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Vian: “Paolo, di fronte al nostro mondo, piange e lo ama”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18319?l=italian

Vian: “Paolo, di fronte al nostro mondo, piange e lo ama”

Il direttore de “L’Osservatore romano” sottolinea l’attualità dell’apostolo

di Patricia Navas

BARCELLONA, martedì, 19 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il direttore del quotidiano vaticano “L’Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian, ha sottolineato l’attualità di San Paolo in una conferenza sull’apostolo da lui svolta questo lunedì nella Cattedrale di Barcellona.
“Paolo è presente tra noi oggi; spiritualmente, e potremmo dire anche materialmente – ha affermato –. Paolo continua a parlare alla nostra società: Paolo, di fronte al nostro mondo attuale, piange e lo ama, lo minaccia e lo perdona, lo attacca e, con tenerezza, lo abbraccia”.
Vian si è riferito al progetto con cui il regista Pier Paolo Pasolini voleva plasmare l’attualità di San Paolo, anche se alla fine non è riuscito a realizzare ciò che si proponeva.
La pellicola collocava San Paolo a New York, vista come la Roma di oggi, attualizzandone la figura.
Vina ha lamentato il fatto che spesso si cerchino libri come “Il Codice da Vinci” senza conoscere però la Scrittura.
“Abbiamo documenti autentici e andiamo a cercare sciocchezze”, ha constatato.
Il direttore del quotidiano vaticano, storico delle origini del cristianesimo e docente all’Università La Sapienza di Roma, ha esposto una documentata visione storica di San Paolo, con riferimento ai suoi testi autobiografici degli Atti degli Apostoli e delle Lettere.
Ha anche offerto alcune spiegazioni storiche sul suo ruolo alle origini del cristianesimo. “Si è detto che San Paolo e San Giovanni sarebbero i fondatori del cristianesimo, ma in realtà il fondatore è Gesù”, ha dichiarato.
“Paolo è il più antico testimone del cristianesimo; di lui abbiamo alcuni scritti, la cui autenticità è riconosciuta da tutti gli storici, sia credenti che agnostici o non credenti”.
Vian ha anche parlato dei rapporti di Pietro e Paolo con la città di Roma, con riferimento ai primi autori cristiani, come Clemente da Roma, Ireneo di Lione, il presbitero Caio, Dionisio, Vescovo di Corinto, e altri.
Ha anche detto che il sepolcro dei due apostoli è stato sempre considerato il tesoro più prezioso della Chiesa romana.
Sul martirio di Paolo, avvenuto a Roma nel 67 d.C., lo storico ha citato il documento “Atti di Paolo”, uno scritto apocrifo, spiegando che Paolo, come cittadino romano, venne condannato a morte e decapitato fuori Roma.
Arrivato alla fine del suo viaggio terreno, con le mani legate, Paolo volle rivolgere il suo ultimo sguardo a Oriente, levò le mani al cielo, pronunciò alcune preghiere in ebraico e, senza aggiungere una parola, offrì la testa alla spada dell’aguzzino.
Vian ha infine ricordato alcuni testi di Papa Paolo VI sul significato di Paolo per la Chiesa di Roma, che è chiamata a diffondere in tutto il mondo la luce di Cristo, testimoniata dai due grandi apostoli.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

Publié dans:OSSERVATORE ROMANO (DALL') |on 1 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Il passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tutti (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/084q04a1.html

L’OSSERVATORE ROMANO (12-13 aprile 2010)

Il passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tutti

Quando arriva il giorno dell’incontro

di Gianfranco Ravasi

« Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra:  la mia tomba è nel cuore di coloro che amano ». Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca:  « Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro ».
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2:  « Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno ». Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile:  « Quello che hai preparato di chi sarà? » (Luca, 12, 20).
Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri:  quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco:  nel Getsemani, Gesù « cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo:  La mia anima è triste fino alla morte » (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine:  « Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! »; e l’evangelista ricorda:  « pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora » (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre:  « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte:  « Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito » (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante:  il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva:  la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in « segni » pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre:  « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò » (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità:  « Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono » (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che « Io Sono » è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – « un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce » (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua « passione » nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, « venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore ».
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la « morte per noi » del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti:  egli « è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro » (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, « se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio » (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina « rugiada luminosa », volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla « seconda morte, lo stagno di fuoco » (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato:  « Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù » (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi:  « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio » (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione:  « Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede » (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione « sacramentale ».
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una « kenosi » (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento:  « pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce » (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni:  « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre:  « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo:  « A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva:  « Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori ». Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il « dare la vita per la persona che si ama », come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione:  « In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (3, 16).

di Inos Biffi (O.R.), Quando Paolo scriveva ai Romani : Empietà dell’uomo e grazia di Dio

dal sito dell’Osservatore Romano – 14 marzo 2010:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

