Archive pour la catégorie 'CHIESA ORTODOSSA'

L’IMMAGINE DI CRISTO NON OPERA DI MANO D’UOMO

 dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/immagouspensky.htm

Léonide Ouspensky

L’IMMAGINE DI CRISTO NON OPERA DI MANO D’UOMO

 Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ?N (Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].

«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)

Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”
 
Traduzione dal Francese del prof. G. M.
Palermo, agosto 2006.
…………….
[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l’image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (…) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
[7] E. Troubetskoï, Il senso della vita, Berlin, 1922, p. 228 (in russo). Virgolettato dall’autore.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 19 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

San Giovanni Climaco (sulla preghiera del cuore)

dal sito:

http://www.esicasmo.it/briancaninov.htm

SULLA PREGHIERA DEL CUORE – CHIESA ORTODOSSA

San Giovanni Climaco (†649)

            La vostra preghiera ignori ogni complessità: una sola parola bastò al pubblicano ed al figlio dissoluto per ottenere il perdono di Dio. Nella vostra preghiera non ci sia alcuna ricerca di parole: quante volte il balbettio semplice e monotono dei bambini commuove il padre! Non abbandonatevi a lunghi discorsi per non distrarre la mente nella ricerca delle parole. Una sola parola del pubblicano ottenne la misericordia di Dio; una sola parola piena di fede salvò il buon ladrone. La prolissità nella preghiera spesso riempie la mente d’immagini o la distrae; invece spesso una sola parola può causare il raccoglimento interiore. Se voi vi sentite consolati e commossi da una parola della vostra preghiera, fermatevi, perché il vostro angelo custode prega allora con voi.
            Non dovete avere troppa sicurezza nelle vostre forze, anche se avete raggiunto la purezza, ma piuttosto una profonda umiltà ed allora sentirete una maggior fiducia. Anche se siete giunti al sommo della scala delle virtù, pregate per domandare il perdono dei vostri peccati, obbedendo alle parole di San Paolo: “Io sono un peccatore, anzi sono il primo”[11]. L’olio ed il sale danno il sapore ai cibi, la castità e le lacrime le ali alla preghiera. Quando avrete conquistato la dolcezza e l’assenza dell’ira, non vi costerà molta fatica liberare la vostra anima dalla cattività.
            Finché non avremo consigliato la vera preghiera, saremo simili a quelli che insegnano ai bambini a compiere i primi passi. Impegnatevi ad elevare il vostro pensiero o piuttosto a rinchiuderlo nelle parole della vostra preghiera. Se la debolezza della fanciullezza la fa cadere, sollevatela. Infatti la mente è instabile per sua natura, ma Colui che può tutto consolidare, può rendere stabile anche la vostra mente. Se voi non cessate di combattere, colui che fissa i limiti al mare dello spirito verrà in voi e vi dirà: “Tu verrai fin qui, non oltre”[12]. È impossibile incatenare la mente, ma là dove si trova il Creatore dello spirito, tutto gli è sottomesso…
            Il primo grado della preghiera consiste nel cacciare con un pensiero o con una parola semplice e ferma le varie immagini nel momento stesso in cui sorgono. Il secondo consiste nel mantenere rivolto il nostro pensiero a ciò che diciamo e pensiamo. Il terzo è il rapimento dell’anima nel Signore. Diverso è il senso di esultanza che provano nella preghiera coloro che vivono in comunità e quello di quanti conducono vita solitaria. Il primo può essere ancora intaccato d’immagini, il secondo è pieno d’umiltà…
            L’eroe della preghiera sublime e perfetta dice: “Preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza…”[13]. I bambini non hanno idea di ciò; imperfetti, come siamo, con la qualità abbiamo bisogno anche della quantità. La seconda ci procura la prima…

