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NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

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NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

DI JUAN MANUEL DE PRADA

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – LA MATRICE EBRAICA DI PAOLO

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L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – LA MATRICE EBRAICA DI PAOLO

(Osservatore Romano, 21 maggio 2009)

Il 20 maggio si apre, presso il Pontificio Istituto Biblico a Roma, il simposio internazionale « Paul in his Jewish Matrix » organizzato dal Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la basilica di San Paolo fuori le Mura. Pubblichiamo – nella traduzione di Maria Brutti – alcune parti di una delle due letture pubbliche in programma.

di Ed Parish Sanders Duke University (Durham, North Carolina)

Da tempo si discute su quanto profondamente Paolo fosse influenzato dalla cultura ellenistica o greco-romana. Dal punto di vista storico, gli studiosi del Nuovo Testamento offrono un’ampia gamma di possibilità:  dall’uomo che ellenizzò il cristianesimo al rabbi che modificò e allargò il suo pensiero senza cambiare le caratteristiche della sua visione. Non sono competente per accertare la profondità dell’ellenismo di Paolo, cercherò invece di definire alcuni degli aspetti principali della sua ebraicità, concentrandomi sulle più ampie categorie che sono a noi accessibili, per prima l’istruzione. Nel mondo antico, tutti sapevano che  i  bambini  memorizzano  abbastanza facilmente, e che memorizzare nell’età infantile o giovanile è molto più facile che portare con sé rotoli pesanti  e  girarli  avanti  e  indietro in cerca di un passo. L’istruzione antica era basata sulla lettura ad alta voce, la ripetizione, e spesso la memorizzazione – sia voluta sia casuale – nasceva soltanto dalla ripetizione. I giovani maschi dell’élite del mondo greco-romano imparavano a memoria una grande quantità di poesia greca e i romani anche una notevole quantità di materiale latino. Uno degli scopi dell’istruzione era mettere una persona in grado di tirare fuori la citazione appropriata in tribunale o in senato. Così l’istruzione basata sulla memorizzazione, che a sua volta si esprimeva nella citazione. Paolo stesso scrisse di essere superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei nello zelo per le tradizioni dei suoi antenati (Galati, 1, 14). Ritengo che questo significhi che egli era il ragazzo più intelligente nella classe e che imparava di più riguardo agli argomenti che studiava. Quando incontriamo Paolo nelle sue lettere probabilmente aveva circa quaranta o cinquanta anni, e il suo cervello non era così agile come quando ne aveva quindici, ma aveva ancora facilità di ricordare e citare ciò che aveva imparato. Dalle sue citazioni, si può dedurre che Paolo imparò a memoria la Bibbia in greco, almeno ampie parti. Tuttavia nelle lettere giunte fino a noi non cita niente altro se non una sentenza:  « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (i Corinzi, 15, 33) che segue immediatamente una citazione da Isaia. Se avesse memorizzato i giusti passi della filosofia greca avrebbe aggiunto una citazione in ii Corinzi (4, 18), dove scrive che ciò che si vede è effimero, ma ciò che non può essere visto è eterno. Anche le opere del suo più anziano contemporaneo, Filone, gli sarebbero venute in aiuto. Allo stesso modo, sarebbe stato facile per uno studioso della filosofia greca usare una citazione a supporto di Filippesi 4, 11:  « Ho imparato a essere auto-sufficiente ». La parola fu riferita a Socrate e usata in varie scuole della filosofia greca, comprese il platonismo e lo stoicismo. Paolo chiaramente non ignorò del tutto il pensiero greco, ma sembra non aver avuto le citazioni appropriate sulle punte delle dita, quindi probabilmente non aveva imparato a memoria molta letteratura greca durante la sua vita di studente, che presumibilmente terminò all’età di quindici o sedici anni. Perciò riguardo all’aspetto fondamentale della matrice ebraica di Paolo, si può ipotizzare che da ragazzo e da giovane studiò la Bibbia greca, imparandola a memoria, tutta o parzialmente. La sua istruzione, se non esclusivamente ebraica, fu comunque fortemente ebraica. Due aspetti dell’uso delle citazioni nell’argomentazione risaltano se considerati alla luce della memorizzazione. In primo luogo Paolo era in grado di lavorare su singole parole. In Galati, 3 cita gli unici passi della Settanta che combinano insieme le radici per i termini « fede » e « giustizia ». Cita anche l’unico  passo della Settanta che combina  le  parole « legge » e « maledizione ». Questo sarebbe facilmente spiegabile se avesse imparato a memoria Genesi, Deuteronomio e Abacuc. Se avesse dovuto davvero trovare ogni singolo uso delle combinazioni di queste parole girando i rotoli, avrebbe impiegato giorni, se non settimane. L’unica spiegazione ragionevole è la memoria. In questo caso particolare non voleva dire in generale che la disobbedienza ai comandamenti procurava una maledizione, ma voleva piuttosto collegare « maledizione » con la parola « legge », e la sua memoria fece emergere il riferimento. Credo che la memoria sia anche responsabile del fatto che molte delle citazioni di Paolo sono combinate insieme. Notiamo infatti che Galati, 3, 8, « tutti i Gentili saranno in Te benedetti », combina Genesi, 12, 3 con 18, 18, mentre Galati, 3, 10 prende in prestito da Deuteronomio, 27, 26 e 28, 58. Una volta che la memoria possiede una parola chiave, produce passi che contengono quella parola, ed è molto più probabile che la conflazione sia il risultato della memoria piuttosto che del girare pagine di un rotolo e prendere