Archive pour la catégorie 'LETTURE DAL NUOVO TESTAMENTO (non paoline)'

PRIMA LETTERA DI PIETRO – COMMENTO BIBLICO

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PRIMA LETTERA DI PIETRO

La conoscenza della sofferenze affrontate da Cristo per compiere l’opera di salvezza per l’umanità e, soprattutto, la conoscenza del suo trionfo sulla morte dovevano costituire un forte motivo di incoraggiamento per i cristiani del primo secolo, nel loro tormentato pellegrinaggio terreno, quotidianamente esposto a persecuzione e prove. Ma incoraggiano anche noi, “pellegrini” del ventunesimo secolo. 

Introduzione
Il nostro brano (1P 3:18-22) si apre con una frase incredibilmente ricca di significato. Partendo dal fatto che molti dei suoi lettori erano chiamati a soffrire per il nome di Cristo, l’apostolo li incoraggia con l’esempio della sofferenza del loro Signore. Ma, nel parlarne, riassume, in termini indimenticabili, sia il motivo della morte di Cristo sia ciò che essa ha prodotto. Ecco la frase:
“Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio” (v. 18a).
Il brano si chiude con un riferimento all’ascensione di Cristo e alla sua posizione attuale:
“Gesù Cristo… asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti”.
Fra queste due dichiarazioni Pietro mette in relazione con la risurrezione trionfale di Cristo le seguenti cose: gli angeli che si ribellarono al tempo di Noè, il diluvio e il battesimo (vv. 18b-21). Per la sua brevità questo brano risulta di difficile interpretazione. Allo stesso tempo il fatto che l’apostolo considera il diluvio una pietra miliare nell’amministrazione divina della storia (si veda 2P 3:5-6; cfr. 2:4-5), aiuta a comprendere la sua scelta di servirsi di alcuni fatti inerenti a quest’evento come analogici dell’esperienza dei suoi lettori.

Il valore della sofferenza di Cristo (v. 18a)
Nel secondo discorso di Pietro riportato nel libro degli Atti, Pietro parla di Gesù come il Messia Servo venuto per soffrire (At 3:18, 26; cfr. 4:27). Nel nostro brano egli spiega il perché di tale sofferenza, ponendo l’enfasi innanzitutto sulla sua unicità:
“Cristo una volta…”.
Ne seguono delle parole che ne descrivono lo scopo: “per i peccati ha sofferto”.
 Il valore unico e permanente della sua sofferenza trovò eco in un evento concomitante con la sua morte sulla croce.
Ecco come l’apostolo Matteo lo descrive:
“Ed ecco, la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo…” (Mt 27:51).
Quest’evento indicò in modo figurativo l’obiettivo che era stato raggiunto con la morte di Cristo. Per usare una frase di Paolo, il Messia Servo “ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” (Cl 2:14).
A rendere necessario il sacrificio unico di Cristo erano sia la giustizia di Dio sia il suo amore che l’ha indotto a provvedere a soddisfare la propria giustizia per mezzo dell’incarnazione del Figlio che si è sostituto all’umanità peccatrice, “lui giusto per gli ingiusti”, come aveva predetto il profeta Isaia (53:11).
Alla luce del valore unico, sufficiente e permanente del sacrificio del Figlio di Dio incarnato, ogni pretesa di offrire a Dio ulteriori sacrifici per espiare i peccati evidenzia una mancanza di comprensione del valore di questo suo sacrificio. Dal momento che Cristo è morto al nostro posto, noi non dobbiamo più morire per i nostri peccati!
L’unica cosa che dobbiamo fare, per “fare le opere di Dio” (Gv 6:28-29), è di credere in Gesù, che ha compiuto l’opera che il Padre gli aveva affidato (Gv 17:4).
La frase termina con le parole: “…per condurci a Dio”, facendo comprendere che il sacrificio di Cristo rende Dio propizio nei nostri confronti. Quando noi ci presentiamo al Padre nel nome di Cristo, Dio Padre ci riceve come persone ubbidienti in quanto rivestiti della giustizia di colui che ha ubbidito al Padre per conto nostro (Ro 5:19). In altre parole, la morte di Cristo ha effettuato la riconciliazione fra Dio tre volte santo e l’uomo peccatore.
Chi si affida al Salvatore non è più distante da Dio e non ha bisogno di altri mediatori umani per avvicinarsi a Dio quando prega o adora il Dio vivente e vero.

Il trionfo di Cristo (vv. 18b, 22)
Sempre come esempio del valore che la sofferenza ingiusta possa rappresentare nella vita dei pellegrini cristiani, Pietro descrive l’esito della sofferenza di Cristo. Ecco le sue parole:
“Messo a morte nella carne ma vivificato nello spirito… essendo passato attraverso il cielo, Egli è alla destra di Dio, essendogli sottoposti angeli, principati e potenze” (vv. 18b, 22).
Come, nella sua morte Gesù ha trionfato sul peccato che aveva separato l’umanità da Dio, così nella sua risurrezione ha trionfato sulla morte stessa per poi ascendere in cielo e prendere il posto che gli spetta alla destra del Padre da dove regna supremo sopra ogni altra autorità. Ricordarsene può essere di grande incoraggiamento per i cristiani pellegrini che affrontano vari tipi di persecuzione e ingiustizia, in quanto partecipano nel trionfo di Cristo, loro sostituto.
Prima di considerare il resto del brano è importante notare il parallelismo e il contrasto fra “carne” e “spirito” nella seconda parte del v. 18. Gesù fu “messo a morte quanto alla carne” e fu “vivificato quanto allo spirito”, quale premessa della sua posizione attuale di supremazia nell’universo (si veda anche Mt 28:18). Il soggetto indicato dal verbo “vivificare” (zoopoietheis) non può essere altro che la sua risurrezione, in quanto il verbo presuppone che ciò che viene vivificato sia passato per lo stato di morte. In altre parole non può riferirsi all’esistenza spirituale di Gesù durante il periodo che va dalla sua morte alla sua risurrezione.
Come previsto per il corpo di risurrezione di “quelli che sono di Cristo” (1Co 15:22-23, 42-46), il verbo zoopoieo è usato da Pietro per descrivere la risurrezione in un nuovo tipo di corpo, compatibile con la sfera “spirituale” (gr. en pneumati), esattamente come il corpo di “carne” aveva reso il Figlio di Dio partecipe della vita sulla terra, per poter morire come nostro sostituto.