La trasfigurazione, un bagliore del Regno (Da «Le feste cristiane» di Olivier Clément)

dal sito:

http://www.laportadellepecore.it/trasfigurazione6agosto.html

Da «Le feste cristiane» di Olivier Clément

La trasfigurazione, un bagliore del Regno

Gli evangelisti sinottici – Matteo, Marco, Luca – raccontano l’evento della Trasfigurazione in maniera pressoché identica. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – gli ultimi due sono fratelli -, a più riprese suoi compagni privilegiati «perché erano più perfetti degli altri», dice Giovanni Crisostomo; Pietro perché amava Gesù più degli altri, Giovanni perché più degli altri era amato da Gesù, e Giacomo perché si era unito alla risposta del fratello: «Sì, possiamo bere il tuo calice» (cf Mt 20, 22).
Gesù li conduce in disparte su di un’«alta montagna», luogo per eccellenza delle manifestazioni divine; la tradizione dirà: il monte Tabor. Là egli appare raggiante di una splendida luce, che fluisce sia dal suo volto «splendente come il sole» che dalle sue vesti – opera d’uomo, della cultura umana – e si riversa sulla natura circostante, come mostrano le icone.
Mosè – la legge – ed Elia – i profeti – appaiono e conversano con Gesù. La prima alleanza addita l’alleanza ultima. Luca precisa che la conversazione verte sull’éxodos del Signore. Pietro in estasi suggerisce di piantare tre tende, nella speranza di poter rimanere a lungo in quello stato. Ma tutto è sommerso dalla «nube luminosa» dello Spirito, e in cui risuona nel cuore dei tre discepoli sconvolti, prostrati con la faccia a terra, la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!». Poi tutto svanisce, e resta Gesù, solo, che ordina a quei testimoni di tacere ciò che hanno appena visto, «finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
A partire dalla fine delle persecuzioni romane contro i cristiani, ovvero dal IV secolo, furono edificate diverse chiese sul Tabor. La loro dedicazione sembra essere all’origine della festa che, a partire dal VI secolo, si diffuse in tutto il Medio Oriente. Nel calendario occidentale essa fu introdotta stabilmente nel 1457, ad opera di papa Callisto III, in segno di ringraziamento per la vittoria da poco conseguita contro i turchi. Gli evangeli non consentono di fissare, nel ritmo annuale, una data per la Trasfigurazione. Con l’intuizione cosmica che lo caratterizza, l’Oriente fissò quella del 6 agosto, grande mezzogiorno dell’anno, apogeo della luce estiva. In quel giorno si benedicono i frutti della stagione; spesso, nei paesi del bacino mediterraneo, è l’uva a costituire il frutto benedetto per eccellenza. L’occidente, meno sensibile alla portata spirituale dell’evento, pur conservando una festa della Trasfigurazione il 6 agosto, ha preferito aggiungere una seconda celebrazione prima della Pasqua, la seconda Domenica di Quaresima, seguendo in tal modo più da vicino la cronologia della vita di Gesù.
In oriente, la festa pone l’accento sulla divinità di Cristo e sul carattere trinitario del suo splendore. «Conversando con Cristo, Mosè ed Elia rivelano che egli è il Signore dei vivi e dei morti, il Dio che aveva parlato un tempo nella legge e nei profeti; e la voce del Padre, che esce dalla nube luminosa, gli rende testimonianza», recita la liturgia bizantina.
Tuttavia la trasfigurazione non è un trionfo terreno, che sempre Gesù ha rifiutato nella sua vita – e qui sta l’errore di lettura di Callisto III -; essa non è neppure un’emozione spirituale da gustare – ecco l’errore di Petro -. È invece uno sprazzo, un bagliore di quel regno che è il Cristo stesso, una luce che è anche quella di Pasqua, della Pentecoste, della parusia, quando con il ritorno glorioso di Cristo, il mondo intero verrà trasfigurato. Mosè ed Elia, l’abbiamo detto, parlano con Gesù del suo éxodos, cioè della sua passione: solo quest’ultima farà risplendere la luce non in cima al Tabor, la montagna che rappresenta simbolicamente le teofanie e le estasi, ma al cuore stesso delle sofferenze degli uomini, del loro inferno, e infine della morte. La liturgia ci aiuta ancora a capire: «Ascoltate [dice il Padre] colui che attraverso la croce ha spogliato l’inferno e dona ai morti la vita senza fine».
Per la teologia ortodossa, la luce della trasfigurazione è l’energia divina (secondo il vocabolario precisato nel XIV secolo da Gregorio Palamas), vale a dire lo sfolgorare di Dio: Dio stesso che, mentre rimane inaccessibile nella sua «sovraessenza», si rende tuttavia partecipabile agli uomini per una follia di amore. Da cui si comprende l’importanza di questa festa per la tradizione mistica e iconografica.
Lo sfolgoramento, la folgorazione divina è tale da gettare a terra gli apostoli sulla montagna. Eppure sul Tabor essa rimane una luce esterna all’uomo. Ora essa ci è donata – scintilla impercettibile o fiume di fuoco – nel pane e nel vino eucaristici. Allora i nostri occhi si aprono e noi comprendiamo che il mondo intero è intriso di quella luce: tutte le religioni, tutte le intuizioni dell’arte e dell’amore lo sanno, ma è stato necessario che venisse il Cristo e che avvenisse in lui quell’immensa metamorfosi – così chiamano i greci la Trasfigurazione – perché si rivelasse infine che alla sorgente delle falde di fuoco, di pace e di bellezza presenti nella storia, vi è, vincitore della notte e della morte, un Volto. 