deliberatamente una parola da un passo e poche da un altro. Certo il procedimento empirico non è così difficile se si combinano passi a distanza soltanto di pochi capitoli. Ma dove, per esempio, Paolo combina Isaia e Geremia, è molto difficile che il raccordo sia stato ottenuto girando i rotoli con attenzione. Quando propongo a vari colleghi la tesi secondo la quale Paolo aveva imparato a memoria la Bibbia, gli studiosi cristiani considerano l’idea come qualcosa che va da « altamente improbabile » a « totalmente impossibile », mentre quelli ebrei danno per scontato che sia andata così. La lingua di Paolo è impregnata dalle parole della traduzione greca della Scrittura ebraica. Questo va molto al di là delle citazioni formali. Paolo era in grado di scrivere e argomentare senza citare esplicitamente la Scrittura e può darsi che lui predicasse abitualmente ai gentili senza riferirsi in modo manifesto alla Bibbia. In Filemone, i Tessalonicesi, Filippesi e ii Corinzi non c’è una sola esplicita citazione dalla Scrittura ebraica, cioè nessun esempio in cui Paolo scrisse « come sta scritto » o qualcosa di simile. Tuttavia, in tutti questi casi, tranne che in Filemone, la lingua della Bibbia Greca è evidente in numerosi luoghi. Sembra che gli studiosi del Nuovo Testamento pensino che Paolo avesse una grande biblioteca con gli oltre venti rotoli richiesti per contenere la Bibbia, e che possedesse un grande studio con numerosi tavoli sui quali i rotoli potessero essere aperti e confrontati. Questa visione è una versione antica dell’immagine di un professore moderno, ma la realtà è diversa. Per molti anni Paolo trascorse settimane o mesi sulla strada, senza avere asini sufficienti per trasportare un’ampia biblioteca attraverso le Porte della Cilicia o da una parte all’altra della pianura anatolica. Quando era pronto per sedersi a una tavola per lavorare il cuoio o fabbricare tende, non riusciva ad affittare un enorme studio invece di un semplice riparo sulle mura. Le difficoltà finanziarie dell’Apostolo depongono contro tesi di questo genere e fanno pensare che Paolo trasportasse la Bibbia direttamente nel suo cervello. Non dobbiamo però pensare che imparasse a memoria tutto ricordando ogni singola parola di seguito per tutto l’intero testo biblico. Piuttosto, le citazioni di Paolo rivelano ciò che Albert Baumgarten ha chiamato « un’arte di investigazione e di recupero ». Paolo riusciva a trovare nel suo cervello testi che corrispondevano, più o meno bene, alle parole e alle idee di cui aveva bisogno quando ne aveva bisogno. Questo nasce, di solito, da una lettura costante e ripetuta. Se fosse stato in grado di iniziare con il primo libro e recitare a memoria l’intero testo è un problema diverso. Tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla sua memoria è che era in grado di fare ciò che le sue citazioni rivelano:  usare a piacimento testi contenenti certe parole quando ne aveva bisogno. Per quello che sappiamo, Paolo conobbe la Bibbia bene anche in ebraico. Possiamo dimostrare solo che egli di solito la citava in forma molto vicina alla Settanta come essa ci è stata tramandata. Ma questo non smentisce la teoria che studiò a Gerusalemme e conobbe la Bibbia in ebraico. Non sono del tutto convinto che Paolo fu istruito solo a Gerusalemme, ma non mi sembra impossibile che parte della sua istruzione sia avvenuta lì. Vorrei ora descrivere molto brevemente  alcuni  degli  aspetti  più  ampi del pensiero di Paolo. Credo che nessuno di essi richieda molta elaborazione né molta prova del massimo della quintessenza dell’ebraicità, ma voglio registrare  il  fatto  che  le  più  importanti categorie del suo pensiero sono ebraiche. Nel senso stretto della parola, la sua teologia fu una forma di monoteismo  modificato.  « Modificato »  significa che oltre il vero o alto Dio si trovò spazio per altri dei, signori e poteri spirituali. Come ha di recente sottolineato Paula Fredriksen, molte persone, non solo ebrei, condividevano questa forma di monoteismo. Nella versione di Paolo, ciò che era ebraico fu che il vero Dio era il Dio di Israele. Tra le fonti giudaiche, le visioni di Paolo sono più vicine ai Rotoli del Mar Morto e ad alcune delle Apocalissi. Egli poi si univa agli ebrei suoi contemporanei nel denunciare l’adorazione di idoli. La visione di Paolo del tempo e della storia era giudaica. La visione greca più comune era che la storia è ciclica. Nel giudaismo, la storia comincia con la creazione e va verso uno scopo stabilito da Dio. Questa fu esattamente la visione di Paolo. La visione di Paolo della storia fu altamente escatologica, incentrata sull’arrivo imminente del climax della storia ordinaria. Molte culture hanno visioni di escatologia individuale:  ricompense e punizioni dopo la morte. Molte forme di giudaismo, comunque, seguendo parti della Bibbia, tendono verso la visione di un grande climax, dopo il quale gli eletti godranno pace, prosperità e sicurezza. Le aspettative dell’Apostolo sono, di nuovo, molto vicine a quanto si trova in alcune Apocalissi. La visione di Paolo riguardo alla sua attività è parte della sua escatologia. Sebbene gli apostoli dei gentili come lui non figurino nelle predizioni dei profeti ebraici, che sembrano aver atteso che i gentili spontaneamente si volgessero al Dio di Israele, la missione di Paolo fu a servizio di una visione giudaica del mondo. L’etica di Paolo fu giudaica. Tutti si opponevano all’assassinio, all’adulterio, al latrocinio, all’estorsione e così via. La più grande distinzione tra il giudaismo e il resto del mondo fu l’atteggiamento verso l’attività omosessuale. Paolo si unì ad altri ebrei nell’esservi totalmente contrario. Egli discute in dettaglio pochi argomenti di morale, ma la maggior parte delle sue opinioni