Archive pour la catégorie 'LETTURE DAL NUOVO TESTAMENTO (non paoline)'

Tertulliano: « Sia santificato il tuo nome »

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/ilpadren.html#

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

Tertulliano, uno dei primi padri della chiesa, ha scritto: « La preghiera insegnataci dal Signore, il ‘Padre nostro’, è la sintesi di tutto il vangelo ». Questa preghiera ci mette nel cuore e sulle labbra gli interessi di Dio e le suppliche dell’uomo peccatore. Essa può essere recitata a una condizione: che colui che la recita osi parlare a Dio come un figlio parla al suo papà. La prima libertà di un figlio di Dio è quella di poter chiamare Dio, Padre.
Molti arrivano a credere che c’è qualcuno sopra di noi. A costoro e a tutti noi annunciamo la verità che spiega l’esistenza dell’universo e dell’uomo: Dio è nostro padre, padre di tutti e noi tutti siamo fratelli.
Questa verità apre orizzonti nuovi e prospettive infinite al singolo e alla grande famiglia umana.
Ma qual è la natura di tale paternità divina?
È proprio il caso di chiedercelo perché anche nella maggioranza delle religioni pagane gli dèi erano designati col nome di padri: ricordiamo soprattutto Zeus « padre degli dèi e degli uomini ».
Anche nell’AT Iahvè è innanzitutto il padre del popolo d’Israele (Es 4,22), che di conseguenza è detto figlio di Dio. L’idea che Dio è anche il padre del singolo israelita si trova già nel libro del Siracide (23,1.4; 51,10). Nel libro della Sapienza solo il giusto ha Dio come padre e perciò è chiamato figlio di Dio (Sap 2,13.18) e dà a Dio il titolo di « Padre » (Sap 14,3).
Dal primo secolo dopo Cristo la designazione di Dio come « Padre del cielo » diventa usuale anche tra i rabbini: con tale espressione non pretendevano spiegare la trascendenza di Dio, ma solo evitare ogni confusione con un padre terreno, umano.
Chiediamoci: è in questo senso che Gesù ci ha comandato di chiamare Dio come Padre nostro? O ci ha insegnato e dato qualcosa di nuovo e di unico rispetto agli dèi dell’Iliade di Omero o rispetto alla paternità riconosciuta a Iahvè nell’AT? Gesù presentandoci Dio come Padre suo e Padre nostro ci rivela una realtà infinitamente superiore a quanto si poteva supporre o conoscere fino ad allora.
Per comprendere meglio leggiamo il vangelo secondo Giovanni: « Il Verbo (il Figlio di Dio) venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati » (Gv 1,11-13). Diventare figli di Dio… Ma non lo eravamo già anche prima? Certamente Dio è padre di tutti perché è il creatore, il principio della vita di tutti. Leggiamo nella prima Lettera ai Corinti: « C’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui » (1Cor 8,6). E nella Lettera agli Efesini sta scritto: « Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4,6).
Che cosa significa dunque: « A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati »?
Certamente qui il vangelo vuole esprimere una realtà nuova rispetto alla paternità universale di Dio in quanto creatore. Qui non si parla di una paternità antecedente ad ogni nostra scelta, come il fatto di essere creati da Dio e generati dal padre e dalla madre: una paternità che non possiamo né accettare né rifiutare perché decidono gli altri per noi. Qui si dice che Dio ha dato all’uomo un potere paradossale: quello di accettare o di rifiutare di essere generato di nuovo da acqua e da Spirito (Gv 3,5) per entrare nel regno di Dio, per vivere la vita nuova, la vita di Dio. Il vangelo secondo Giovanni ci ha insegnato che diventano figli di Dio quelli che accolgono Cristo, credono in lui e rinascono per mezzo del battesimo. San Paolo ci insegna la stessa cosa nella Lettera ai Galati: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Gal 3,26-27). E nella stessa Lettera scrive: « Dio mandò il suo Figlio… perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,5). Siamo conseguenti: prima che Dio mandasse suo Figlio non c’era la possibilità di essere figli di Dio nel senso pieno di cui si parla qui.
Quindi questa nuova nascita avviene per volere di Dio e per libera accettazione da parte nostra. Questa nostra libera adesione si attua attraverso la fede, che è l’accoglienza del Figlio di Dio, e il battesimo.
Quindi l’ingresso, come veri figli, nella famiglia di Dio dipende da questa adesione che si attua per mezzo della fede e del battesimo di acqua per coloro che conoscono Gesù; e per gli altri dalla risposta della loro coscienza illuminata dalla grazia dello Spirito: dal battesimo di desiderio. San Giovanni esclama: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! » (1Gv 3,1).
A rigor di termini, solo i battezzati possono rivolgersi a Dio chiamandolo Padre nel senso pieno del termine, solo coloro che attraverso la nuova nascita dallo Spirito, da semplici figli dell’uomo sono diventati figli di Dio. San Gregorio Nisseno del IV secolo scriveva: « Se tu ti attacchi al denaro, se ti lasci sedurre dal fascino del mondo, se vai dietro ai desideri della carne… immagino che Dio ti risponda in questi termini: ‘La tua vita è sudicia e tu chiami Padre colui che è il Padre incorruttibile e santo?… Io non vedo in te l’immagine della mia natura: tu sei agli antipodi; quale unione può esistere tra la luce e le tenebre, quale parentela tra la vita e la morte?… È pericoloso, prima di aver emendato la propria vita, chiamare Dio: Padre’ ».
Dicendo questo non intendiamo impedire a nessuno di chiamare Dio « Padre » nell’ora della sofferenza, del rimorso o della speranza. È proprio e solo del Padre onnipotente amarci teneramente tutti, qualunque sia l’abisso in cui siamo caduti. È scritto infatti: « Dio nostro Padre ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza » (2Ts 2,16). Ma non dimentichiamo che Cristo ha insegnato il « Padre nostro » a dei discepoli che volevano entrare sinceramente in comunione con il Dio vivente e ai quali aveva proposto di essere perfetti come il Padre che è nei cieli. Abbiamo detto, poco fa, che dipende anche da noi diventare figli di Dio. Ora aggiungiamo che, dopo esserlo diventati, tocca ancora a noi rimanere figli veri e coerenti.