Empietà dell’uomo e grazia di Dio

Quando Paolo scriveva ai Romani

di Inos Biffi

Lo si proclama da ogni parte:  finalmente si legge la Bibbia; la Scrittura è tornata a essere la fonte della teologia e della spiritualità cristiana; la meditazione è diventata contemplazione della Parola. Da qui il pullulare delle scuole della Parola. E questo è certamente un bene, quando significhi un’intima comunione con Colui che è predicato dalla Parola e non comporti il misconoscimento della tradizione spirituale e della letteratura cristiana, che nella Bibbia ha trovato la sua inesauribile risorsa:  la Bibbia come attestazione ispirata e scritta della Rivelazione divina. Ciononostante, avviene di constatare che ci sono testi biblici raramente dimenticati, e quasi oscurati.
Si pensi, per esempio, ai testi ecclesiologici della lettera agli Efesini:  su di essi si sorvola facilmente e, pure, insegnano che « la Chiesa ha la sua origine nel mistero della provvidenza e predestinazione divine », dal momento che « da sempre Dio (… la) vede davanti a sé e la vuole » (Heinrich Schlier). La Chiesa – secondo la lettera (1, 23) – è « il corpo di lui (Cristo), la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose », mentre più avanti nella stessa lettera Paolo afferma:  « A me (…) è stata concessa questa grazia (…):  illuminare tutti sulla attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell’universo, affinché, per mezzo della Chiesa (dià tes ekklesìas, per ecclesiam) sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno (katà pròthesin ton aiònon, secundum praefinitionem saeculorum) che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore » (3, 8-11). In un terzo versetto (21) si legge:  « A (Dio) la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni e per sempre ».
Non è però sul sorvolo di questi testi ecclesiologici che qui intendo fermare l’attenzione, ma su quello del primo capitolo della lettera ai Romani, che oggi sarebbe attuale rileggere e richiamare, ed esattamente là dove Paolo parla dell’ « ira di Dio » « contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia » (v. 18):  uomini, ossia i pagani, che si sono rifiutati di riconoscere e di contemplare le perfezioni di Dio palesi nelle opere da lui compiute, e quindi « non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio » (v. 21).
Al contrario, presi dai loro ragionamenti vaneggianti, ottenebrati nella loro « mente ottusa » e divenuti stolti – a dispetto della loro pretesa sapienza – essi « hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili » (v. 23). Un antecedente, verrebbe da dire, di quegli atteggiamenti aberranti dei nostri giorni, che trepidano magari per la vita dei cardellini, e sono invece favorevoli alla eliminazione dei bambini nel grembo materno.
Ed ecco, secondo l’Apostolo, il contrappasso di quel rifiuto di dare gloria e di rendere grazie a Dio:  « Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, poiché hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore » (vv. 24-25).
Paolo si sofferma a precisare ulteriormente la forma di questa « impurità » e di questo disonore riflesso nell’uomo come conseguenza del suo rifiuto di onorare Dio:  « Per questo – scrive – Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento » (vv. 26-27).
La convinzione e l’insegnamento di Paolo sono chiari:  il comportamento omosessuale è variamente definito:  cedimento a « passioni infami »; ignominioso; « rapporto contro natura »; reciproco disonore; manifestazione di una menzogna e di un’inversione della verità; cambiamento che rivela nella condotta una punizione corrispondente e coerente con un traviamento teologico. Osserva ancora Schlier:  « Nella motivazione specificamente teologica del suo rigetto delle perversioni sessuali Paolo non ha predecessori di sorta ».
Gli accenti di Paolo nel dichiarare la condanna divina nei confronti dei rapporti omosessuali non potrebbero essere più forti. E, appartenendo questa valutazione, e questa condanna, all’immutabile Parola di Dio – non soggetta a oscillazioni culturali o mobilità di gusti – chi accolga tale Parola non può ovviamente né metterle in dubbio né proporne modifiche. Tale giudizio e tale disapprovazione fanno parte della fede cristiana, anzi della legge « naturale », visto che Paolo si riferisce alla « natura », e distingue tra « rapporti naturali » riconosciuti da Dio e « rapporti contro natura », da lui invece disapprovati e sanzionati, od oggetto della sua « ira ».
Da questo, tuttavia, non deriva per nulla un’omofobia, avversa o irridente nei confronti delle singole persone; e neppure l’indisponibilità a considerare con rispetto, discrezione e saggia comprensione le concrete e varie situazioni, spesso dolorose e complesse. Conseguono, però, con lampante evidenza, e in rigorosa sintonia con la Rivelazione, una netta dottrina e un incontestabile giudizio. Secondo la Parola di Dio, l’inversione dei « rapporti naturali » (v. 26) è un comportamento « ignominioso », esito di un cuore ottenebrato, di una « intelligenza depravata » (v. 28) ossia del vaneggiamento di una ragione diventata insipiente con la sua idolatria:  un comportamento interpretato come castigo del « disprezzo della conoscenza di Dio », e assolutamente difforme dal « giudizio di Dio » (v. 32) e dal disegno originario del Creatore, che « creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò:  maschio e femmina li creò » (Genesi, 1, 27). Nulla dovrebbe annebbiare o attenuare nella coscienza cristiana questo « giudizio di Dio ». Un simile annebbiamento e una simile attenuazione rappresenterebbero una distorsione destinata a colpire l’uomo nella radicale identità.
La via di soluzione, in qualsiasi circostanza, è quella stessa indicata da Paolo, cioè la via della fede e della grazia, che, risanando la ragione, la riportano a ritrovare Dio nelle creature, a onorarlo, a dargli gloria, a rendergli grazie, e a comprendere quello che è secondo e contro « natura ». È come dire che nessun’altra strada è percorribile, se non quella del Vangelo, il cui annunzio, di là da ogni reazione o incomprensione della sapienza, come afferma Paolo, diventata stolta, è la missione incessante della Chiesa.

(L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010)

