Archive pour la catégorie 'CHIESA ORTODOSSA'

La Domenica delle Palme: 2. Osanna (di Olivier Clement)

di Oliver Clemént, ricordo che è della Chiesa Ortodossa, dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/palmeschmem.htm

2. Osanna

La Domenica delle Palme

            Dal punto di vista liturgico, il sabato di Lazzaro si presenta come la pre-festa della domenica delle Palme, giorno in cui si celebra l’ingresso del Signore a Gerusalemme. Queste due feste hanno un tema comune: il trionfo e la vittoria. Il sabato rivela il nemico che è la morte, la domenica annuncia la vittoria come trionfo del regno di Dio, accettazione da parte del mondo del suo solo Re, Gesù Cristo. L’ingresso solenne nella città santa fu, nella vita di Gesù, il suo solo trionfo visibile. Fino a quel giorno, egli aveva volontariamente respinto ogni tentativo di glorificarlo. Solo sei giorni prima della pasqua non soltanto accetta volentieri l’avvenimento, ma lo provoca. Compiendo alla lettera ciò che aveva detto il profeta Zaccaria – «Ecco, a te viene il tuo re… cavalca un asino» (Zc 9, 9) –, egli ha mostrato chiaramente che voleva essere riconosciuto e acclamato come Messia, Re e Redentore d’Israele. Il racconto del vangelo sottolinea, in effetti, tutti questi tratti messianici: le palme, i canti di Osanna, l’acclamazione di Gesù come Figlio di Davide e Re d’Israele. La storia di Israele raggiunge il suo scopo: tale è il senso di questo avvenimento. Infatti, il senso di questa storia era di annunciare e preparare il regno di Dio, la venuta del Messia. Oggi essa è compiuta, perché il re entra nella sua città santa, e in lui le profezie e tutta l’attesa di Israele trovano il loro compimento. Egli inaugura il suo regno.

            La liturgia della domenica delle Palme commemora questo avvenimento; con rami di palme in mano, noi ci identifichiamo con il popolo di Gerusalemme, con esso salutiamo l’umile Re, cantandogli Osanna. Ma quale è il senso di tutto ciò per noi, oggi?

            Noi confessiamo anzitutto che Cristo è nostro Re e nostro Signore. Troppo spesso ci dimentichiamo che il regno di Dio è già stato inaugurato e che nel giorno del nostro battesimo ne siamo stati fatti cittadini e abbiamo promesso di porre la nostra fedeltà a questo regno al di sopra di ogni altra cosa. Dobbiamo sempre ricordare che, per qualche ora, Cristo è stato veramente Re sulla terra, in questo mondo che è il nostro. Per qualche ora soltanto, e in una sola città. Ma come in Lazzaro abbiamo riconosciuto l’immagine di ogni uomo, così possiamo vedere in questa città il centro mistico del mondo e di tutta la creazione. Tale è il senso biblico di Gerusalemme, il punto focale di tutta la storia della salvezza e della redenzione, la città santa della Venuta di Dio. Pertanto, il regno inaugurato a Gerusalemme è un regno universale, che abbraccia tutti gli uomini e la creazione intera… Per qualche ora, e tuttavia queste ore sono decisive; è l’ora di Gesù, l’ora del compimento operato da Dio di ogni sua promessa, di ogni suo volere. Quest’ora è al termine dell’intero processo di preparazione rivelato nella Bibbia, il compimento di tutto quello che Dio ha fatto per l’uomo. E così, questa breve ora del trionfo terreno di Cristo acquista un significato eterno. Essa introduce la realtà del regno nel nostro tempo, in tutte le ore, facendo di questo regno ciò che dà senso al tempo, il suo ultimo scopo. A partire da questa ora, il regno è stato rivelato al mondo, e la sua presenza giudica e trasforma la storia umana. E quando nel momento più solenne della celebrazione liturgica noi riceviamo una palma dalle mani del sacerdote, rinnoviamo il suo regno come lo scopo ultimo e il contenuto della nostra vita. Confessiamo che tutto, nella nostra vita e nel mondo, appartiene a Cristo, che niente può essere sottratto al solo e unico Signore, e che nessun campo della nostra esistenza sfugge al suo potere, alla sua salvezza e alla sua azione redentrice. Infine, proclamiamo l’universale e totale responsabilità della Chiesa riguardo alla storia dell’umanità, e affermiamo la sua missione universale.

            Tuttavia, sappiamo che il Re che gli ebrei acclamavano allora e che noi acclamiamo oggi si incammina verso il Golgota, verso la croce e la tomba. Sappiamo che questo breve trionfo non è che il prologo del suo sacrificio. Le palme nelle nostre mani significano perciò la nostra prontezza e la nostra volontà a seguirlo sul cammino del sacrificio, la nostra accettazione del sacrificio e la nostra rinuncia a noi stessi come unica via regale che conduce al regno.

            Infine, queste palme, questa celebrazione, proclamano la nostra fede nella vittoria finale di Cristo. Il suo regno è ancora nascosto e il mondo lo ignora. Esso vive come se l’avvenimento decisivo non avesse mai avuto luogo, come se Dio non fosse morto sulla croce e come se, in lui, l’uomo non fosse risuscitato dai morti. Ma noi cristiani crediamo nella venuta di questo regno in cui Dio sarà tutto in tutti e Cristo il solo Re.

