Archive pour la catégorie 'CHIESA ORTODOSSA'

I santi nelle altre confessioni cristiane (Chiesa Ortodossa)

dal sito:

http://it.cathopedia.org/wiki/Santo#Chiese_ortodosse

I santi nelle altre confessioni cristiane

Chiese ortodosse
 
Reliquie di San Demetrio di Tessalonica, ubicate nella chiesa greco-ortodossa di San Demetrio in TessalonicaNella Chiesa cristiana ortodossa è definito Santo chiunque si trovi in paradiso, che sia riconosciuto come tale sulla terra o meno. Secondo questa definizione, Adamo ed Eva, Mosè, i vari profeti, gli angeli e gli arcangeli hanno tutti il titolo di Santo.
Gli ortodossi credono che Dio riveli i suoi santi, spesso rispondendo a preghiere o con altri miracoli. Per gli ortodossi, il riconoscimento formale di un santo avviene molti anni dopo che questi è stato riconosciuto da una comunità locale. Esistono numerosi piccoli seguiti locali per innumerevoli santi che non sono ancora stati riconosciuti dalla Chiesa ortodossa nel suo insieme. Si deve sottolineare che comunque questo riconoscimento non è necessario, un santo rivelato, anche su piccola scala è comunque un santo. Ci sono comunque spesso casi in cui Dio rivela i suoi santi su una scala più ampia, perfino mondiale. In tali casi, dopo un attento processo di delibera da parte di un sinodo di vescovi, si ha un formale servizio di glorificazione col quale al santo viene assegnato un giorno nel calendario, così che possa essere celebrato dall’intera chiesa.
Questo fu il caso della santificazione dello zar Nicola II di Russia e della sua famiglia. Inizialmente i membri della famiglia reale vennero riconosciuti come martiri dalla Chiesa Ortodossa Russa in esilio nel 1981, dopo di che, molti credenti in Russia iniziarono a pregare lo Zar e la sua famiglia. Vennero riportati dei miracoli, compresa un’icona ritenuta miracolosa che portò a un’immediata glorificazione locale. Nel 2000, lo Zar e la sua famiglia vennero glorificati ufficialmente dalla Chiesa ortodossa russa.
Si crede che uno dei modi con cui Dio rivela la santità di una persona possa essere l’inusuale e presumibilmente miracolosa condizione delle sue reliquie (dei suoi resti). Nei paesi ortodossi è spesso usanza di riutilizzare le tombe dopo 3 o 5 anni, a causa dello spazio limitato. Le ossa vengono rispettosamente lavate e poste in un ossario, spesso con il nome della persona scritto sul teschio. Occasionalmente, quando un corpo viene esumato, avviene qualcosa di « miracoloso ». Ci sono stati numerosi casi in cui le ossa esumate avevano improvvisamente sprigionato una fragranza meravigliosa, come di fiori; o talvolta i resti del corpo erano intatti e privi di segni di decadimento, come nel giorno in cui la persona era morta, nonostante non fossero stati imbalsamati (tradizionalmente gli ortodossi non imbalsamano i morti) e fossero stati sepolti per 3 o 5 anni. 
Icona di Sant’Efrem il Siro presente a Meryemana Kilesesi, Diyarbakr, TurchiaIl motivo per cui le reliquie sono considerate sacre è perché, per gli ortodossi, la separazione di corpo e anima è innaturale. Corpo e anima assieme costituiscono la persona, e alla fine, le due parti verranno riunite; quindi, il corpo di un santo condivide la « santità » dell’anima del santo. Come regola generale, solo il clero può toccare le reliquie, allo scopo di spostarle o portarle in processione, comunque, nella venerazione, i fedeli baceranno le reliquie per mostrare amore e rispetto nei confronti del santo. Ogni altare di ogni chiesa ortodossa contiene delle reliquie, solitamente di martiri. Gli interni delle chiese ortodosse sono ricoperti con le icone dei santi.
Siccome la chiesa non mostra una reale distinzione tra i vivi e i morti (i santi sono vivi in paradiso), gli ortodossi trattano i santi come se fossero ancora presenti. Li venerano e richiedono le loro preghiere, e li considerano fratelli e sorelle in Gesù Cristo. i santi sono venerati e amati e viene chiesto loro di intercedere per la nostra salvezza, ma deve essere compreso chiaramente che non devono essere adorati, ma piuttosto trattati con il rispetto dovuto a chiunque abbia combattuto e vinto per la giusta causa. Questo pone i santi in una posizione in cui possono aiutare l’umanità tramite la loro diretta comunione con Dio, attraverso l’intercessione per la nostra salvezza, e addirittura occasionalmente con la loro interazione diretta. Si crede che molti santi siano apparsi allo scopo di aiutare la gente in momenti di bisogno.
Tradizionalmente, quando una persona viene battezzata nella Chiesa ortodossa, poiché « nasce nuovamente » ed è una persona nuova, le viene dato un nuovo nome, sempre appartenuto ad un santo. È comune che indipendentemente dal nome con cui una persona è nata, questa persona inizi ad usare come suo esclusivamente il nome del suo santo. Questo santo diventa il patrono personale e invece del compleanno il battezzato celebra il giorno del suo santo con una maggiore importanza

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 14 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

L’icona della Parola (Vladimir Zelinskij) (Paolo e gli Ortodossii)

le icone di San Paolo nella Chiesa orientale, per vedere le icone citate andare sul sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0811je/0811je84.htm

ANNO PAOLINO – PAOLO E GLI ORTODOSSI

L’icona della Parola

di Vladimir Zelinskij 

Nell’iconografia delle Chiese orientali, san Paolo è spesso raffigurato in situazioni e avvenimenti che sicuramente non hanno fondamento storico. Caso tipico è la sua presenza durante la Pentecoste. Questo succede perché nel mondo delle icone non è importante la rappresentazione del dato di realtà, quanto piuttosto il suo significato spirituale.
L’icona ortodossa, di solito, non cerca di riprodurre la somiglianza del ritratto o esprimerne l’esatta verità storica. L’icona ci svela un’altra realtà, ci insegna a vedere le persone che hanno vissuto il passato nel loro oggi eterno – anzi, nel mondo che verrà, quando Dio sarà tutto in tutti. Gli abitanti di quel mondo non seguono sempre la storicità del fatto, ma si conformano alla verità dello Spirito, prendendo «parte nella gioia» del Signore (cfr. Mt 25). Così, in un’antica icona dedicata alla Pentecoste, vediamo san Pietro di fronte a san Paolo nel cerchio degli altri apostoli e sappiamo che Paolo quel giorno non era presente. In un’altra, Gesù stesso dà il calice all’Apostolo dei gentili – un avvenimento che non ebbe mai luogo. Ma immagini come queste sono nate all’interno della visione orientale della figura dell’Apostolo dei gentili, per il quale l’incontro con Gesù sulla via di Damasco è diventato anche comunione con lo Spirito Santo, sorgente inesauribile della fede.
«Il Consolatore… vi ricorderà tutto ciò che ho detto…», dice Gesù (Gv 14,26). Ma che cosa poteva ricordare Saulo di Tarso, il fariseo (cfr. At 26,5), che non aveva mai incontrato il suo Maestro durante la sua vita terrena? Dove aveva potuto sentire le parole dette e non dette di Gesù? Sembra che Paolo sappia tutto fin dall’inizio, come se gli fosse stato insegnato dal Maestro interiore: «Senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me…» (Gal 1,16). Quell’incontro con Gesù faccia a faccia aveva anche un suo significato pneumatologico: il risveglio o la rivelazione nel cuore dell’Apostolo (e potenzialmente in ogni persona umana) – in cui lo Spirito scopre, manifesta, risveglia Cristo come Figlio di Dio – «del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo» (Ef 3,9).

ICONA
San Paolo insieme agli altri apostoli durante la Pentecoste
(foto Patriarcato di Mosca).