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo  dans CHIESA ORTODOSSA Cristo_Mandylion

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/immagouspensky.htm

Léonide Ouspensky

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa.
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
 Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
 L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ?N (Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].
«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)

Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”

Traduzione dal Francese del prof. G. M.

Palermo, agosto 2006.
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[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l’image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (…) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
[7] E. Troubetskoï, Il senso della vita, Berlin, 1922, p. 228 (in russo). Virgolettato dall’autore.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, immagini e testi, |on 7 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

La Santissima Trinità di Andrej Rublëv

dal sito:

http://www.orthodoxworld.ru/it/icona/10/index.htm

La Santissima Trinità di Andrej Rublëv

Tutti conoscono l’icona della Santissima Trinità di Andrej Rublëv: è una delle più celebri e misteriose espressioni della pittura mondiale. Così come la conosciamo noi oggi, questa grandissima opera dell’arte mondiale è apparsa agli occhi dei restauratori nel 1919.
Il soggetto dell’icona si basa sul capitolo 18 del libro della Genesi, dove si descrive Dio che, in forma di tre angeli, appare ad Abramo e a Sara sotto la quercia di Mamre. Molti santi Padri (S. Cirillo d’Alessandria, S. Ambrogio di Milano, S. Massimo il Confessore) erano convinti che in questo testo dell’Antico Testamento si parla dell’immagine della Santissima Trinità. Però prima di Rublëv, i pittori di icone dipingevano soltanto la scena della vita quotidiana: i tre angeli ospiti di Abramo e Sara, seduti a tavola all’ombra di una grande guercia. Il santo Andrej ha saputo invece incarnare nell’icona il dogma più importante del cristianesimo!
In che cosa si è rivelato lo straordinario genio di Rublëv? Guardiamo attentamente l’icona. Anzitutto osserviamo che Rublëv ha tolto le figure di Abramo e di Sara. Il ricco allestimento della mensa è stato sostituito da una sola coppa, indicata dall’angelo che sta in mezzo. La grande quercia si è trasformata in un piccolo albero. Così l’icona si può riconoscere, ma da essa sono scomparse tutte le cose temporali, lasciando posto a quello che è eterno.
Dio-Padre, Dio-Figlio, Dio-Spirito Santo. Nell’insegnamento ortodosso la Santissima Trinità è chiamata: consustanziale, indivisibile, fonte di vita e santa. Come rappresentare la Trinità in un’icona, senza perdere nessuno di questi nomi-concetti? Alcuni pittori d’icone dopo di Rubliëv disegnarono l’angelo che sta nel mezzo con la croce dentro l’aureola, come nelle icone del Salvatore. Però indicando il Dio-Figlio perdevano un’altra caratteristica: la consustanzialità della Trinità. Capendo che non si può disegnare l’angelo di mezzo differente dagli altri due laterali, altri pittori dipinsero le croci nelle aureole di tutti e tre, però questo peggiorava soltanto l’errore, perché la croce nel nimbo è assolutamente inammissibile nelle immagini di Dio-Padre e di Dio-Spirito Santo.
Rubliëv trovò una bellissima soluzione. La consustanzialità è trasmessa nella sua icona con il fatto che le figure degli angeli sono dipinte assolutamente nella stessa maniera, e tutte e tre hanno la stessa dignità. Ognuno degli angeli porta nella mano lo scettro, simbolo del potere divino. Però gli angeli non sono uguali: hanno diverse pose, diverse vesti. I vestiti dell’angelo di mezzo (la tunica rossa, il manto azzurro e la fascia sopra di esso) sono simili ai vestiti del Salvatore. Due degli angeli seduti a tavola con la testa ed il movimento del corpo sono rivolti verso l’angelo seduto alla sinistra. La testa di quest’ultimo non è chinata, il suo corpo non è in movimento, e il suo sguardo è rivolto verso gli altri due angeli. Il colore tiglio chiaro del suo vestito testimonia la sua dignità regale. Tutte queste cose indicano la prima persona dalla Santissima Trinità. Infine, l’angelo a destra porta un vestito di colore verde. Questo è il colore dello Spirito Santo, chiamato Datore di vita. Con pennellate leggere e impercettibili, il gran maestro ci mostra i volti della Santissima Trinità, ma facendo questo, non infrange il dogma della sua consustanzialità.
Anche l’indivisibilità è trasmessa nello stesso modo geniale. L’angelo di mezzo mostra la coppa sulla mensa. Se l’inclinazione del capo ed il movimento dei due angeli verso il terzo, quello a sinistra, li uniscono tra loro, i gesti delle loro mani sono rivolti verso la coppa eucaristica con la testa dell’agnello sgozzato, messa sulla mensa bianca, come su di un trono. Vediamo che gli angeli sono tre, ma la coppa una sola: essa crea il centro composizionale e sensibile dell’icona. E qui vediamo che i tre angeli dell’Antico Testamento si trovano in una conversazione senza parole, il cui contenuto è la sorte del genere umano, in quanto la coppa del sacrificio è simbolo del volontario sacrificio del Figlio!
L’icona, in cui non c’è né azione, né movimento, è piena d’ispirazione e di una pace solenne. Il pittore ha presentato qui la grandezza dell’amore sacrificale. Il Padre manda il Suo Figlio a soffrire per l’umanità, e il Figlio, Gesù Cristo, è disposto ad andare a soffrire e dare se stesso come sacrificio per gli uomini.
Nell’icona ci sono alcuni altri simboli: l’albero, il monte e la casa. L’albero, la quercia di Mamre, è trasformato da Rublëv nell’albero della vita e mostra che la Trinità è la fonte della vita. Il monte incarna la santità della Trinità, e la casa il fatto che Dio è il primo Costruttore di tutto. La Casa infatti si trova alle spalle dell’angelo con i tratti del Padre (Creatore, Iniziatore della Costruzione), l’Albero alle spalle dell’angelo di mezzo (il Figlio è la Vita) e il Monte alle spalle del terzo angelo (lo Spirito Santo).

Publié dans:ARTE, CHIESA ORTODOSSA |on 19 juin, 2011 |Pas de commentaires »

29 giugno, San Pietro e Paolo apostoli – Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.

dal sito:

http://www.certosini.info/lezion/Santi/29%20giugno%20san%20pietro%20e%20paolo.htm

29 giugno

SANTI PIETRO E PAOLO apostoli
 
Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.
 
Homilia 28. PG 151,355-362.
 