            Nelle nostre celebrazioni liturgiche ricordiamo avvenimenti del passato; ma tutto il senso e l’efficacia della liturgia consistono proprio nel trasformare il ricordo in realtà. Nella domenica della Palme la realtà di cui si tratta è il nostro coinvolgimento con il regno di Dio, è la nostra responsabilità verso di esso. Cristo non entra più a Gerusalemme; l’ha fatto una volta per tutte. Egli non ha bisogno del «simbolo» e non è certo perché noi possiamo perpetuamente «simbolizzare» la sua vita che è morto sulla croce. Cristo vuole da noi una reale accoglienza del regno che egli ci ha portato… E se noi non siamo pronti ad essere totalmente fedeli al giuramento che rinnoviamo ogni anno la domenica delle Palme, se veramente non siamo decisi a fare del regno la misura di tutta la nostra vita, allora la nostra celebrazione è senza senso e senza significato sono le palme che portiamo dalla chiesa a casa.

Tratto da: Alexander Schmemann – Olivier Clément, “Il mistero pasquale”, Lipa Edizioni, pp 9-12.

GLI STADI DELLA VITA SPIRITUALE (CENNI A SAN PAOLO)

dal sito:

http://www.coptiortodossiroma.it/index.php/articolikeraza/45-vitaspirituale

GLI STADI DELLA VITA SPIRITUALE (CENNI A SAN PAOLO)

Mercoledì 04 Giugno 2008 15:49 

Nell’opera di Giovanni Climaco, “La scala del Paradiso”, la vita spirituale viene divisa in 30 stadi di cui la maggior parte riguardano la vita monastica.

Quanto alla vita spirituale in generale, si trovano almeno tre stadi principali: la vita di pentimento, la vita di santità e la vita di pienezza. Ognuno di questi tre stradi è variamente suddiviso e ramificato. Nell’opera di Giovanni Climaco, “La scala del Paradiso”, la vita spirituale viene divisa in 30 stadi di cui la maggior parte riguardano la vita monastica.

Quanto alla vita spirituale in generale, si trovano almeno tre stadi principali: la vita di pentimento, la vita di santità e la vita di pienezza. Ognuno di questi tre stradi è variamente suddiviso e ramificato.

+ Il pentimento: l’evangelizzazione del Signore Gesù Cristo è iniziata con le parole: “Il Regno di Dio è vicino, pentitevi e credete al Vangelo” (Mc 1:10). Ed anche: “Se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13:3,5);

+ la santità: dice San Pietro: “Ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo.” (1P 1:15,16) (Le 11:44)

+ la perfezione: dice il Signore nel suo sermone sul monte: “Siate perfetti, come il Padre vostro che è nei cieli è perfetto” (Mt 5:48)

1. La vita di pentimento

Se il peccato è allontanamento da Dio e ostilità nei suoi riguardi, il pentimento è il principio della riconciliazione con Dio. Dice San Paolo: “Riconciliatevi con Dio” (2Co 5:20). Il pentimento, dunque, è l’inizio di un rapporto nuovo, puro, con Dio. E’ il passaggio dall’oscurità alla luce, e il ritorno da terre lontane tra le braccia del Padre.

Il pentimento è preceduto dalla conoscenza e dal timore di Dio.

L’uomo deve prendere coscienza di:

1. essere figlio di Dio – una creatura creata ad immagine e somiglianza di Dio per cui è indegno che pecchi;

2. essere tempio dello Spirito di Dio abitando in lui lo Spirito (1Co 3:16). Non è bene che l’uomo rattristi con il peccato il Santo Spirito di Dio;

3. irritare Dio attraverso il peccato e di rischiare la sua punizione sulla terra e nel cielo.

Perciò egli tema di tutto cuore le parole del Signore: “Se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13:3,5)

Tutto ciò introduce nel suo cuore il timore di Dio così che non pecca.

La Bibbia parla del timore di Dio quando dice: “Il timor del Signore è il principio della sapienza” (Sal 111:10) e “Il principio della saggezza è il timore del Signore” (Prov 9:10). E’ chiaro che l’uomo – nell’atto di compiere il peccato – non ha nel cuore e davanti agli occhi il timore di Dio.

+ + +

Nessuno dica “Bisogna amare Dio, non temerlo” come dice l’Apostolo: “Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura” (1G 4:18). Chi di noi è giunto all’amore perfetto? Il Signore dice: “Chi mi ama, osserva i miei comandamenti” e “se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” (Gv 15:10).

Quindi camminiamo nel timore perché il timore ci farà giungere infine all’amore di Dio.

Chi teme Dio non pecca e se si allontana dal peccato giunge all’amore di Dio oppure Dio versa nel suo cuore l’amore attraverso lo Spirito Santo.

+ + +

Il pentimento deve comprendere tutti i tipi di peccati in tutti i loro dettagli: peccati del corpo, peccati dei sensi, peccati del pensiero, peccati del cuore e dell’intenzione.

Il pentimento non è soltanto l’evitare il peccato.

Forse l’uomo evita di compiere peccati ma essi restano presenti come desiderio nel suo cuore. Egli, dunque, pecca con il cuore, e non s’è ancora veramente pentito. Oppure il peccato può continuare ad esistere nell’intenzione anche senza che lo si commetta! Oppure nei sogni perché la sua mente interiore non si è ancora purificata! San Gérome disse: “Esistono persone caste nel corpo ma la cui anima è adultera”. Perciò dicono i Padri:

“La perfezione del pentimento è l’odio del peccato”

Chi odia il peccato non ha il desiderio del peccato né nel cuore né nell’intenzione, né nel pensiero, né nella mente interiore. E’ totalmente purificato. E dunque non pecca.

Diciamo ciò di tutti i tipi di peccato. E così è passato dalle negatività del peccato agli aspetti positivi del pentimento.