La proclamazione trionfale di Cristo (vv. 19-20)
La parte centrale di questo brano inizia con la locuzione “in esso” (gr. en ho). Tale pronome relativo corrisponde, quanto a numero e genere, alle parole “in spirito” (gr. en pneumati, v. 18b), quindi fa riferimento allo stato di risurrezione di Cristo.
Prendendo sul serio questo dettaglio grammaticale, il ventaglio di possibili interpretazioni di questi versetti si riduce notevolmente. Infatti gli interpreti che, basandosi sull’uso del pronome relativo altrove nella lettera (si veda 1:6; 2:12; 3.16; 4:4) attribuiscono a questa locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, trascurano il fatto che qui, a differenza degli altri casi citati, esiste una precisa corrispondenza grammaticale.
In pratica l’interpretazione che attribuisce alla locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, si ispira più al testo del Credo Apostolico, nella versione del 390 d. C., secondo cui Gesù “fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risorse dai morti…”, che non al testo della 1Pietro.
Questa serie di eventi fa comprendere che Gesù avrebbe fatto il suo annuncio agli “spiriti trattenuti in carcere” dopo la sua morte e prima della sua risurrezione e, per farlo, avrebbe dovuto visitare l’inferno. Ma il testo di un Credo dovrebbe basarsi sul testo biblico e non vice versa. L’idea che Cristo sia sceso nell’inferno dopo la sua morte è una deduzione da brani quali Romani 10:7, Efesini 4:8-9 e dal riferimento a “morti” in 1Pietro 4:6, però nessuno di questi brani richiede una simile interpretazione. D’altra parte la dichiarazione di Gesù al ladrone sulla croce: “oggi sarai con me in paradiso” (Lu 23:43) nonché le sue parole: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio” (Lu 23:46), sembrano escludere tale ipotesi.
Secondo Grudem i versetti 19-20 insegnerebbero che Cristo aveva predicato agli spiriti ora tenuti in carcere tramite Noè mentre questi costruiva l’arca. Anche quest’interpretazione ignora sostanzialmente la corrispondenza grammaticale fra il pronome relativo “in esso” (v. 19) e l’ultima frase del v. 18, secondo cui a predicare fosse il Cristo risorto.
Inoltre, quest’interpretazione presuppone che gli “spiriti” a cui si fa riferimento nel v. 19 siano quelli degli uomini che erano ribelli al tempo di Noè. Ma in questo caso sarebbe stato più naturale scrivere “gli spiriti trattenuti in carcere di coloro che una volta furono ribelli” e non già “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli”. Prese alla lettera le parole di Pietro sembrano indicare esseri spirituali.
Secondo una terza interpretazione, “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli” nel periodo in cui Noè stava preparando l’arca, sono da identificare con degli angeli ribelli che tentarono di far scomparire la discendenza che faceva capo a Set, che temeva Dio (Ge 4:26). Avrebbero corrotto queste persone o simulandosi esseri umani e avendo rapporti sessuali con i discendenti di Set, per compromettere spiritualmente la loro prole, oppure inducendo le persone che discendevano da Set e che temevano Dio a sposare i discendenti profani di Caino (cfr. Ge 6:1-3; 2 P 2:4-5).
Pietro stesso conferma che angeli ribelli furono coinvolti nel peccato che provocò il giudizio del diluvio (2P 2:4-5). Se, come credo, questa è l’interpretazione giusta, le parole “in esso andò anche a predicare” si riferirebbero a un annuncio fatto da Cristo, della sua definitiva vittoria, a questi angeli.
Tali angeli sarebbero da identificare con “i principati e potenze” su cui Cristo aveva trionfato “per mezzo della croce” (Cl 2:15). Il Cristo risorto avrebbe fatto quest’annuncio mentre attraversava i cieli nella sua ascesa alla destra di Dio, da dove esercita un potere assoluto sopra di loro (1P 3:22; Eb 2:14-15; 4:14; 1 Co 2:6-8).

Battesimo e risurrezione di Gesù Cristo (vv. 20-21)
Dopo la menzione dell’annuncio fatto da Cristo ai “spiriti trattenuti in carcere”, Pietro inserisce una parentesi in cui parla delle persone che scamparono al giudizio divino che cadde sull’umanità indotta a peccare al tempo di Noè.
Il soggetto in questi versetti è la salvezza di alcune persone dal diluvio, una circostanza che Pietro considera analogica con la salvezza di cui sono eredi i suoi lettori.
Un dettaglio del v. 20 suggerisce che il motivo di questo accostamento sia il contesto di persecuzione in cui queste persone erano chiamate a vivere. Mi riferisco alla precisazione che nell’arca “poche anime, cioè otto, furono salvate…”. In modo simile i lettori della prima lettera erano una minoranza nel mondo pagano e quindi costretti a vivere “come forestieri dispersi” spesso incompresi e trattati ingiustamente (1:1). Le otto anime salvate dal diluvio e i primi lettori della 1Pietro avevano in comune anche l’esperienza di essere in qualche modo “salvate attraverso l’acqua”.
Nel caso dei lettori della 1Pietro, l’immersione (gr. baptisma) in acqua corrispondeva al momento in cui avevano confessato la loro fede in Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore (cfr. Mr 16:15-16; At 2:38; 10:43-48). Pertanto, come non era stata l’acqua in sé a salvare Noè e la sua famiglia, bensì l’arca costruita in obbedienza alla Parola di Dio, così il battesimo, comandato da Cristo, non era stato la causa efficace della salvezza dei pellegrini cristiani a cui Pietro scriveva; lo era stato il trionfo di Cristo sul peccato e sulla morte.
Infatti Pietro precisa:
“… battesimo (che non è l’eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo”.
Infatti “se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Ro 10:9).
In definitiva la nostra giustificazione e la nostra salvezza eterna sono rese possibili dalla risurrezione del Salvatore, ovvero l’esito trionfale della sua morte vicaria (si veda Ro 4:25; 1 Co 15:12-23).
Pietro invita i suoi lettori a riflettere sul fatto che il loro battesimo faceva riferimento al trionfo di Cristo, che dopo aver sofferto una volta sola per i peccati, era stato totale. La sua risurrezione aveva dato inizio alla nuova creazione. Quindi non dovevano scoraggiarsi quando si trovavano a soffrire per la giustizia o come cristiani; anzi dovevano “glorificare Cristo come Signore” nei loro cuori (v. 15), sapendo che i nemici di Dio sono stati informati della sua vittoria e ora Cristo “sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti” (v. 22).

Per la riflessione personale e lo studio di gruppo

1. Quante verità apprendiamo da 1Pietro 3:18?
2. L’interpretazione di 1Pietro 3:19-21 proposta sopra tiene presenti i diversi contesti del brano, in particolare quello grammaticale, quello del contesto storico in cui vivevano i primi lettori e quello rievocato di Genesi 6-9. A proposito di questo ultimo, c’è da notare che Pietro attribuisce valore storico al diluvio. In quali altri brani delle lettere di Pietro l’apostolo prende le distanze dalla categoria di miti, quando tratta eventi di carattere soprannaturale?

Rinaldo Diprose
(Assemblea di Roma, Borgata Finocchio)