Memoria e definizione dello sterminio degli ebrei : Perché Shoah e non Olocausto

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#13

OSSERVATORE ROMANO – 20 OTTOBRE 2009

Memoria e definizione dello sterminio degli ebrei

Perché Shoah e non Olocausto

di Mordechay Lewy
Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede

Per chiarezza qualsiasi discorso sulla Shoah dovrebbe affermare che essa è il male estremo. Un evento che proietta la sua ombra su ogni  risultato  che  il  progresso  umano  possa  raggiungere,  che ha scatenato  una  crisi di valori identificati con  la  civiltà  occidentale  e  ha  scosso  la  fede dell’umanità nell’esistenza di Dio.
All’inizio degli anni Novanta, durante un incontro con gli ambasciatori, un anziano funzionario del ministero degli Esteri israeliano disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria privata piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni.
Queste osservazioni, benché di grande impatto, contrastano con l’esperienza pubblicamente condivisa sul modo in cui creare e conservare una cultura della memoria. Queste dichiarazioni sembrano di fatto minare alla base un certo concetto dell’ethos israeliano che lega la Shoah alla costituzione della patria ebraica.
Già prima della Shoah si pensava che la ragion d’essere dello Stato d’Israele più che la mera realizzazione del sogno di ritornare nella Terra promessa, fosse creare un porto sicuro per il popolo ebraico, disperso e perseguitato nella diaspora. Come conseguenza della Shoah è emersa un’ulteriore nozione:  che non si sarebbe mai più permesso il verificarsi di una catastrofe simile. Israele non è stato fondato a motivo della Shoah, ma se fosse stato creato prima, essa si sarebbe evitata.
Sembra dunque che gli israeliani siano destinati a vivere in uno stato permanente di paranoia giustificata. Il 12 agosto 2009 « The New York Times » ha attribuito grande importanza alla questione in un articolo intitolato:  « È tutto troppo tranquillo per gli israeliani? Cresce l’apprensione per capire quale asso i nemici nascondono nella manica ». Pare che gli israeliani non si permettano il lusso di concepire una vita quotidiana priva di minacce. L’altra faccia di questa medaglia è l’assunzione di un atteggiamento eroico motivato dall’essere israeliani, invece che gli ebrei massacrati, indifesi e privi di un proprio Stato. Senza dubbio coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico, unico nel suo genere, è una necessità perché, con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire.
I primi anni Cinquanta furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che lentamente si ruppe alla fine di quel decennio e durante gli anni Sessanta. Nonostante il processo Eichmann abbia portato a elaborare una nuova formulazione della Shoah fra i membri della seconda generazione – sia delle vittime sia degli aguzzini – è stata proprio la seconda generazione a promuovere più di ogni altra la cultura della memoria della Shoah.
Si ritiene che la memoria si mantenga viva grazie alla ripetizione. Il tema della Shoah divenne una parte essenziale della letteratura postbellica e dei mezzi visivi di comunicazione sociale. Tuttavia l’avere modellato con successo una cultura della memoria ha causato anche effetti negativi.
Con il passare dei decenni, da quell’evento unico emerse il problema della sua rilevanza, specialmente quando quegli eventi indescrivibili dovevano essere spiegati alle generazioni più giovani. Con il trascorrere del tempo nulla fu più così ovvio e, forse inevitabilmente, si aprì la strada alla banalizzazione. Inoltre, poiché per correttezza politica si usava il termine « olocausto » per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l’attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell’unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine « olocausto » si è politicamente inflazionato. È divenuto un mezzo per definire afflizioni politiche e umane di ogni tipo.
« Olocausto » è la traduzione in greco del termine ebraico olah, adottata dalla versione dei Settanta. Olah è un sacrificio in cui tutto viene bruciato sull’altare. Secondo la Torah l’uso di questo termine religioso non riguardava gli esseri umani ma nel libro di Geremia (19, 4-5) i tanto esecrati sacrifici umani del culto pagano di Baal sono definiti, al plurale olot. La Bibbia di Donay-Rheims (edizione del 1750), che ha cercato di restare il più possibile fedele alla versione dei Settanta, offre la seguente traduzione:  « E hanno fabbricato altari a Baal per bruciare nel fuoco i loro figli in olocausto a Baal:  cose che io non comandai, né mai mi vennero in mente ».
Non è noto se lo stesso termine greco holòkauston si riferisse a un rito sacrificale pagano o ebraico. Nell’Anabasi, molto antecedente alla traduzione della Bibbia in greco, Senofonte utilizza la forma verbale holokàutei in riferimento al rito sacrificale pagano greco. Il testo di Senofonte è stato letto praticamente da ogni classe istruita nel corso di tutta la storia europea. Anche per questo i termini « sacrificio » e « olocausto » sono stati spesso associati ai riti pagani, con il significato di « offerta interamente bruciata ».
Nella Encyclopédie (1765) di Diderot e D’Alambert, la voce Olocausto, in trenta righe, non fa alcun riferimento a ebrei o a pratiche ebraiche, ma solo a sacrifici in onore di « divinità infernali ». Nel 1929 Winston Churchill definì le atrocità turche contro gli armeni come « olocausto amministrativo ». D’altra parte, a New York, nel 1932, un annuncio pubblicitario di una grande svendita promozionale affermava che tappeti orientali e nazionali erano oggetto  di un « grande olocausto del prezzo ».
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del « Jewish Frontier ». Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare. Fu il pensatore cattolico François Mauriac, nel 1958, nella prefazione al libro di Eli Wiesel La notte ad adottare il significato religioso del termine « olocausto » utilizzato in Geremia 19, 4-5 per indicare grave peccato:  « Per Wiesel (…) Dio è morto (…) il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si è dileguato per sempre (…) nel fumo dell’olocausto preteso dalla razza, la più ingorda di tutti gli idoli ».
L’interpretazione di Mauriac può condurre alla possibilità della formulazione di un impegno cattolico vincolante che dovrebbe considerare la negazione dell’ »olocausto » un peccato contro Dio. È interessante osservare come il nome della legge israeliana che nel 1953 istituì lo Yad Vashem sia Remembrance Authority of the Disaster and Heroism. In questo caso il termine Shoah è stato tradotto con « disastro » o « catastrofe », resa abbastanza precisa del suo significato biblico.
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e, perfino negli anni Sessanta, sempre insieme all’aggettivo « ebraico » o ad altri. Negli anni Settanta, nelle pubblicazioni americane l’uso del termine divenne più frequente per indicare lo sterminio degli ebrei. Nel 1978 la serie televisiva statunitense Holocaust fu trasmessa in tutto il mondo occidentale. E tuttavia il termine non poteva identificarsi esclusivamente con lo sterminio degli ebrei.
Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l’evento, unico nel suo genere, dell’uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un’alternativa ai significati, in qualche modo vaghi, del termine « olocausto ». L’unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Più probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann, che, nel 1985, ha intitolato il suo acclamatissimo documentario di nove ore proprio Shoah. Ciò ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. La scelta è condivisa anche da Benedetto XVI, che, in occasione del settantesimo anniversario della « notte dei cristalli », ha definito, il 9 novembre 2008, « quel triste avvenimento » inizio della « sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah ». Gli ebrei, fin dalla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah, hanno sviluppato un atteggiamento paranoico per evitare la dimenticanza. Ciò viene mitigato dalla ripetizione o, in altre parole, dalla memoria ritualizzata. A tutt’oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell’evento.
Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo  della  dimenticanza  è molto più alto. Per questo all’entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole attribuite al fondatore del movimento chassidico, il Ba’al Shem Tov:  « La  memoria è la fonte della redenzione ».

(L’Osservatore Romano – 21 ottobre 2009)

DAI TEMPI DI PAOLO « FIDES » E « LOGOS » DIALOGANO ININTERROTTAMENTE, DALL’OSSERVATORE ROMANO, PDF LINK

DAI TEMPI DI PAOLO « FIDES » E « LOGOS » DIALOGANO ININTERROTTAMENTE

QUEL PRIMO ROUND TRA CRISTIANESIMO E FILOSOFIA

OSSERVATORE ROMANO 25 MARZO 2009

ANCHE IMMAGINI – PDF LINK

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Accanto a Paolo in attesa del risveglio, L’antica basilica sulla via Ostiense ospitava circa seimila sepolcri

dal sito:

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OSSERVATORE ROMANO DEL 22-23 MAGGIO 2009

L’antica basilica sulla via Ostiense ospitava circa seimila sepolcri

Accanto a Paolo in attesa del risveglio

Pubblichiamo quasi integralmente la relazione tenuta dal rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana alla giornata di studio organizzata per l’Anno paolino dalle Pontificie Accademie.