+ + +

Chi si pente realmente non ritorna al peccato perché chi lo fa forse si trova solo in una fase in cui tenta la penitenza ma non nella penitenza perfetta.

Perciò i veri penitenti, come San Musa al-Aswad, Sant’Agostino e Santa Maria la copta, sono passati, crescendo nella penitenza, alla vita di santità.

Il pentimento nella loro vita fu una svolta radicale e un passaggio irreversibile e senza pentimento da una vita ad un’altra. Con tutto il cuore si sono sforzati di correggere ciò di cui erano stati causa i loro peccati come fece Zaccheo il pubblicano: “Se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo” (Lc 19:8)

+ + +

I segni del pentimento del penitente appaiono nella sua vita di modestia e contrizione. Come il Profeta Davide che inondava di pianto il letto (Sal 6) e in molti dei cui salmi appare la contrizione. O come Sant’Agostino che ha reso pubbliche le sue “confessioni” in un libro letto da tutti e nel quale scriveva i peccati che immaginava di aver commesso nella sua infanzia. O come il figliuol prodigo che, nel suo pentimento, disse al padre: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15:21)

+ + +

2. La vita di purezza e di santità

E’ un grado superiore del pentimento essendo l’aspetto positivo nella vita di grazia. Di essa vivono i credenti che “camminano non secondo la carne ma secondo lo Spirito” (Rm 8:4), secondo il suo spirito puro e secondo l’opera che lo Spirito Santo compie in loro.

Qui l’uomo viene chiamato “spirituale” e nella sua vita appaiono i frutti dello spirito.

L’Apostolo San Paolo afferma: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Ga 5:22). Chi di noi, dunque, possiede tutte queste virtù e le prende a regola della propria vita?

Ecco spiegati i dettagli di una di queste virtù dallo stesso Apostolo quando dice: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà.” (1Co 13:4-8). Chi di noi possiede tutte queste caratteriste?

+ + +

L’importanza dell’amore consiste in quella rivelazione del Signore in cui disse che tutta la Legge e i Profeti dipendono dall’amore e che esso consta di due parti: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente…e ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22:37-40).

Questa è la carità che non avrà mai fine. Ma chi di noi ha raggiunto questo stadio? Chi di noi ama il suo prossimo come se stesso? Chi applica il versetto “la carità non cerca il suo interesse”? Chi il versetto “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15:13). Qui è il grado della santità di cui dice il Signore: “Siate santi come io sono santo”.

Se qualcuno non è ancora giunto all’amore che dona se stesso, perlomeno tenti di giungere all’amore che serve gli altri vale a dire il servizio spirituale.

+ + +

Uno disse una volta a proposito del ministero spirituale: “Quando li amerò Signore come tu li ami, e quando li amerò come tu mi hai amato e hai dato te stesso per me, allora affidami di servirli”.

Sì, fratelli, servire gli altri – in qualunque modo – è fondamentale nella vita di grazia ed è l’indice del nostro amore per il prossimo che è a sua volta una parte dell’amore perfetto su cui si basano tutta la Legge e i Profeti. E l’elemento più importante di quest’amore è guidare gli altri al Regno e operare per la salvezza delle anime.

+ + +

Delle grandi virtù è stato detto: “La fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Co 13:13). Come vivi la speranza nella tua vita? E la fede?

Per fede non intendo che tu reciti il Credo. Intendo la tua fede pratica: la fede nel fatto che Dio osserva tutto ciò che fai, ascolta tutto ciò che tu dici, conosce tutto ciò che senti e tutto ciò che pensi. E anche la fede con cui sei certo che Dio ti protegge. Il credente non teme. Dice insieme al salmo 23: “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me.”

+ + +

Chi cresce nella vita di santità, giunge alla vita di perfezione:

3. La vita di perfezione

Con essa intendiamo la perfezione relativa in relazione alle limitate capacità umane e al suo livello e anche in relazione alla grazie che Dio dona all’essere umano.

La perfezione assoluta, invece, appartiene solo a Dio.

L’uomo cresce nella perfezione e si innalza da un livello spirituale ad un altro perché “ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore” (1Co 15:41). Nella perfezione Dio concede i doni dello Spirito Santo come scritto in 1Co 12. Così l’uomo seguita fino a divenire perfetto nell’eternità.

S.S. Shenuda III

tradotto da al-Keraza 

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, MEDITAZIONI |on 26 février, 2010 |Pas de commentaires »

Liturgia orientale : « Prenda la sua croce e mi segua »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100218

Giovedì dopo le Ceneri : Lc 9,22-25
Meditazione del giorno
Liturgia orientale
Ufficio dell’Esaltazione della Santa Croce

« Prenda la sua croce e mi segua »

        Salve, croce vivificante, trofeo invincibile della pietà, porta del Paradiso, conforto dei credenti, baluardo della Chiesa. Da te la corruzione è stata annientata, la potenza della morte è stata inghiottita ed abolita, e noi siamo stati innalzati dalla terra alle cose celesti. Sei l’arma invicibile, l’avversario dei demoni, la gloria dei martiri, il vero ornamento dei santi, la porta della salvezza…

        Salve, croce del Signore, per mezzo tuo l’umanità è stata liberata dalla maledizione. Tu sei il segno della vera gioia; quando sei elevata, spezzi contro terra i nostri nemici. Ti veneriamo, sei il nostro soccorso, la forza dei re, la fermezza dei giusti, la dignità dei peccatori…

        Salve, croce preziosa, guida dei ciechi, medico dei malati, risurrezione di tutti i morti. Ci ha rialzati mentre eravamo caduti nella sozzura. Per mezzo tuo è stato messo fine alla corruzione e l’immortalità è fiorita; per mezzo tuo noi mortali siamo stati divinizzati, e il demonio è stato completamente schiacciato…

        O Cristo, la tua croce è preziosa, la veneriamo oggi con le nostre labbra indegne, noi che siamo peccatori. Noi cantiamo te che hai voluto esservi legato; e a te gridiamo come il buon ladrone: «Rendici degni del tuo Regno!»

