivino al cuore di tutti i battezzati. Solo per questo ho osato parlarne qui. Un tempo, in occasione di grandi missioni, si faceva il falò delle vanità. Noi, in questo Venerdì Santo, facciamo il falò delle ostilità. <>. In noi stessi, non negli altri!
Quando, quando si realizzerà il desiderio di Gesù di riunire i figli del suo popolo, come la chioccia raccoglie sotto le ali i suoi pulcini? Noi cristiani possiamo affrettare o ritardare il giorno in cui, per le strade di Gerusalemme, si griderà di nuovo, come il giorno delle Palme: <> (cfr Lc 13,34-35; 19, 38). Il giorno in cui Gesù di Nazareth potrà essere riconosciuto dal suo popolo, se non ancora il Messia atteso e il Figlio di Dio come da noi, almeno come uno dei suoi grandi profeti.
Quest’anno, per una rara coincidenza, la Pasqua ebraica cade alla stessa data della nostra. Celebriamo insieme, in questo giorno, il memoriale della salvezza. La Pasqua è il segno visibile e istituzionale della continuità tra Israele e la Chiesa.
C’è un testo che gli Ebrei recitavano – e recitano tuttora – durante il Seder pasquale. Melitone di Sardi lo ha fatto suo e lo ha introdotto nella liturgia cristiana, proprio nel brano dell’omelia che abbiamo letto ieri (segno che, nonostante la polemica verbale, c’era ancora, a quel tempo, una notevole conoscenza e osmosi tra le due comunità). Lo recitiamo insieme, in questo giorno, noi e loro, in spirito di comune lode e ringraziamento a Dio:

< dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione>>
(Pesachim X, 5; cfr Melitone, Sulla Pasqua, 68;
SCh 123, pp. 96-98).

Aggiungiamo:
 Ci ha fatti passare dall’ostilità alla amicizia.
 Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo.
 Possiamo prepararci a varcare, riconciliati, la soglia del nuovo millennio.

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