etiche, inclusa la denuncia dell’attività omosessuale, appare nelle liste dei vizi. L’istruzione di Paolo, la giovinezza, la teologia, la visione del mondo, la vocazione e le opinioni riguardo al comportamento corretto sono tutte distintamente e profondamente ebraiche. Ma nonostante l’origine del movimento cristiano come una setta giudaica e l’assoluta ebraicità di Paolo, non dovremmo trascurare nelle sue lettere le indicazioni dove distingue il suo gruppo da ciò che egli chiamava giudaismo. Osserviamo innanzi tutto i passi in cui compare la parola « giudaismo »:  Paolo usa due volte il sostantivo, in Galati, 1, 13-14, e una volta il verbo « giudaizzare », in Galati, 2, 14. Non sono ricorrenze numerose, ma « giudaismo » sembra costituire un’entità del suo passato, non la stessa del suo gruppo attuale. Paolo usa termini specifici per il suo gruppo, senza arrivare alla parola « cristiano » o « cristianesimo » fa riferimento a una distinta terminologia. Gli studiosi spesso ignorano o sottovalutano questo aspetto. In Galati, 6, 16, egli usa la frase « l’Israele di Dio » che indica forse proprio il suo gruppo. Paolo chiama inoltre il suo gruppo, « la chiesa » o, meglio, « la comunità », una parola che occorre da sola e in una molteplicità di frasi. Spesso indica il suo gruppo con una frase che include la parola « Cristo ». I « morti in Cristo » hanno una posizione speciale quando il Signore ritornerà (i Tessalonicesi, 4, 16). Nelle lettere rimaste, Paolo saltuariamente usa una terminologia tripartita:  « Non date scandalo né ai giudei né ai greci né alla chiesa di Dio » (i Corinzi, 10, 32). In Romani distingue « noi » – il suo ambiente – dai giudei e dai gentili, che sono i gruppi dai quali « noi » siamo stati chiamati. I « giudei » e « la chiesa di Dio » sono entità distinte. Dal punto di vista terminologico, allora, Paolo distingue il suo gruppo sia dai giudei sia dai gentili, sia dal giudaismo sia dal paganesimo. La terminologia riflette la realtà sociale che Paolo abitava in un mondo tripartito:  c’erano ebrei, pagani e quelli che appartenevano a Cristo, alcuni dei quali erano appartenuti al giudaismo e alcuni al paganesimo. I convertiti di Paolo, per quanto sappiamo, furono gli ultimi:  i gentili, precedentemente pagani o idolatri. Lo afferma in modo esplicito nel caso dei cristiani di Tessalonica e della Galazia (i Tessalonicesi, 1, 9; Galati, 4, 8), e il desiderio dei suoi convertiti di Corinto di seguire pratiche idolatriche indica un background  di  paganesimo (i Corinzi, 8, 10). Gli Atti mostrano Paolo in origine come un apostolo dei giudei della diaspora, che si rivolse ai gentili solo dopo la delusione per l’esito della sua missione precedente. La visione di Paolo è del tutto differente:  Cristo lo inviò ai gentili. Troviamo la stessa idea quando consideriamo il suo compromesso con gli apostoli di Gerusalemme:  lui e Pietro si divisero il mondo, Pietro sarebbe andato dagli ebrei, Paolo dai gentili (Galati, 2, 7-10). Alcuni studiosi hanno interpretato questa come una divisione geografica, ma l’interpretazione più ovvia del linguaggio – che si riferisce ai « circoncisi » e ai « non circoncisi » – è una divisione etnica. Secondo questo accordo, Paolo non fu apostolo di chiunque dal vicino Oriente all’Europa, ma si dedicò ai pagani. Non voglio dire che avrebbe rifiutato l’opportunità di proporre il vangelo agli ebrei, ma questa non fu la sua missione. La caratteristica sociale dei suoi convertiti era evidente a Paolo, talvolta dolorosamente. Poiché non erano né ebrei né pagani, essi erano isolati, senza una identità sociale riconoscibile. Questa mancanza di identità poteva portare a persecuzioni per la distanza dai culti locali. Anche in assenza di persecuzione, i suoi seguaci dovevano rinunciare a molti dei piaceri della vita civile, come i banchetti di carne rossa, che erano disposti dalle celebrazioni pubbliche religiose. Vediamo così che il vocabolario di Paolo per il suo gruppo riflette accuratamente la nuova realtà sociale che risulta dalla sua predicazione del vangelo di Cristo:  una comunità di gentili che rinuncia all’idolatria, che pratica il culto del Dio di Israele fuori dalla sinagoga, che non conta né come ebraica né come pagana e che riconosce Gesù come suo Salvatore e Signore. Qualcuno potrebbe pensare che proponendo questa distinzione sociale e terminologica tra il gruppo di Paolo e il giudaismo io sostenga che Paolo cessò di essere ebreo. Non è così. La sua auto-identità è un altro problema. Paolo ebreo considerò se stesso come un apostolo ebreo dei gentili. D’altra parte, dobbiamo considerare la sua ferma convinzione che lui e le altre membra della sua comunità avevano acquistato una nuova identità. Paolo era un ebreo diventato un’unica persona con Cristo. E, come scrisse, se qualcuno è in Cristo, è « una nuova creazione » (ii Corinzi, 5, 17). Tuttavia, essere una sola persona con Cristo, parte di una nuova creazione, non rende Paolo stesso un non ebreo. Gesù era un ebreo e credo che per nessun motivo Paolo avrebbe rifiutato la sua identità etnica. Tuttavia la questione presente non è di definire la sua identità, ma piuttosto di chiarire il fatto che egli non pensava al suo gruppo in termini di « giudaismo ». L’unico modo con il quale avrebbe potuto affermare o pensare che le sue chiese costituivano parte del « giudaismo » sarebbe stato facendo una chiara distinzione tra falso e vero Israele. Avrebbe potuto scrivere che la nuova creazione era il vero giudaismo ma, per quanto ne sappiamo, non lo fece. Così egli fu ebreo e anche una persona nuova in Cristo, ma la sua comunità non formava « giudaismo »,  che  rimaneva un’entità  separata. Mentre Paolo riconobbe la distinzione sociale che lui e gli altri stavano creando dalle fondamenta – una nuova identità spirituale, né ebraica né pagana – questa divisione non era né ciò che voleva né ciò che attendeva come esito finale. La sua teologia ebbe un’ottica differente. Secondo lui ci sarebbe stato un unico gruppo universale, che avrebbe incluso ebrei, greci e barbari, tutti in Cristo. Non era accettabile che i membri gentili del suo movimento giudaizzassero, riducendo così il numero dei gruppi a uno solo. La sua opposizione al giudaizzare causò le più forti invettive presenti nelle sue lettere. Il suo gruppo non avrebbe dovuto giudaizzare; piuttosto, chiunque altro si sarebbe dovuto unire. Dal punto di vista teologico, Paolo sapeva quale doveva essere l’esito finale e vedeva anche che il piano presente per giungervi non funzionava perfettamente. La strategia, ricordiamo, prevedeva che lui (e apparentemente altri) avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo. Secondo la propria opinione, Paolo era vicino alla fine delle sue fatiche. Dopo un trionfo in un dibattito con i Corinzi, infatti, espresse ottimismo sul suo successo apostolico:  « Grazie a Dio, il quale in Cristo ci conduce sempre in processione trionfale e per mezzo nostro diffonde in ogni luogo il profumo che viene dalla sua conoscenza » (ii Corinzi, 2, 14). Nella opinione di Paolo, Pietro aveva lavorato molto meno bene. Questo è evidente dalla innovazione di Romani 11. L’aspettativa comune di un ricongiungimento alla fine dei tempi del popolo di Israele e del volgersi dei gentili verso Dio aveva seguito la sequenza ovvia:  prima Israele, poi i gentili. Questo è in realtà un tema dei primi due capitoli di Romani:  « l’ebreo prima e poi anche il greco » (1, 16; 2, 9-10). Così Pietro avrebbe dovuto preparare gli ebrei, mentre Paolo portava la sua missione coronata da successo ai gentili. Ma gli ebrei non erano pronti. E così Paolo sviluppò un piano alternativo:  i suoi gentili sarebbero entrati per primi nella nuova creazione. Questo avrebbe reso i giudei gelosi e li avrebbe convinti ad affrettarsi, in questo modo Paolo indirettamente avrebbe salvato « alcuni » ebrei assieme ai gentili (Romani, 11, 13-14). Egli ripete lo schema ai versi 25-26:  il « numero totale dei gentili » entrerà e così, in questo modo, « tutto Israele sarà salvato ». Per essere sicuro che il lettore accolga la sua scoperta, lo ripete una terza volta. Gli ebrei sono stati disobbedienti « in modo che, a causa della misericordia mostrata a voi (gentili) anche essi possano ora ricevere misericordia » (11, 30-31). L’uso di « in modo che » – hìna in greco – sottolinea la divina intenzione:  Dio ha reso gli ebrei disobbedienti per un periodo, allo scopo di autorizzare i gentili ad avere accesso per primi, cosa che consentirebbe poi di entrare agli ebrei. Paolo ha da poco scoperto quello che ritiene il vero piano di Dio per salvare tutti, una revisione rispetto a ciò che lui e gli altri avevano pensato in precedenza. Ora vede che proprio la sua missione verso i gentili aiuterà gli ebrei a salvarsi, in modo che tutti ricevano misericordia. Possiamo pensare però che il successo di Paolo come apostolo e la sua teoria sulla gelosia degli ebrei sia piuttosto un filo sottile a cui appendere la speranza della salvezza eterna per tutti. Da Romani, 11, 13 a 11, 32 Paolo offre per tre volte un modo razionale attraverso il quale Dio può salvare il mondo, una sequenza in cui la sua missione gioca un ruolo cruciale. Ma alla fine deve aver fiducia che sarà lo stesso Dio a escogitare un sistema. Il cervello fertile e ingegnoso di Paolo non può immaginare tutto. Siamo partiti dalle distinzioni sociali tra ebreo, pagano e cristiano così come appaiono nelle lettere di Paolo e arrivati alla soluzione teologica/escatologica di Paolo, alla divisione sociale degli esseri umani:  tutti saranno un solo popolo. Gli apostoli dovranno fare del loro meglio per portare tutti nel corpo di Cristo, mentre la storia ordinaria continua, sebbene il tempo sia davvero breve. Ma alla fine del tempo, quando il redentore verrà dal monte Sion, Dio compirà lo scopo – la salvezza del mondo – in un modo che noi non possiamo comprendere. Tornando alla fine di Romani, 11 e alla salvezza dell’umanità non si può immaginare un piano che sia più interamente ebraico. Nel background c’è la dottrina giudaica secondo la quale Dio ha creato il mondo e lo ha dichiarato buono:  questo principio è ovvio nella prima fiammata di universalismo di Paolo, i Corinzi, 15, 22:  « Come tutti muoiono in Adamo, così in Cristo tutti riceveranno la vita ». Questo passo porta immediatamente alla soggezione a Dio alla fine di « tutte le cose » (i Corinzi, 15, 27-28). Proprio come – secondo Romani, 11, 32 – Dio ha rinchiuso gli uomini nella disobbedienza così da salvarli tutti, così come Dio ha sottomesso l’intera creazione alla caducità così da renderla « libera dalla sua schiavitù alla corruzione » quando Lui porterà la storia ordinaria alla sua fine (Romani, 8, 20-21). Che Dio abbia un piano benefico a lungo termine per una fine felice della storia ordinaria è un pensiero profondamente  giudaico,  sebbene  i  beneficiari siano diversi nei differenti corpi della letteratura. Che il piano includa peccato e sofferenza lungo la strada è ugualmente  giudaico.  Allo  stesso modo,  secondo  Giuseppe,  Dio  progettava il trasferimento del potere a Roma e  progettava  la  distruzione del tempio, che doveva essere purificato a causa dello spargimento di sangue e del peccato. Sintetizzando, Paolo viveva e operava in un mondo che parlava greco. Quale che fosse la sua conoscenza di questo contesto, la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica. Temporaneamente, egli pensò, creò un terzo gruppo, né ebreo né gentile, come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione.