Gli apostoli fanno brillare una luce che non conosce mutamento o declino sopra coloro che abitano nella regione delle tenebre, poi li rendono partecipi di questa luce, anzi suoi figli. Cosi ognuno di essi potrà splendere come un sole quando nella sua gloria si manifesterà il Verbo, uomo e Dio, luce sovressenziale.
Tutti questi astri, che oggi sorgono, rallegrano la Chiesa, perché le loro congiunzioni non producono nessuna eclissi, ma accendono una sovrabbondanza di luce. Cristo splende nella sua sfera eccelsa, senza gettare ombra su quelli che ruotano in regioni meno elevate. E tutti questi astri si muovono in piena luce, senza che vi sia alternanza fra il giorno e la notte, o i loro raggi differiscano per luminosità, dal momento che il loro splendore proviene da un’unica fonte.
2 Tutti coloro che fanno parte di Cristo, fonte perenne di luce eterna, hanno il medesimo fulgore e la sua gloriosa luminosità. La congiunzione di questi astri si manifesta cosi agli occhi dei fedeli attraverso un duplice sfavillio.
Satana, il primo ribelle, riuscì a far apostatare Adamo, il primo uomo, il progenitore dell’umanità. Quando dunque Satana vide Dio creare Pietro, il capostipite dei fedeli,
e dirgli: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ), nella sua malvagità suicida, cercò di tentare Pietro come aveva tentato Adamo.
Colui che è il maligno per eccellenza sapeva che Pietro era dotato d’intelletto e incendiato d’amore per Cristo. Perciò non s’azzardò ad assalirlo di petto, ma con fare sornione lo aggredì di fianco, per spingerlo a violare il suo dovere.
3 Nell’ora della passione il Signore disse ai suoi discepoli:
 Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte2.( Mt 26,31 ). Pietro, incredulo non solo lo contraddice, ma si esalta sopra gli altri, affermando: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 )
Dopo l’arresto di Gesù, Pietro, come punito per la sua presunzione, abbandona il Signore più degli altri. Ma più degli altri umiliato, egli avrebbe a suo tempo ritrovato un onore più grande.
Infatti il suo comportamento è ben differente da quello di Adamo. Questi, una volta tentato, era caduto vinto precipitando cosi nella morte, mentre Pietro, dopo essere stato atterrato, riesce a rialzarsi e trionfa sul tentatore.
In che modo Pietro fu vincitore? Rendendosi conto del suo stato, provandone un dolore cocente, effondendosi in lacrime di penitenza, assai preziose per espiare. Il salmo dice infatti: Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi, 4.( Sal 50,19 )
 perché il rincrescimento di avere offeso Dio opera una guarigione irreversibile. E chi semina una preghiera intrisa di pianto, meriterà il perdono intessuto di allegrezza.
4 Possiamo notare che Pietro espiò in modo adeguato il suo rinnegamento, non solo pentendosi e facendo penitenza, ma anche perché l’orgoglio che lo spingeva al protagonismo fu espulso radicalmente dalla sua anima.
Il Signore lo volle dimostrare a tutti quando il terzo giorno risuscitò dai morti, dopo la passione sofferta per noi nella sua carne. Nel vangelo infatti egli dice a Pietro, accennando agli apostoli: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?5.( Gv 21,15 )
La risposta ci rivela un Pietro umile, davvero convertito. Al Getsemani, senza essere interpellato, si era spontaneamente messo sopra gli altri, dicendo: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 )
 Ma dopo la risurrezione, quando Gesù gli domanda se lo ama più degli altri, Pietro risponde di si, sul fatto di amare, ma tralascia di far menzione del grado, limitandosi a dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo!
5 Gesù disse a Simon Pietro:  »Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? ». Gli rispose: « Certo, Signore, tu lo sai che ti amo ».5.( Gv 21,15 )
Quando Gesù vede che Pietro gli ha conservato l’amore e ha acquistato l’umiltà, da compimento alla sua promessa e gli dice: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 )
In precedenza, quando il Signore aveva paragonato l’assemblea dei fedeli a una costruzione, aveva promesso a Pietro di costituirlo a fondamento, dicendo: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ) Nel racconto evangelico della pesca miracolosa, Gesù aveva pure detto a Pietro: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. 6.( Lc 5,10 )