Come? Imitando il Padre con la vita. Nel vangelo Gesù invita a perdonare come perdona il Padre, ad aver misericordia e ad amare i nemici come fa il Padre. Ma per arrivare a questi comportamenti pratici bisogna che viviamo da figli convinti, obbedienti e rispettosi: dobbiamo diventare come bambini, dobbiamo diventare piccoli. Nel vangelo è scritto che il Padre ha rivelato i misteri del regno di Dio ai piccoli (Lc 10,21) e che chi vuole entrare nel regno di Dio deve diventare come un bambino (Lc 18,17).
Ma chi sono coloro che diventano come bambini? Che cosa bisogna fare per diventare piccoli?
Leggiamo il vangelo secondo Matteo: « In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: ‘Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?’. Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli’ » (Mt 18,1-4).
Gesù non canonizza il bambino; non si fa illusione sui suoi difetti. Egli parla di una certa maniera di esistere che ha alla base due atteggiamenti tutt’altro che puerili: la vera umiltà e la semplicità della fede.
Diventare bambini, diventare veramente umili, diventare poveri in spirito (Mt 5,3) significa dipendere totalmente da Dio. L’uomo che vive nell’umiltà e nella verità sa che dipende da Dio in tutto ciò che è e in tutto ciò che fa. L’uomo non sarà mai « vero » fino a quando non si metterà all’ultimo posto, come servo di tutti e padrone di nessuno. Nel vangelo Gesù condanna la nostra presunzione e abbatte senza pietà la nostra falsa grandezza. Leggiamo: « Sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: ‘Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Perché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande’ » (Lc 9,46-48).
Se accettiamo la condizione di figli, di bambini piccoli quali realmente siamo, Dio rivelerà alla nostra umiltà la grandezza del suo amore di Padre.
Diciamo qualcosa anche sulla semplicità della fede. Gesù nel vangelo esalta i piccoli che credono in lui (Mt 18,6). Vi è una qualità della fede che è propria dell’infanzia; quella fede che, pur passando attraverso le vicissitudini della vita, ha saputo mantenere la semplicità originale. La fede va all’essenziale: scopre come prima realtà la paternità di Dio-Amore. Essa ha l’istinto di questa realtà primaria come il bimbo che si abbandona fiducioso sul seno materno, fonte di vita, di protezione sicura e di riposo beatificante. La fede semplice è l’istinto divino di un figlio verso il suo papà, Dio. A noi adulti capita di smarrirci nelle nostre complicazioni e di perdere ogni curiosità nei confronti di Dio, mentre il bambino assedia continuamente il padre di domande e dimostra una grande avidità di conoscere. Quando Dio non suscita in noi interesse alcuno, quando orientiamo stancamente verso di lui la nostra preghiera e la nostra vita, è segno evidente che siamo vecchi. Quando invece abbiamo fame e sete di Dio, interesse vivo e avidità di conoscerlo, allora siamo veramente come i bambini di cui parla Gesù nel vangelo.
Noi uomini dell’era moderna sentiamo maggiormente le esigenze della fraternità umana a tutti i livelli. Ma come facciamo a considerare gli altri come nostri fratelli se prima non crediamo seriamente che abbiamo un padre comune, colui che giustamente invochiamo Padre nostro?
Dopo le parole « Padre nostro » diciamo « che sei nei cieli ». Queste ultime parole sono di un’importanza capitale. Senza di esse è impossibile comprendere in quale maniera e con quale orientamento di pensiero e di azione noi possiamo santificare il nome del nostro Padre, promuovere il suo regno e fare che nel mondo si compia la sua volontà. In un primo momento, questa espressione « che sei nei cieli » può dare un senso di delusione. Sembra che Cristo, dopo aver avvicinato Dio agli uomini, lo allontani di nuovo e immediatamente, e lo collochi fuori dal nostro mondo. Evidentemente dobbiamo comprendere nel modo giusto questa espressione.
La Bibbia usa i termini cielo e cieli in due accezioni diverse. La prima per indicare la realtà fisica del cielo; e insegna che il cielo, come la terra, appartiene a Dio che l’ha creato. Tuttavia, in questa realtà del cielo, la Bibbia riconosce pure un simbolo e da qui ne deriva la seconda accezione. Quello che noi vediamo alzando gli occhi, quello che scopriamo nell’immensità dei cieli creati, può evocare qualcosa dell’insondabile mistero e dell’infinito di un altro cielo: quello che noi chiamiamo dimora di Dio.
Quando noi diciamo « Padre nostro che sei nei cieli » designamo questa dimora. Per raggiungerla, Gesù, quando giunse la sua ora, dovette lasciarci, andandosene realmente (Gv 16,19-20), ma non ad abitare le profondità del nostro cielo fisico, al di là delle nebulose. La sua scomparsa dalla nostra vista significa che egli è passato da questo mondo al Padre (Gv 13,1), vale a dire che ha trasportato la sua umanità nell’amore, nella potenza e nella gloria di Dio; perché quest’altro mondo invisibile è appunto la pienezza di Dio, il possesso pieno e definitivo di Dio.
Se il Padre nostro ci ha fatto realmente suoi figli, noi apparteniamo a lui e al suo mondo fin d’ora, ed è sulla base dei valori di quel mondo che dobbiamo valutare i beni del mondo presente. Questa presenza del cielo di Dio avvolge tutta la nostra terra, la compenetra e la anima con la sua energia spirituale. Noi non la vediamo perché i nostri occhi non hanno ancora l’acutezza necessaria. Ma essa c’è, e alcuni la scoprono e ne restano illuminati. Per capirci potremmo fare un paragone con l’atmosfera che ci avvolge. In tutte le ore del giorno e della notte siamo immersi in un mondo di suoni. Miliardi di persone prima di noi hanno ignorato l’esistenza di queste onde. Cosi, fatte le dovute precisazioni, sono i non credenti nei confronti del mondo della fede. Per usare un altro paragone terra terra: i credenti hanno il transistor della fede sintonizzato sulle onde della trasmittente di Dio; gli altri non ce l’hanno e si meravigliano che i credenti possano captare realtà così misteriose: sono simili ai primitivi quando vengono introdotti nel mondo dell’elettronica o ai ciechi che non possono vedere la luce.