Il patriarca Kirill: san Paolo lo «slavo»

dal sito:

http://www.avvenire.it/Cultura/kirill+san+paolo_201001131226194030000.htm

SPIRITUALITÀ

Il patriarca Kirill: san Paolo lo «slavo»

Pubblichiamo la traduzione di un intervento del patriarca di Mosca e di tutte le Russie: «La nostra tradizione fa risalire all’apostolo delle genti la fonte della fede del popolo russo: per noi è il maestro che ha fondato l’unità di tutti i cristiani».

 
La conversione di san Paolo secondo il Caravaggio La ricorrenza quest’anno del bimillenario della nascita del santo protoapostolo Paolo spinge i cristiani di tutto il mondo a guardare con particolare venerazione all’apostolo delle genti, grazie al cui instancabile impegno missionario la fede cristiana si diffuse per tutto il mondo civilizzato di allora, l’ecumene, termine con cui si designava essenzialmente l’Impero romano. Dopo l’incontro con Cristo Risorto lungo la via di Damasco, Saulo, zelante fariseo e persecutore dei cristiani, si trasforma in Paolo, altrettanto zelante apostolo di Cristo, pronto ad arrivare fino agli «estremi confini della terra» (At 1, 8) per annunciare la salvezza in Cristo, che Dio dona a tutto il genere umano.

In tutte le lettere di san Paolo troviamo, come un filo rosso, la convinzione del significato universale del Vangelo nel quale «non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 11). Fin dai primi anni della propria esistenza, la Chiesa Russa ha sempre venerato nella persona dell’apostolo Paolo il suo grande maestro nella fede. L’autore della Racconti degli anni passati, prima narrazione della storia russa, fa risalire proprio all’apostolo delle genti la fonte della fede del popolo russo: «Dai moravi venne anche l’apostolo Paolo a predicare; laggiù si trova l’Illiria, dove giunse l’apostolo Paolo; di quegli stessi slavi siamo anche noi, russi, perciò anche per noi, russi, Paolo è nostro maestro».

La predicazione dell’apostolo tra i popoli dell’ecumene ha posto le solide fondamenta dell’unità del mondo cristiano, basata non sulla forza delle armi né sull’arte politica, ma sulla comunione spirituale di coloro che professano l’unico Dio vero «con una sola bocca e un solo cuore» (Liturgia di san Giovanni Crisostomo). Questa unità in Cristo nel corso dei secoli ha aiutato i popoli dell’Europa e delle altre regioni in cui è stato predicato il cristianesimo a superare i conflitti e vivere in pace, scambiandosi i tesori dell’esperienza dell’ascetica cristiana e della santità. Nella nostra epoca, che alcuni definiscono come « post-cristiana », assistiamo spesso a processi di portata generale o, come si dice oggi, globale. Tuttavia, la globalizzazione odierna non è suscitata da cause interne all’uomo, ma piuttosto esterne: dal progresso tecnico-scientifico, dallo sviluppo del sistema finanziario ed economico mondiale e dei moderni mezzi di comunicazione; perciò essa nella maggioranza dei casi, anziché farle avvicinare, fa scontrare le diverse civiltà, acuisce i problemi internazionali e suscita crisi mondiali di vario genere. Questi processi sono accompagnati da un estremo svuotamento spirituale e morale dell’uomo.

L’uomo dell’era postmoderna, deluso dalle più diverse ideologie e dai più vari sistemi di pensiero, con gran scetticismo chiede oggi assieme a Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). Perciò il nostro mondo di oggi, l’ecumene, come un tempo l’Impero romano, ha bisogno dell’annuncio cristiano della fede, della speranza e dell’amore, di un annuncio che possa « dare un’anima » e conferire un senso all’unità esteriore dei popoli cristiani. In un periodo di estrema decadenza morale per l’impero romano l’apostolo Paolo, i suoi discepoli e le comunità ecclesiali da loro fondate, col lieto annuncio di Cristo seppero trasformare la società che attraversava una profonda crisi spirituale. Ora questa responsabilità ricade su tutti coloro che credono in Cristo e che vogliono portare al mondo il suo annuncio di salvezza. Il giubileo dell’apostolo Paolo che celebriamo ci ricorda con forza il significato della sua esperienza missionaria. San Paolo accordava sempre la sua predicazione con la mentalità e gli usi di coloro ai quali si rivolgeva. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno», scrive (1 Cor 9, 22).

Seguendo l’esempio dell’apostolo, il cristiano di oggi deve conoscere bene la realtà del mondo che lo circonda, possedere perfettamente il linguaggio di coloro a cui rivolge la propria predicazione. Ma nello stesso tempo il cristiano non deve mai immedesimarsi con « questo mondo », il suo annuncio non può conoscere compromessi quanto alla sua assoluta conformità allo spirito del Vangelo. Non bisogna inoltre dimenticare che l’uomo moderno non si fida più delle parole, per quanto belle possano essere. Oggi l’annuncio cristiano può essere convincente solo se i cristiani lo incarnano nella propria vita. È proprio questo che ci insegna l’apostolo Paolo, quando scrive nella Lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (2, 20) e quando rivolge ai propri discepoli l’esortazione: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 11, 1; cfr. 1 Cor 4, 16). Facendosi imitatore dell’apostolo delle genti, il cristiano è chiamato a essere una viva immagine del Signore e aiutare così il mondo moderno ad accogliere con fede e speranza la Parola di Dio.
Kirill I, patriarca di Mosca e di tutte le Russie (traduzione di Giovanni Guaita)

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 19 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

G. Florovskij : L’Incarnazione e la Redenzione

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/incarnflorovsky.htm

L’Incarnazione e la Redenzione 

G. Florovskij

            “Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…

            L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).