Nel confronto tra fede e ragione : Il genio di san Paolo

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

SE SI RINUNCIA AL BRIVIDO DELLA FEDELTÀ – L’ATTIMO SFUGGENTE (O.R.)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2012/172q01b1.html

SE SI RINUNCIA AL BRIVIDO DELLA FEDELTÀ

L’ATTIMO SFUGGENTE

DI CRISTIAN MARTINI GRIMALDI

Se si volesse rintracciare la spia di un generico, ma sempre più diffuso, malessere giovanile, si dovrebbe concentrare la ricerca su quell’intermittente vuoto esistenziale che sempre più scandisce la vita delle nuove generazioni. Cioè quella sensazione di avere vissuto intensamente « tutto » la sera prima, trovandosi poi la mattina seguente con un enorme vulnus interiore. Somiglia al brivido e all’emozione di una pesca riuscita, ma per poi scoprire di avere tra le mani una rete lacerata.
È la malattia di questo tempo, tutto concentrato sulla soddisfazione del momento, in preda a un attimo fuggente che però quasi mai si tramuta nella solida prospettiva di un progetto futuro. Sarebbe dunque più giusto chiamarlo attimo sfuggente, perché le vere opportunità non vengono neppure riconosciute e il giovane, cresciuto a dosi di bulimica saturazione dei propri desideri (che spesso altro non sono se non impulsi dell’istinto), non sapendo riconoscere l’occasione giusta, cerca di coglierle tutte.
Occorre invece tempo per fare maturare le implicazioni di una scelta, che solo nella durata diventa vera novità. Lo sanno bene gli artisti che, da una fugace intuizione, gettano le fondamenta di opere dal respiro assoluto. Ma il seme giusto non potrà mai portare frutto in una cultura dove il carpe diem è passato da ispirazione a prassi, se non addirittura metodo, perché si è bruciata, per ottundimento da assuefazione, la possibilità che quel seme inizi a germogliare.
Ecco allora che, a rendere ancora più opachi e indecifrabili i desideri di una generazione già fragile e disorientata, si finisce per assecondare questa tendenza con il progetto di omologare l’ultima delle scelte non precarie, cioè il matrimonio, allo spirito del tempo. Così le proposte di ridurre i tempi legali per il divorzio non sono tanto una soluzione burocratica per alleviare le fatiche e gli affanni della separazione a una generazione che di vere fatiche ne ha conosciute ben poche. Si tratta piuttosto dello sbriciolamento – e il mandante è l’ipertrofico ego contemporaneo – del-l’ultimo tabù posto a vigilanza di una società psicologicamente gracile e volubile, assuefatta a sconfessare sempre le proprie scelte e a relativizzare comunque le proprie responsabilità.
Il matrimonio, infatti, è anche un cammino di educazione emotiva e sentimentale della persona, perché non tutto in questa vita ha il sapore, il gusto e la durata di una mentina. Le cose non durano per una loro proprietà intrinseca, ma durano perché sono nate, cresciute e maturate con noi: diventano parte della vita stessa, tanto che poi ucciderle è un po’ come uccidersi. Perché esiste anche il brivido della fedeltà a vita – lo sanno bene i tifosi di una squadra di calcio – e certo non solo quello del ripensamento.
Questa nuova generazione invece è sempre a caccia di attimi fuggenti perché nessuno le ha insegnato che il tempo perso è perduto per sempre, che non esistono gesti senza conseguenze, perché le conseguenze dei propri atti sono infinite. Ecco allora che dire di sì a un legame che non preveda facili scappatoie significa non soltanto coltivare la speranza di una felicità duratura, ma ancora di più mandare un segnale dal forte impatto pedagogico a una generazione mai avvertita delle conseguenze dei propri atti estemporanei, perché sempre emendabili, sempre riscrivibili. Così chi plaude al cosiddetto divorzio breve è, prima ancora che un conformista, un debole educatore.