Paolo ci insegna che ogni essere umano porta quel mistero nel proprio cuore e può illuminarlo con la luce di Cristo. «Il suo cuore era quello di Cristo, la cronaca dello Spirito Santo, il libro della grazia», dice san Giovanni Crisostomo. Cristo abitava in Saulo prima che lui fosse diventato Paolo, dice lui stesso. «Quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me il suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani…» (Gal 1,15-16). Ma questa predestinazione è universale. Il mistero rivelato si esplica nella predicazione. Ciò che è nascosto nella profondità di Dio è affidato agli uomini. D’un tratto san Paolo riesce a riconciliare l’ineffabile intimità della fede con la missione ai popoli, con il servizio alla gente, con la cattolicità della Buona Notizia destinata a tutti. Il segreto della fede in Cristo che vive nella sua Parola e nello Spirito che la « ricorda », la apre e la realizza, non è un tesoro da custodire nell’oscurità, ma una ricchezza da scoprire e da manifestare «ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,26-27). La « gloriosa ricchezza » del Signore rivelata a Paolo l’ha iniziato a ragionare nello Spirito e a conoscere il mondo nella Parola. Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: «Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?», Paolo risponde: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16).

ICONA
San Paolo visto da Andrej Rublev, icona conservata
al Museo statale di San Pietroburgo (foto Scala, Firenze).

In un attimo, come è spesso da lui, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il « pensiero di Cristo » (noun Christou) – il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso – significa che il nostro intelletto e «il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori» (Ef 3,17) hanno qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama Spirito Santo. La Sua presenza non deve essere accettata e creduta solo come una dottrina stabilita, ma conosciuta dall’interno con il « pensiero di Cristo » o con la sapienza messa nei concetti. In altre parole, la nostra conoscenza di Dio può essere paragonata all’icona – vera e al tempo stesso trasparente –, poiché essa ci rivela il mistero della Trinità che c’incontra e ci ama. E quando invochiamo il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo siamo proprio al centro del Mistero aperto – quello dell’amore –, spalancato davanti a noi, ma anche dentro di noi. Siamo al centro di questa luce che, come dice un inno bizantino, neanche i Cherubini e i Serafini sono capaci di sopportare.
Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano – che è stata data all’Apostolo dei pagani – trova il suo sviluppo originale nella teologia di Massimo il Confessore (VII sec.). Il concetto paolino suggerisce a Massimo una sintesi della « filosofia cristiana » completamente originale e organica. Nella sua prospettiva il «pensiero di Cristo che ricevono i santi» si situa nella visione trinitaria attraverso la presenza dello Spirito Santo, «in quanto guida di sapienza e di conoscenza» (Centurie gnostiche, II,63) e con l’apertura verso il Padre, che «si trova naturalmente tutto intero, indiviso, in tutta la Sua Parola» (II,71).
«Il pensiero di Cristo… non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale» (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come «illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero…». La potenza del pensiero per san Paolo, secondo san Massimo, si trova nel suo logos, cioè, nell’idea o nel principio di ogni cosa, di ogni essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo ortodosso Basile Osborn, la sua «struttura interiore». Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel « pensiero di Cristo ». Così pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato né con i sensi né con l’intelletto.

ICONA
Un’icona russa che illustra i viaggi di Paolo
(foto P. Ferrari/Periodici San Paolo).

« Il pensiero di Cristo » di san Paolo è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale – o comunione della ragione che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente si comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili e invisibili, e «contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute» (Rom 1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito o nel « pensiero di Cristo » immesso in tutte le cose.
Una volta san Paolo fece ai suoi discepoli di Efeso una domanda: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Ed essi, come racconta il libro degli Atti degli Apostoli, risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (19,1-2). Nel Vangelo lo Spirito Santo rimane ancora soltanto una Persona promessa. Con la rivelazione paolina l’immagine del Dio Trino comincia a chiarirsi. È stato lui, Paolo, che ha trovato un linguaggio umano almeno per sfiorare e far sentire l’azione e la presenza dello Spirito Santo.
Prima di tutto come amore divino: «L’amore di Dio è stato riservato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rom 5,5). «Il suggello dello Spirito Santo» (Ef 1,13) che noi riceviamo ci porta la libertà in Cristo (2Cor 3,17) e la diversità dei carismi e dei ministeri. «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1Cor 12; 4.7). Si tratta dell’utilità che si realizza nella Chiesa come corpo di Cristo (cfr. Ef 1,23).
L’opera dello Spirito, secondo Paolo, è la fede che si apre alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ma questa rivelazione è anzitutto relazione con Lui e coinvolge tutta l’anima, tutto il nostro essere. «Lo Spirito di Dio abita in voi», scrive Paolo ai Romani che hanno ricevuto il dono della fede (8, 27). Quando la fede manca o il peccato s’impossessa dell’anima umana, lo Spirito «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rom 8,26) e fa crescere i suoi frutti («amore, gioia, pace…», Gal 5,22). Con i frutti dello Spirito «noi veniamo trasformati in quella medesima immagine» (2Cor 3,18), che è l’immagine di Cristo. Questa visione della trasformazione (o della trasfigurazione) dell’essere umano ha comportato la nascita di una delle esperienze più profonde nella spiritualità orientale: quella della deificazione, della somiglianza dell’uomo al Dio incarnato.

ICONA
Particolare di un’icona serba con i santi Pietro e Paolo,
conservata nella Biblioteca vaticana (foto Scala, Firenze).

«Dio è diventato uomo affinché l’uomo possa diventare dio per mezzo della grazia», dicevano i Padri della Chiesa. La radice di questa idea la troviamo già in san Paolo. Siamo figli di Dio, afferma lui. «E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo… Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi» (Rom 8,14-18).
Un’altra luce appare in queste righe: un regno che viene, che si costruisce in noi attraverso le sofferenze degli «eredi di Dio». Nel lungo e difficile processo di trasformazione delle nostre anime e dei nostri corpi per partecipare alla gloria del Regno, all’uomo è assegnata la parte più attiva. L’uomo diventa un collaboratore di Dio e questa collaborazione si fa nel travaglio del suo cuore e del suo Spirito. L’uomo si arrende, si abbandona puro e libero all’azione dello Spirito che lo conduce alla gloria, alla eredità in Dio, alla sua trasfigurazione in Gesù Cristo, nostro Signore.
Nella tradizione orientale questa collaborazione assume la forma della preghiera della purificazione del cuore, della lotta notturna e cosmica «contro gli spiriti del male» (Ef 6,12), per prepararsi ad accogliere Dio come Abramo accolse la venuta dell’Ospite Divino. Questa lotta è dura, ma lo Spirito è sempre con noi e, come dice san Paolo, «intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». L’amore di Dio ci prepara all’eredità di Dio, il Suo Regno. Perché l’ultima tramutazione sarà la trasfigurazione di questo mondo caduco nel Regno di Dio (che inizia sempre dal cuore umano). Troviamo una eco di questa lotta nella preghiera ortodossa prima della comunione: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori, dei quali il primo sono io» (1Tm 1,13-14).
Quale era la Divina Provvidenza nei confronti di Paolo? Dio ce l’ha mandato come modello perfetto, modello «dell’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Lui è diventato un’icona della Parola, mentre la Madre di Dio rimane un’icona del silenzio. Paolo è il mistero che parla, Lei è il mistero silenzioso «serbato nel Suo cuore» (cfr. Lc 2,19). In Maria e in Paolo si sono realizzate le parole di Cristo relative alla «sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
Dissetata da quest’acqua la Chiesa ortodossa in uno di suoi inni (tropari) chiama Paolo di Tarso «il suggello e la corona degli apostoli che, chiamato alla fine, con lo zelo ha superato tutti».