di Vincenzo Fiocchi Nicolai

Tra l’età costantiniana e la metà del V secolo, furono costruite a Roma, nel suburbio, una quindicina di chiese, dedicate agli apostoli Pietro e Paolo e ai principali martiri della città. Alle prime basiliche – realizzate grazie alla generosità dell’imperatore Costantino – fecero seguito quelle edificate per iniziativa diretta dei Pontefici (Marco, Giulio, Felice II, Damaso, Bonifacio e Leone Magno). Alla fine del IV secolo, i tre imperatori Valentiniano ii, Teodosio e Arcadio promossero la costruzione di una nuova chiesa sulla tomba dell’apostolo Paolo sulla via Ostiense, in sostituzione di quella, piuttosto modesta, fatta erigere da Costantino. La nuova fabbrica aveva più o meno le stesse grandiose dimensioni di San Pietro in Vaticano e tendeva così a riequilibrare, sul piano monumentale, l’onore attribuito dalla Chiesa di Roma agli apostoli suoi fondatori.
La diretta committenza imperiale faceva dell’iniziativa un chiaro manifesto della politica dei sovrani in favore del cristianesimo e della Chiesa della capitale, contro le ultime resistenze pagane dell’aristocrazia.
Queste chiese suburbane oltre che luoghi adibiti alle celebrazioni commemorative dei santi cui erano dedicate, costituivano spazi funerari imponenti, capaci di accogliere a migliaia le sepolture dei fedeli, attratti nelle costruzioni dalla presenza dei sepolcri dei martiri.
La funzione funeraria della basilica di San Paolo sulla via Ostiense, costruita proprio quando nelle catacombe declinava l’uso di seppellire, è stata scarsamente evidenziata negli studi che hanno riguardato il santuario, per lo più interessati agli aspetti architettonici della straordinaria costruzione, alle sue decorazioni e soprattutto alle vicende monumentali del sepolcro dell’apostolo.
Sulla tomba di Paolo, come si sa, nuova luce è stata gettata dai recenti scavi condotti dai Musei Vaticani. Questi hanno permesso di recuperare l’abside della prima basilica costantiniana (e il livello del suo piano), già scoperta nel 1838, e soprattutto di riportare alla luce – sotto l’altare papale – il sarcofago nel quale erano stati collocati quelli che si ritenevano alla fine del IV secolo i resti mortali di Paolo.
La cassa, che è stata ritrovata nelle recenti indagini in una sistemazione che risale alla fine degli anni Trenta del XIX secolo – anche se certamente corrispondente a quella antica – fu poggiata sul pavimento della costruzione dei tre imperatori sopra un’enorme massicciata che obliterò la prima basilica costantiniana, situata circa un metro e sessanta centimetri più in basso.
Gli architetti della fine del IV secolo decisero cioè di alzare di molto il livello della nuova chiesa, evidentemente per preservarla dalle inondazioni del Tevere.
Nei lavori di ricostruzione della basilica che fecero seguito al disastroso incendio della notte tra il 15 e il 16 luglio 1823 si perse l’occasione di indagare i piani pavimentali della chiesa. Solo di recente, alcune esplorazioni condotte dai Musei Vaticani all’interno di vani sottostanti il pavimento, realizzati nell’Ottocento o in epoca più recente, hanno rivelato che l’edificio era intensissimamente occupato da tombe, alla maniera delle altre basiliche martiriali dell’epoca.
Le sepolture, come di consueto, consistevano in fosse delimitate da muretti, coperte con tegole o mattoni posti a doppio spiovente, sistemate su file parallele e disposte quasi sistematicamente sull’asse longitudinale della basilica. Alcune sepolture risultano del tipo « a pozzetto », cioè a più avelli sovrapposti, con un vano di immissione dei corpi dei defunti situato all’estremità della tomba. I piani superiori di queste tombe, ma anche quelle costituite da un solo piano, coincidevano con il pavimento della chiesa, che si presentava formato dagli stessi epitaffi marmorei di copertura che segnalavano le tombe sottostanti.
La maggior parte delle oltre 1.100 iscrizioni funerarie restituite dal complesso di San Paolo – oggi in gran parte conservate nel chiostro e nei locali dell’attiguo monastero – doveva avere questa originaria collocazione.
Considerando le dimensioni complessive della chiesa, e quanto sappiamo sulla densità dei sepolcri nelle altre basiliche funerarie coeve, si può ipotizzare che nella basilica di San Paolo fossero presenti – solo sotto i piani pavimentali – all’incirca 6.000 sepolcri.
La zona circostante la tomba di Paolo, come è ovvio, dovette essere di gran lunga quella più ambita per le sepolture dei fedeli, desiderosi di riposare presso le spoglie dell’apostolo. Di lì, in effetti, proviene un buon numero di sarcofagi, anche di notevolissima qualità, evidentemente riferibili a personaggi di particolare rango.
In quella zona privilegiata della chiesa, come sappiamo dalla documentazione epigrafica, erano sepolti la moglie e i figli del diacono Felice, il futuro Papa Felice III (483-492); anche il sepolcro del Pontefice – l’unico vescovo di Roma dell’antichità a essere sepolto a San Paolo – doveva probabilmente trovarsi nella zona. Pure il quadriportico antistante la chiesa e i terreni circostanti dovevano essere occupati, come di consueto, da sepolture.
Il numero veramente cospicuo delle epigrafi funerarie di San Paolo testimonia che il sepolcreto incentrato sulla basilica dell’apostolo fu di gran lunga il più utilizzato nella Roma del v e della prima metà del VI secolo.
Le epigrafi ci danno pure informazioni importanti sulla composizione sociale degli inumati. A San Paolo erano sepolti numerosi membri della gerarchia ecclesiastica:  oltre a Papa Felice II, un probabile vescovo di Costantinopoli, diciassette presbiteri, quattro diaconi, un arcidiacono, un accolito, un lector, un esorcista. Prepositi della basilica sono ricordati in diverse epigrafi. Queste registrano la presenza di una abbatissa, di vergini consacrate, di ancillae Dei. L’élite dell’aristocrazia romana scelse San Paolo per la sua sepoltura:  vari clarissimi appartenenti alle famiglie senatorie, viri spectabiles, honesti viri e honestae feminae, funzionari dell’amministrazione pubblica, personaggi che ricoprivano importanti cariche civili e militari o impegnati nei diversi mestieri e professioni.
Stupisce non ritrovare addossati alla basilica i mausolei che facevano abitualmente corona alle basiliche martiriali. Ma forse la stagione più fortunata di queste costruzioni, di norma commissionate dalle famiglie aristocratiche, si esaurì con il IV secolo. Un edificio, comunque, fino a oggi poco considerato nella restituzione degli assetti del complesso paleocristiano, potrebbe costituire un elemento di interesse in questo senso. Si tratta della costruzione a croce greca, preceduta da un vestibolo con prospetto a cinque arcate rette da colonne, addossato al lato sud del transetto, che dal 1930, fino a poco tempo fa, fungeva da battistero. L’edificio è stato riconosciuto come tardoantico dal Krautheimer e da altri studiosi che di esso si sono occupato fugacemente.
La pianta a croce greca orienta decisamente per il carattere funerario dell’edificio. La posizione della costruzione richiama in modo suggestivo quella dei due mausolei agganciati al lato sud del transetto della basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano.
Se la costruzione a croce greca fu effettivamente un mausoleo, lo si dovrà ritenere, per posizione e monumentalità, certamente utilizzato da una famiglia (o personaggio) di rango particolarmente elevato. Qualora fosse stato effettivamente realizzato insieme alla chiesa – come in altri casi – potrebbe anche essere riferito ai fondatori. L’imperatore Onorio aveva portato a compimento i lavori della chiesa di San Paolo iniziati dal padre Teodosio, come ricorda l’iscrizione dell’arco trionfale relativa a un restauro dell’epoca di Galla Placidia e Leone Magno (Theodosius coepit, perfecit Honorius). Arcadio, fratello di Onorio, e altri membri del ramo orientale della dinastia teodosiana, erano stati sepolti nell’Apostolèion di Costantinopoli, a quanto pare in un edificio, come il nostro, di pianta cruciforme. Onorio e il ramo occidentale della famiglia teodosiana vennero sepolti a San Pietro nel mausoleo occidentale dei due collegati al transetto della chiesa. Lì nel XVI secolo furono ritrovate le spoglie della moglie Maria; lì vennero sepolti Teodosio III, figlio di Galla Placidia, probabilmente la stessa Galla Placidia e Valentiniano III. Fu, come si pensa, proprio Onorio a fondare il mausoleo dinastico a San Pietro tra il 404 e il 405.
L’ipotesi che il nostro edificio cruciforme di San Paolo fosse stato ideato in origine per ospitare le spoglie di uno dei membri della famiglia imperiale coinvolti nella costruzione della basilica (Onorio, Galla Placidia, lo stesso Teodosio?) resta una pura suggestione. I fondatori, particolarmente legati alla chiesa di San Paolo, lì avrebbero immaginato la loro tomba dinastica, secondo una prassi ben documentata nella corte imperiale. Per motivi che sfuggono, Onorio avrebbe poi modificato il progetto. Tutte ipotesi che solo un’analisi archeologica accurata dell’importante edificio cruciforme potrebbe eventualmente
confermare o smentire.