Questo mondo dell’amore e della gloria di Dio esiste; i credenti ne fanno esperienza e, a poco a poco, entrano più profondamente in esso e diventa loro familiare: diventa un valore grande, una realtà che convince, diventa l’unica realtà che conta e dà senso alla vita. Il credente fin d’ora fa una grande scoperta che gli altri faranno forse al termine della loro vita o al momento stesso della morte. E la scoperta è questa: la terra e il cielo nei quali abitiamo, con tutto quanto contengono, non hanno alcun senso e alcun valore se non come preludio al cielo di Dio, al cielo dell’amore e della vita eterna. Le realtà presenti hanno significato vero e definitivo se sono percepite e vissute nella fede, immerse nel mondo di Dio, nella realtà divina del Padre nostro che è nei cieli.
In altre parole dobbiamo vivere fin d’ora come veri figli di Dio e cittadini del cielo. L’apostolo Paolo ci esorta: « Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra » (Col 3,1-2).
Il giusto che vive di fede (Rm 1,17) valuta gli avvenimenti e le cose della vita presente secondo i criteri di Dio espressi nel vangelo di Cristo. I santi, prima di prendere delle decisioni, prima di fare qualcosa si chiedevano: « Quid hoc ad aeternitatem? », « A che cosa serve per l’eternità? Questa cosa serve per l’eternità? ». E, in base alla risposta ponderata della loro coscienza, agivano nell’unico modo intelligente: secondo la fede, secondo le valutazioni di Dio. In parole semplici: i santi facevano solo cose eterne, arricchivano davanti a Dio, come ha insegnato Gesù nel vangelo: « Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore » (Mt 6,19-21).
E per fare questo non occorre sfuggire al proprio stato di vita e alle proprie responsabilità di sposi, di genitori, ai propri impegni terreni, qualunque sia il campo di attività in cui si svolge la nostra vita, perché non si può diventare santi senza compromettersi con gli altri e per gli altri, come ha fatto Cristo e come farebbe Cristo al nostro posto.
Ma è proprio perché vogliamo impegnarci nell’unico modo giusto per il bene di questo mondo che la conversione al Padre che è nei cieli si impone con maggior forza e urgenza. Gesù Cristo non sarà amato, servito e annunciato sulla terra se non quando la terra sarà evangelizzata da veri cristiani, da cristiani che si riconoscono, nel più profondo della coscienza, autentici cittadini del cielo. Nella Lettera agli Ebrei leggiamo che i nostri antenati (Abele, Enoch, Noè, Abramo e Sara) vissero da stranieri e da pellegrini sopra la terra, aspirando ad una patria migliore, alla patria del cielo, alla città che Dio aveva preparato per loro (Eb 11,13-16).
Per essere testimoni credibili del mondo misterioso di Dio, del regno dei cieli, occorre che coloro che ci incontrano e vedono il nostro modo di vivere percepiscano con chiarezza che noi abbiamo trovato il tesoro nascosto e la perla di grande valore (Mt 13,44-46): il mondo dell’amore e della vita di Dio. Bisogna che essi vedano che noi usiamo del mondo presente come se in realtà non ne usassimo (1Cor 7,29-31). Che ci comportiamo da amministratori e non da proprietari dei beni di Dio: da amministratori distaccati da tutti i beni, compresa la vita che Dio ci ha dato, pronti a lasciare tutto e a considerare tutto come perdita e spazzatura a motivo di Cristo. Lo scrive l’apostolo Paolo: « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3,7-8).
Ma come è possibile questo? Come si può vivere da veri figli e da vere figlie di Dio nel mondo d’oggi?
Il vangelo ci risponde: « Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile a Dio » (Mc 10,27). Dobbiamo mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio (Eb 3,14): dobbiamo aver fiducia in Dio. All’origine di ogni amore si trova sempre questa scelta, senza calcoli e senza timore, con cui l’essere che ama si mette nelle mani dell’altro, si consegna all’altro per sempre. In ogni vero amore c’è sempre una grande speranza: quella di vedere realizzarsi, per mezzo di questo amore, le promesse della vita, i desideri e le attese.
Dobbiamo riscoprire, tra le tante, la grande devozione al Padre che è nei cieli: devozione fatta di atteggiamento interiore di fiducia e di speranza, come leggiamo nella prima Lettera di Giovanni: « Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Per questo l’amore ha raggiunto in noi la perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così saremo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore » (1Gv 4,16-18).
A chi mi chiede: « Che cosa hai fatto finora nella vita e che cosa pensi di fare in futuro? » vorrei poter rispondere con tutta sincerità: « Io ho creduto in Dio mio Padre, mi sono fidato completamente di lui e non ho avuto paura di lui; per il futuro desidero che questa fiducia nell’amore che il Padre ha per me diventi sempre più vera e definitiva ».
Prendiamoci la libertà e l’ardimento di chiamare Dio « Padre » ed egli realizzerà in noi questa familiarità con il suo mondo. Il Padre è in me e mi dà il gusto delle cose di Dio e la capacità di credere che io sono amato da lui e che il mio avvenire sarà un’eternità d’amore beato in lui.
Perché questo non resti un bel sogno, ma diventi la realtà più reale, dobbiamo accogliere l’invito di Gesù a ridiventare come bambini nell’umiltà e nella semplicità della fede. Perché solo l’umiltà e la fede semplice ci consentono di chiamare, in tutta verità, Dio « Padre nostro che sei nei cieli ». 