Vladimir Zelinskij

1 gennaio – Maria, Madre di Dio, (Theotokos) – nella tradizione della Chiesa Ortodossa

dal sito:

http://www.ortodoxia.it/Madre%20di%20Dio%20nella%20tradizione%20della%20Chiesa%20Ortodossa.htm

1 gennaio – Maria, Madre di Dio, (Theotokos)

nella tradizione della Chiesa Ortodossa 

In questa meditazione, carissimi fratelli, ”Maria, Madre di Dio, (Theotokos) nella tradizione della Chiesa Ortodossa”, non è possibile affrontare l’argomento, in poco tempo, un tema, senza dubbio importantissimo per la cristianità, in tutta la sua vastità e conseguente complessità, ma senz’altro cercherò di affermare la grande verità che la Chiesa Ortodossa proclama, cosa che viene dimostrata dalla prassi della sua spiritualità liturgica che è in verità l’interpretazione dello spirito e della dottrina dei suoi Santi Padri. Il suo grande inneggiatore Giovanni Damasceno esclama: “Veramente, Maria è superiore a tutta la creazione”. Questa profonda devozione per Maria è certamente diversa dall’adorazione data soltanto alla Santissima Trinità. Epifanio risponde meravigliosamente:”per Maria dobbiamo dare devozione, per il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: adorazione”.
In questo momento, ricordo un inno meraviglioso che canta la Chiesa Ortodossa durante il solenne mattutino del 15 agosto: “nella sua persona, Maria,Vergine Immacolata,si sono sconfitte le norme della natura:….Vergine dopo il parto,e viva dopo la morte”.
È verità indiscutibile la Liturgia Ortodossa, non è avara di elogi verso la “THEOTOKOS”; ne canta l’eccezionale ruolo nell’economia della salvezza.
Maria, novella Eva, è “all’origine d’una nuova progenie di uomini, comunicanti alla vita di Dio”.
Con inni, che elevano l’anima del fedele vicino al nostro Signore e Creatore dell’umanità, canta la Chiesa Ortodossa anche la glorificazione corporale di cui la Theotokos fu oggetto dopo la sua morte.
In essa “vede lo scopo e il compimento di tutta la creazione, pronta, finalmente, a ricevere il Salvatore. Maria è la “Madre di Dio” la Theotokos; è colei che,in nome di tutta la nostra stirpe, ha accolto il Dio liberatore”. Di grande importanza è il cosiddetto inno Akathistos, il quale è glorificazione della Madre di Dio e riassume tutta la Teologia Mariana centrata sul mistero.
San Giovanni Damasceno nel suo libro,”OKTOICHOS”, oggi usato nelle funzioni dei Vesperi e dei Mattutini,scrive così per la Madonna: “Cantiamo, fedeli, la gloria dell’universo. La porta del cielo, la Vergine Maria, il Fiore della stirpe umana e la madre di Dio, colei che è il cielo e il tempio della divinità, colei che ha atterrato le barriere del peccato, che è la conferma della nostra fede.
Il Signore che da lei è nato, combatte per noi. Sii pieno di forza e coraggio,o popolo di Dio,perché Egli, l’Onnipotente, ha vinto i nemici”. Questo importantissimo pensiero del grande teologo della Chiesa Indivisa San Giovanni Damasceno si immerge in un clima di azione di grazia. In occasione della grande festa dell’Esaltazione della Croce, la chiesa Ortodossa, con esultanza canta: “Tu sei Madre di Dio, il paradiso mistico, in cui Cristo è germogliato spontaneamente; per Lui è stato piantato nel mondo l’albero vivificante della Croce”. La Teologia, la Liturgia, l’Eortologia, l’Innografia e l’Iconografia, camminano insieme e possiamo dire quasi sempre, che l’una evidenzia l’altra in modo che un punto oscuro da una parte trova la risposta Ortodossa, la chiarezza e la precisione come dicono i Padri orientali, in un’altra. Ascoltiamo sant’Ignazio riguardo a Maria: “Uno solo è il medico del corpo e dello Spirito, generato e ingerito, Dio manifestatosi in carne, vita vera nella morte, da Maria e da Dio, prima passibile e poi impassibile, Gesù Cristo il Signore nostro”.
Nel periodo pre-Niceno, la Mariologia in Oriente Ortodosso, si può ricapitolare in tre punti:
1°) La maternità Divina, 2°) La perpetua verginità 3°) Il parallelismo Eva – Maria.
È verità incontestabile che la Vergine Maria fa parte dell’umanità; è una gloria dell’umanità “ della quale condivide la sorte, tutta la sorte”.
Cooperando, così, alla grazia, l’umanità può dirsi vittoriosa sul male: veramente, una creatura di Dio. Come noi, ha risposto totalmente “sì” a Dio e diventa la “nuova Eva”, per mutare il corso della storia dell’umanità.
Infatti, con la vergine Maria, abbiamo una nuova creazione dell’uomo, che nasce non “dalla carne e dal sangue, ma da Dio”.
È senza dubbio, l’uomo nuovo che nasce verginalmente dalla vasca battesimale, diventando membro del regno dei cieli.
Perciò, Maria, si identifica con la Chiesa, il sacro luogo dove si compie l’unione tra creatura e Creatore, tra l’umano e il Divino.
Ricordo qui un testo di San Clemente di Alessandria che dice: o prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti; uno è anche il Verbo e lo Spirito Santo….e una sola è, nello stesso tempo madre e vergine, e a me piace chiamarla “Chiesa” e “questa madre soltanto non ebbe latte, perché e la sola che, dopo il parto, non può chiamarsi donna, perché è, contemporaneamente, Vergine e Madre”; e continua San Clemente: “Come Vergine è incorrotta, ma come Madre è sposa diletta, che raccoglie i propri figli li nutre con latte Santo…”.
Vediamo con ammirazione che la vergine Maria diventa così, “guida” per l’uomo; e la “Odigitria”; è un modello perfetto, dimostrando all’uomo che lui deve arrivare dove essa è già arrivata: alla deificazione (Theosis), cioè all’unione perfetta con Dio, alle nozze mistiche tra la creatura e il Creatore.
Perciò Iddio si fa uomo, perché ama questa sua creatura, che ricapitola in sé tutto il creato: “Microcosmo”, come dicono i padri Capadoci, “ in quanto partecipa del mondo sensibile col corpo, e di quello soprasensibile con l’anima, e l’uomo che veramente ama Dio deve trasformarsi in Lui, cooperando alla Grazia”.
Con Essa riprende il dialogo interrotto nell’Eden con l’uomo, fatto “ad immagine secondo la somiglianza” di Dio, come dice Genesi.
È la scena dell’annunciazione a Nazaret. Iddio parla all’uomo per mezzo dell’Arcangelo Gabriele e chiede il suo consenso libero a queste nozze mistiche tra il Creatore e la creatura umana.
Maria, conscia (di appartenere) che lei fa parte dell’umanità, conscia che Essa appartiene alla natura di Adamo, non soltanto ascolta e custodisce la parola di Dio, ma anche dal suo libero consenso; risponde con libertà totalmente si a Dio e così prende essenziale parte alla salvezza dell’uomo, diventando la nuova Eva, mutando così il corso della storia dell’umanità, “pur ereditando la mortalità ereditaria, patrimonio di tutta l’umanità; essa mette fine, con la propria autodeterminazione, alla corruzione e alla morte”.