L’apostolo delle genti fra giudaismo e cultura ellenistica (dall’O.R.)

L’OSSERVATORE ROMANO 21  MAGGIO 2009:

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L’apostolo delle genti fra giudaismo e cultura ellenistica

La matrice ebraica di Paolo

Il 20 maggio si apre, presso il Pontificio Istituto Biblico a Roma, il simposio internazionale « Paul in his Jewish Matrix » organizzato dal Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la basilica di San Paolo fuori le Mura. Pubblichiamo – nella traduzione di Maria Brutti – alcune parti di una delle due letture pubbliche in programma.

di Ed Parish Sanders
Duke University (Durham, North Carolina)
Da tempo si discute su quanto profondamente Paolo fosse influenzato dalla cultura ellenistica o greco-romana. Dal punto di vista storico, gli studiosi del Nuovo Testamento offrono un’ampia gamma di possibilità:  dall’uomo che ellenizzò il cristianesimo al rabbi che modificò e allargò il suo pensiero senza cambiare le caratteristiche della sua visione. Non sono competente per accertare la profondità dell’ellenismo di Paolo, cercherò invece di definire alcuni degli aspetti principali della sua ebraicità, concentrandomi sulle più ampie categorie che sono a noi accessibili, per prima l’istruzione.
Nel mondo antico, tutti sapevano che  i  bambini  memorizzano  abbastanza facilmente, e che memorizzare nell’età infantile o giovanile è molto più facile che portare con sé rotoli pesanti  e  girarli  avanti  e  indietro in cerca di un passo. L’istruzione antica era basata sulla lettura ad alta voce, la ripetizione, e spesso la memorizzazione – sia voluta sia casuale – nasceva soltanto dalla ripetizione. I giovani maschi dell’élite del mondo greco-romano imparavano a memoria una grande quantità di poesia greca e i romani anche una notevole quantità di materiale latino. Uno degli scopi dell’istruzione era mettere una persona in grado di tirare fuori la citazione appropriata in tribunale o in senato. Così l’istruzione basata sulla memorizzazione, che a sua volta si esprimeva nella citazione.
Paolo stesso scrisse di essere superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei nello zelo per le tradizioni dei suoi antenati (Galati, 1, 14). Ritengo che questo significhi che egli era il ragazzo più intelligente nella classe e che imparava di più riguardo agli argomenti che studiava. Quando incontriamo Paolo nelle sue lettere probabilmente aveva circa quaranta o cinquanta anni, e il suo cervello non era così agile come quando ne aveva quindici, ma aveva ancora facilità di ricordare e citare ciò che aveva imparato.
Dalle sue citazioni, si può dedurre che Paolo imparò a memoria la Bibbia in greco, almeno ampie parti. Tuttavia nelle lettere giunte fino a noi non cita niente altro se non una sentenza:  « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (i Corinzi, 15, 33) che segue immediatamente una citazione da Isaia. Se avesse memorizzato i giusti passi della filosofia greca avrebbe aggiunto una citazione in ii Corinzi (4, 18), dove scrive che ciò che si vede è effimero, ma ciò che non può essere visto è eterno. Anche le opere del suo più anziano contemporaneo, Filone, gli sarebbero venute in aiuto. Allo stesso modo, sarebbe stato facile per uno studioso della filosofia greca usare una citazione a supporto di Filippesi 4, 11:  « Ho imparato a essere auto-sufficiente ». La parola fu riferita a Socrate e usata in varie scuole della filosofia greca, comprese il platonismo e lo stoicismo. Paolo chiaramente non ignorò del tutto il pensiero greco, ma sembra non aver avuto le citazioni appropriate sulle punte delle dita, quindi probabilmente non aveva imparato a memoria molta letteratura greca durante la sua vita di studente, che presumibilmente terminò all’età di quindici o sedici anni. Perciò riguardo all’aspetto fondamentale della matrice ebraica di Paolo, si può ipotizzare che da ragazzo e da giovane studiò la Bibbia greca, imparandola a memoria, tutta o parzialmente. La sua istruzione, se non esclusivamente ebraica, fu comunque fortemente ebraica.
Due aspetti dell’uso delle citazioni nell’argomentazione risaltano se considerati alla luce della memorizzazione. In primo luogo Paolo era in grado di lavorare su singole parole. In Galati, 3 cita gli unici passi della Settanta che combinano insieme le radici per i termini « fede » e « giustizia ». Cita anche l’unico  passo della Settanta che combina  le  parole « legge » e « maledizione ». Questo sarebbe facilmente spiegabile se avesse imparato a memoria Genesi, Deuteronomio e Abacuc. Se avesse dovuto davvero trovare ogni singolo uso delle combinazioni di queste parole girando i rotoli, avrebbe impiegato giorni, se non settimane. L’unica spiegazione ragionevole è la memoria. In questo caso particolare non voleva dire in generale che la disobbedienza ai comandamenti procurava una maledizione, ma voleva piuttosto collegare « maledizione » con la parola « legge », e la sua memoria fece emergere il riferimento.
Credo che la memoria sia anche responsabile del fatto che molte delle citazioni di Paolo sono combinate insieme. Notiamo infatti che Galati, 3, 8, « tutti i Gentili saranno in Te benedetti », combina Genesi, 12, 3 con 18, 18, mentre Galati, 3, 10 prende in prestito da Deuteronomio, 27, 26 e 28, 58. Una volta che la memoria possiede una parola chiave, produce passi che contengono quella parola, ed è molto più probabile che la conflazione sia il risultato della memoria piuttosto che del girare pagine di un rotolo e prendere deliberatamente una parola da un passo e poche da un altro. Certo il procedimento empirico non è così difficile se si combinano passi a distanza soltanto di pochi capitoli. Ma dove, per esempio, Paolo combina Isaia e Geremia, è molto difficile che il raccordo sia stato ottenuto girando i rotoli con attenzione.