La bellezza secondo le Sacre Scritture (Rinaldo Fabris)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=146
 
La bellezza secondo le Sacre Scritture

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris

Verbania Pallanza, 18 novembre 2000

È un tema inconsueto quello della bellezza nella Bibbia. In passato l’interesse prevalente era per la verità, soprattutto pratica, e pertanto per la morale.
Ogni realtà creata, secondo la bibbia, è ambivalente, ha potenzialità positive e negative. Questo vale per la bellezza, come per la conoscenza, il potere, il possesso dei beni. L’ambivalenza contiene un appello alla responsabilità, alla decisione, alla scelta delle creature umane.
La bellezza nell’ambito biblico è inserita nell’orizzonte della fede in Dio come fonte e modello di ogni splendore e bellezza.
La bellezza viene integrata, redenta, o forse riscattata dalla sua ambivalenza grazie all’impegno etico e alla dimensione spirituale. Lo spazio dato alla bellezza nel Primo Testamento non riguarda tanto le forme pittoriche o architettoniche (ad eccezione del tempio), quanto la creazione, l’essere umano e in particolare alcune figure in cui la bellezza fisica si coniuga con la bellezza morale.

1. la « bellezza » nel Primo Testamento
Data l’estensione dei testi in esame si tratta di operare una lezione dei tratti fondamentali.

a. il lessico della « bellezza » nella bibbia ebraica e greca
Japheh e Tov sono termini ebraici traducibili con splendido, decoroso, ben riuscito, piacevole, in forma. In greco i termini sono kalòs e agathòs: bello e buono, soprattutto nel senso di sano, forte, eccellente, ben composto, adatto. La distinzione tra aspetto etico ed estetico non è così netta.
b. la « bellezza » nella creazione (Gen 1,1-2,4a)
L’ E Dio che vide che era tutto molto buono/bello, con cui si conclude il racconto della creazione indica non tanto la dimensione di ordine e di armonia del creato, quanto la reazione emotiva, estetica, che fa star bene, di sorpresa, di fronte all’opera compiuta. È l’aspetto gratuito della bellezza, che non serve a niente se non alla contemplazione.
Nel bello sono implicite le dimensioni della gratuità e dello stupore.
Il primo ambito in cui confluisce l’esperienza estetica ebraica è la narrazione, la composizione, il testo. La prima pagina della bibbia, che va recitata, contiene il ritornello (sette volte): Che bello! La parola di Dio crea una cosa splendida che desta stupore e ammirazione.
L’ammirazione estetica del mondo creato, uscito bello/splendido dalle mani di Dio è espressa mirabilmente dal salmo 104, che passa in rassegna le opere di Dio che suscitano l’emozione ammirata del « che bello! ».
Sempre a questo proposito abbiamo una riflessione più pacata e interiorizzata nelle riflessioni di Gesù ben Sira’, il Siracide (42,15-43,33). L’ultima parte delle sue lezioni celebra la gloria di Dio nel mondo e nella storia, che ha la sua massima concentrazione nel tempio e nella liturgia.
Nel libro della Sapienza (13,1-9) viene criticato il culto delle divinità astrali, il bisogno di rivestire di sacralità il mondo che suscita ammirazione. La radice profonda dell’idolatria sta nell’ambivalenza del mondo creato che affascina ed attira con il rischio di confonderlo con la potenza numinosa che sta oltre la bellezza visibile.
Pensiamo oggi di essere immuni da questa tendenza idolatrica di rivestire la realtà di caratteri divini. Ma che dire del nostro atteggiamento, spesso di adorazione, di fronte alle realtà tecnologiche?
c. la « bellezza » dell’essere umano creato da Dio (Ez 28,1-15)
Al centro dell’opera creatrice di Dio compare l’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio, riflesso del suo splendore/grandezza tra il mondo dei viventi.
Il salmo 8, nei versetti dal sei al nove, la bellezza e lo splendore di Dio si concentrano e si riflettono sul volto dell’uomo.
Nell’elegia di Tiro, che si trova in Ezechiele, l’essere umano è presentato come un principe che vive in un parco regale, ricco di acque, di piante, di animali e di ogni pietra preziosa. Ma l’iniquità, l’abuso di potere, deturpa la bellezza. L’uomo, riflesso della bellezza di Dio, ha tentato di prenderne il posto. È quanto si dirà più prosaicamente in Genesi 2,8-14. Il massimo di armonia, di pienezza, di ricchezza, di preziosità, può diventare una sfida per l’uomo che non sa più riconoscere la dimensione di dono della realtà, la sua gratuità. Se l’etica non è l’abuso, ma vivere il dono e la gratuità, allora c’è molta affinità con l’estetica.
d. i campioni della « bellezza »
Le mogli dei patriarchi sono presentate come donne di grande fascino, di bell’aspetto, che fanno innamorare i loro futuri mariti al primo sguardo. Lo stesso vale per le donne di re David.
David è presentato come bello, capace di suonare, e di strappare il capretto dalle fauci del leone. Il figlio Assalonne è presentato come molto bello, e la sua bellezza diventerà anche la sua trappola. La bellezza ha risvolti ambivalenti.
Come sostiene il libro dei Proverbi nel descrivere la donna saggia che sa bene amministrare la propria casa, afferma che oltre la bellezza quel che conta è il timore di Dio.
e. le realtà che riflettono la bellezza di Dio.
Nei salmi 19 e 119 si celebrano le bellezze e il fascino della parola di Dio, della legge.
La città di Gerusalemme è presentata come immagine della città ideale, accogliente e sicura (salmo 48 e 122; Isaia 60 e 62).
Il tempio, costruito da Salomone, è oggetto di grande stupore e meraviglia, ed è l’ambito in cui il popolo si ritrova per celebrare le grandi opere di Dio. Gesù ben Sira’ tesserà un elogio ammirato della liturgia del tempio (Sir 50,1-21).
Il piccolo popolo di Israele ha rinunciato a fare immagini per poter avere l’unica immagine del Dio invisibile, riflessa nell’immagine dell’uomo, attraverso la valorizzazione della parola come massima concentrazione della bellezza.