Mentre Adamo ed Eva avevano ascoltato le parole di Satana, Maria, chiedendo soltanto come può compiersi il mistero, ascolta e custodisce la parola di Dio.
Il verbo si fa carne e Maria con la sua preziosa parte dell’economia divina, dona all’umanità la redenzione e la grazia Divina.
Quando al Salvatore dirà una voce del pubblico: ” beato il seno che ti ha allattato; beato il ventre che ti ha portato”, Egli risponderà che “beatitudine maggiore è per la Madre Divina l’aver ascoltato la parola di Dio e averla custodita”, come riferisce l’evangelista San Luca.
In quanto alla maternità Divina, la Teologia Mariana Ortodossa rimane fedele alla dottrina del III° concilio Ecumenico di Efeso.
Matteo, richiamandosi al testo di Isaia, dice: ”Concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emanuele ciò che significa “Dio è con noi”.
Se Colui che viene generato è Dio, chi lo genera è Madre di Dio.
Nella visita che la Vergine fece ad Elisabetta, narrata da Luca, la madre del precursore chiamò la Vergine “Madre del mio Signore”.
Lo stesso Luca descrivendo il mistero dell’annunciazione, chiama il Salvatore “Figlio dell’Altissimo”, “Figlio di Dio”; implicitamente chiama Maria “Madre dell’Altissimo”, “Madre di Dio”.
San Paolo ai Galati scrive: “…mandò Iddio il proprio figlio, fatto da una donna…”.
I Padri Apostolici si basano sulla stessa base: “Nato dal Padre prima dei secoli”; “nato dalla Vergine nel tempo”.
San Gregorio il teologo diceva: “Chi non considera Maria come madre di Dio è fuori dalla divinità”, cioè dalla chiesa.
È verità indiscutibile che l’uomo per arrivare alla sua Theosis (deificazione) è incoraggiato dalla Santa presenza continua di questa creatura sublime, vera creatura come noi.
Nel suo cammino, allora, verso Dio, l’uomo conosce molto bene che un’altra creatura come lui figlia di Adamo e di Eva, come lui stesso è già asceso verso il cielo, verso Dio.
Così la “Vergine, ha reso possibile i nostri contatti con Dio, contatti non soltanto mistici, ma fisici, perché la carne umana del Cristo è reale, non fantastica”.
La presenza della Vergine Maria, significa in verità nell’Oriente Ortodosso, presenza di Dio.
Secondo la tradizione Ortodossa Orientale, non può esistere alcun rito religioso senza l’invocazione di Maria; non può esistere alcuna Chiesa senza l’icona di Essa.
San Giovanni Damasceno, questo grande teologo della chiesa indivisa, magistralmente ricapitola il pensiero Patristico sulla Teologia della maternità Divina nella tradizione orientale: “Nel senso propriamente vero e reale noi confessiamo Madre di Dio la santa Vergine. Come, infatti, è Dio vero colui che da Essa è nato, vera madre di Dio è colei che ha generato il vero Dio, che da Essa si è incarnato”.
E quando diciamo che Dio è nato da Essa non intendiamo certo dire che la divinità del verbo incominciò ad esistere da essa; ma perché lo stesso Dio verbo che prima dei secoli e fuori del tempo è stato generato dal Padre ed è senza alcun principio col Padre e con lo Spirito Santo, negli ultimi giorni per la nostra salvezza, prese dimora nel suo seno, senza alcun mutamento, s’incarnò e nacque da essa.
La Santa Vergine, dunque, non ha generato un uomo semplice, ma Dio vero.
E non puramente Dio, ma Incarnato.
Non però che abbia portato dal cielo il corpo, passando da essa come da un canale, ma da Essa ha preso il corpo consustanziale a noi, dandogli la sussistenza nella propria persona.
Lo stesso San Giovanni Damasceno, nella sua famosa opera “la Fede Ortodossa” così riferisce: “Il Suo nome, Maria, contiene tutto il mistero dell’economia, poiché se colei che l’ha messo al mondo è madre di Dio, il generato da lei è interamente Dio, ed è interamente uomo”.
La proclamazione della divina maternità è ripetuta incessantemente.
La spiritualità liturgica è testimone di questa verità cristiana, verità che ha stretta relazione con le altre verità cristiane, come per esempio con la Santissima Trinità ecc.
Sempre San Giovanni Damasceno nel suo libro liturgico “Oktoichos” riafferma incessantemente questo mistero che contempla e proclama con grande stupore e commozione spirituale: “Come non stupiremmo – dice – per il tuo divino e umano parto, o degna di ogni venerazione”.
“È veramente giusto dicono San Basilio e San Giovanni Crisostomo – proclamare beata te, Theotokos, che sei beatissima, tutta pura e madre del nostro Dio.
Noi magnifichiamo te, che sei più onorabile dei cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei serafini, che in modo immacolato partoristi il verbo di Dio, o vera madre divina”.
Maria, considerando il suo rapporto con la Trinità, è chiamata “Tutta pura”, “Immacolata”, “piena di grazia”, “senza macchia”.
Considerando dall’altra parte il suo rapporto con il popolo, con la chiesa, viene considerata “mediatrice della salvezza”, “mediatrice della vita”, “ancora della fede”, “bando dei fedeli”, “sola difesa”, “consolazione”, “muro inespugnabile”, “protettrice”.
È vero, miei cari fratelli, che tutto, ciò che si dice della Theotokos supera la nostra capacità di comprensione.
L’Innologia Ortodossa risponde così: “Tutti i tuoi misteri superano ogni intelletto, ogni glorificazione, o Madre di Dio. Sigillata con la purezza, custodita con la verginità, fosti riconosciuta madre senza falsità che partoristi il Dio vero”.
Maria, identificando la sua volontà della volontà di Dio, liberamente e coscientemente, con fedeltà e ubbidienza, e così mettendo se stessa al servizio del disegno divino della salvezza dell’uomo, costituisce anche oggi, per l’intero mondo cristiano, l’unico e più vivo esempio di fedeltà, di umiltà e obbedienza a Dio, mostrando al cristiano qual è la sua chiamata.
Maria, costituisce l’unico, più luminoso, esempio per la Chiesa di Cristo, oggi divisa in tante chiese e confessioni, mostrando a loro che accettando la parola di Dio con fedeltà, umiltà e ubbidienza, realizzano una vera vocazione che avrà come fine quella gioiosa fine che ha avuto Maria con l’accettazione della parola di Dio, cioè la vera gioia della sua umiltà con Dio e la gioia profonda ella salvezza dell’uomo, trasmettendo così questa sua vera eterna gioia dell’universo.
Veramente, Maria rimane per noi un eccellente irrepetibile esempio di una fedele, umile, ubbidiente Diaconessa della volontà di Dio che rappresenta la salvezza della sua prima amabile creatura, cioè dell’uomo.
Chi è andato a Ravenna senz’, altro ha visto la cappella arcivescovile della città. Tra le altre belle cose esiste un bellissimo mosaico che rappresenta Maria (Theotokos) come Diaconessa.
In realtà, Maria “quando venne la pienezza del tempo” serve al mistero della salvezza del genere umano.