 Infine, dopo la risurrezione, Gesù paragona i suoi discepoli ad un gregge e chiede a Pietro di esserne il pastore, affermando: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 )
Vedete, fratelli, come il Signore arde dal desiderio della nostra salvezza! Non cerca che il nostro amore, in modo da poterci guidare ai pascoli e all’ovile della salvezza. Desideriamo perciò anche noi la salvezza, obbediamo in parole e nei fatti a coloro che devono essere le nostre guide in questo cammino. Basterà che bussiamo alla porta della salvezza e subito si presenterà la guida designata dal nostro Salvatore. Nel suo amore eterno per gli uomini, il Signore stesso sembra non aspettare che la nostra richiesta, anzi la previene e si affretta a presentarci il capo che ci guiderà alla salvezza definitiva.
6 Davanti alla triplice interrogazione del Signore, Pietro è addolorato, perché pensa che Gesù non si fidi di lui.. E’ convinto di amare Gesù e che il Maestro lo sa meglio di lui. Con le spalle al muro e senza via d’uscita, Pietro dichiara il suo affetto e proclama l’onnipotenza del suo interlocutore, dicendo: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo.7.( Gv 21,17 )
Dopo una simile confessione, Gesù costituisce Pietro pastore, anzi supremo pastore della sua Chiesa e gli promette la forza necessaria per resistere fino alla morte di croce, mentre per l’innanzi Pietro era crollato davanti alle parole di una servetta.
Gesù gli afferma: In verità. in verità ti dico: quando eri più giovane – non solo di corpo, ma spiritualmente – ti cingevi la veste da solo. e andavi dove volevi. ossia seguivi i tuoi impulsi e vivevi secondo i tuoi desideri naturali. Ma quando sarai vecchio – quando cioè sarai pervenuto anche alla maturità dello spirito – tenderai le tue mani. E queste ultime parole alludono alla morte di croce; il verbo tendere è alla forma attiva, per specificare che Pietro si lascerà crocifiggere di sua libera volontà.
7 Tenderai le tue mani,, e un altro ti cingerà la veste cioè ti fortificherà – e ti porterà dove tu non vuoi.8.( Gv 21,18 )
Il testo da un lato segnala che la nostra natura non vuole dissolversi nella morte per l’istinto congenito verso la vita, e d’altro canto il martirio di Pietro oltrepassa ampiamente le sue forze naturali. Il succo delle parole del Signore è questo: « A causa mia e rafforzato da me, tu sopporterai supplizi che normalmente la natura umana è incapace di assumere ».
Questo è Pietro e assai pochi lo conoscono sotto tale angolatura.
E Paolo, chi è? Chi potrà far conoscere la sua pazienza nel sopportare ogni cosa per Cristo, fino alla morte? La morte, Paolo l’affrontava ogni giorno, pur continuando a vivere. Rammentiamoci di quando ha scritto: Non sono più io che vivo. ma Cristo vive in me. 9.( Gal 2,20 )
Per amore di Cristo, egli considerava tutto come spazzatura, al punto da stimare il futuro come qualcosa di secondario nei confronti di quell’amore. Egli dice infatti: Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore. 10.( Rm 8,39 )
Pieno di zelo per Dio, Paolo non mirò che a infonderlo anche in noi.
8 Tra gli apostoli, Paolo non è inferiore per gloria al solo Pietro. Considera la sua umiltà quando esclama: lo sono l’infimo degli apostoli. e non sono degno neppure di,essere chiamato apostolo. 11.( 1 Cor 15,9 )
Se Paolo eguaglia Pietro per la fede, lo zelo, l’umiltà .e la carità, perché non ricevette in parte il medesimo premio da parte di Dio che giudica con giustizia e tutto pesa su un’esatta bilancia?
All’uno il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. In ordine all’altro, dichiara ad Anania: Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli.12.( At 9.15 )Di che nome si tratta? Certamente di quello della Chiesa di Cristo di cui Pietro garantì la costruzione.
Vedete come Pietro e Paolo sono eguali in gloria, come la Chiesa di Cristo riposa sul fondamento di loro due? Ecco perché in questo giorno la Chiesa gli attribuisce una solennità comune, per cui oggi celebriamo una festa in loro onore. 
 