2. la « bellezza » nel Nuovo Testamento
Qui la dimensione estetica ha una dimensione più sobria rispetto al panorama offerto dal Primo Testamento e più centrata sulla spiritualità e sull’etica. Non ci sono né edifici, né santuari, né liturgie. L’aspetto visivo è molto contenuto, nei piccoli libretti scritti in greco per un pubblico popolare.

a. « Evangelo »
La proclamazione della fede in Cristo Gesù viene chiamata « euaggèlion », cioè bella, buona e gioiosa notizia. Quindi una notizia anche affascinante.
Nel prologo del quarto vangelo si ha la dimensione irradiante del buon annuncio. La parola che era con Dio, che è stata all’origine di tutto, che dà coesione al tutto, è vita che diventa luce che illumina gli uomini.
Questa parola non è qualcosa di teorico, ma è la persona concreta di Gesù Cristo, per mezzo del quale viene a noi la pienezza del dono. È luce e gloria che noi « contemplammo ». Lo splendore di Dio ha il volto concreto del figlio. (Gv 1,1-5.14)
Ma come si fa a dire bella, gioiosa la notizia del Cristo condannato alla morte oscena della croce?
b. evangelo come « bell’annuncio »
Il regno di Dio viene annunciato come reintegrazione dell’armonia e come splendore della creazione. Gesù dai racconti evangelici viene presentato nella sua azione di reintegrazione di una umanità disgregata, di persone divise, di persone allontanate dalla convivenza perché ritenute pericolose (guarigioni, liberazioni da potenze negative come nel caso dell’indemoniato di Gerasa…). L’azione bella, estetizzante di Gesù appare nel restituire all’essere umano la sua libertà e integrità.
Anche i gesti di accoglienza e di perdono si collocano su questa linea, come restituzione della persona alla sua libertà e integrità (« ti sono perdonati i tuoi peccati »).
Le « belle parole » di Gesù, le parabole non sono racconti tesi a insegnare una morale, ma offrono scorci di altri orizzonti, di altre armonie, attraverso il piacere del racconto. Gesù non fa prediche, ma ha il gusto del racconto gratuito che prende lo spunto dal gesto del contadino, dal sale, dal lievito… È un amante del raccontare bello, che traspone nella narrazione la bellezza dell’agire di Dio, che reintegra l’essere umano diviso e disperso.
Del volto di Gesù e del suo splendore si parla solo in occasione della trasfigurazione, della preghiera sul monte, prima dell’epilogo cruento della sua vita.
Gesù riflette l’aspetto luminoso, bello, affascinante di Dio (« il suo volto divenne luminoso »). Questo bello però non è da catturare, da possedere, da controllare, come vorrebbe fare Pietro. L’invito è all’ascolto (« questi è il mio figlio. Ascoltatelo! »), e l’ascolto suppone abbandono e fiducia.
c. la bellezza che salva il mondo (2Tm 1,9-10).
È la bellezza paradossale, la bellezza della morte oscena.
La morte oscena di Gesù viene presentata come rivelazione della bellezza di Dio, nel contesto dell’amore portato sino all’estremo. Il crocifisso diventa fonte di vita nel momento del massimo degrado e deturpazione dell’essere umano.
Paolo parla dell’annuncio di un messia crocifisso come sapienza e potenza di Dio, mentre i giudei cercano i miracoli, il Dio forte e i greci la sapienza, l’armonia che dà ordine. (1Cor 1,17-25).
È la bellezza rovesciata: la sapienza è nella stoltezza e la potenza nella debolezza della croce, la bellezza nella bruttezza. È quanto ha intuito anche Dostojevskij: l’amore può trasformare l’insipienza e l’impotenza di un crocifisso nella bellezza. È la bellezza che salva il mondo.
Il superamento del negativo attraverso l’obbedienza, come amore fedele a tutti, è indicato nel famoso brano della lettera ai Filippesi (2,6-11). La manifestazione della bellezza intrinseca del mondo e della storia avviene grazie all’immersione di Gesù nel mondo e nella storia per dare un senso al negativo.
Sempre in questa lettera Paolo invita i cristiani di Filippi a scegliere quei valori che sono belli e coi quali si concretizza la rivelazione dell’amore di Dio (Fil 4,8-9).
Nell’elogio dell’amore (1Cor 13,1-13) la bellezza etica, che è l’amore portato alla massima intensità, coincide con la realtà stessa di Dio. Nella descrizione delle quindici qualità dell’amore c’è il ritratto di Gesù Crocifisso. Dio che non ha nome e immagine ha i tratti visibili di Gesù, del Gesù che si è appassionato dei poveri e dei malati e che alla fine, per restare fedele agli amici e a Dio come figlio, affronta la morte di croce.
Il progetto del mondo bello creato da Dio, con il giardino dove ci sono le piante della vita, della piena comunione, lo ritroviamo alla fine, nell’ultimo libro, nel sogno realizzato di una città bella, in cieli e terra nuova. In mezzo c’è il crocifisso, cioè il male riscattato, il negativo trasformato non grazie a gesti miracolistici, ma attraverso la fedeltà dell’amore. 

SABATO 27 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

SABATO 27 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera di san Giuda, apostolo 1-8.12-13.17-25

Denuncia degli empi. Esortazione ai fedeli
Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo, agli eletti che vivono nell’amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo: misericordia a voi e pace e carità in abbondanza.
Carissimi, avevo un gran desiderio di scrivervi riguardo alla nostra salvezza, ma sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte. Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui – i quali sono già stati segnati da tempo per questa condanna – empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio, rinnegando il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo.
Ora io voglio ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che il Signore dopo aver salvato il popolo dalla terra d’Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere, e che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno. Così Sòdoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate all’impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno.
Ugualmente, anche costoro, come sotto la spinta dei loro sogni, contaminano il proprio corpo, disprezzano il Signore e insultano gli esseri gloriosi. Sono la sozzura dei vostri banchetti sedendo insieme a mensa senza ritegno, pascendo se stessi; come nuvole senza pioggia portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno.
Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. Essi vi dicevano: «Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni «Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito.
Ma voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna. Convincete quelli che sono vacillanti, altri salvateli strappandoli dal fuoco, di altri infine abbiate compassione con timore, guardandovi perfino dalla veste contaminata dalla loro carne.
 A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia, all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!