Conclusione
Dopo questa esposizione concludiamo così:
Per l’uomo di oggi, come creatura di Dio, per le nostre chiese, che provengono dallo stesso unico fondatore, l’unica linea, preziosa e sicura per il nostro futuro, è la linea che ha seguito Maria, la Theotokos.
Con le sue parole: “Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.
Una linea, piena di speranza e di fedeltà, con la quale è riuscita ad avere la grazia di Dio: “Non temere Maria perchè hai trovato grazia presso Dio” e così diventa Madre di Dio.
Con la sua linea che caratterizza la fedeltà, l’umiltà, l’obbedienza, la diaconia, la testimonianza e la santità, Maria ha amato la più profonda gioia: “Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù, sarà grande e chiamato figlio dell’altissimo… e il suo regno non avrà fine”.
Maria, creatura come noi che riceve particolare valore e prestigio altissimo diventando Madre di Dio, grazie alla sua linea – vita – comportamento di fedeltà, di umiltà,di libertà, di diaconia, di testimonianza e di santità, e veramente grazie alla sua obbedienza alla legge di Dio: “Lo Spirito Santo scenderà sopra di te, su te stenderà la sua ombra, la potenza dell’Altissimo”, Maria vince la paura, vince i sospetti, vince le incertezze, vince i diversi personali ostacoli, e così testimonia all’uomo di oggi, come anche alla “Chiesa divisa”, qual è il nostro dovere riguardo alla parola di Dio, quale linea dobbiamo seguire per realizzare la volontà di Dio: ”Che tutti siano una cosa sola”.
Maria, la Theotokos, è per l’uomo, il modello ideale per arrivare alla salvezza, che è vita eterna.
Maria, la Theotokos, è anche madre nostra, è per la “Chiesa divisa” il modello ideale per testimoniare al mondo la sua genuina missione e giustificare la sua esistenza che è la salvezza dell’uomo, per cui Cristo è nato, è stato crocefisso ed è resuscitato.
Maria, la Theotokos, cioè la Madre di Dio, con la sua santa vita, con il suo meraviglioso comportamento, con la sua fede genuina, con il suo vero amore e con la sua ricca carità ci fa sentire maggiormente il dovere e la responsabilità che abbiamo nella Chiesa di Cristo, come vescovi, come sacerdoti, come religiosi, come laici, tutto il pleroma per la divisione della Chiesa indivisa, che è il nostro maggiore peccato ed ha avuto il carattere di peccato originale.
Finisco con questo meraviglioso testo di San Gregorio il Teologo, affermando con chiarezza: “O speranza buona, Vergine Madre di Dio, noi invochiamo la tua unica e valida protezione. Muoviti a compassione per un popolo che si trova nelle angustie, supplica il misericordioso Iddio affinché le nostre anime siano liberate da ogni sventura. Fervida avvocata, muro inespugnabile dei fedeli, fonte di misericordia, rifugio del mondo, o Signora Theotokos, previeni le nostre suppliche e liberaci dai pericoli, perché tu sei la sola che può molto presto proteggere. Dall’altra parte, o sempre Vergine, Theotokos, per tuo mezzo siamo divenuti partecipi della divina natura, poiché ci hai dato Dio incarnato per noi. Perciò noi, per dovere e devoto affetto te magnifichiamo”.
Ed ancora noi fedeli ed ubbidienti alle cose che non possono essere risolte dal nostro intelletto, dalla nostra logica, perché esiste il mistero, facendosi silenzio ad essa con devozione e venerazione cantiamo a te, Vergine, Theotokos, che sei la nostra vera speranza, la nostra vera consolazione, la nostra vera protezione e la nostra quotidiana preghiera, l’inno delle tue meraviglie: “È veramente giusto proclamare beata te, Theotokos, che sei beatissima, tutta pura e madre del nostro Dio, noi magnifichiamo te, che sei più onorabile dei Cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei Serafini, che in modo immacolato partoristi il verbo di Dio, o vera Madre di Dio.”