(©L’Osservatore Romano 27 luglio 2012)

Il Natale nella poesia liturgica di Romano il Melode: Adamo ed Eva alla grotta del nuovo bambino – di Manuel Nin

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/300q01b1.html

(Osservatore Romano)

Il Natale nella poesia liturgica di Romano il Melode

Adamo ed Eva alla grotta del nuovo bambino

di Manuel Nin

Le tradizioni liturgiche orientali, molto spesso con forme letterarie belle e nello stesso tempo contrastanti, ci propongono la contemplazione del mistero della nostra fede. Romano il Melode, teologo e poeta bizantino del vi secolo, nel suo primo kontàkion (poema a uso liturgico) come ritornello ripete le parole « nuovo bambino, il Dio prima dei secoli » che riassumono il mistero celebrato:  il Dio eterno, esistente prima dei secoli, diventa nuovo nel bambino neonato. La tradizione bizantina, celebrando la « nascita secondo la carne del Dio e salvatore nostro Gesù Cristo » accosta, sia nell’iconografia che nell’eucologia, la celebrazione del Natale a quella della Pasqua. L’icona del Natale nel bambino fasciato messo in un sepolcro vuole prefigurare già il sepolcro dove il Signore, di nuovo fasciato, verrà messo il Venerdì Santo per risuscitarne glorioso all’alba di Pasqua. I testi della liturgia con immagini molto profonde e vivaci ci propongono così tutto il mistero della nostra salvezza.
Nelle settimane precedenti il Natale, senza un vero e proprio periodo corrispondente all’Avvento delle tradizioni latine, la liturgia bizantina in bellissimi tropari ci ha fatto pregustare tutto il mistero dell’Incarnazione:  l’attesa fiduciosa e la povertà della grotta, prefigurazione della miseria dell’umanità che accoglie il Verbo di Dio; e ancora, tutta la serie di figure e personaggi che si affacciano nella vita liturgica di questi giorni:  i profeti Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Daniele e i Tre Fanciulli; Betlemme, quasi personificata e collegata con l’Eden; Isaia che si rallegra, Maria, la Madre di Dio presentata come « agnella », cioè colei che porta in seno Cristo, l’Agnello di Dio; infine, nelle due domeniche che precedono il Natale, i Progenitori di Dio da Adamo fino a Giuseppe, cioè la lunga serie di figure che hanno atteso il Cristo e che ci ricordano il fatto che anche noi siamo parte di una storia e di una umanità che l’accolgono nella veglia fiduciosa, ma anche nel buio, nel dubbio e nel peccato.
Nel secondo dei kontàkia Romano il Melode narra la visita di Adamo ed Eva alla grotta del neonato. Il canto di Maria all’orecchio del bambino sveglia Eva dal sonno eterno ed essa persuade Adamo di recarsi nella grotta per capire cosa sia quel canto. Nel dialogo tra Eva e Adamo svegliati ormai dal loro sonno la donna gli annuncia la buona notizia:  « Ascoltami, sono la tua sposa:  io, che sono stata la prima a provocare la caduta dei mortali, oggi mi rialzo. Considera i prodigi, guarda l’ignara di nozze che guarisce la nostra piaga con il frutto del suo parto. Il serpente una volta mi sorprese e si rallegrò, ma al vedere ora la mia discendenza fuggirà strisciando ». La nascita verginale di Cristo diventa guarigione, salvezza per il genere umano ferito dal peccato.
E le risponde Adamo:  « Riconosco la primavera, o donna, e aspiro le delizie da cui decademmo allora. Scorgo un nuovo, diverso paradiso:  la Vergine che porta in grembo l’albero di vita, lo stesso albero sacro che custodivano i cherubini per impedirci di toccarlo. Ebbene, guardando crescere questo intoccabile albero, ho avvertito, o mia sposa, il soffio vivificante che fa di me, polvere e fango immoti, un essere animato. Adesso, rinvigorito dal suo profumo, voglio andare dove cresce il frutto della nostra vita, dalla Piena di grazia ». Il risveglio di Adamo è una prefigurazione, in quanto viene collocato nella primavera, cioè nel contesto pasquale in cui sarà definitivamente riportato in paradiso. E questo è anche cambiato, rinnovato:  « Scorgo un nuovo, diverso paradiso », che altro non è se non il grembo della Vergine che porta il nuovo albero della vita.
« Sono sopraffatto dall’amore che sento per l’uomo » risponde il Creatore. « Io, o ancella e madre mia, non ti rattristerò. Ti farò conoscere tutto ciò che sto per fare e avrò rispetto per la tua anima, o Maria. Il bambino che ora porti tra le braccia, lo vedrai fra non molto con le mani inchiodate, perché ama la tua stirpe. Colui che tu nutri, altri l’abbevereranno di fiele; colui che tu chiami vita, dovrai tu vederlo appeso alla croce, e di lui piangerai la morte. Ma tu mi stringerai in un abbraccio allorché sarò risuscitato, o Piena di grazia. Tutto questo sopporterò volentieri, e causa di tutto questo è l’amore che ho sempre sentito e sento tuttora per gli uomini, amore di un Dio che non chiede altro che di poter salvare ». All’udire queste parole Maria grida:  « O mio grappolo, che gli empi non ti frantumino! Quando sarai cresciuto, o Figlio mio, che io non ti veda immolato! ». Ma egli risponde:  « Non piangere Madre, su ciò che non sai:  se tutto questo non sarà compiuto, tutti coloro, a favore dei quali mi implori, periranno, o Piena di grazia ».
Un Dio il quale « non chiede altro che di poter salvare ». Questa è la realtà, l’unica realtà che celebriamo in questi giorni nella nostra fede cristiana:  l’amore di Dio per gli uomini manifestatosi pienamente in Gesù Cristo. E viviamo questa realtà in tutta la nostra vita come cristiani. Come cristiani nel condividere – e forse anche nel mettere in contrasto la nostra fede – con un mondo segnato fortemente dall’individualismo, dall’oblio dell’altro, dall’ignoranza degli altri; una fede che dovrà predicare un Dio che è dono gratuito, che perdona, che ama, e perché ama si sacrifica per gli altri e non chiede altro che poter salvare. Lui « nuovo bambino, il Dio prima dei secoli ».