ORTODOSSIA: 10. GIOVEDÌ DEL GRANDE CANONE

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/giovedigrandecanoneschmemann.htm

TRIODION – GRANDE QUARESIMA

10. GIOVEDÌ DEL GRANDE CANONE

         È oggi molto importante tornare all’idea e all’esperienza della Quaresima in quanto viaggio spirituale, il cui scopo è di trasferirci da uno stato spirituale ad un altro. All’inizio della Quaresima, come inaugurazione, troviamo il “Canone di sant’Andrea di Creta”, il grande canone penitenziale che è come il diapason che dà il tono all’intera melodia. Diviso in quattro parti, viene letto al Grande Apodipnon (compieta), la sera dei primi quattro giorni di Quaresima. Lo si può adeguatamente descrivere come una lamentazione penitenziale, che ci rivela l’estensione e la profondità del peccato, che scuote l’anima con la disperazione, il pentimento e la speranza. Con un’arte straordinaria, sant’Andrea ha intrecciato i grandi temi biblici – Adamo ed Eva, il paradiso e la caduta, Noè e il diluvio, i patriarchi, Davide, la terra promessa, e infine Cristo e la Chiesa – con la confessione del peccato e il pentimento. Gli eventi della storia sacra sono presentati come eventi della mia vita, le azioni di Dio nel passato come azioni che concernono me e la mia salvezza, la tragedia del peccato e del tradimento come mia tragedia personale. La mia esistenza mi viene mostrata come parte della lotta gigantesca e universale fra Dio e le potenze delle tenebre che si rivoltano contro di lui.