Quando propongo a vari colleghi la tesi secondo la quale Paolo aveva imparato a memoria la Bibbia, gli studiosi cristiani considerano l’idea come qualcosa che va da « altamente improbabile » a « totalmente impossibile », mentre quelli ebrei danno per scontato che sia andata così.
La lingua di Paolo è impregnata dalle parole della traduzione greca della Scrittura ebraica. Questo va molto al di là delle citazioni formali. Paolo era in grado di scrivere e argomentare senza citare esplicitamente la Scrittura e può darsi che lui predicasse abitualmente ai gentili senza riferirsi in modo manifesto alla Bibbia. In Filemone, i Tessalonicesi, Filippesi e ii Corinzi non c’è una sola esplicita citazione dalla Scrittura ebraica, cioè nessun esempio in cui Paolo scrisse « come sta scritto » o qualcosa di simile.
Tuttavia, in tutti questi casi, tranne che in Filemone, la lingua della Bibbia Greca è evidente in numerosi luoghi. Sembra che gli studiosi del Nuovo Testamento pensino che Paolo avesse una grande biblioteca con gli oltre venti rotoli richiesti per contenere la Bibbia, e che possedesse un grande studio con numerosi tavoli sui quali i rotoli potessero essere aperti e confrontati. Questa visione è una versione antica dell’immagine di un professore moderno, ma la realtà è diversa. Per molti anni Paolo trascorse settimane o mesi sulla strada, senza avere asini sufficienti per trasportare un’ampia biblioteca attraverso le Porte della Cilicia o da una parte all’altra della pianura anatolica. Quando era pronto per sedersi a una tavola per lavorare il cuoio o fabbricare tende, non riusciva ad affittare un enorme studio invece di un semplice riparo sulle mura. Le difficoltà finanziarie dell’Apostolo depongono contro tesi di questo genere e fanno pensare che Paolo trasportasse la Bibbia direttamente nel suo cervello.
Non dobbiamo però pensare che imparasse a memoria tutto ricordando ogni singola parola di seguito per tutto l’intero testo biblico. Piuttosto, le citazioni di Paolo rivelano ciò che Albert Baumgarten ha chiamato « un’arte di investigazione e di recupero ». Paolo riusciva a trovare nel suo cervello testi che corrispondevano, più o meno bene, alle parole e alle idee di cui aveva bisogno quando ne aveva bisogno. Questo nasce, di solito, da una lettura costante e ripetuta. Se fosse stato in grado di iniziare con il primo libro e recitare a memoria l’intero testo è un problema diverso. Tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla sua memoria è che era in grado di fare ciò che le sue citazioni rivelano:  usare a piacimento testi contenenti certe parole quando ne aveva bisogno.
Per quello che sappiamo, Paolo conobbe la Bibbia bene anche in ebraico. Possiamo dimostrare solo che egli di solito la citava in forma molto vicina alla Settanta come essa ci è stata tramandata. Ma questo non smentisce la teoria che studiò a Gerusalemme e conobbe la Bibbia in ebraico. Non sono del tutto convinto che Paolo fu istruito solo a Gerusalemme, ma non mi sembra impossibile che parte della sua istruzione sia avvenuta lì.
Vorrei ora descrivere molto brevemente  alcuni  degli  aspetti  più  ampi del pensiero di Paolo. Credo che nessuno di essi richieda molta elaborazione né molta prova del massimo della quintessenza dell’ebraicità, ma voglio registrare  il  fatto  che  le  più  importanti categorie del suo pensiero sono ebraiche. Nel senso stretto della parola, la sua teologia fu una forma di monoteismo  modificato.  « Modificato »  significa che oltre il vero o alto Dio si trovò spazio per altri dei, signori e poteri spirituali. Come ha di recente sottolineato Paula Fredriksen, molte persone, non solo ebrei, condividevano questa forma di monoteismo. Nella versione di Paolo, ciò che era ebraico fu che il vero Dio era il Dio di Israele. Tra le fonti giudaiche, le visioni di Paolo sono più vicine ai Rotoli del Mar Morto e ad alcune delle Apocalissi. Egli poi si univa agli ebrei suoi contemporanei nel denunciare l’adorazione di idoli.
La visione di Paolo del tempo e della storia era giudaica. La visione greca più comune era che la storia è ciclica. Nel giudaismo, la storia comincia con la creazione e va verso uno scopo stabilito da Dio. Questa fu esattamente la visione di Paolo. La visione di Paolo della storia fu altamente escatologica, incentrata sull’arrivo imminente del climax della storia ordinaria.
Molte culture hanno visioni di escatologia individuale:  ricompense e punizioni dopo la morte. Molte forme di giudaismo, comunque, seguendo parti della Bibbia, tendono verso la visione di un grande climax, dopo il quale gli eletti godranno pace, prosperità e sicurezza. Le aspettative dell’Apostolo sono, di nuovo, molto vicine a quanto si trova in alcune Apocalissi. La visione di Paolo riguardo alla sua attività è parte della sua escatologia. Sebbene gli apostoli dei gentili come lui non figurino nelle predizioni dei profeti ebraici, che sembrano aver atteso che i gentili spontaneamente si volgessero al Dio di Israele, la missione di Paolo fu a servizio di una visione giudaica del mondo. L’etica di Paolo fu giudaica. Tutti si opponevano all’assassinio, all’adulterio, al latrocinio, all’estorsione e così via.
La più grande distinzione tra il giudaismo e il resto del mondo fu l’atteggiamento verso l’attività omosessuale. Paolo si unì ad altri ebrei nell’esservi totalmente contrario. Egli discute in dettaglio pochi argomenti di morale, ma la maggior parte delle sue opinioni etiche, inclusa la denuncia dell’attività omosessuale, appare nelle liste dei vizi. L’istruzione di Paolo, la giovinezza, la teologia, la visione del mondo, la vocazione e le opinioni riguardo al comportamento corretto sono tutte distintamente e profondamente ebraiche.