(©L’Osservatore Romano 25 dicembre 2008)

Il sinassario bizantino nella quaresima di Natale, I profeti e i santi che annunciano l’Incarnazione di Cristo

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2009/288q01b1.html

da l’Osservatore Romano

Il sinassario bizantino nella quaresima di Natale

I profeti e i santi che annunciano l’Incarnazione di Cristo

di Manuel Nin

Nella tradizione bizantina a metà novembre inizia la quaresima di Natale, una preparazione fatta in un modo discreto e umile. Diverse celebrazioni ne scandiscono il percorso: il concepimento di sant’Anna; le commemorazioni di profeti, dottori, monaci, le due domeniche prima di Natale chiamate dei progenitori e dei santi Padri. La liturgia bizantina prepara l’umiliazione (kènosis) del Verbo di Dio nell’umiltà della liturgia. Nel sinassario di dicembre ricorrono la Madre di Dio, profeti, martiri, vescovi, monaci, come se la liturgia volesse radunare questi grandi cristiani – e noi con loro – per preparare e testimoniare il mistero dell’Incarnazione.
La Madre di Dio è presente nella festa del concepimento di sant’Anna, « madre della Madre di Dio », che contempla la benedizione di Dio verso Gioacchino e Anna, con la divina maternità di Maria: « Una coppia di sposi produce la venerabile e divina giovenca dalla quale in modo inesprimibile procederà il vero vitello grasso, immolato per il mondo intero; lo straordinario mistero, profetizzato dall’eternità, si mostra oggi in un infante nei lombi della casta Anna: è Maria, la bimba divina, preparata per divenire dimora dell’universale Re dei secoli e per riplasmare la nostra stirpe ».
Cinque profeti – Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Daniele – vengono celebrati con i tre fanciulli Anania, Azaria e Misaele come coloro che hanno preannunciato l’avvento di Cristo: « Stando sulla sua divina vedetta, il venerabile Abacuc ha udito il mistero ineffabile del tuo avvento fra noi, o Cristo, e profetizza l’annuncio che si farà di te, poiché vede in anticipo i sapienti apostoli come cavalli che sconvolgono il mare delle genti numerose ». Daniele e i tre fanciulli sono presentati come modelli di vita integra e di virtù, « che, non d’oro per natura, si rivelano più provati dell’oro: infatti, non li fuse il fuoco della fornace, ma li conservò illesi ». E Daniele è cantato come profeta della divinità di Cristo e della divina maternità di Maria: « Si onori ora Daniele, sommo tra i profeti: egli vide infatti il Cristo Dio nostro come pietra tagliata, non per mano d’uomo, dal monte che è la pura Madre di Dio ».
Quattro martiri – Barbara, Lucia, Sebastiano, Bonifacio – sono ricordati in dicembre. Per Barbara la liturgia bizantina sottolinea il ruolo della croce dove la martire, come Cristo, vince la morte. E di Lucia il tropario della festa mette in evidenza la dimensione sponsale della martire, della Chiesa e dell’anima di ogni cristiano: « Te, mio sposo, io desidero, e per cercare te combatto, sono con te crocifissa e con te sepolta nel tuo battesimo; soffro con te, per poter regnare con te, e muoio per te, per vivere in te ».
Grandi vescovi e Padri della Chiesa – Giovanni Damasceno, Nicola di Mira, Ambrogio di Milano, Spiridione e Ignazio di Antiochia – sono radunati in questo periodo. Il Damasceno è presentato come teologo e cantore della fede: « Sapientissimo padre Giovanni, hai fatto bella la Chiesa con inni, cantando con alta ispirazione, toccando la tua cetra, o padre, per l’energia dello Spirito, a imitazione di quella armoniosissima di Davide ». Di Nicola la tradizione bizantina mette in risalto la figura di taumaturgo e intercessore: « Pastori e maestri, conveniamo insieme per lodare il pastore emulo del buon pastore; i malati facendo l’elogio del medico; quelli che sono nei pericoli, del liberatore; i peccatori, dell’avvocato; i poveri, del tesoro, gli afflitti, del conforto; i viaggiatori, del compagno di viaggio; quelli che sono in mare, del nocchiero ».
Ambrogio, uno dei pochi Padri latini presenti nel sinassario bizantino, è presentato come difensore della vera professione di fede della Chiesa: « Padre santo, Ambrogio sacratissimo, lira che canta per tutti noi la melodia salvifica delle dottrine ortodosse, cetra sonora del divino Paraclito; grande strumento di Dio, tu proclami con chiarezza un unico Figlio in due nature, fatto carne, che si è manifestato a noi dall’ignara di nozze, e che è consustanziale al Padre, al Padre coeterno e a lui naturalmente unito; hai così represso con la potenza dello Spirito la blasfema loquacità di Ario ».
Ignazio di Antiochia viene celebrato alle porte del Natale con un intreccio di testi ispirati o presi dalle sue lettere: « O ferito dalla carità perfetta, quando la folgorante passione infiammò la tua anima, o sacratissimo, affrettandoti, o padre, ad andare verso il Sovrano, gridasti quella parola degna d’esser celebrata: Frumento del Creatore io sono, e bisogna che io sia macinato dai denti delle fiere, affinché io divenga purissimo pane per il Verbo Dio nostro ».
Tra i santi monaci di questo periodo – Saba, Patapio, Daniele Stilita – in modo speciale viene celebrato san Saba, « simile agli angeli, compagno dei santi, consorte dei profeti, coerede dei martiri e degli apostoli, lampada inestinguibile della continenza, tersissimo luminare dei monaci, risplendente per i fulgori della carità ». La Madre di Dio, i profeti, i martiri, i Padri e i monaci sono così i punti di riferimento verso la celebrazione e la contemplazione dell’Incarnazione del Verbo, il nuovo bambino e Dio prima dei secoli.