            “Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.

            Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.

            Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.

            “A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?… Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?… Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?…”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.

            La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.

G. Florovskij

Da “Creation and Redemption”, 1976, Nordland Publisking compagny, 95-104. trad. T. Ch.
In “Messaggero Ortodosso”, n. dicembre-gennaio Roma 1981-1982, 14-25. 

29 giugno – SANTI PIETRO E PAOLO apostoli : Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.

dal sito:

http://www.certosini.info/lezion/Santi/29%20giugno%20san%20pietro%20e%20paolo.htm

29 giugno – SANTI PIETRO E PAOLO apostoli 

Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.

Homilia 28. PG 151,355-362.

1
Gli apostoli fanno brillare una luce che non conosce mutamento o declino sopra coloro che abitano nella regione delle tenebre, poi li rendono partecipi di questa luce, anzi suoi figli. Cosi ognuno di essi potrà splendere come un sole quando nella sua gloria si manifesterà il Verbo, uomo e Dio, luce sovressenziale.
Tutti questi astri, che oggi sorgono, rallegrano la Chiesa, perché le loro congiunzioni non producono nessuna eclissi, ma accendono una sovrabbondanza di luce. Cristo splende nella sua sfera eccelsa, senza gettare ombra su quelli che ruotano in regioni meno elevate. E tutti questi astri si muovono in piena luce, senza che vi sia alternanza fra il giorno e la notte, o i loro raggi differiscano per luminosità, dal momento che il loro splendore proviene da un’unica fonte.

2
Tutti coloro che fanno parte di Cristo, fonte perenne di luce eterna, hanno il medesimo fulgore e la sua gloriosa luminosità. La congiunzione di questi astri si manifesta cosi agli occhi dei fedeli attraverso un duplice sfavillio.
Satana, il primo ribelle, riuscì a far apostatare Adamo, il primo uomo, il progenitore dell’umanità. Quando dunque Satana vide Dio creare Pietro, il capostipite dei fedeli, e dirgli: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ), nella sua malvagità suicida, cercò di tentare Pietro come aveva tentato Adamo.
Colui che è il maligno per eccellenza sapeva che Pietro era dotato d’intelletto e incendiato d’amore per Cristo. Perciò non s’azzardò ad assalirlo di petto, ma con fare sornione lo aggredì di fianco, per spingerlo a violare il suo dovere.

3

Nell’ora della passione il Signore disse ai suoi discepoli:  Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte2.( Mt 26,31 ). Pietro, incredulo non solo lo contraddice, ma si esalta sopra gli altri, affermando: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 ).
Dopo l’arresto di Gesù, Pietro, come punito per la sua presunzione, abbandona il Signore più degli altri. Ma più degli altri umiliato, egli avrebbe a suo tempo ritrovato un onore più grande.
Infatti il suo comportamento è ben differente da quello di Adamo. Questi, una volta tentato, era caduto vinto precipitando cosi nella morte, mentre Pietro, dopo essere stato atterrato, riesce a rialzarsi e trionfa sul tentatore.
In che modo Pietro fu vincitore? Rendendosi conto del suo stato, provandone un dolore cocente, effondendosi in lacrime di penitenza, assai preziose per espiare. Il salmo dice infatti: Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi, 4.( Sal 50,19 ). Perché il rincrescimento di avere offeso Dio opera una guarigione irreversibile. E chi semina una preghiera intrisa di pianto, meriterà il perdono intessuto di allegrezza.

4
Possiamo notare che Pietro espiò in modo adeguato il suo rinnegamento, non solo pentendosi e facendo penitenza, ma anche perché l’orgoglio che lo spingeva al protagonismo fu espulso radicalmente dalla sua anima.
Il Signore lo volle dimostrare a tutti quando il terzo giorno risuscitò dai morti, dopo la passione sofferta per noi nella sua carne. Nel vangelo infatti egli dice a Pietro, accennando agli apostoli: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?5.( Gv 21,15 ).
La risposta ci rivela un Pietro umile, davvero convertito. Al Getsemani, senza essere interpellato, si era spontaneamente messo sopra gli altri, dicendo: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 )
 Ma dopo la risurrezione, quando Gesù gli domanda se lo ama più degli altri, Pietro risponde di si, sul fatto di amare, ma tralascia di far menzione del grado, limitandosi a dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo!

5
Gesù disse a Simon Pietro:  »Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? ». Gli rispose: « Certo, Signore, tu lo sai che ti amo ».5.( Gv 21,15 ).
Quando Gesù vede che Pietro gli ha conservato l’amore e ha acquistato l’umiltà, da compimento alla sua promessa e gli dice: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 ).
In precedenza, quando il Signore aveva paragonato l’assemblea dei fedeli a una costruzione, aveva promesso a Pietro di costituirlo a fondamento, dicendo: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ) Nel racconto evangelico della pesca miracolosa, Gesù aveva pure detto a Pietro: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. 6.( Lc 5,10 ).
Infine, dopo la risurrezione, Gesù paragona i suoi discepoli ad un gregge e chiede a Pietro di esserne il pastore, affermando: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 ).
Vedete, fratelli, come il Signore arde dal desiderio della nostra salvezza! Non cerca che il nostro amore, in modo da poterci guidare ai pascoli e all’ovile della salvezza. Desideriamo perciò anche noi la salvezza, obbediamo in parole e nei fatti a coloro che devono essere le nostre guide in questo cammino. Basterà che bussiamo alla porta della salvezza e subito si presenterà la guida designata dal nostro Salvatore. Nel suo amore eterno per gli uomini, il Signore stesso sembra non aspettare che la nostra richiesta, anzi la previene e si affretta a presentarci il capo che ci guiderà alla salvezza definitiva.