1Gv 5,1-9 : I testimoni dell’amore credono in Cristo

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Seconda lettura

I testimoni dell’amore credono in Cristo

1Gv 5,1-9

Carissimi, 1chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. 2In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. 3In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. 4Chiunque è sta­to generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mon­do: la nostra fede.
5E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? 6Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltan­to, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, per­ché lo Spirito è la verità. 7Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: 8lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. 9Se accettiamo la testi­monianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la te­stimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio.
La pericope liturgica è concentrata sulla figura di Gesù, con­tenuto essenziale della fede cristiana e manifestazione concreta e visibile dell’amore di Dio. Il brano si articola in due momenti distinti. Nei vv. 1-4 Gesù viene presentato come colui che è ca­pace di rendere l’uomo di fede figlio di Dio: chi crede in Gesù, il Cristo, è figlio di Dio. Nel solo primo versetto la ripetizione per ben tre volte del verbo “generare” ribadisce l’aspetto essenziale dell’identità di Cristo, Figlio di Dio.[16]
ØEssere figli di Dio.
L’essere figlio dipende dall’essere gene­rato, dal fatto di ricevere la vita da Colui che gliela può dare. In stretta continuità con il vangelo di Giovanni,[17] l’au­tore della lettera usa rigorosamente il termine “Figlio” (u`io,j) solo in riferimento a Gesù, e il termine “figli” (te,kna) solo in ri­ferimento ai credenti. La distinzione, nell’uso dei termini greci, non facilmente traducibile nella lingua italiana che possiede soltanto il termine “figlio”, non deve passare inosservata, poi­ché te,knonindica il figlio frutto di un parto, mentre u`io,jallude all’aspetto relazionale tra due persone, aspetto che non implica variazioni nel tempo: l’essere Figlio è per Gesù una sua qualità permanente, perché da sempre egli è generato dal Padre. Chi accede a Dio tramite la fede diviene “figlio di Dio” perché sco­pre che il vero nome di Dio è “Padre”, Abbà. Questo è il dono che viene fatto nel battesimo: ci viene data la grazia di parla­re a Dio come ad un padre, con la fiducia di figli che saranno ascoltati. Nello stesso tempo la nostra identità più vera è quella di diventare sempre di più figli di Dio, consapevoli della neces­sità di essere legati al Padre e di dipendere da lui. Ecco perché l’autore della lettera insiste sull’osservanza dei comandamenti: non è esecuzione di ordini, per un senso di sottomissione supina o per un senso etico che ciascuno di noi ha del proprio dovere; osservare i comandamenti, cioè cercare di fare la volontà di Dio, è piuttosto ciò che più corrisponde alla natura del figlio, il quale ritrova se stesso nella mente e nel cuore del Padre che parla ed opera per il bene dei suoi figli.
ØFede in Cristo e amare per i fratelli.
Un ulteriore elemento importante di questa prima parte del brano è la stretta connes­sione tra fede e amore. La fede che vince il mondo è fede in Ge­sù generato da Dio e tale fede si esplica nel rapporto di amore che il credente è chiamato a vivere con il Padre e il Figlio. C’è da presupporre che il messaggio sia stato scritto per delle comu­nità cristiane che avevano isolato i due termini: probabilmen­te alcuni pensavano che una grande fede bastasse a se stessa e non fosse necessario “sporcarsi le mani” con gli altri; nello stes­so tempo altri pensavano che fosse sufficiente compiere grandi opere di carità a favore degli altri, senza preoccuparsi di coltiva­re nel proprio animo l’amore e la conoscenza di Dio e di Cristo. Ma come dice S. Ignazio di Antiochia: «il principio è la fede, il fine la carità».[18] Fede e amore non sono separabili, ma entrambi sono stimolo alla crescita e alla purificazione reciproca.
La seconda parte del brano,[19] intende ribadire l’ele­mento essenziale della fede in Cristo: egli è il Figlio di Dio in­carnato, «venuto con acqua e sangue». Acqua e sangue sono i grandi simboli antropologici per descrivere la vita dell’uomo, che deve essere lavata, rinnovata e purificata dall’acqua, ma che trova la sua pienezza nel dono di sé, e che raggiunge la sua espressione massima nel momento di versare il proprio sangue per amore di coloro a cui si dà la vita. Non si può tralasciare il richiamo a Gv 19,34, quando il soldato, conficcando la lancia nel costato del Crocifisso, vide uscire sangue e acqua! Nella 1Gv acqua e sangue vengono compresi, assieme allo Spirito, come testimoni concordi della realtà di Cristo. La verità dell’incarna­zione e della redenzione di Cristo, che ha donato la sua vita per noi, ora è testimoniata dall’azione dello Spirito che agisce nel cuore di chi crede e sa che quanto Cristo ha fatto per noi è vero.

Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme…

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=1999

Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme…

Quanto tempo sarà durato il viaggio? Difficile stabilirlo. Forse mesi, date le distanze e le disagevoli condizioni di quel tempo, ma essi non sembrano affaticati o scoraggiati. Al contrario appaiono animati, nel loro peregrinare senza sosta, dalla stessa gioiosa premura che…