(L’Osservatore Romano 13 dicembre 2009)

Il san Paolo di Tommaso d’Aquino : Un vaso ricolmo di sapienza

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2009/144q04a1.html

(L’Osservatore Romano 25 giugno 2009)

Il san Paolo di Tommaso d’Aquino

Un vaso ricolmo di sapienza

Presso l’Accademia San Tommaso d’Aquino in Vaticano si è svolto un convegno su san Tommaso lettore di san Paolo. Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Tommaso parte dalla definizione che di Paolo è data negli Atti degli apostoli, dov’è denominato « vaso di elezione » (9, 15), e dallo sviluppo di questa immagine ne disegna – in apertura al suo commento paolino – la figura spirituale.
« Il beato Paolo viene chiamato vaso di elezione, e quale vaso egli fosse risulta da ciò che si dice nel Siracide: « Come un vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose » (50,9). Fu un vaso d’oro per lo splendore della sua sapienza. Perciò il beato Pietro gli rende testimonianza dicendo: « Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto secondo la sapienza che gli è stata data »(i Pietro, 3 15) ».
« Egli fu inoltre saldo nella virtù della carità (…). Nella Lettera ai Romani, dice: « Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire ecc. potrà mai separarci dall’amore di Dio » (8, 38) ».
« E di che genere fosse questo vaso risulta da quanto esso elargiva: insegnò i misteri dell’eminentissima divinità che riguardano la sapienza, come appare da 1 Corinzi: « Tra i perfetti parliamo di sapienza »(2,6); elogiò inoltre altamente la carità, in 1 Corinzi, 13; insegnò agli uomini le varie virtù, come risulta da Colossesi, 3, 12: « Rivestitevi dunque come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine »".
Volgendo l’attenzione su quanto Paolo, quale « vaso » di elezione, contenesse, Tommaso premette il rilievo che, come « ci sono vasi di vino, vasi di olio e altri vasi diversi secondo il genere », così ci sono « uomini (…), riempiti divinamente con diverse grazie, come si dice in 1 Corinzi: « A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro il linguaggio della scienza… »(12,8) ».
Ora, Paolo fu ripieno del liquido prezioso che è « il nome di Cristo, del quale nel Cantico dei Cantici si dice: « Profumo olezzante è il tuo nome »(1, 2) ». Perciò si dice « Egli è il vaso eletto per me affinché porti il mio nome ». E infatti si mostra tutto ripieno di questo nome, come si afferma nell’ Apocalisse: « Inciderò su di lui il mio nome (3,12) ».
E l’Angelico precisa: « Ricevette questo nome nella conoscenza dell’intelletto, secondo quanto si dice in 1 Corinzi: « Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso » (2,2). Inoltre ebbe questo nome nei suoi affetti, conformemente a Romani: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (8,35); e a 1 Corinzi: « Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema » (16,22). Si tenne poi stretto a lui in tutto il suo modo di vivere. Per cui in Galati dichiara: « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (2,20) ».
Ma Paolo non solo fu personalmente colmo del nome di Cristo, ma fu anche destinato a portare questo nome agli altri. « Era infatti necessario – scrive Tommaso – che il nome fosse portato perché si trovava lontano dagli uomini ». Quel nome « è lontano da noi a causa del peccato », « a causa dell’oscurità dell’intelletto ». Ora « il beato Paolo portò il nome di Cristo anzitutto nel corpo, imitando la sua condotta e la sua passione, secondo Galati « Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo »(6,17); e poi nella sua bocca, e questo risalta dal fatto che nelle sue lettere nomina spessissimo Gesù Cristo: « Poiché la bocca parla della pienezza del cuore » come si asserisce in Matteo (12, 34) ».
In particolare, Paolo – paragonato dal Dottore Angelico alla colomba che recò all’arca del diluvio il ramoscello d’ulivo, simbolo della misericordia – « recò quel ramoscello alla Chiesa, allorché espresse in molti modi la sua virtù e il suo significato, mostrando la grazia e la misericordia di Cristo. Per cui in 1 Timoteo dice: « Appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità »(1,16) ».
E al riguardo l’Angelico annota: « Come tra le Scritture dell’Antico Testamento nella Chiesa si usano più frequentemente i Salmi di Davide, che dopo il peccato ottenne il perdono, così nel Nuovo Testamento si usano le lettere di Paolo, che ottenne il perdono, perché i peccatori siano innalzati verso la speranza ».
Per Tommaso le lettere di Paolo contengono soprattutto un messaggio di misericordia e di speranza, ed è la ragione per la quale la Chiesa le legge spesso. Ma egli aggiunge un’altra ragione ed è che nei Salmi e nelle Lettere paoline « è contenuta quasi l’intera dottrina della teologia – fere tota theologiae continetur doctrina ».
Paolo, inoltre, portò il nome di Cristo « non solo ai presenti, ma anche agli assenti e ai futuri, trasmettendo il senso della Scrittura », esattamente coincidente con il nome di Cristo.
È proprio « in questo ufficio consistente nel portare il nome di Dio » una triplice « eccellenza » di Paolo.
In primo luogo, un’eccellenza quanto alla « grazia dell’elezione ». Paolo è chiamato « vaso di elezione » – in virtù, quindi, di una scelta divina avvenuta « prima della creazione del mondo » (Efesini, 1, 4). In secondo luogo, un’eccellenza quanto « alla fedeltà »: « Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Corinzi, 4, 5).
Infine, un’eccellenza singolare nella sua fatica apostolica: lui stesso in 1 Corinzi afferma: « Anzi ho faticato più di tutti loro ». Per questo viene espressamente definito « un vaso di elezione per me ».

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