S.Em.za Rev.ma il Metropolita Gennadios,
Arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE

dal sito:

http://www.gregoriopalamas.it/la_nozione_biblica_della_luce.htm

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE

La Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza mistica.

Tradizione liturgica

La seconda settimana della Grande Quaresima porta il titolo, appunto, di settimana della Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di « far risplendere la santificazione ». Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione:
E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).
Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli « colti dal più profondo stupore si velano il volto ».
Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: « fa’ risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito ». Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: « sacramento dell’illuminazione » e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di « illuminati ».
Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8).
Nel Battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l’uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente « figlio della luce ». Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al « trionfo dell’ortodossia », la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas. Il Sinassario lo indica come « il luminoso dottore della Grande Luce ».

La dottrina di san Gregorio Palamas
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di « partecipi della Luce divina ». È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che, quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:
La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.
Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale:
Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza.
Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.
La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e « la differenza dei modi d’esistenza » in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita… Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma « energetica ». Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo.
Queste precisazioni offerte dal « dottore luminoso » chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come « théosis/divinizzazione » e, in termini mistici, indica come « illumuiazione »: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.

L’insegnamento patristico
L’insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione ma alla vita. Qui « la ragione non trova né parole né pensieri » (san Gregorio) e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui « lo stupore è l’inizio della sapienza », indica il solo atteggiamento corretto: « sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita ».
Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un’esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: « la semplicità primitiva della conoscenza cristiana » (san Serafino) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione.
Per opera della luce l’uno comincia ad esistere per l’altro, o ancora come dice san Simeone, essa è « il pane, la camera nuziale, lo sposo, l’amico, il fratello, il padre ». Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le « seconde luci » (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, « gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti » (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è « seconda luce » perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è « simili » e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: « Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito » (san Gregorio) e, per questo, contemplano la luce eterna della divinità senza il velo della kenosis. L’illuminato è colui che « è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia » (san Gregorio).
Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) – non è per nulla allegorico:
Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce… che illumina… e trasforma in luce coloro che illumina (san Simeone).

La preghiera di Prima dice così:
O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.
La Théotokos liturgicamente porta il nome di « Madre della Luce », e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).
Se l’ateismo non è altro che sordità spirituale esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: « l’immagine di Dio si è oscurata nell’uomo ». L’immagine velata, l’icona annerita rappresenta l’eclisse della presenza di Dio e l’allentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l’aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade « ardenti di luce ». Il commento liturgico della parabola sottolinea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovanni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un’antica icona segue questa tradizione raffigurando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell’essere umano, la sua apertura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: « il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce ».
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, commentando le parole del Cantico dei cantici:
Forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),
afferma questa verità assai sconvolgente secondo cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comunque di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall’uomo. Pur essendo un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l’Altro divino è implicato nella situazione dell’uomo. Cosicché, se l’atto emana dall’uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vita che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un’esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto « terzo » presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell’amato.

L’ascensione dei santi
Presso i mistici l’elevazione dell’anima è indicata dall’acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l’anima si ritrova a pregare « al di fuori della preghiera ». Si tratta del grande silenzio che si crea nel momento in cui la luce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1′illuminazione interiore che è il frutto dell’approfondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L’antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il nome di Gesù risuona incessantemente nell’anima e l’energia della presenza che, attraverso l’invocazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l’essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L’ »esicasmo » viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I « perfetti » attingono da questo insegnamento e « vengono istruiti nelle realtà divine non solo attraverso la parola ma – misteriosamente – attraverso la luce della parola ». Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato « portatore della Luce » e ancora « donatore della Luce ». San Macario precisa: « La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo ». L’azione pneumatica si esprime sempre in termini di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell’energia divina – che è una sola e raccoglie l’azione delle Tre Persone – indubbiamente quella della luce è centrale.
Ma la regola ascetica combatte fortissimamente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l’essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e vedere dal di dentro le icone degli esseri e delle cose. L’ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:
La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).
Svuotarsi della propria oscurità per farsi inondare dalla luce è la grandiosa lotta che si persegue per tutta la durata della vita e che prepara l’inabitazione di Dio. In questo cammino il pane amaro di ogni istante è la morte dell’uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell’alto, è proprio la luce della Presenza.
L’occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l’anima attraversa il Calvario e si eleva a quest’altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: « Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore »; « la purezza del cuore consiste nell’amore verso i fratelli che cadono ». La comunione si amplifica! È come se l’uomo « cadesse in alto » per raggiungere così il livello del cuore divino. L’anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell’uomo interiore risuona la voce: « Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce ». Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: « La scienza diventa Luce ». Ecco un testo sublime di san Simeone:
Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità… o meglio non mi appariva che da lontano… Così Tu, Invisibile… presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me… Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscendenza divina.
L’anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell’eternità quando Dio viene nell’anima e l’anima emigra in Dio. Nel celebre dialogo di san Serafino di Sarov con Motovilov, abbiamo l’esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:
– Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
– Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi occhi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.
– Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diventato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.
– A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riuscite a vedere le labbra che si muovono e l’espressione del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient’altro che luce sfolgorante che si diffonde all’intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz…
In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, dell’Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.

Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:
Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza;
e l’uno dall’altro come iri da iri
parea reflesso,
Non era altri che
L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 12 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/escatologia/venutanikolai.htm

San Nikolai Velimirovich, vescovo di Ohrid e Zhicha

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

La comprensione ortodossa della Seconda Venuta di Cristo è chiara: il Signore Gesù Cristo veramente tornerà. Il suo secondo avvento, non è un mito, né una promessa vuota, né è una metafora, infatti, ogni volta che si celebra la Divina Liturgia, il sacerdote fa un proclamazione al Padre che rivela come la Chiesa risponde non solo alla Seconda Venuta di Cristo, ma a tutta la Sua opera.

Ricordando questo comandamento di salvezza (il comandamento di Gesù a mangiare la sua carne e bere il suo sangue) e tutto ciò che è stato fatto per noi, la Croce, la Tomba, la Risurrezione il terzo giorno, l’Ascensione al Cielo, l’Assisa alla destra e la Seconda e gloriosa Venuta – noi ti offriamo ciò che è tuo, da ciò che è tuo, in tutto e per tutto*.

I cristiani ortodossi credono anche la rivelazione del Nuovo Testamento della seconda venuta di Cristo è intesa a stimolare la nostra preparazione, non le nostre speculazioni su di essa. Questo spiega la relativa semplicità con cui il Credo di Nicea, la confessione più universale della fede di tutta la cristianità, indirizzi al ritorno di Cristo: “Egli… di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, il cui Regno non avrà fine”. L’enfasi dell’Ortodossia storica è che Gesù tornerà, non quando Egli tornerà.