6

Davanti alla triplice interrogazione del Signore, Pietro è addolorato, perché pensa che Gesù non si fidi di lui.. E’ convinto di amare Gesù e che il Maestro lo sa meglio di lui. Con le spalle al muro e senza via d’uscita, Pietro dichiara il suo affetto e proclama l’onnipotenza del suo interlocutore, dicendo: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo.7.( Gv 21,17 )
Dopo una simile confessione, Gesù costituisce Pietro pastore, anzi supremo pastore della sua Chiesa e gli promette la forza necessaria per resistere fino alla morte di croce, mentre per l’innanzi Pietro era crollato davanti alle parole di una servetta.
Gesù gli afferma: In verità. in verità ti dico: quando eri più giovane – non solo di corpo, ma spiritualmente – ti cingevi la veste da solo. e andavi dove volevi. ossia seguivi i tuoi impulsi e vivevi secondo i tuoi desideri naturali. Ma quando sarai vecchio – quando cioè sarai pervenuto anche alla maturità dello spirito – tenderai le tue mani. E queste ultime parole alludono alla morte di croce; il verbo tendere è alla forma attiva, per specificare che Pietro si lascerà crocifiggere di sua libera volontà.
7

Tenderai le tue mani,, e un altro ti cingerà la veste cioè ti fortificherà – e ti porterà dove tu non vuoi.8.( Gv 21,18 ).
Il testo da un lato segnala che la nostra natura non vuole dissolversi nella morte per l’istinto congenito verso la vita, e d’altro canto il martirio di Pietro oltrepassa ampiamente le sue forze naturali. Il succo delle parole del Signore è questo: « A causa mia e rafforzato da me, tu sopporterai supplizi che normalmente la natura umana è incapace di assumere ».
Questo è Pietro e assai pochi lo conoscono sotto tale angolatura.
E Paolo, chi è? Chi potrà far conoscere la sua pazienza nel sopportare ogni cosa per Cristo, fino alla morte? La morte, Paolo l’affrontava ogni giorno, pur continuando a vivere. Rammentiamoci di quando ha scritto: Non sono più io che vivo. ma Cristo vive in me. 9.( Gal 2,20 ).
Per amore di Cristo, egli considerava tutto come spazzatura, al punto da stimare il futuro come qualcosa di secondario nei confronti di quell’amore. Egli dice infatti: Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore. 10.( Rm 8,39 ).
Pieno di zelo per Dio, Paolo non mirò che a infonderlo anche in noi.

8

Tra gli apostoli, Paolo non è inferiore per gloria al solo Pietro. Considera la sua umiltà quando esclama: lo sono l’infimo degli apostoli. e non sono degno neppure di,essere chiamato apostolo. 11.( 1 Cor 15,9 ).
Se Paolo eguaglia Pietro per la fede, lo zelo, l’umiltà .e la carità, perché non ricevette in parte il medesimo premio da parte di Dio che giudica con giustizia e tutto pesa su un’esatta bilancia?
All’uno il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. In ordine all’altro, dichiara ad Anania: Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli.12.( At 9.15 )Di che nome si tratta? Certamente di quello della Chiesa di Cristo di cui Pietro garantì la costruzione.
Vedete come Pietro e Paolo sono eguali in gloria, come la Chiesa di Cristo riposa sul fondamento di loro due? Ecco perché in questo giorno la Chiesa gli attribuisce una solennità comune, per cui oggi celebriamo una festa in loro onore.

LA SPIRITUALITÀ ORTODOSSA (NELLO STUDIO L’UOMO SPIRITUALE NELL’APOSTOLO PAOLO)

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/spiritualitavlach.htm

Hierotheos F. Vlachos

LA SPIRITUALITà ORTODOSSA

Cos’è e qual’è il suo senso

Il presente capitolo è tratto dal libro Orthodox Spirituality del vescovo-metropolita di Nafpaktos Hierotheos F. Vlachos. Il presente sito preferisce non parlare in termini di “spiritualità” per non cadere nel rischio che la spiritualità ortodossa sia una delle tante spiritualità che contraddistinguono il mondo cristiano e, più ampiamente, quello della religiosità. Con tale prospettiva si potrebbe sommariamente e comodamente concludere che tutto è uguale a tutto. Tuttavia, se si vuole essere cristianamente chiari, si deve dire che esiste una sola spiritualità perché esiste una sola fede e una sola Chiesa, dal momento che uno solo è il Cristo. Ovviamente, in prospettiva ortodossa, tutto ciò non significa piatta uniformità. Inoltre, siccome per sua naturale disposizione, l’uomo è in grado di giungere alla pienezza in Cristo solo poco per volta e, a volte, lottando tra contraddizioni, peccati ed errori, siamo consapevoli che la necessaria chiarezza appena esposta corre il rischio d’essere interpretata come se fosse un letto di Procuste. Molti potrebbero erroneamente pensare d’essere stati esclusi dalla possibilità d’un maggiore inserimento nel mistero salvifico cristiano. Bisogna comunque dire che una cosa è la pienezza che deriva dalla comunione con Dio alla quale si dispone il singolo con le sue scelte, un’altra è la progressiva mancanza di tale pienezza determinata dal crescente oblio umano di Dio.