         Il Canone inizia con questa nota profondamente personale: “Da dove comincerò a piangere sulle azioni abominevoli della mia vita? Quale fondamento porrò, o Cristo, per questa lamentazione?”.
         Uno dopo l’altro, i miei peccati vengono rivelati nel loro rapporto profondo con il dramma perenne della relazione dell’uomo con Dio; la storia della caduta dell’uomo è la mia storia: “Ho fatto mio il misfatto di Adamo; mi riconosco privato di Dio, del Regno eterno e della beatitudine, a motivo dei miei peccati…”.
         Ho perduto tutti i doni divini: “Ho macchiato la veste del mio corpo, ho oscurato l’immagine e la somiglianza di Dio… Ho ottenebrato la bellezza della mia anima; ho lacerato la mia prima veste intessuta per me da Creatore, ed eccomi nella nudità…”.
         Così, per quattro sere consecutive, le nove odi del Canone mi dicono e ridicono la storia spirituale del mondo che è anche la mia storia. Esse mi confrontano con gli eventi e le azioni decisive del passato, il cui significato e la cui portata, tuttavia, sono eterni, perché ogni anima umana – unica e insostituibile – passa attraverso lo stesso dramma, si trova ad affrontare le stesse scelte fondamentali, scopre la stessa realtà ultima. Gli esempi scritturistici sono ben più di semplici “allegorie”, come pensano tanti, i quali trovano, perciò, questo Canone “sovraccarico”, troppo appesantito da nomi ed episodi irrilevanti. Perché parlare, si chiedono molti, di Caino e Abele, di Davide e Salomone, quando sarebbe tanto più semplice dire “Ho peccato”? ciò che non comprendono, però, è che la parola stessa peccato ha, nella tradizione biblica e cristiana, una profondità e una densità che l’uomo “moderno” è incapace di cogliere e che fa della sua confessione dei peccati qualcosa di molto differente dal vero pentimento cristiano. La cultura in cui viviamo e che modella la nostra visione del mondo esclude in effetti la nozione di peccato. Perché, se il peccato è innanzitutto la caduta dell’uomo da un’altezza incredibilmente elevata, se è il rigetto da parte dell’uomo della sua “alta vocazione”, ch e cosa può significare tutto questo all’interno di una cultura che ignora e nega questa “altezza” e questa “vocazione”, e definisce l’uomo non a partire “dall’alto”, bensì “dal basso”? Che spazio può avere in una cultura che, anche quando non nega Dio apertamente, è di fatto materialistica da cima a fondo e pensa la vita dell’uomo esclusivamente in termini di beni materiali ignorandone la vocazione trascendente? Il peccato, in tale contesto, è visto in primo luogo come una “debolezza” naturale, dovuta di solito a un “disadattamento”, il quale, a sua volta, ha delle radici sociali e può, quindi essere eliminato da una migliore organizzazione sociale ed economica. Per questo, anche quando confessa i propri peccati, l’uomo “moderno” non si pente più: in base alla comprensione che egli ha della religione, o enumera in modo formale delle trasgressioni formali a regole formali, oppure comunica i propri “problemi” al confessore, attendendosi dalla religione qualche trattamento terapeutico che lo renda di nuovo felice e ben inserito nel suo ambiente. Ma in nessuno dei due casi abbiamo il pentimento come esperienza sconvolgente di colui che vede in se stesso “l’immagine della gloria ineffabile” e si rende conto di averla deturpata, tradita e rifiutata nella propria vita; come dispiacere che viene dal più profondo della coscienza dell’uomo, come desiderio di ritornare, come un arrendersi all’amore e alla misericordia di Dio. Questo il motivo per cui non è sufficiente dire: “Ho peccato”. Una tale confessione prende significato ed efficacia solo se il peccato è compreso e sperimentato in tutta la sua profondità e tristezza.