Così san Paolo scrive: “rinunciando all’empietà e ai desideri mondani, per vivere in questo mondo sobriamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone (Tito 2, 12-14).

Ci sono segni della Venuta di Cristo, per essere sicuri. Gesù profetizzò tanti eventi che avrebbero avuto luogo nel mondo, prima del Suo ritorno (Matteo 24; Luca 21, 7-36). Ma persino qui gli insegnamenti di Gesù in questi evangeli si concludono con la sua esortazione alla virtù, alla giustizia, e alla preparazione per il Giudizio. Cristo e gli apostoli danno ammonimenti severi, impliciti ed espliciti, contro il tirare a indovinare il tempo della sua venuta (Matteo 24, 3-8. 36.43.44.50; Luca 21, 7-9.34; Atti 1, 7; I Tessalonicesi 5, 1-3; II Pietro 3, 8-10).

Gran parte della moderna cristianità ha ceduto alla divisiva speculazione riguardo al ritorno di Cristo. Siamo stati divisi in partiti pre-millenari, post-millenari, e millenari. Suddividendo ancora di più, ci sono aderenti alla pre-tribolazione, medio-tribolazione, e post-tribolazione. Cristiani separati e nuove denominazioni si slanciano intorno a interpretazioni di eventi che non sono ancora nemmeno venuti ad accadere!

Nel corso della storia la Chiesa ortodossa ha fermamente insistito sulla realtà della Seconda Venuta di Cristo come una convinzione consolidata, ma ha concesso libertà sulla questione di quando ciò si verificherà. Nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse Gesù dice le parole: “Io vengo presto”, per tre diverse volte (Apocalisse 22, 7.12.20). La sua Venuta avverrà in un giorno, in un’ora in cui non ci si aspetta, l’apostolo Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, conclude il suo libro con un avvertimento: “Io lo dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della santa città che sono descritti in questo libro” (Apocalisse 22, 18-19).

Confessare il ritorno di Cristo è stare saldamente all’interno della Tradizione Apostolica. Aggiungere il “quando” alla promessa della sua venuta è contrario alle Scritture. Come membri della Sposa di Cristo, dobbiamo invece vigilare per essere pronti.

Tradotto per Tradizione Cristiana da E. M. novembre 2009

Nell’iconografia delle Chiese orientali, san Paolo…

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0811je/0811je84.htm

ANNO PAOLINO – PAOLO E GLI ORTODOSSI

L’icona della Parola

di Vladimir Zelinskij 

Nell’iconografia delle Chiese orientali, san Paolo…

è spesso raffigurato in situazioni e avvenimenti che sicuramente non hanno fondamento storico. Caso tipico è la sua presenza durante la Pentecoste. Questo succede perché nel mondo delle icone non è importante la rappresentazione del dato di realtà, quanto piuttosto il suo significato spirituale. 

L’icona ortodossa, di solito, non cerca di riprodurre la somiglianza del ritratto o esprimerne l’esatta verità storica. L’icona ci svela un’altra realtà, ci insegna a vedere le persone che hanno vissuto il passato nel loro oggi eterno – anzi, nel mondo che verrà, quando Dio sarà tutto in tutti. Gli abitanti di quel mondo non seguono sempre la storicità del fatto, ma si conformano alla verità dello Spirito, prendendo «parte nella gioia» del Signore (cfr. Mt 25). Così, in un’antica icona dedicata alla Pentecoste, vediamo san Pietro di fronte a san Paolo nel cerchio degli altri apostoli e sappiamo che Paolo quel giorno non era presente. In un’altra, Gesù stesso dà il calice all’Apostolo dei gentili – un avvenimento che non ebbe mai luogo. Ma immagini come queste sono nate all’interno della visione orientale della figura dell’Apostolo dei gentili, per il quale l’incontro con Gesù sulla via di Damasco è diventato anche comunione con lo Spirito Santo, sorgente inesauribile della fede.
«Il Consolatore… vi ricorderà tutto ciò che ho detto…», dice Gesù (Gv 14,26). Ma che cosa poteva ricordare Saulo di Tarso, il fariseo (cfr. At 26,5), che non aveva mai incontrato il suo Maestro durante la sua vita terrena? Dove aveva potuto sentire le parole dette e non dette di Gesù? Sembra che Paolo sappia tutto fin dall’inizio, come se gli fosse stato insegnato dal Maestro interiore: «Senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me…» (Gal 1,16). Quell’incontro con Gesù faccia a faccia aveva anche un suo significato pneumatologico: il risveglio o la rivelazione nel cuore dell’Apostolo (e potenzialmente in ogni persona umana) – in cui lo Spirito scopre, manifesta, risveglia Cristo come Figlio di Dio – «del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo» (Ef 3,9).
Paolo ci insegna che ogni essere umano porta quel mistero nel proprio cuore e può illuminarlo con la luce di Cristo. «Il suo cuore era quello di Cristo, la cronaca dello Spirito Santo, il libro della grazia», dice san Giovanni Crisostomo. Cristo abitava in Saulo prima che lui fosse diventato Paolo, dice lui stesso. «Quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me il suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani…» (Gal 1,15-16). Ma questa predestinazione è universale. Il mistero rivelato si esplica nella predicazione. Ciò che è nascosto nella profondità di Dio è affidato agli uomini. D’un tratto san Paolo riesce a riconciliare l’ineffabile intimità della fede con la missione ai popoli, con il servizio alla gente, con la cattolicità della Buona Notizia destinata a tutti. Il segreto della fede in Cristo che vive nella sua Parola e nello Spirito che la « ricorda », la apre e la realizza, non è un tesoro da custodire nell’oscurità, ma una ricchezza da scoprire e da manifestare «ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,26-27). La « gloriosa ricchezza » del Signore rivelata a Paolo l’ha iniziato a ragionare nello Spirito e a conoscere il mondo nella Parola. Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: «Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?», Paolo risponde: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16).
In un attimo, come è spesso da lui, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il « pensiero di Cristo » (noun Christou) – il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso – significa che il nostro intelletto e «il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori» (Ef 3,17) hanno qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama Spirito Santo. La Sua presenza non deve essere accettata e creduta solo come una dottrina stabilita, ma conosciuta dall’interno con il « pensiero di Cristo » o con la sapienza messa nei concetti. In altre parole, la nostra conoscenza di Dio può essere paragonata all’icona – vera e al tempo stesso trasparente –, poiché essa ci rivela il mistero della Trinità che c’incontra e ci ama. E quando invochiamo il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo siamo proprio al centro del Mistero aperto – quello dell’amore –, spalancato davanti a noi, ma anche dentro di noi. Siamo al centro di questa luce che, come dice un inno bizantino, neanche i Cherubini e i Serafini sono capaci di sopportare.
Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano – che è stata data all’Apostolo dei pagani – trova il suo sviluppo originale nella teologia di Massimo il Confessore (VII sec.). Il concetto paolino suggerisce a Massimo una sintesi della « filosofia cristiana » completamente originale e organica. Nella sua prospettiva il «pensiero di Cristo che ricevono i santi» si situa nella visione trinitaria attraverso la presenza dello Spirito Santo, «in quanto guida di sapienza e di conoscenza» (Centurie gnostiche, II,63) e con l’apertura verso il Padre, che «si trova naturalmente tutto intero, indiviso, in tutta la Sua Parola» (II,71).
«Il pensiero di Cristo… non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale» (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come «illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero…». La potenza del pensiero per san Paolo, secondo san Massimo, si trova nel suo logos, cioè, nell’idea o nel principio di ogni cosa, di ogni essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo ortodosso Basile Osborn, la sua «struttura interiore». Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel « pensiero di Cristo ». Così pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato né con i sensi né con l’intelletto.
« Il pensiero di Cristo » di san Paolo è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale – o comunione della ragione che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente si comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili e invisibili, e «contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute» (Rom 1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito o nel « pensiero di Cristo » immesso in tutte le cose.
Una volta san Paolo fece ai suoi discepoli di Efeso una domanda: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Ed essi, come racconta il libro degli Atti degli Apostoli, risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (19,1-2). Nel Vangelo lo Spirito Santo rimane ancora soltanto una Persona promessa. Con la rivelazione paolina l’immagine del Dio Trino comincia a chiarirsi. È stato lui, Paolo, che ha trovato un linguaggio umano almeno per sfiorare e far sentire l’azione e la presenza dello Spirito Santo.
Prima di tutto come amore divino: «L’amore di Dio è stato riservato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rom 5,5). «Il suggello dello Spirito Santo» (Ef 1,13) che noi riceviamo ci porta la libertà in Cristo (2Cor 3,17) e la diversità dei carismi e dei ministeri. «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1Cor 12; 4.7). Si tratta dell’utilità che si realizza nella Chiesa come corpo di Cristo (cfr. Ef 1,23).
L’opera dello Spirito, secondo Paolo, è la fede che si apre alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ma questa rivelazione è anzitutto relazione con Lui e coinvolge tutta l’anima, tutto il nostro essere. «Lo Spirito di Dio abita in voi», scrive Paolo ai Romani che hanno ricevuto il dono della fede (8, 27). Quando la fede manca o il peccato s’impossessa dell’anima umana, lo Spirito «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rom 8,26) e fa crescere i suoi frutti («amore, gioia, pace…», Gal 5,22). Con i frutti dello Spirito «noi veniamo trasformati in quella medesima immagine» (2Cor 3,18), che è l’immagine di Cristo. Questa visione della trasformazione (o della trasfigurazione) dell’essere umano ha comportato la nascita di una delle esperienze più profonde nella spiritualità orientale: quella della deificazione, della somiglianza dell’uomo al Dio incarnato.
«Dio è diventato uomo affinché l’uomo possa diventare dio per mezzo della grazia», dicevano i Padri della Chiesa. La radice di questa idea la troviamo già in san Paolo. Siamo figli di Dio, afferma lui. «E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo… Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi» (Rom 8,14-18).
Un’altra luce appare in queste righe: un regno che viene, che si costruisce in noi attraverso le sofferenze degli «eredi di Dio». Nel lungo e difficile processo di trasformazione delle nostre anime e dei nostri corpi per partecipare alla gloria del Regno, all’uomo è assegnata la parte più attiva. L’uomo diventa un collaboratore di Dio e questa collaborazione si fa nel travaglio del suo cuore e del suo Spirito. L’uomo si arrende, si abbandona puro e libero all’azione dello Spirito che lo conduce alla gloria, alla eredità in Dio, alla sua trasfigurazione in Gesù Cristo, nostro Signore.
Nella tradizione orientale questa collaborazione assume la forma della preghiera della purificazione del cuore, della lotta notturna e cosmica «contro gli spiriti del male» (Ef 6,12), per prepararsi ad accogliere Dio come Abramo accolse la venuta dell’Ospite Divino. Questa lotta è dura, ma lo Spirito è sempre con noi e, come dice san Paolo, «intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». L’amore di Dio ci prepara all’eredità di Dio, il Suo Regno. Perché l’ultima tramutazione sarà la trasfigurazione di questo mondo caduco nel Regno di Dio (che inizia sempre dal cuore umano). Troviamo una eco di questa lotta nella preghiera ortodossa prima della comunione: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori, dei quali il primo sono io» (1Tm 1,13-14).
Quale era la Divina Provvidenza nei confronti di Paolo? Dio ce l’ha mandato come modello perfetto, modello «dell’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Lui è diventato un’icona della Parola, mentre la Madre di Dio rimane un’icona del silenzio. Paolo è il mistero che parla, Lei è il mistero silenzioso «serbato nel Suo cuore» (cfr. Lc 2,19). In Maria e in Paolo si sono realizzate le parole di Cristo relative alla «sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
Dissetata da quest’acqua la Chiesa ortodossa in uno di suoi inni (tropari) chiama Paolo di Tarso «il suggello e la corona degli apostoli che, chiamato alla fine, con lo zelo ha superato tutti».