Responsorio   Cfr. Tt 2,12-13; Eb 10,24
R. Viviamo con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, * nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
V. Cerchiamo di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone,
R. nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 256,1.2.3; PL 38,1191-1193)

Cantiamo l’alleluia a Dio che è buono, che ci libera da ogni male
Cantiamo qui l’alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. Perché qui siamo nell’ansia e nell’incertezza. E non vorresti che io sia nell’ansia, quando leggo: Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra? (cfr. Gb 7,1). Pretendi che io non stia in ansia, quando mi viene detto ancora: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione»? (Mt 26,41). Non vuoi che io mi senta malsicuro, quando la tentazione è così frequente, che la stessa preghiera ci fa ripetere: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»? (Mt 6,12).
 Tutti i giorni la stessa preghiera e tutti i giorni siamo debitori! Vuoi che io resti tranquillo quando tutti i giorni devo domandare perdono dei peccati e aiuto nei pericoli? Infatti, dopo aver detto per i peccati passati: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», subito, per i pericoli futuri, devo aggiungere: «E non ci indurre in tentazione» (Mt 6,13).
E anche il popolo, come può sentirsi sicuro, quando grida con me: «Liberaci dal male»? (Mt 6,13).
E tuttavia, o fratelli, pur trovandoci ancora in questa penosa situazione, cantiamo l’alleluia a Dio che è buono, che ci libera da ogni male.
Anche quaggiù tra i pericoli e le tentazioni, si canti dagli altri e da noi l’alleluia. «Dio infatti è fedele; e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze» (1Cor 10,13). Perciò anche quaggiù cantiamo l’alleluia. L’uomo è ancora colpevole, ma Dio è fedele. Non dice: «Non permetterà che siate tentati», bensì: «Non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13). Sei entrato nella tentazione, ma Dio ti darà anche il modo di uscirne, perché tu non abbia a soccombere alla tentazione stessa: perché, come il vaso del vasaio, tu venga modellato con la predicazione e consolidato con il fuoco della tribolazione : Ma quando vi entri, pensa che ne uscirai, «perché Dio è fedele». «Il Signore proteggerà la tua entrata e la tua uscita» (Sal 120,8).
Ma quando questo corpo sarà diventato immortale e incorruttibile, allora cesserà anche ogni tentazione, perché «il corpo è morto». Perché è morto? «A causa del peccato». Ma «lo Spirito è vita». Perché? «A causa della giustificazione» (Rm 8,10). Abbandoneremo dunque come morto il corpo? No, anzi ascolta: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali» (Rm 8,10-11). Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina.

VENERDÌ 26 NOVEMBRE 2010 – XXXXIV SETTIMANA DEL T.O.

VENERDÌ 26 NOVEMBRE 2010 – XXXXIV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera di san Pietro, apostolo 3,1-18

Il Signore è fedele, attendiamo la sua venuta
Questa, o carissimi, è già la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza, perché teniate a mente le parole già dette dai santi profeti, e il precetto del Signore e salvatore, trasmessovi dagli apostoli. Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: «Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione». Ma costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano già da lungo tempo e che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e che per queste stesse cause il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì. Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi.
Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo (cfr. Sal 89,4). Il Signore non ritarda nell’adempire la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta.
Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova (cfr. Is 65,17; 66,22; Ap 21,1), nei quali avrà stabile dimora la giustizia.
Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.
Voi dunque, carissimi, essendo stati preavvisati, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore degli empi; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. A lui la gloria, ora e nel giorno dell’eternità. Amen!

Responsorio   Cfr. Is 65,17.18; Ap 21,5
R. Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare. * Ecco, io faccio nuove tutte le cose.
V. E farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo una festa.
R. Ecco, io faccio nuove tutte le cose.

Seconda Lettura
Dal trattato «Sulla morte» di san Cipriano, vescovo e martire
(Cap. 18.24.26; CSEL 3,308.312-314)

Cacciata la paura della morte, pensiamo all’immortalità
Non dobbiamo fare la nostra volontà, ma quella di Dio. È una grazia che il Signore ci ha insegnato a chiedere ogni giorno nella preghiera. Ma è una contraddizione pregare che si faccia la volontà di Dio, e poi, quando Egli ci chiama e ci invita ad uscire da questo mondo, mostrarsi riluttanti ad obbedire al comando della sua volontà! Ci impuntiamo e ci tiriamo indietro come servitori caparbi. Siamo presi da paura e dolore al pensiero di dover comparire davanti al volto di Dio. E alla fine usciamo da questa vita non di buon grado, ma perché costretti e per forza. Pretendiamo poi onori e premi da Dio dopo che lo incontriamo tanto di malavoglia!
Ma allora, domando io, perché preghiamo e chiediamo che venga il regno dei cieli, se continua a piacerci la prigionia della terra? Perché con frequenti suppliche domandiamo ed imploriamo insistentemente che si affretti a venire il tempo del regno, se poi coviamo nell’animo maggiori desideri e brame di servire quaggiù il diavolo anziché di regnare con Cristo?
Dal momento che il mondo odia il cristiano, perché ami chi ti odia e non segui piuttosto Cristo, che ti ha redento e ti ama? Giovanni in una sua lettera grida per esortarci a non amare il mondo, andando dietro ai desideri della carne. «Non amate né il mondo, ci dice, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita.
E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (1Gv 2,15-16). Piuttosto, fratelli carissimi, con mente serena, fede incrollabile e animo grande, siamo pronti a fare la volontà di Dio. Cacciamo la paura della morte, pensiamo all’immortalità che essa inaugura. Mostriamo con i fatti ciò che crediamo di essere.
Dobbiamo considerare e pensare spesso che noi abbiamo rinunziato al mondo e nel frattempo dimoriamo quaggiù solo come ospiti e pellegrini. Accettiamo con gioia il giorno che assegna ciascuno di noi alla nostra vera dimora, il giorno che, dopo averci liberati da questi lacci del secolo, ci restituisce liberi al paradiso e al regno eterno. Chi, trovandosi lontano dalla patria, non si affretterebbe a ritornarvi? La nostra patria non è che il paradiso. Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza. Vederli, abbracciarli tutti: che gioia comune per loro e per noi! Che delizia in quel regno celeste non temere mai più la morte; e che felicità vivere in eterno!
Ivi è il glorioso coro degli apostoli, la schiera esultante dei profeti; ivi l’esercito innumerevole dei martiri, coronati di gloria per avere vinto nelle lotte e resistito nei tormenti; le vergini trionfanti, che vinsero la concupiscenza della carne e del corpo con la virtù della continenza; ivi sono ricompensati i misericordiosi, che esercitarono la beneficenza, nutrendo e aiutando in varie maniere i poveri, e così osservarono i precetti del Signore e, con le ricchezze terrene, si procurarono i tesori celesti. Affrettiamoci con tutto l’entusiasmo a raggiungere la compagnia di questi beati. Dio veda questo nostro pensiero; questo proposito della nostra mente, della nostra fede, lo scorga Cristo, il quale assegnerà, nel suo amore, premi maggiori a coloro che avranno avuto di lui un desiderio più ardente.