Ma nonostante l’origine del movimento cristiano come una setta giudaica e l’assoluta ebraicità di Paolo, non dovremmo trascurare nelle sue lettere le indicazioni dove distingue il suo gruppo da ciò che egli chiamava giudaismo. Osserviamo innanzi tutto i passi in cui compare la parola « giudaismo »:  Paolo usa due volte il sostantivo, in Galati, 1, 13-14, e una volta il verbo « giudaizzare », in Galati, 2, 14. Non sono ricorrenze numerose, ma « giudaismo » sembra costituire un’entità del suo passato, non la stessa del suo gruppo attuale.
Paolo usa termini specifici per il suo gruppo, senza arrivare alla parola « cristiano » o « cristianesimo » fa riferimento a una distinta terminologia. Gli studiosi spesso ignorano o sottovalutano questo aspetto. In Galati, 6, 16, egli usa la frase « l’Israele di Dio » che indica forse proprio il suo gruppo. Paolo chiama inoltre il suo gruppo, « la chiesa » o, meglio, « la comunità », una parola che occorre da sola e in una molteplicità di frasi. Spesso indica il suo gruppo con una frase che include la parola « Cristo ». I « morti in Cristo » hanno una posizione speciale quando il Signore ritornerà (i Tessalonicesi, 4, 16).
Nelle lettere rimaste, Paolo saltuariamente usa una terminologia tripartita:  « Non date scandalo né ai giudei né ai greci né alla chiesa di Dio » (i Corinzi, 10, 32). In Romani distingue « noi » – il suo ambiente – dai giudei e dai gentili, che sono i gruppi dai quali « noi » siamo stati chiamati. I « giudei » e « la chiesa di Dio » sono entità distinte. Dal punto di vista terminologico, allora, Paolo distingue il suo gruppo sia dai giudei sia dai gentili, sia dal giudaismo sia dal paganesimo. La terminologia riflette la realtà sociale che Paolo abitava in un mondo tripartito:  c’erano ebrei, pagani e quelli che appartenevano a Cristo, alcuni dei quali erano appartenuti al giudaismo e alcuni al paganesimo.
I convertiti di Paolo, per quanto sappiamo, furono gli ultimi:  i gentili, precedentemente pagani o idolatri. Lo afferma in modo esplicito nel caso dei cristiani di Tessalonica e della Galazia (i Tessalonicesi, 1, 9; Galati, 4, 8), e il desiderio dei suoi convertiti di Corinto di seguire pratiche idolatriche indica un background  di  paganesimo (i Corinzi, 8, 10). Gli Atti mostrano Paolo in origine come un apostolo dei giudei della diaspora, che si rivolse ai gentili solo dopo la delusione per l’esito della sua missione precedente. La visione di Paolo è del tutto differente:  Cristo lo inviò ai gentili.
Troviamo la stessa idea quando consideriamo il suo compromesso con gli apostoli di Gerusalemme:  lui e Pietro si divisero il mondo, Pietro sarebbe andato dagli ebrei, Paolo dai gentili (Galati, 2, 7-10). Alcuni studiosi hanno interpretato questa come una divisione geografica, ma l’interpretazione più ovvia del linguaggio – che si riferisce ai « circoncisi » e ai « non circoncisi » – è una divisione etnica. Secondo questo accordo, Paolo non fu apostolo di chiunque dal vicino Oriente all’Europa, ma si dedicò ai pagani. Non voglio dire che avrebbe rifiutato l’opportunità di proporre il vangelo agli ebrei, ma questa non fu la sua missione.
La caratteristica sociale dei suoi convertiti era evidente a Paolo, talvolta dolorosamente. Poiché non erano né ebrei né pagani, essi erano isolati, senza una identità sociale riconoscibile. Questa mancanza di identità poteva portare a persecuzioni per la distanza dai culti locali. Anche in assenza di persecuzione, i suoi seguaci dovevano rinunciare a molti dei piaceri della vita civile, come i banchetti di carne rossa, che erano disposti dalle celebrazioni pubbliche religiose. Vediamo così che il vocabolario di Paolo per il suo gruppo riflette accuratamente la nuova realtà sociale che risulta dalla sua predicazione del vangelo di Cristo:  una comunità di gentili che rinuncia all’idolatria, che pratica il culto del Dio di Israele fuori dalla sinagoga, che non conta né come ebraica né come pagana e che riconosce Gesù come suo Salvatore e Signore.
Qualcuno potrebbe pensare che proponendo questa distinzione sociale e terminologica tra il gruppo di Paolo e il giudaismo io sostenga che Paolo cessò di essere ebreo. Non è così. La sua auto-identità è un altro problema. Paolo ebreo considerò se stesso come un apostolo ebreo dei gentili.
D’altra parte, dobbiamo considerare la sua ferma convinzione che lui e le altre membra della sua comunità avevano acquistato una nuova identità. Paolo era un ebreo diventato un’unica persona con Cristo. E, come scrisse, se qualcuno è in Cristo, è « una nuova creazione » (ii Corinzi, 5, 17). Tuttavia, essere una sola persona con Cristo, parte di una nuova creazione, non rende Paolo stesso un non ebreo. Gesù era un ebreo e credo che per nessun motivo Paolo avrebbe rifiutato la sua identità etnica.
Tuttavia la questione presente non è di definire la sua identità, ma piuttosto di chiarire il fatto che egli non pensava al suo gruppo in termini di « giudaismo ». L’unico modo con il quale avrebbe potuto affermare o pensare che le sue chiese costituivano parte del « giudaismo » sarebbe stato facendo una chiara distinzione tra falso e vero Israele. Avrebbe potuto scrivere che la nuova creazione era il vero giudaismo ma, per quanto ne sappiamo, non lo fece. Così egli fu ebreo e anche una persona nuova in Cristo, ma la sua comunità non formava « giudaismo »,  che  rimaneva un’entità  separata.