         Scopo del Grande Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci così al pentimento; ed esso lo svolge non attraverso definizioni ed enumerazioni, bensì attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è, in effetti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa meditazione ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una visione totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle sue motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale, all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Per esempio, quando noi ascoltiamo: “Non ho fatto mia la giustizia di Abele, o Gesù, non ti ho offerto un dono accettabile né un’azione divina né un sacrificio puro né una vita immacolata…”, noi comprendiamo che la storia del primo sacrificio, ricordato in forma così breve dalla Bibbia, rivela qualcosa di essenziale riguardo alla nostra propria vita, riguardo all’uomo stesso. Comprendiamo che il peccato è innanzitutto il rifiuto della vita in quanto offerta o sacrificio a Dio o, in altri termini, il rifiuto dell’orientamento della vita a Dio; che il peccato, quindi, è, nelle sue radici, la deviazione del nostro amore dal suo fine ultimo. È questa rivelazione che ci permette allora di affermare qualcosa che è profondamente rimosso dalla nostra esperienza “moderna” della vita, ma che ora diventa “esistenzialmente” vero: “Riempiendo di vita la polvere, tu mi hai dato carne ed ossa alitando il tuo soffio di vita. O Creatore, Redentore e Giudice, accetta il mio pentimento…”.
         Per ascoltare in modo appropriato il Grande Canone è necessario aver indubbiamente una certa conoscenza della Bibbia e la capacità di meditare sul significato che essa ha per noi. Se oggi tanti trovano la Bibbia noiosa e senza interesse, è perché la loro fede non si nutre più alla sorgente delle sante Scritture, che per i Padri della Chiesa erano la sorgente della fede. Dobbiamo reimparare a penetrare nel mondo qual è rivelato dalla Bibbia e a vivere in esso; e per questo non c’è via migliore di quella della liturgia della Chiesa, che non solo ci trasmette gli insegnamenti biblici, ma ci rivela il modo di vivere conforme alla Bibbia. Il viaggio quaresimale comincia così con un ritorno al “punto di partenza”: il mondo della creazione, della caduta e della redenzione; il mondo in cui tutte le cose parlano di Dio e ne riflettono la gloria, in cui tutti gli eventi sono riferiti a Dio, in cui l’uomo trova la vera dimensione della propria vita e, una volta trovata, si converte.
         Il giovedì della quinta settimana, al Mattutino, udiamo ancora, ma questa volta nella sua totalità, il Grande Canone. Se all’inizio della Quaresima esso era come una porta aperta sul pentimento, ora, alla fine della Quaresima, esso appare come una sintesi del pentimento e del suo compimento. Se all’inizio l’abbiamo semplicemente ascoltato, ora – speriamo! – le sue parole sono diventate le nostre parole, la nostra lamentazione, la nostra speranza, il nostro pentimento, e anche il criterio del nostro sforzo quaresimale, il metro con cui misurare il cammino fino ad ora percorso.

da A. Schmemann, Great Lent, St. Vladimir’s Seminary Press 1974

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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