Chiarito che la “spiritualità” ortodossa non ha a che vedere con altre spiritualità, ben volentieri inseriamo questo articolo consigliando il lettore a considerare attentamente le sapienti osservazioni del vescovo di Nafpaktos, precisazioni che circostanziano il discorso e non inducono a cadere nella grande confusione che tipicizza il nostro tempo.

Prima di tutto è necessario definire i termini “spiritualità” e “ortodossa”. Non possiamo parlare di “spiritualità ortodossa” a meno di non conoscere esattamente ciò che intendiamo con queste due parole. Questo è quanto hanno fatto pure i Santi Padri della Chiesa. Nel suo eccezionale libro La Fontana di conoscenza e, più specificamente nelle sezioni intitolate Capitoli Filosofici, San Giovanni di Damasco analizza i significati di queste parole: sostanza, natura, hypostasis, persona, ecc. Dal momento che questi termini possono essere definiti differentemente in altri contesti, il santo spiega come sono da lui definiti.

L’aggettivo “ortodosso” proviene dal termine “Ortodossia” e indica la differenza tra la Chiesa Ortodossa e ogni altra denominazione cristiana. La parola “Ortodossia” indica la vera conoscenza di Dio e della creazione. Questa definizione è offerta da sant’Atanasio del Sinai.

Il termine Ortodossia consiste di due parole: orthos (vero, diritto) e doxa. Doxa significa, da una parte, credenza, fede, insegnamento e, dall’altra, lode o dossologia. Questi due significati sono strettamente connessi. Il vero insegnamento di Dio include la vera lode; infatti se Dio fosse un concetto astratto, la preghiera verso di Lui sarebbe pure astratta. Dal momento che Dio è personale allora la preghiera presume un carattere personale. Dio ha rivelato la vera fede, il vero insegnamento. Per questo diciamo che l’insegnamento su Dio e su tutte le questioni associate alla salvezza della persona sono la Rivelazione di Dio e non una scoperta umana.

Dio ha rivelato queste verità a chi si è preparato a riceverLo. È questo che l’apostolo Giuda esprime quando dice: “… la fede, … fu trasmessa ai santi una volta per tutte” (Gd, 3). In questa citazione come in molti altri simili passi è chiaro che Dio si rivela ai Santi, cioè a coloro che hanno raggiunto un certo livello di crescita spirituale per poter ricevere tale Rivelazione. I santi Apostoli sono prima stati “guariti” e in seguito hanno ricevuto la Rivelazione. Essi hanno trasmesso questa Rivelazione ai loro figli spirituali non solo nell’insegnamento ma, primariamente, facendogliela riconoscere attraverso i suoi mistici effetti determinati dalla rinascita spirituale. Affinché questa fede possa essere conservata, i Santi Padri hanno formulato dogmi e dottrine. Accettando dogmi e dottrine si riceve questa fede rivelata, si rimane nella Chiesa, si viene guariti. Per fede s’intende, da una parte, la Rivelazione ricevuta da coloro che sono stati purificati e guariti e, dall’altra, il percorso diritto per raggiungere la theasis [visione] imboccato da coloro che scelgono tale via.

La parola “spiritualità” (pnevmatikotis) proviene da “spirituale” (pnevmatikos). Così, la spiritualità è lo stato della persona spirituale. L’uomo spirituale ha un certo modo di comportarsi, una certa mentalità. Agisce differentemente dal modo con cui si comportano le persone non spirituali.

La spiritualità della Chiesa Ortodossa, comunque, non conduce ad una vita religiosa astratta; non è neppure il frutto della forza intima dell’uomo. La spiritualità non è una vita religiosa astratta perché la Chiesa è il Corpo di Cristo. Non si riferisce semplicemente ad una religione che crede teoricamente ad un Dio. La Seconda Persona della Santa Trinità – il Logos – ha preso per noi la natura umana, l’ha unita con la sua hypostasis [persona] ed è divenuto la Testa della Chiesa.

Così la Chiesa è il Corpo dell’Uomo-Dio Cristo. Inoltre, la spiritualità non è una manifestazione dell’energie dell’anima come lo è la ragione, i sentimenti, ecc. È importante affermarlo perché molte persone tendono ad identificare una persona spirituale con chi coltiva le proprie abilità con i ragionamenti: uno scienziato, un artista, un attore, un poeta, ecc. Questa interpretazione non è accettata dalla Chiesa Ortodossa. Certamente non siamo contro scienziati, i poeti, ecc. ma non possiamo chiamarli “persone spirituali” nel senso strettamente ortodosso del termine.

Nell’insegnamento dell’Apostolo Paolo, l’uomo spirituale è chiaramente distinto dall’uomo dell’anima. Spirituale è l’uomo che ha l’energia dello Spirito Santo. Mentre l’uomo dell’anima è colui che ha corpo ed anima ma non ha acquisito lo Spirito Santo che dà vita all’anima. “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1 Cor 2, 14-15).

Nella stessa Epistola, l’Apostolo Paolo disegna la distinzione tra l’uomo spirituale e l’uomo della carne. L’uomo della carne è colui che non ha lo Spirito Santo nel suo cuore ma è caratterizzato da tutte le altre funzioni psicosomatiche dell’essere umano. Perciò è evidente che il termine “uomo della carne” non si riferisce al corpo, ma significa l’uomo dell’anima che manca del dono dello Spirito Santo e opera al di fuori di ciò. “Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1 Cor 3, 1-3).