Responsorio   Cfr. Fil 3,20.21; Col 3,4
R. La nostra patria è nei cieli; di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo. * Egli trasformerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso.
V. Quando si manifesterà Cristo, nostra vita, allora anche noi saremo manifestati con lui nella gloria.

GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera di san Pietro, apostolo 2,9-22

Denuncia dei peccati
Carissimi, il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio, soprattutto coloro che nelle loro impure passioni vanno dietro alla carne e disprezzano il Signore.
Temerari, arroganti, non temono d’insultare gli esseri gloriosi decaduti, mentre gli angeli, a loro superiori per forza e potenza, non portano contro di essi alcun giudizio offensivo davanti al Signore. Ma costoro, come animali irragionevoli nati per natura a essere presi e distrutti, mentre bestemmiano quel che ignorano, saranno distrutti nella loro corruzione, subendo il castigo come salario dell’iniquità. Essi stimano felicità il piacere d’un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi; han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizione! Abbandonata la retta via, si sono smarriti seguendo la via di Balaam di Bosor che amò un salario di iniquità, ma fu ripreso per la sua malvagità: un muto giumento, parlando con voce umana, impedì la demenza del profeta. Costoro sono come fonti senz’acqua e come nuvole sospinte dal vento: a loro è riserbata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto.
Se infatti dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio:
Il cane è tornato al suo vomito (Pro 26,11)
e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago.

Responsorio    Cfr. Fil 4,8-9, 1 Cor 16,13
R. Tutto quello che è vero, nobile, giusto, tutto questo praticate:* e il Dio della pace sarà con voi!
V. Vigilate, state saldi, uomini, siate forti:
R. e il Dio della pace sarà con voi!

Seconda Lettura
Dalle «Omelie sul vangelo di Matteo» di san Giovanni Crisostomo, vescovo   (Om. 33,1.2; PG 57,389-390)

Se saremo agnelli vinceremo, se lupi saremo vinti
Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore. Egli non pasce lupi, ma agnelli. Per questo se ne andrà e ti lascerà solo, perché gli impedisci di manifestare la sua potenza.
È come se Cristo avesse detto: Non turbatevi per il fatto che, mandandovi tra i lupi, io vi ordino di essere come agnelli e colombe. Avrei potuto dirvi il contrario e risparmiarvi ogni sofferenza, impedirvi di essere esposti come agnelli ai lupi e rendervi più forti dei leoni. Ma è necessario che avvenga così, poiché questo vi rende più gloriosi e manifesta la mia potenza. La stessa cosa diceva a Paolo: «Ti basta la mia grazia, perché la mia potenza si manifesti pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Sono io dunque che vi ho voluto così miti.
Per questo quando dice: «Vi mando come agnelli» (Lc 10,3), vuol far capire che non devono abbattersi, perché sa bene che con la loro mansuetudine saranno invincibili per tutti.
E volendo poi che i suoi discepoli agiscano spontaneamente, per non sembrare che tutto derivi dalla grazia e non credere di esser premiati senza alcun motivo, aggiunge: «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt 10,16). Ma cosa può fare la nostra prudenza, ci potrebbero obiettare, in mezzo a tanti pericoli? Come potremo essere prudenti, quando siamo sbattuti da tante tempeste? Cosa potrà fare un agnello con la prudenza quando viene circondato da lupi feroci? Per quanto grande sia la semplicità di una colomba, a che le gioverà quando sarà aggredita dagli avvoltoi? Certo, a quegli animali non serve, ma a voi gioverà moltissimo.
E vediamo che genere di prudenza richieda: quella «del serpente». Come il serpente abbandona tutto, anche il corpo, e non si oppone pur di risparmiare il capo, così anche tu, pur di salvare la fede, abbandona tutto, i beni, il corpo e la stessa vita.
La fede è come il capo e la radice. Conservando questa, anche se perderai tutto, riconquisterai ogni cosa con maggiore abbondanza. Ecco perché non ordina di essere solamente semplici o solamente prudenti, ma unisce queste due qualità, in modo che diventino virtù. Esige la prudenza del serpente, perché tu non riceva delle ferite mortali, e la semplicità della colomba, perché non ti vendichi di chi ti ingiuria e non allontani con la vendetta coloro che ti tendono insidie. A nulla giova la prudenza senza la semplicità.
Nessuno pensi che questi comandamenti non si possano praticare. Cristo conosce meglio di ogni altro la natura delle cose. Sa bene che la violenza non si arrende alla violenza, ma alla mansuetudine.

MERCOLEDÌ 24 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

MERCOLEDÌ 24 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

SANTI ANDREA DUNG-LAC e C. (m)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera di san Pietro, apostolo 2, 1-9

I falsi dottori
Carissimi, ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di impropèri. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina è in agguato.
Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio; non risparmiò il mondo antico, ma tuttavia con altri sette salvò Noè, banditore di giustizia, mentre faceva piombare il diluvio su un mondo di empi; condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, ponendo un esempio a quanti sarebbero vissuti empiamente. Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie. Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio.

Responsorio   Cfr. Mt 7, 15; 24, 11. 24
R. Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, * ma dentro sono lupi rapaci.
V. Sorgeranno molti falsi profeti, e faranno grandi portenti e miracoli e inganneranno molti;
R. ma dentro sono lupi rapaci.
 
Seconda Lettura
Dall’epistolario di san Paolo Le-Bao-Tinh agli alunni del Seminario di Ke-Vinh nel 1843.  (Launay A.: Le clergé tonkinois et ses prêtres martyrs, MEP, Paris 1925, pp. 80-83).
 