Mentre Paolo riconobbe la distinzione sociale che lui e gli altri stavano creando dalle fondamenta – una nuova identità spirituale, né ebraica né pagana – questa divisione non era né ciò che voleva né ciò che attendeva come esito finale. La sua teologia ebbe un’ottica differente. Secondo lui ci sarebbe stato un unico gruppo universale, che avrebbe incluso ebrei, greci e barbari, tutti in Cristo. Non era accettabile che i membri gentili del suo movimento giudaizzassero, riducendo così il numero dei gruppi a uno solo. La sua opposizione al giudaizzare causò le più forti invettive presenti nelle sue lettere. Il suo gruppo non avrebbe dovuto giudaizzare; piuttosto, chiunque altro si sarebbe dovuto unire.
Dal punto di vista teologico, Paolo sapeva quale doveva essere l’esito finale e vedeva anche che il piano presente per giungervi non funzionava perfettamente. La strategia, ricordiamo, prevedeva che lui (e apparentemente altri) avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo.
Secondo la propria opinione, Paolo era vicino alla fine delle sue fatiche. Dopo un trionfo in un dibattito con i Corinzi, infatti, espresse ottimismo sul suo successo apostolico:  « Grazie a Dio, il quale in Cristo ci conduce sempre in processione trionfale e per mezzo nostro diffonde in ogni luogo il profumo che viene dalla sua conoscenza » (ii Corinzi, 2, 14).
Nella opinione di Paolo, Pietro aveva lavorato molto meno bene. Questo è evidente dalla innovazione di Romani 11. L’aspettativa comune di un ricongiungimento alla fine dei tempi del popolo di Israele e del volgersi dei gentili verso Dio aveva seguito la sequenza ovvia:  prima Israele, poi i gentili. Questo è in realtà un tema dei primi due capitoli di Romani:  « l’ebreo prima e poi anche il greco » (1, 16; 2, 9-10). Così Pietro avrebbe dovuto preparare gli ebrei, mentre Paolo portava la sua missione coronata da successo ai gentili. Ma gli ebrei non erano pronti. E così Paolo sviluppò un piano alternativo:  i suoi gentili sarebbero entrati per primi nella nuova creazione. Questo avrebbe reso i giudei gelosi e li avrebbe convinti ad affrettarsi, in questo modo Paolo indirettamente avrebbe salvato « alcuni » ebrei assieme ai gentili (Romani, 11, 13-14). Egli ripete lo schema ai versi 25-26:  il « numero totale dei gentili » entrerà e così, in questo modo, « tutto Israele sarà salvato ». Per essere sicuro che il lettore accolga la sua scoperta, lo ripete una terza volta. Gli ebrei sono stati disobbedienti « in modo che, a causa della misericordia mostrata a voi (gentili) anche essi possano ora ricevere misericordia » (11, 30-31).
L’uso di « in modo che » – hìna in greco – sottolinea la divina intenzione:  Dio ha reso gli ebrei disobbedienti per un periodo, allo scopo di autorizzare i gentili ad avere accesso per primi, cosa che consentirebbe poi di entrare agli ebrei. Paolo ha da poco scoperto quello che ritiene il vero piano di Dio per salvare tutti, una revisione rispetto a ciò che lui e gli altri avevano pensato in precedenza. Ora vede che proprio la sua missione verso i gentili aiuterà gli ebrei a salvarsi, in modo che tutti ricevano misericordia. Possiamo pensare però che il successo di Paolo come apostolo e la sua teoria sulla gelosia degli ebrei sia piuttosto un filo sottile a cui appendere la speranza della salvezza eterna per tutti. Da Romani, 11, 13 a 11, 32 Paolo offre per tre volte un modo razionale attraverso il quale Dio può salvare il mondo, una sequenza in cui la sua missione gioca un ruolo cruciale. Ma alla fine deve aver fiducia che sarà lo stesso Dio a escogitare un sistema. Il cervello fertile e ingegnoso di Paolo non può immaginare tutto.
Siamo partiti dalle distinzioni sociali tra ebreo, pagano e cristiano così come appaiono nelle lettere di Paolo e arrivati alla soluzione teologica/escatologica di Paolo, alla divisione sociale degli esseri umani:  tutti saranno un solo popolo. Gli apostoli dovranno fare del loro meglio per portare tutti nel corpo di Cristo, mentre la storia ordinaria continua, sebbene il tempo sia davvero breve. Ma alla fine del tempo, quando il redentore verrà dal monte Sion, Dio compirà lo scopo – la salvezza del mondo – in un modo che noi non possiamo comprendere.
Tornando alla fine di Romani, 11 e alla salvezza dell’umanità non si può immaginare un piano che sia più interamente ebraico. Nel background c’è la dottrina giudaica secondo la quale Dio ha creato il mondo e lo ha dichiarato buono:  questo principio è ovvio nella prima fiammata di universalismo di Paolo, i Corinzi, 15, 22:  « Come tutti muoiono in Adamo, così in Cristo tutti riceveranno la vita ». Questo passo porta immediatamente alla soggezione a Dio alla fine di « tutte le cose » (i Corinzi, 15, 27-28). Proprio come – secondo Romani, 11, 32 – Dio ha rinchiuso gli uomini nella disobbedienza così da salvarli tutti, così come Dio ha sottomesso l’intera creazione alla caducità così da renderla « libera dalla sua schiavitù alla corruzione » quando Lui porterà la storia ordinaria alla sua fine (Romani, 8, 20-21).
Che Dio abbia un piano benefico a lungo termine per una fine felice della storia ordinaria è un pensiero profondamente  giudaico,  sebbene  i  beneficiari siano diversi nei differenti corpi della letteratura. Che il piano includa peccato e sofferenza lungo la strada è ugualmente  giudaico.  Allo  stesso modo,  secondo  Giuseppe,  Dio  progettava il trasferimento del potere a Roma e  progettava  la  distruzione del tempio, che doveva essere purificato a causa dello spargimento di sangue e del peccato.
Sintetizzando, Paolo viveva e operava in un mondo che parlava greco. Quale che fosse la sua conoscenza di questo contesto, la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica. Temporaneamente, egli pensò, creò un terzo gruppo, né ebreo né gentile, come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione.

Publié dans:OSSERVATORE ROMANO (DALL') |on 5 juillet, 2009 |Pas de commentaires »
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