Se combiniamo i passi sopra menzionati con l’adozione per grazia del cristiano, accertiamo che, secondo l’Apostolo Paolo, spirituale è l’uomo che per grazia è divenuto figlio di Dio. “Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom. 8, 12-16).

Spirituale è l’uomo che è testimone dello Spirito Santo nel suo cuore ed è consapevole pure dell’inabitazione del Dio Triunico e Santo. In questo modo, egli comprende che è figlio di Dio per grazia; perciò nel suo cuore grida “Abba, Padre”. Secondo la testimonianza dei Santi questo profondo grido del cuore è essenzialmente la preghiera noetica o preghiera del cuore.

San Basilio il Grande esaminando la frase “l’uomo diviene il tempio dello Spirito Santo”, insegna – ispirato da Dio – che l’uomo che è divenuto Tempio dello Spirito Santo non è turbato da tentazioni e continue distrazioni; cerca Dio e ha comunione con Lui. Chiaramente, l’uomo spirituale è colui che ha lo Spirito Santo e questo è confermato dal suo ininterrotto ricordo di Dio.

Secondo a San Gregorio Palamas, proprio come l’uomo dotato di ragione è chiamato razionale, allo stesso modo l’uomo che è arricchito dello Spirito Santo è chiamato spirituale. Così spirituale è l’“uomo nuovo”; rigenerato dalla grazia dello Spirito Santo.

Queste stesse prospettive sono condivise da tutti i Santi Padri. San Simeone il Nuovo Teologo, per esempio, dice che l’uomo prudente, paziente e mite, che prega e vede Dio, “cammina nello spirito”. Egli è l’uomo spirituale per eccellenza.

Di nuovo, secondo San Simeone il Nuovo Teologo, quando le parti dell’anima umana – il nous[1] e l’intelletto – non sono “vestite” nell’immagine di Cristo, l’uomo è considerato “della carne”, dal momento che non ha il senso della gloria spirituale. L’uomo della carne è come una persona cieca che non può vedere la luce dei raggi del sole. Infatti egli è considerato sia come cieco sia come privo di vita. Contrariamente, l’uomo spirituale, che partecipa alle energie dello Spirito Santo, è vivo in Dio.

Come abbiamo sopra sottolineato, la comunione dello Spirito Santo rende l’uomo della carne spirituale. Per questa ragione, secondo l’insegnamento Ortodosso, l’uomo spirituale per eccellenza è il Santo. Certamente, questo è detto perché il Santo partecipa a vari gradi della grazia increata di Dio e, specialmente, dell’energia deificante divina.

I Santi sono portatori e manifestatori della spiritualità ortodossa. Vivono in Dio e conseguentemente possono parlare di Lui. È in questo senso che la spiritualità ortodossa non è astratta ma incarnata nelle persone dei Santi. Così, i Santi non sono gente buona, dei moralisti nel senso stretto del termine o, semplicemente, coloro che sono “naturalmente buoni”. Piuttosto, i santi sono coloro che sottopongono tutti i loro atti alla guida dello Spirito Santo.

Siamo assicurati dell’esistenza dei Santi in primo luogo dal loro insegnamento Ortodosso. I Santi hanno ricevuto e ricevono la Rivelazione di Dio; l’esperimentano e la formulano. Sono i criteri infallibili dei sinodi Ecumenici. La seconda assicurazione è l’esistenza delle sante reliquie dei Santi. Le sante reliquie sono la prova che, attraverso il nous la grazia di Dio trasfigura pure il corpo. Di conseguenza, i corpi partecipano alle energie dello Spirito Santo.

Il principale lavoro della Chiesa è condurre l’uomo alla theasis [visione], alla comunione e all’unione con Dio. Fatto questo, possiamo in un certo senso dire che il compito della Chiesa è di “produrre reliquie”.

Così, la spiritualità Ortodossa è l’esperienza della vita in Cristo, è essere immersi nell’atmosfera dell’uomo nuovo rigenerato dalla grazia di Dio. Non è qualcosa di astratto o un puro stato emotivo e psicologico. È l’unione dell’uomo con Dio.

In questo contesto possiamo scoprire alcuni tratti che caratterizzano la spiritualità Ortodossa. In primo luogo è cristocentrica, dal momento che Cristo è l’unico e solo “rimedio” per le persone, grazie alla sua unità ipostatica della natura divina ed umana nella Sua stessa persona. In secondo luogo, la spiritualità Ortodossa è centrata trinitariamente, dal momento che Cristo è unito sempre al Padre e allo Spirito Santo. Tutti i sacramenti sono compiuti nel nome del Dio Triunico. Cristo, essendo la Testa della Chiesa, non può essere pensato come se ne fosse all’esterno. Di conseguenza, la spiritualità ortodossa è anche ecclesiocentrica, dal momento che solo nella Chiesa può avvenire la comunione con Cristo. Infine, come spiegheremo più avanti, la spiritualità ortodossa è mistica e ascetica.
———————
[1] Il nous è l’energia dell’anima. Secondo i Padri, per nous si intende anche l’occhio dell’anima. Il suo naturale luogo è nel cuore; essendo unito all’essenza dell’anima, è in grado di sperimentare un’incessante memoria di Dio. Il suo movimento è contro la sua natura quando è asservito alle creature e alle passioni. La Tradizione ortodossa, a differenza di quella occidentale, fa una distinzione tra il nous e la ragione.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 12 octobre, 2009 |Pas de commentaires »
1...910111213

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01