Ciascuno di noi accostandosi alla Greppia sente accendersi nel petto sentimenti nuovi e sacri, rivestiti di tenerezza e gratitudine, quelli stessi che fecero esclamare a San Paolo: ‘Mi ha amato e ha dato se stesso per me’ (Gal 2,20). ‘Per me’… un orizzonte così intimo e personale che non può farci, tuttavia, perdere di vista la dimensione universale del Natale. Quel ‘per me’ è di ogni uomo, di ogni popolo, di ogni lingua e cultura. Cristo, Salvatore del mondo, è per tutti, anche per coloro che non lo attendono, non lo cercano, o addirittura, lo rigettano. Questo è il messaggio che ci giunge dal brano che oggi desideriamo ascoltare e accogliere (cf. Mt 2,1-12).
‘Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode’.
Gesù nasce a Betlemme, piccola città della Giudea, in un tempo storico ben definito, indicato, come era costume dell’epoca, col nome dell’autorità regnante. Si tratta del re Erode, un israelita di dubbia moralità, asceso al potere con il favore dei dominatori romani. Le coordinate spazio-temporali delimitano, così, il miracolo dell’Incarnazione, lasciando intuire lo spessore dell’umiltà di Dio che accoglie tutti i limiti della condizione umana.
Ma ecco che tale evento, circoscritto nello spazio e nel tempo, trasborda, fin dal suo sorgere, superando tutti i confini e spalancandosi su orizzonti universali: ‘Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme’. Tre personaggi misteriosi, forse sapienti, forse astronomi, appartenenti ad un mondo e ad una cultura molto distanti da Israele, si mettono in cammino, sospinti da una segreta intuizione dello Spirito, alla ricerca ‘del re dei giudei che è nato’.
Quanto tempo sarà durato il viaggio? Difficile stabilirlo. Forse mesi, date le distanze e le disagevoli condizioni di quel tempo, ma essi non sembrano affaticati o scoraggiati. Al contrario appaiono animati, nel loro peregrinare senza sosta, dalla stessa gioiosa premura che, prima della nascita di Gesù, aveva sospinto sua madre, Maria, a visitare la cugina Elisabetta.
Lo rivela la loro domanda carica di attesa e desiderio: ‘dov’è il re dei giudei che è nato?’; lo rivela la loro prontezza nel seguire il ‘segno’, la sua stella: una scia di luce che ha catturato la loro attenzione selettiva di esperti osservatori del cielo; lo rivela la loro disposizione interiore a piegare le ginocchia in adorazione davanti ad un Bimbo sconosciuto, ma che il cuore dice loro essere l’Atteso delle genti.
A ben pensarci si è trattato di una follia: mettersi in viaggio e percorrere migliaia di chilometri, seguendo una stella! Ma questa non è una stella come le altre. É una luce che brilla in modo differente, penetrando nelle profondità dei cuori, infondendo calore e pace, dissipando le tenebre: ‘é la Luce vera che illumina ogni uomo’ (Gv 1,9). Chi la incontra non può stare fermo, non può accomodarsi. Quella Luce lo chiama.
‘Dov’è il re dei giudei?’ Nell’attesa, nella ricerca, nel cammino percorso dai tre Magi si concentra l’attesa dei popoli, di tutte le genti che vivono immerse nelle tenebre e anelano alla Luce. In questa ricerca si manifesta il desiderio di incontro con la Vita vera presente in ogni uomo, a cui lo Spirito addita Gesù come Stella che orienta i cammini tortuosi della storia, dando loro una nuova direzione: il cuore del Padre.
Ma non tutti sono aperti a questo annuncio di gioia. C’è chi, come Erode, si sente disturbato da questa Presenza, infastidito dalla Luce che potrebbe mettere a nudo le sue opere inique.
‘All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme’.
Che contrasto tra la trepidazione dei tre Magi e il turbamento del potente che avverte come una minaccia la notizia della nuova Vita! É la perenne lotta delle tenebre che contrastano la Luce, ma esse ‘non prevarranno’ perché non vi è proporzione di forze: Dio è più grande, proprio nella sua infinita piccolezza e umiltà.
‘Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia…; si fece dire con esattezza dai Magi il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: ‘Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo ».
L’indagine meticolosa del sovrano, travestita di devozione, cela, in realtà, gli interessi meschini dell’uomo preoccupato di salvaguardare il suo potere. Il re dei giudei, infatti, era lui; egli riteneva di essere il punto di riferimento e di unità del suo popolo. Ora questa ‘stella’, apparsa improvvisamente nel cielo, viene a sconvolgere le sue prospettive, viene a competere con la sua autorità, la sua ricchezza, il suo prestigio.
Anche lui, come israelita, era a conoscenza delle antiche profezie riguardo al Cristo, l’Unto di Dio; anche lui, come i suoi connazionali, lo immaginava, tuttavia, come un capo politico, rivestito di forza e potere, un pericoloso concorrente, dunque, che occorreva eliminare prima che fosse troppo tardi.
Nel cammino di luce, percorso dai Magi seguendo la stella, l’incontro con Erode rappresenta il confronto tra la vita di Dio, che umilmente si propone all’uomo e l’attacco del male che vuole distruggerla, screditarla. È il momento della tentazione, quando essa si affaccia nella nostra esistenza insinua il dubbio che è vano operare il bene, che a niente giova essere figli della luce.
Il cammino del Magi è simbolo dell’itinerario verso la fede dei singoli e di interi popoli, fatto di luci e ombre, rivelazione e mistero, certezze e prove, fortezza e fragilità. La stella che li aveva condotti fin là, ora è scomparsa. È il momento del buio…
Essi, tuttavia, non si scoraggiano; si rimettono in cammino, fiduciosi nella promessa. E, inaspettatamente, la stella ricomincia a brillare: ‘Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva… Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia’.
La sua vista li riempie di una gioia profonda, quella che solo Dio può dare all’uomo, ai popoli; quella che ci rende capaci di uscire da noi stessi, superando ostacoli e contraddizioni, per comunicare ad altri ciò che è avvenuto nel nostro incontro con la Luce.
La stella brilla di nuovo nel misterioso cielo dei Magi, è la stella dell’esodo, della missione, è la forza segreta della fede che sospinge uomini e donne fuori dai loro confini con un unico grande annuncio: ‘Abbiamo trovato il Bambino…’; e con un invito pressante: ‘Venite ad adorarlo!’ Lo troverete nella sua casa, la Chiesa, casa di tutti i popoli, nella quale tutti sono chiamati ad entrare per camminare alla sua Luce.
‘Aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra’. Il ‘faccia a faccia’ con la Luce, di cui la stella era solo presagio, conduce i Magi a tale gesto non formale, ma profondissimo.
Le ricchezze di ogni popolo: cultura, tradizione, senso del sacro, della vita, della storia, simboleggiate dall’oro, l’incenso e la mirra, si aprono alla Luce e giungono alla loro pienezza nell’incontro con il Cristo.
E dopo questo momento, durato pochi istanti, i tre riprendono il loro cammino. Una rivelazione interiore, avvenuta nel sogno, li sospinge per altri percorsi, fuori dal tiro minaccioso del male, ma la meta non cambia: ‘fecero ritorno al loro paese’.
Essi ritornano sui loro passi, ormai divenuti uomini nuovi, recando il lieto annuncio del Natale, fino ai confini della terra: per Dio non esistono differenze tra popoli eletti e popoli non eletti; tutti sono ormai il suo popolo ed Egli è il Dio di tutti.

(Teologo Borèl) Gennaio 2006 – autore: Comunità Missionaria di Villaregia

GESU’ COME RABBINO (anche su Paolo, interessante)

questo studio è interessante, c’è anche il pensiero di Paolo, io come sempre posto gli articoli che mi…intrigano… dal punto di vista degli studi anche paolini, ma il testo lo prendo come ve lo propongo, da rifletterci su, dal sito:

http://www.laportadeltempo.com/Indagini%20su%20Ges%C3%B9/indagini_rabbino.htm

GESU’ COME RABBINO

Lo studio di Gesù nella storia della cultura umana inizia con il Nuovo Testamento, sul quale si basano tutte le rappresentazioni successive. Ma la presentazione di Gesù nel Nuovo Testamento è essa stessa una rappresentazione, e ricorda una serie di dipinti più che una fotografia.
Nei decenni tra il tempo del ministero di Gesù e la composizione dei vari vangeli, il ricordo delle parole e degli atti di Gesù, circolarono in forma di tradizione orale. L’apostolo Paolo, nella lettera alla congregazione dei Corinzi attorno al 55 d.C. (vent’anni circa dopo la vita di Gesù), ricorda loro che nel corso della sua visita, qualche anno addietro, probabilmente attorno al 50 d.C., aveva annunziato loro il Vangelo per come lo aveva ricevuto in tempi ancora precedenti, forse negli anni quaranta, in relazione alla morte e resurrezione di Gesù, (1 Cor. 15:1-7) e all’istituzione dell’Ultima Cena del Signore (1 Cor. 11:23-26).
Cronologicamente, e perfino logicamente, pertanto, vi fu una tradizione orale della chiesa prima che vi fosse un Nuovo Testamento, o qualsiasi libro del Nuovo Testamento. Per il tempo in cui i materiali della tradizione orale trovarono la loro via nella forma scritta, erano passati attraverso la vita e l’esperienza della chiesa, che sosteneva la presenza dello Spirito Santo di Dio. Fu all’azione di questo Spirito che i Cristiani attribuirono la composizione dei libri del “Nuovo Testamento”, come iniziarono a chiamarlo, e prima di quello del “Vecchio Testamento”, come iniziarono a descrivere la Bibbia Ebraica.
E’ ovvio – eppure, a giudicare dalle tragedie della storia successiva, non ovvio del tutto – che Gesù fu un ebreo, così che i primi tentativi di comprendere il suo messaggio devono svolgersi nel contesto del Giudaismo. Il Nuovo Testamento era scritto in Greco, ma il linguaggio che Gesù parlava con i suoi discepoli sembra essere stato l’Aramaico, una lingua semitica legata all’Ebreo, ma non identica ad esso. Le parole e le frasi aramaiche sono sparse per tutta la lunghezza dei Vangeli, e degli altri primi testi cristiani, a riflettere il linguaggio nel quale i vari detti e le formule liturgiche erano stati ripetuti prima che fosse completata la transizione al Greco.
Tra esse, abbiamo parole familiari come Osanna, e come anche il grido di disperazione di Gesù sulla croce : Eloi, Eloi, lama sabachtani? (Marco 15:34) – “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (che in ebreo nel Salmo 22 era Eli, Eli lama azavtani?).
O ancora la dizione Emanuele, “Dio con noi” – il titolo ebreo dato al bambino nella profezia di Isaia (7:14) ed applicato da Matteo (1:23) a Gesù – e le quattro parole aramaiche che appaiono come ricorrenti titoli di Gesù: Rabbi o maestro, Amen o profeta; Messias o Cristo e Mar o Dio.
La più neutrale e meno controversa di queste parole è probabilmente Rabbi, insieme con la collegata Rabbouni. Eccetto per  due passaggi, i Vangeli applicano la parola aramaica solo a Gesù; e se concludiamo che il titolo “maestro” (didaskalos in Greco) era inteso come una traduzione del nome aramaico, sembra naturale poter dire che è come Rabbi che Gesù era conosciuto e indicato. Invece i Vangeli sembrano accentuare le differenze, piuttosto che le somiglianze, tra Gesù e gli altri rabbini. Con il progredire degli studi sul giudaismo, nel tempo, tuttavia, le somiglianze e le differenze sono divenute più chiare.
Luca ci dice (4:16-30) che dopo il suo battesimo e le tentazioni del deserto, egli “Si recò a Nazareth dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga, e si alzò a leggere.” Seguendo il comportamento usuale dei rabbini, prese un rotolo della Bibbia Ebraica, lo lesse, presumibilmente offrì una traduzione aramaica in perifrasi del testo, e quindi lo commentò. Le parole che lesse erano tratte da Isaia 61: 1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere la libertà agli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.” Ma invece di fare ciò che un rabbino avrebbe fatto normalmente, e cioè applicare il testo agli ascoltatori comparando e contrastando le precedenti interpretazioni, egli dichiarò: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. Malgrado la reazione iniziale a quest’audace dichiarazione fu di meraviglia “alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, la successiva spiegazione produsse la reazione opposta: “tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno”.
Oltre il confronto tra Gesù come Rabbino e le rappresentatività della tradizione rabbinica, le affinità sono comunque chiaramente distinguibili nelle forme in cui i suoi insegnamenti appaiono nel Vangelo. Una delle più familiari è la tecnica  “domanda e risposta”, con la domanda spesso formulata come un dilemma.
Una donna ebbe, uno dopo l’altro, sette mariti: alla resurrezione, di quale dei sette sarebbe stata moglie? (Matteo 22:23-33) E’ lecito o no per un devoto ebreo pagare il tributo a Cesare? (Matteo 22:15-22)      
Cosa devo fare per ereditare la vita eterna (Marco 10:17-22)?      
Chi è il più grande nel regno dei Cieli (Matteo 18:1-6)?
Chi pone le domande si comporta come un uomo retto, che offre al Maestro Gesù l’opportunità di arrivare al punto.
Per gli autori del Nuovo testamento, comunque, la forma più tipica degli insegnamenti di Gesù fu la parabola: “Per questo parlo loro in parabole” dice Gesù in Matteo 13:34. Ma la parola greca parabola è presa dal Settuaginta, la traduzione ebraica della loro Bibbia in Greco. Anche qui, dunque, il racconto dell’evangelista di Gesù narratore di parabole ha senso solo nella dimensione del suo background ebraico. Interpretando le sue parabole sulla base di questo contesto, si alterano le convenzionali spiegazioni dei suoi paragoni tra il regno di Dio e gli incidenti della vita umana. Così il punto della parabola del figliol prodigo (Luca 15:11-32), meglio detta la parabola del fratello maggiore, si trova nelle parole che il padre dice al fratello maggiore, che rappresenta il popolo di Israele: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. L’alleanza storica tra Dio ed Israele era permanente, ma a quest’alleanza sarebbero stati ammessi, da questo momento, anche gli altri popoli.
Le oscillazioni tra la descrizione del ruolo di Gesù come Maestro e l’attribuzione a lui di una nuova ed unica autorità rende titoli aggiuntivi necessari. Uno di essi era Profeta, come l’acclamazione della Domenica delle Palme (Matteo 21:11). “Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”. Probabilmente la versione più interessante di ciò si trova ancora una volta in Aramaico (Rev. 3:24): “Le parole dell’Amen, la fede e la vera testimonianza.” La parola Amen era la formula di affermazione per concludere una preghiera, come nel messaggio di saluto di Mosè al popolo di Israele, che si conclude, in ogni verso (Deuteronomio 27:14-26) “Tutto il popolo dirà: Amen”.
Nel Nuovo Testamento un’estensione del significato di Amen diviene evidente nel Discorso dalla Montagna: Amen lego Hymin, “In verità vi dico”. Alcune delle settantacinque volte in cui nei quattro Vangeli si legge la parola Amen, introducono una pronuncia autoritativa di Gesù. Dal momento che aveva l’autorità di esprimersi in questo modo, Gesù era il Profeta. La parola profeta qui significa principalmente, non colui che prevede, malgrado le parole di Gesù contengano molte predizioni, ma colui che è autorizzato a parlare in nome di un altro, e a manifestare la verità. Nel Discorso dalla Montagna, Gesù è citato asserire (Matteo 5:17-18): “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità [Amen] vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto”. L’affermazione della validità permanente della legge di Mosè è seguita da una serie di specifiche citazioni della legge, ognuna introdotta dalla formula: “Avete inteso che fu detto agli antichi”; ognuna di tali citazioni è quindi seguita da un commentario che si apre con la formula magisteriale “Ma io vi dico” (Matteo 5:21-48). Il commento è un’intensificazione del comandamento, per includere non solo la sua osservanza esterna, ma lo spirito interiore e la motivazione del cuore. Tutti questi commenti sono un’elaborazione dell’ammonizione che la giustizia dei suoi discepoli dovesse superare quella degli scribi e dei farisei (Matteo 5:20).
La conclusione del Discorso della Montagna conferma lo status speciale di Gesù non solo come Rabbi ma come Profeta (Matteo 7:28-8:1): “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi. Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva.” Quindi si ha la narrazione di molte cose miracolose. Il Nuovo Testamento non attribuisce il potere di compiere miracoli solo a Gesù ed ai suoi discepoli (Matteo 12:27), ma cita i miracoli e sostanzia ed il suo essere Rabbi-Profeta. L’identificazione di Gesù era un mezzo per affermare la sua continuità con i profeti di Israele, e di asserire la sua superiorità rispetto a loro come il Profeta la cui venuta era stata predetta e la cui autorità egli si preparava a ricevere. Nel Deuteronomio 18:15-22, Dio dice a Mosè, e attraverso lui al popolo Egli “susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.” Nel contesto biblico, questa è l’autorizzazione di Giosuè come successore legittimo di Mosè, ma nel Nuovo Testamento e nei successivi autori cristiani, il profeta a venire è considerato essere Gesù-Giosuè. E’ ritratto come uno dei profeti in cui gli insegnamenti di Mosè troveranno compimento, e saranno addirittura superate, nel Rabbino che contestualmente soddisfa la legge di Mosè e la trascende; perché “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Giovanni 1:17). Per descrivere una tale rivelazione di grazia e verità, le categorie di Rabbino e Profeta erano necessarie ma non sufficienti. Pertanto in seguito gli apologeti Cristiani anti-musulmani avrebbero trovato l’identificazione offerta dall’Islam di Gesù come un grande profeta e precursore di Maometto, inadeguata e pertanto inaccurata, così che il potenziale della figura di Gesù il Profeta come terreno d’incontro tra i Cristiani e i Musulmani non sono mai state pienamente realizzate.
Perché Rabbi e Profeta si collegano ad altre due categorie, ciascuna delle quali espressa similmente in aramaico e quindi nella sua traduzione Greca: Messias, la forma aramaica per “Messiah” tradotta in Greco, come ho Christos, “il Cristo,” l’Unto (Giovanni 1:41; 4:25) e Marana, “nostro signore”, nella formula liturgica Maranatha, “Nostro Signore, vieni!” tradotto in Greco come ho Kyrios (1 Corinzi 16:22). La figura apparteneva ai titoli di identificazioni di Gesù come Figlio di Dio e seconda persona della trinità.
Ma nel processo di determinare se stesse, le definizioni Cristo e Signore, come anche Rabbi e Profeta, spesso perdono molto del loro contenuto semitico. Per i discepoli cristiani del I secolo, la concezione di Gesù come Rabbino era auto-evidente, per i discepoli cristiani del II secolo imbarazzante, e infine per i discepoli cristiani del III secolo e oltre era divenuta oscura.
L’inizio di questa de-giudeizzazione della Cristianità è visibile già all’interno del Nuovo Testamento. Con la decisone di Paolo di “rivolgersi ai Gentili” dopo avere iniziato la sua predicazione nelle sinagoghe, e quindi con la distruzione del tempio nel 70 d.C., il movimento cristiano seguì in modo crescente la tendenza ad essere Gentile piuttosto che ebraico, nella sua consistenza ed aspetto. Ed è in quel contesto che gli elementi della vita ebraica di Gesù dovevano essere spiegati ai lettori Gentili (per esempio Giovanni 2:6). Gli Atti degli Apostoli possono essere letti come il racconto di due città: il primo capitolo, con Gesù ed i suoi discepoli dopo la resurrezione, è ambientato a Gerusalemme; ma l’ultimo capitolo raggiunge il suo momento culminante con il viaggio finale dell’apostolo Paolo, nella semplice ma stringente frase: “Partimmo quindi alla volta di Roma”. Recentemente, gli studiosi non hanno solo posto la figura di Gesù indietro nel contesto del giudaismo del I secolo; ma hanno anche riscoperto la natura ebraica intrinseca del Nuovo Testamento, e particolarmente di Paolo. Nella sua lettera ai Romani (9-11) egli descrive la sua sofferenza per le relazioni tra la chiesa e la sinagoga, concludendo con la predizione e la promessa: “Allora tutto Israele sarà salvato”. Attenzione, non convertito alla Cristianità, ma salvato, perché nelle parole di Paolo, “ma quanto all’elezione, sono amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Romani 11:26-29). Questo leggere la mente di Paolo nella Lettera ai Romani, ha speciale significato per i suoi molti riferimenti al nome di Gesù: da “discese da Davide secondo la carne… Gesù Cristo nostro Signore” nel primo capitolo, alla “predicazione di Gesù Cristo” che “ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti” nella frase finale. Qui Gesù Cristo è, come dice Paolo di se stesso altrove “della stirpe d’Israele…, ebreo da Ebrei” (Filippesi 3:5). Il vero argomento di universalità, presumibilmente la distinzione tra Paolo ed il Giudaismo, era, per Paolo, quello che rendeva necessario che Gesù fosse un ebreo. Perché solo attraverso l’ebraismo di Gesù l’alleanza di Dio con Israele, i graziosi doni di Dio, e la sua chiamata irrevocabile potevano divenire accessibile a tutti i popoli del mondo, anche al popolo dei Gentili, che sarebbe diventato “così partecipe della radice e della linfa dell’olivo” – nominativamente, il popolo di Israele (Romani 11:17).
Nessuno può considerare l’argomento di Gesù come un Rabbino ed ignorare la conseguente stria delle relazioni tra il popolo cui Gesù apparteneva ed il popolo che apparteneva a Gesù. Questa relazione corre come una linea rossa attraverso molta parte della storia della cultura, e dopo gli eventi del XX secolo, abbiamo la responsabilità unica di esserne consapevoli quando studiamo la storia delle immagini di Gesù attraverso i secoli. Interrogarsi su questo argomento è naturalmente più semplice che fornire una risposta. Ma dobbiamo chiederci: vi sarebbe stato un tale dilagante antisemitismo, vi sarebbero stati tanti pogrom, vi sarebbero stati campi di concentramento, se ogni Chiesa Cristiana ed ogni casa Cristiana avessero focalizzato la loro devozione sull’immagine di Maria non solo come Madre di Dio e Regina dei Cieli, ma anche come Vergine ebrea, e Nuova Miriam, e sull’icona di Cristo non solo come il Cristo Cosmico, ma anche come Gesù il Rabbino di Nazareth, il Figlio di David, giunto a riscattare la prigionia di Israele, e dell’intera umanità?