La partecipazione dei martiri alla vittoria del Cristo capo
Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore, innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (Sal 135,3).
Questo carcere è davvero un’immagine dell’inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza.
Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia.
In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me. Egli, nostro maestro, sostiene tutto il peso della croce, caricando su di me la minima e ultima parte: egli stesso combattente, non solo spettatore della mia lotta; vincitore e perfezionatore di ogni battaglia. Sul suo capo è posta la splendida corona di vittoria, a cui partecipano anche le membra.
Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr. Sal 79,2) e i Serafini?
Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov’è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell’ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore.
Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza si è manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti; e i tuoi nemici non possono alzare orgogliosamente la testa, se io dovessi vacillare lungo il cammino.
Fratelli carissimi, nell’udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. L’anima mia magnifichi il Signore e il mio spirito esulti nel mio Dio, perché ha guardato l’umiltà del suo servo e d’ora in poi le generazioni future mi chiameranno beato (cfr. Lc 1,46-48): eterna è la sua misericordia.
Lodate il Signore, popoli tutti; voi tutte, nazioni, dategli gloria (Sal 116,1), poiché Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti; ciò che è spregevole, per confondere i potenti (cfr. 1Cor 1,27). Con la mia lingua e il mio intelletto ha confuso i filosofi, discepoli dei saggi di questo mondo: eterna è la sua misericordia.
Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta getto l’àncora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore.
E voi, fratelli carissimi, correte in modo da raggiungere la corona (cfr. 1Cor 9,24); indossate la corazza della fede (cfr. 1Ts 5,8); brandite le armi del Cristo, a destra e a sinistra (cfr. 2Cor 6,79), come insegna san Paolo, mio patrono. È bene per voi entrare nella vita zoppicanti o con un occhio solo (cfr. Mt 18,8-9), piuttosto che essere gettati fuori con tutte le membra.
Venite in mio soccorso con le vostre preghiere, perché possa combattere secondo la legge, anzi sostenere sino alla fine la buona battaglia, per concludere felicemente la mia corsa (cfr. 2 Tm 4,7).
Se non ci vedremo più nella vita presente, questa sarà la nostra felicità nel mondo futuro: staremo davanti al trono dell’Agnello immacolato e canteremo unanimi le sue lodi esultando in eterno nella gioia della vittoria. Amen.

Responsorio    Cfr. Eb 12,1-3
R Affrontiamo con perseveranza la corsa che ci sta davanti, * tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede.
V Pensate a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo,
R tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede
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MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 – XXXIV SETTIMANA DEL T.O.

UFFICO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera di san Pietro, apostolo1,5-7.12-21

La testimonianza degli apostoli e dei profeti
Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. Penso di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e stiate saldi nella verità che possedete. Io credo giusto, finché sono in questa tenda del corpo, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose.
Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori. Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio.

Responsorio   Cfr. Gv 1,14; 2Pt 1,16.18
R. Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; * abbiamo veduto la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre.
V. Siamo stati testimoni oculari della sua grandezza, mentre eravamo con lui, sul santo monte;
R. abbiamo veduto la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre.

Seconda Lettura
Dai «Trattati su Giovanni» di sant’ Agostino, vescovo
(Tratt. 35,8-9; CCL 36,321-323)

Verrai alla sorgente, vedrai la stessa luce
A paragone degli infedeli, noi cristiani siamo ormai luce. Perciò dice l’Apostolo: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore; comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5,8). E altrove disse: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno» (Rm 13, 12-13).
Ma poiché, in confronto di quella luce alla quale stiamo per giungere, anche il giorno in cui ci troviamo è quasi notte, ascoltiamo l’apostolo Pietro. Egli ci dice che a Cristo Signore dalla divina maestà fu rivolta questa parola: «Tu sei il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce, prosegue, noi l’abbiamo udita scendere dal cielo, mentre eravamo con lui sul santo monte» (2 Pt 1, 17-18). Noi però non c’eravamo sul monte e non abbiamo udito questa voce scendere dal cielo e perciò lo stesso Pietro soggiunge: Noi abbiamo una conferma migliore nella parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino non si levi nei vostri cuori (cfr. 2 Pt 1,19).
Quando dunque verrà nostro Signore Gesù Cristo e, come dice l’apostolo Paolo, «metterà in luce i segreti delle tenebre, e manifesterà le intenzioni dei cuori: allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Cor  4,5).
Allora, essendo un tal giorno così luminoso, non saranno più necessarie le lucerne. Non ci verrà più letto il profeta, non si aprirà più il libro dell’Apostolo; non andremo più a cercare la testimonianza di Giovanni, non avremo più bisogno del vangelo stesso. Saranno perciò eliminate tutte le Scritture, che nella notte di questo secolo venivano accese per noi come lucerne, perché non restassimo nelle tenebre.
Eliminate tutte queste cose, giacché non avremo più bisogno della loro luce, e venuti meno anche gli stessi uomini di Dio, che ne furono i ministri, perché anch’essi vedranno con noi quella luce di verità in tutta la sua chiarezza, messi da parte insomma tutti questi mezzi sussidiari, che cosa vedremo? Di che cosa si pascerà la nostra mente? Di che cosa si delizierà la nostra vista? Da dove verrà quella gioia, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo? (cfr. 1Cor 2,9). Che cosa vedremo?
Vi scongiuro, amate con me, correte con me saldi nella fede: aneliamo alla patria del cielo, sospiriamo alla patria di lassù; consideriamoci quali semplici pellegrini quaggiù. Che vedremo allora? Ce lo dica ora il vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Verrai alla sorgente, da cui ti sono giunte poche stille di rugiada. Vedrai palesemente quella luce, di cui solo un raggio, per vie indirette e oblique, ha raggiunto il tuo cuore, ancora avvolto dalle tenebre e che ha ancora bisogno di purificazione. Allora potrai vederla quella luce e sostenerne il fulgore.
«Carissimi, dice lo stesso san Giovanni, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).
Mi accorgo che i vostri affetti si levano con me verso l’alto; ma «un corpo corruttibile appesantisce l’anima e questa abitazione terrena grava la mente dai molti pensieri» (Sap 9,15). Ecco che io sto per deporre questo libro e voi per tornarvene ciascuno a casa sua. Ci siamo trovati assai bene sotto questa luce comune, ne abbiamo davvero gioito, ne abbiamo davvero esultato: ma, mentre ci separiamo gli uni dagli altri, badiamo bene a non allontanarci da lui.

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