Vladimir Zelinskij

DELLA PREGHIERA DETTA CON DOLORE E CON LA QUALE L’UOMO NASCE ALL’ETERNITÀ

diverse citazioni a San Paolo, dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/preghierasofronio.htm

DELLA PREGHIERA DETTA CON DOLORE E CON LA QUALE L’UOMO NASCE ALL’ETERNITÀ
 
dell’Archimandrita Sofronio
 
Gli approcci della preghiera profonda sono strettamente legati ad un profondo pentimento per i nostri peccati. Quando l’amarezza di questo taglio va oltre ciò che possiamo sopportare, il dolore ed il violento disgusto di sé cessano improvvisamente. In modo completamente inatteso, tutto cambia grazie all’irruzione dell’amore di Dio. E il mondo è dimenticato. Molti chiamano tale fenomeno “estasi”. Non mi piace questo termine, poiché è spesso associato a diverse deformazioni. Ma anche se chiamiamo diversamente questo dono di Dio e lo denominiamo “uscita dell’anima pentita verso Dio”, io dovrei dire che non mi è mai venuta l’idea di “coltivare” tale stato, cioè di cercare mezzi artificiali per giungervi. Questo stato è sempre venuto in modo completamente inatteso ed ogni volta diverso. La sola cosa di cui mi ricordo con sicurezza, è della mia afflizione inconsolabile causata dall’allontanamento da Dio; questa sofferenza era in un certo qual modo strettamente collegata al mio cuore. Mi pentivo amaramente della mia caduta e, se le mie forze fisiche fossero bastate, le mie lamentazioni non sarebbero mai cessate.
Ho scritto queste righe e, non senza tristezza, “mi ricordo dei giorni antichi” (Salmo 142, 5) – piuttosto delle notti – quando il mio spirito ed il mio cuore avevano così radicalmente deviato dalla mia vita passata che, per anni, il ricordo di ciò che avevo lasciato dietro di me non mi sfiorava più. Dimenticavo anche le mie cadute spirituali, ma la visione schiacciante della mia indegnità di fronte alla santità di Dio non cessava di intensificarsi.
Più di una volta, mi sono sentito come crocifisso su una croce invisibile. Al Monte Athos, ciò mi succedeva quando la rabbia contro quelli che mi avevano contrariato si impossessava di me. Questa passione terribile uccideva in me la preghiera e la riempiva d’orrore. A volte, mi sembrava impossibile lottare contro di essa: mi sbranava come una bestia feroce lacera la sua preda. Una volta, per un breve momento d’irritazione, la preghiera mi lasciò. Affinché ritornasse, dovetti lottare per otto mesi. Ma quando il Signore cedé alle mie lacrime, il mio cuore divenne più vigilante e più paziente.
Quest’esperienza della crocifissione si ripeté più tardi (allora ero già ritornato in Francia), ma in un altro modo. Non rifiutavo mai di prendermi cura, come confessore, di quelli che si rivolgevano a me. Il mio cuore provava una compassione particolare per le sofferenze dei malati mentali. Scossi dalle eccessive difficoltà della vita contemporanea, alcuni di loro richiedevano con insistenza un’attenzione prolungata, cosa che andava oltre le mie forze. La mia situazione era diventata senza via d’uscita: dovunque mi giravo, qualcuno gridava di dolore. Ciò mi rivelò la profondità delle sofferenze degli uomini della nostra epoca, triturati dalla crudeltà della nostra famosa civilizzazione.
Gli uomini creano enormi meccanismi governativi che si rivelano essere degli apparati impersonali, per non dire inumani, che schiacciano con indifferenza milioni di vite umane. Incapace di cambiare i crimini – davvero intollerabili, benché legalizzati – della vita sociale dei popoli, sentivo nella mia preghiera, senza alcuna immagine sensibile, la presenza di Cristo crocifisso. Vivevo in spirito la sua sofferenza con una tale acutezza che, anche se avessi visto con i miei stessi occhi colui che è stato “innalzato da terra” (cfr. Giovanni 12, 32), ciò non avrebbe in nessun modo aumentato la mia partecipazione al suo dolore. Per quanto insignificanti siano state le mie esperienze, approfondirono la mia conoscenza di Cristo nella sua manifestazione sulla terra per salvare il mondo.
In lui ci è stata data una rivelazione meravigliosa. Essa attrae il nostro spirito a lui con la grandezza del suo amore. Mentre piangeva, il mio cuore benediceva, e benedice ancora, il nostro Dio e Padre che ha voluto rivelarci, con il Santo Spirito, l’incomparabile e unica verità e santità del suo Figlio nelle piccole prove che ci colpiscono.
La grazia accordata ai principianti per attirarli ed istruirli non è a volte inferiore a quella data ai perfetti; tuttavia, ciò non significa che sia già assimilata da colui che ha ricevuto questa benedizione terribile. L’assimilazione dei doni divini esige delle prove prolungate ed una intensa fatica ascetica. Per risorgere e rivestire “l’uomo nuovo” di cui parla san Paolo (Efesini 4, 22-24), l’uomo decaduto passa attraverso tre tappe. La prima, è l’appello e l’ispirazione a intraprendere lo sforzo ascetico e spirituale che si presenta a noi. La seconda, è la perdita della grazia “percettibile” e la prova dell’abbandono di Dio; il suo senso è di offrire all’asceta la possibilità di manifestare la sua fedeltà a Dio con una scelta libera. La terza, infine, è l’acquisizione per la seconda volta della grazia percettibile, e la sua custodia legata ormai ad una conoscenza spirituale di Dio.
“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto. E chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere? E se non siete stati fedeli in ciò che è altrui, chi vi darà il vostro?” (Luca 16, 10-12). Colui che, nel corso della prima tappa, è stato istruito direttamente dall’azione della grazia nella preghiera ed in qualsiasi altra opera buona, e che, durante un abbandono prolungato di Dio, vive come se la grazia rimanesse immutabilmente con lui, riceverà – dopo una lunga messa alla prova della sua fedeltà – la “vera” ricchezza in possesso eterno, ormai inalienabile. In altre parole, la grazia e la natura creata si collegano, ed i due diventano uno. Questo dono ultimo è la deificazione dell’uomo, la sua partecipazione al modo di essere divino, santo e senza inizio. È la trasfigurazione di tutto l’intero uomo, con la quale diventa simile al Cristo, perfetto.
Quanto a quelli che non rimangono fedeli “in ciò che appartiene ad altri”, secondo l’espressione del Signore, perdono ciò che hanno ricevuto all’inizio. Qui, osserviamo un certo parallelismo con la parabola dei talenti (cfr. Matteo 25, 14-29). […] Questa parabola, come pure quella dell’amministratore infedele, non è applicabile alle relazioni umane abituali, ma soltanto a Dio. Il padrone non tolse nulla al servo che aveva fatto fruttificare i talenti e li aveva raddoppiati, ma gli rimise in possesso la totalità – i talenti che gli erano stati affidati e quelli che aveva acquisito con la sua fatica – come ad un comproprietario: “Entra nella gioia (del possesso del Regno) del tuo Signore”. Quanto al talento del servo pigro, il padrone lo rimise “a colui che ne aveva dieci”, “poiché sarà dato”, a tutti coloro che fanno fruttificare i doni di Dio “e saranno nell’abbondanza” (Matteo 25, 29).
San Giovanni il Climaco dice da qualche parte che ci si può familiarizzare con qualsiasi scienza, qualsiasi arte, qualsiasi professione al punto da finire per esercitarla senza sforzo particolare. Ma pregare senza pena, ciò non è stato mai dato a nessuno, soprattutto la preghiera senza distrazione, compiuta dall’intelletto nel cuore. L’uomo che prova una forte attrazione per questa preghiera può sentire un desiderio difficilmente realizzabile: fuggire da ovunque, nascondersi da tutti, nascondersi nelle profondità della terra in cui, anche in pieno giorno, la luce del sole non penetra, o non giungono gli echi né delle pene degli uomini né delle loro gioie, dove si abbandona ogni preoccupazione di ciò che è passeggero. È comprensibile, poiché è naturale dissimulare la sua vita intima dagli sguardi esterni; ma, questa preghiera mette a nudo il nucleo stesso del cuore, che non sopporta di essere toccato, se non per mano del nostro Creatore.
A quali dolorose tensioni un tale uomo non si espone nei suoi tentativi per trovare un luogo conveniente a questa preghiera! Come un soffio venuto da un altro mondo, genera diversi conflitti, tanto interni che esterni. Uno di essi è la lotta con il proprio corpo, che non tarda a scoprire la sua incapacità a seguire gli slanci dello spirito; molto spesso, le necessità corporali diventano così lancinanti che costringono lo spirito a scendere dalle altezze della preghiera per prendere cura del corpo, altrimenti quest’ultimo rischia di morire.
Un altro conflitto interno emerge, particolarmente all’inizio: come possiamo dimenticare coloro che ci è stato comandato di amare come noi stessi? Teologicamente il ritiro dal mondo si presenta all’intelligenza come un passo opposto ai sensi di questo comandamento; eticamente, come un intollerabile “egoismo”; misticamente, come un’immersione nelle tenebre della spoliazione, in cui non c’è nessun appoggio per lo spirito, dove possiamo perdere coscienza della realtà di questo mondo. Infine, abbiamo timore, poiché non sappiamo se la nostra impresa soddisfi il Signore.
La spoliazione ascetica di tutto ciò che è creato, quando è soltanto il risultato dello sforzo della nostra volontà umana, è troppo negativa. Come tale, è chiaro che un atto puramente negativo non può condurre al possesso positivo, concreto, di ciò che si cerca. Non è possibile esporre tutte le vibrazioni e tutti gli interrogativi che assalgono lo spirito in simili momenti. Eccone tuttavia uno: “Ho rinunciato a tutto ciò che è passeggero, ma Dio non è con me. Non è questo «le tenebre esterne», l’essenza dell’inferno?”. Il ricercatore della preghiera pura passa per molti altri stati, a volte terribili per l’anima. Può darsi che tutto ciò sia inevitabile su questa via. L’esperienza mostra che è caratteristico per la preghiera penetrare nei vasti settori dell’essere cosmico.
Per la loro natura, i comandamenti di Cristo trascendono tutti i limiti; l’anima si tiene sopra il baratro dove il nostro spirito inesperto non discerne alcun cammino. Cosa farò? Non posso contenere l’abisso spalancato che si trova dinanzi a me; vedo la mia piccolezza, la mia debolezza; a volte, inciampo e cado da qualche parte. La mia anima, consegnata “nelle mani del Dio vivente”, si rivolge molto naturalmente a lui. Allora, mi raggiunge senza difficoltà, dovunque mi trovi.
All’inizio, l’anima è nel timore. Ma, dopo essere stata più di una volta salvata dalla preghiera, si rinforza gradualmente nella speranza, diventa più coraggiosa dove prima il coraggio sembrava completamente inappropriato.
Provo a scrivere sul combattimento invisibile del nostro spirito. Le esperienze che ho vissuto non mi hanno dato ragioni sufficienti per ritenere di avere già trovato l’eternità. Secondo me, finché siamo in questo corpo materiale, ricorriamo necessariamente ad analogie prese in prestito al mondo visibile.
 
Estratto da: Archimandrite Sophrony, La prière, expérience de l’éternité, Cerf/Le sel de la terre, 1998.  
 
Padre di bontà, o Figlio unico, o Santo Spirito, Trinità fonte di Luce e Creatrice di Vita,
Che, per la tua sapienza insondabile, hai chiamato tutta la creazione visibile ed invisibile dal non essere all’essere, e che, con la tua potenza ineffabile mantieni tutte le cose,
Che, per i tuoi altri benefici riguardo agli uomini, ci hai affidato questo ministero celeste:
Rendici degni con la tua grazia di credere in questo Mistero, di cogliere la maestà e di compiere con un cuore puro ed uno spirito illuminato questo sacramento in un modo degno,
Noi ti preghiamo, esaudisci ed abbi pietà.
Archimandrita Sofronio
 
Traduzione a cura di Tradizione Cristiana
 

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, MEDITAZIONI |on 28 octobre, 2010 |Pas de commentaires »
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