20 NOVEMBRE 2011 – NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO (s)

20 NOVEMBRE 2011 – NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO (s)

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A34page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  1 Cor 15,20-26a.28
Consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 1, 4-6. 10. 12-18; 2, 26-28; 3, 5. 12. 20-21

Visione del Figlio dell’uomo nella sua potenza
Grazia a voi e pace da colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi (Dn 7, 13; 10, 16) e cinto al petto con una fascia d’oro (Dn 10, 15). I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve (Dn 7, 9). Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente (Dn 10, 6; Ez 1,7. 13), purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque (Ez 43, 2). Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere,
darò autorità sopra le nazioni (Ap 3, 12);
le pascolerà con bastone di ferro
e le frantumerà come vasi di terracotta (Sal 2, 9),
con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. Non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli.
Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo.
Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono.

Responsorio    Cfr. Mc 13, 26-27; Sal 97. 9
R. Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli. * Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
V. Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine.
R. Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Seconda Lettura
Dall’opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote
(Cap. 25; PG 11, 495-499)

Venga il tuo regno
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e sul nostro cuore (cfr. Rm 10,8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell’anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l’anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell’anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell’affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l’Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l’iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98,5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 15, 26). Allora Cristo potrà dire anche dentro di noi: «Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria?» (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d’ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell’immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO

molte note, sul sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/padrenostroesegesisancipriano.htm

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO
 
Innocenzo monaco
Inserendosi nella tradizione, già seguita da Tertulliano, Cipriano vede nel «Padre nostro» la sintesi (“breviario”) dell’intero evangelo. Come tale il «Padre nostro» è l’espressione del sacrificio più grande e più gradito a Dio che la comunità cristiana possa presentare: l’unità, l’amore e la pace, vissuti nella comunione con la chiesa. Il «Padre nostro» viene così a definirsi: come preghiera di pace offerta e ricevuta, che precede e supera ogni altro gesto cultuale e come preghiera del cuore, che fa del cristiano stesso un luogo di preghiera ovunque egli si trovi. Il «Padre nostro» rivela inoltre che la preghiera è “spirituale”, perché dettata dallo Spirito, dono pasquale del Risorto. Finalmente la preghiera dei “santi” del Nuovo Testamento è una preghiera feconda e continua, identificata con la vita.
 
1. Il “breviario” dell’Evangelo
            Il capitolo sesto dell’Evangelo di Matteo era già per Tertulliano il punto di partenza obbligato di ogni preghiera cristiana. Analizzando le indicazioni offerte da Matteo, Tertulliano aveva concluso: La preghiera cristiana è anzitutto una preghiera fatta nel segreto del cuore[1] ed espressa con la massima semplicità, perché «non possiamo illuderci di essere ascoltati dal Signore per la forza delle parole»[2]. Il nuovo modo di pregare, insegnato dal Signore stesso ai discepoli desiderosi di imparare, trova nel «Padre nostro» – aggiungeva Tertulliano – la sua forma più piena ed esemplare[3]. Il «Padre nostro» è la preghiera “simpliciter”, cioè è la definizione stessa della preghiera cristiana. Esso contiene infatti praticamente «ogni parola del Signore» fino al punto da poter essere definito «sintesi (breviarium) dell’intero evangelo»[4]. Il «Padre nostro» – concludeva Tertulliano – va ritenuto dunque il «fondamento stesso di qualsiasi altra richiesta o desiderio»[5].
Cipriano si pone nella linea della stessa tradizione, anche per lui il «Padre nostro» è la preghiera cristiana per eccellenza e la forma di preghiera in cui il Signore «sintetizzò (breviavit) in un’unica parola di salvezza ogni nostra possibile preghiera»[6]. Ed aggiunge: Gesù ha voluto riassumere ogni preghiera possibile nel «Padre nostro» per fare con la preghiera ciò che aveva già fatto con le prescrizioni della legge quando «sintetizzò tutti i suoi comandamenti» nel precetto della carità[7]. Ciò che preme al Signore è permettere – spiega Cipriano – che tutti, dotti ed ignoranti, uomini e donne, grandi e piccoli, possano ascoltare e ricevere la parola che salva[8]. Il cristianesimo non è per una élite, non è per degli iniziati che abbiano già raggiunto un supposto livello di maturità socio-culturale o spirituale, ma è semplicemente per tutti. Ogni tentativo perciò di separazione, sotto qualsivoglia forma si presenti, deve essere tagliato alla radice, perché la disponibilità alla comunione con tutti è il presupposto indispensabile alla possibilità stessa della preghiera cristiana.
 
2. Il sacrificio più grande
Il messaggio cristiano è un messaggio di unità, di amore e di pace. Chi rompe quindi l’unità, l’amore e la pace, si taglia fuori dalla comunità dei figli di Dio, va contro il comando del Signore e rende perciò vana e inutile ogni sua preghiera ed ogni sacrificio:
«Dio ci domanda di stare nella sua casa con pace, concordia e unanimità; vuole che proseguiamo ad essere ciò che Lui fece di noi nella seconda nascita (battesimale). Perciò, dal momento che abbiamo cominciato ad essere figli di Dio, restiamo nella pace di Dio e, dal momento che è uno solo il nostro spirito, sia unica l’anima, unico il sentimento. D’altra parte Dio non accoglie il sacrificio di un uomo discorde e comanda di ritornare prima a riconciliarsi con il fratello[9], perché Dio possa essere placato da preghiere di pace»[10].
Cipriano crede di poter capire dalla semplice espressione “Padre nostro” che la realizzazione dell’unità nell’amore e nella pace è messa dal Signore al di sopra di ogni altra manifestazione cultuale. Il cristiano è stato chiamato all’unità con la seconda nascita avvenuta nel battesimo. Non vivere l’unità significherebbe vanificare la grazia battesimale e andare quindi contro l’espresso comando del Signore. Il vero culto cristiano consiste nel perseverare in quello stato di figli di Dio che ci permette di rivolgerci appunto a Dio chiamandolo “Padre”. Siamo rinati come figli di Dio nel battesimo? Dunque rimaniamo nella pace di Dio. Abbiamo ricevuto tutti lo stesso spirito? Dunque procuriamo di avere gli stessi sentimenti ed un’unica volontà e così potremo dire non solo “Padre”, ma “Padre nostro”. Soltanto le preghiere che sono espressione di questa pace e unità conservate con Dio e coi fratelli, saranno esaudite da Dio. Dio infatti vuole essere pregato da preghiere di pace (“pacificis precibus”):
«Il sacrificio più grande e più gradito a Dio è la pace fra noi e la fraterna concordia di un popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[11].
Nelle prime parole del «Padre nostro» Cipriano pensa di vedere sintetizzato perciò tutto il messaggio portato dal Signore mentre nello stesso tempo è convinto che esse indichino anche la natura ultima della preghiera del Nuovo Testamento. Pace, amore, unità. Tutto il seguito dell’esegesi di Cipriano sul «Padre nostro», esegesi che egli si preoccupa di attualizzare puntualmente nella sua comunità, sarà uno sviluppo, una riaffermazione, oppure una difesa di questa triade fondamentale. I testi sembreranno addirittura la variazione musicale di un unico tema. Chi rompe questa triade non può neppure dirsi cristiano. Come può dunque pretendere di pregare cristianamente? Come può un imitatore di Giuda ritrovarsi insieme con Cristo? Neppure il martirio del sangue – conclude drasticamente Cipriano – sarà espiazione adeguata di questo immenso delitto[12]. Del resto è il testamento stesso del Signore – precisa – che ci obbliga a dare un giudizio così severo: «Il desiderio ultimo del Signore fu che noi rimanessimo in quella stessa unità che è del Padre e del Figlio. Da qui si può capire quanto grave sia il peccato di chi frantuma l’unità e la pace della comunità cristiana»[13].
Alcuni brani dell’Epistolario di Cipriano riprendono con altrettanta forza il medesimo tema. Concordia, unità e pace sono già preghiera. Una preghiera talmente efficace che non solo ha potere di ottenere da Dio il superamento dei pericoli e delle difficoltà presenti, ma addirittura di scongiurare quelli che potrebbero ancora venire[14]. La ragione prima di ciò che noi chiamiamo “preghiera inefficace” – spiega Cipriano – sta molto spesso nella nostra incapacità ad essere in comunione con gli altri durante la preghiera. Non siamo veramente concordi. Non abbiamo un cuore e un’anima sola mentre preghiamo. Spesso ci si raccoglie in preghiera per chiedere unicamente ciò che più preme a ciascuno di noi senza pensare ai fratelli, anzi molto spesso chiediamo cose che sono in aperto contrasto col desiderio intimo dei nostri fratelli. Siamo bugiardi nel dire “Padre nostro”. E allora il Signore non benedice[15]. Nella comunità cristiana non vi può essere posto per l’individualismo, neppure quando ci raccogliamo nel segreto della nostra stanza per vivere l’esperienza intima di una comunione personale con Dio. Non esistono due forme di preghiera, l’una individuale e privata e l’altra pubblica e comunitaria. Ma soprattutto non si da invocazione cristiana che sia in rottura con l’armonia degli altri fratelli. La preghiera cristiana è per sua natura comunitaria. Così ci ha insegnato il Signore e così viene richiesto dal nostro essere «popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». Perciò nella comunità cristiana
«Ciascuno preghi il Signore non solo per i propri bisogni personali, ma anche per i bisogni di tutti i fratelli come il Signore ci ha insegnato quando ci ha comandato di pregare non ciascuno per conto suo, ma in comune e in comunione con la preghiera di tutti»[16].
Questa forte accentrazione comunitaria Cipriano la ricava da un’esegesi molto profonda dello spirito che è sotteso ad ogni singola invocazione del Padre nostro. In queste invocazioni – spiega Cipriano – il Signore ha voluto anzitutto metterci in guardia contro ogni tentazione di pregare ciascuno per conto suo e secondo i capricci dei propri bisogni personali:
«Infatti non diciamo “Padre mio” che sei nei cieli; né diciamo “dammi oggi il mio pane quotidiano”, né ciascuno chiede che gli venga rimesso solo il suo debito personale o che lui soltanto non venga indotto in tentazione e venga liberato dal maligno. La nostra preghiera invece è sempre pubblica e comunitaria; e quando preghiamo non lo facciamo solo in favore di una persona, ma per il popolo intero, perché l’insieme del popolo è come un unico corpo. Il Dio della pace che è maestro di comunione concorde. Lui che ci insegnò l’unità, volle che ciascuno pregasse per tutti sull’esempio di Lui che, da solo, si prese cura di tutti»[17].
All’origine della possibilità stessa della preghiera cristiana c’è l’azione salvifica di Cristo che tutti ci ha condotti all’unità. Cristo diviene così il fondamento ultimo della nostra preghiera di cristiani. Infatti è per l’unità stabilita da Lui ed in Lui che tutto il popolo può affermare di essere una cosa sola esprimendo con forza questa ritrovata unità nella preghiera pubblica e comunitaria al “Padre nostro che è nei cieli”.
 
3. Una preghiera pacifica e semplice
Abbiamo visto quali sono i presupposti indispensabili perché la preghiera cristiana sia possibile ed efficace. Ma quali sono le caratteristiche proprie di questa preghiera? Anche a questo proposito si può parlare di una triade cui Cipriano annette grande importanza. Cipriano ne parla nel contesto di un richiamo ad Atti 1, 14: «Erano tutti perseveranti in preghiera con le donne e Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di Lui» e al Salmo 67, 7: «Colui che fa abitare gli unanimi nella casa».
Di questi richiami Cipriano si serve per spiegare “cristianamente” anche il canto dei tre fanciulli nella fornace ardente di Daniele 3, 51s:
«La loro preghiera – spiega Cipriano – fu un discorso impetrante ed efficace, perché il Signore veniva invocato da una preghiera pacifica, semplice e spirituale»[18].
La preghiera deve avere dunque queste tre note: deve essere pacifica, semplice e spirituale.
Pacifica – sottolineerebbe ancora una volta Cipriano – nei due sensi di “espressione della pace” e di “richiesta della pace”. La preghiera deve cioè: da una parte esprimere e manifestare il nostro essere in pace con tutti[19]; dall’altra deve chiedere di impetrare lo stato di pace con Dio[20].
Semplice. È assolutamente importante che impariamo a pregare il Signore dall’intimità del cuore e con la totalità dei nostri pensieri: «Preghiamo dunque “de intimo corde” et “de tota mente”[21]. È un invito pressante a fare esperienza della preghiera del cuore, quella preghiera “monologica” (fatta cioè di una parola soltanto come per es. “Abbà, Gesù, Amen” ecc.) che avrà poi tanta importanza nella tradizione monastica e che proseguirà ad essere la preghiera preferita da intere generazioni cristiane nella forma comune delle “giaculatorie” diffuse fin dal tempo dei padri del deserto. Cipriano è uno dei primissimi padri che rivendica questa nota peculiare della preghiera cristiana. Non c’è posto, nell’esperienza della preghiera cristiana, per le «parole confuse»[22] o per la «tumultuosa loquacitate»[23]. Il cristiano sa infatti di dover porre attenzione, quando si parla di preghiera, anche al portamento del corpo e al tono della voce. La preghiera richiede disciplina e armonizzazione non solo della mente, ma anche del corpo:
«Bisogna piacere agli occhi di Dio sia nel comportamento del corpo che nel tono della voce… Pensiamo che siamo davanti a Dio… abbiano dunque coloro che pregano una parola ed una voce disciplinate, soffuse di calma e di pudore»[24].
La calma (in latino “quies” che potremmo forse tradurre meglio “silenzio”), accompagnata da una seria disciplina del corpo, è il contesto ottimale della preghiera semplice del cuore. Anche qui abbiamo dei segni anticipatori di quella che sarà chiamata più tardi «preghiera esicasta» o «preghiera del cuore», oppure ancora «preghiera di quiete». Il contesto immediato in cui ne parla Cipriano è certamente diverso e riferibile alla situazione storica delle sue comunità africane. Forse egli nota degli abusi qua e là. Forse il metodo montanista di pregare, che spesso diveniva occasione di manifestazioni psico-fisiche poco equilibrate, tenta di far breccia anche all’interno delle assemblee cattoliche. Cipriano intende forse arginare simili tentativi. In ogni caso lo fa con molta efficacia e forza sottolineando le caratteristiche di semplicità e di compunzione discreta, ma profonda, tipiche della preghiera cristiana:
«Noi supplichiamo il Signore con semplicità e in comunione senza smettere mai e con la fiducia di essere esauditi; lo preghiamo con gemiti e pianti…»[25].
Così negli anni della persecuzione e del nascondimento forzato. Ma anche in periodi di maggiore serenità per la Chiesa, Cipriano dirà:
«Quando ci raduniamo insieme coi fratelli e celebriamo i sacrifici divini col sacerdote dobbiamo ricordarci di essere modesti e disciplinati senza sbandierare preghiere improvvisate con voce smodata e senza buttare lì, con modo di parlare inconsulto, una supplica da presentare invece a Dio con modestia ed umiltà. Dio infatti non si cura della voce, ma ascolta direttamente il cuore»[26].
Cipriano fonda tutte queste indicazioni sulla semplicità e sulla necessità di una preghiera fatta nel silenzio del cuore, sull’esegesi di Mt 6, 5-8. Lo stesso brano di Matteo gli suggerisce la rivendicazione di un allargamento geografico talmente ampio da far coincidere il luogo della preghiera col mondo intero. Non c’è luogo in realtà, per quanto remoto e profano esso possa apparire, che non sia adatto alla preghiera cristiana:
«Col suo insegnamento il Signore ci ha detto di pregare in segreto, in luoghi nascosti e lontani, nelle stesse camere riservate (della casa) – ciò che è più appropriato alla fede –, perché impariamo che Dio è presente dappertutto, che ascolta e vede tutti e che la pienezza della sua maestà penetra fin nei luoghi più lontani e segreti»[27].
In conclusione Cipriano pensa che il brano di Mt 6, 5-8 voglia sostanzialmente dire queste due cose: primo, che la preghiera deve essere semplice e fatta dal cuore; secondo, che essa non ha bisogno di luoghi speciali cui recarsi per poterla esprimere, perché il mondo intero è tempio di Dio e luogo privilegiato della sua costante presenza.
 
4. Preghiera spirituale
La terza caratteristica della preghiera cristiana è data dalla sua natura spirituale: “spiritualis oratio”. Cipriano arriva a questa conclusione per le indicazioni che egli trova in Gv 4, 23. Ma non si accontenta della semplice espressione letterale. Egli vuole esplicitare il significato ultimo dell’aggettivo “spirituale” dato da Gesù alla preghiera. E lo fa inserendo il testo di Giovanni nel contesto del «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Perciò spiega: Il Signore Gesù è colui che ha realizzato la profezia presente in Gv 4, 23: «Verrà l’ora quando i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità», quando, donandoci lo Spirito della Verità, ci ha donato anche la possibilità di pregare in modo veritiero e spirituale. Dunque la preghiera “spirituale” è il frutto gustoso di quello Spirito promesso dal Signore come colui che ci avrebbe introdotto in tutta la verità. È preghiera “spirituale” la preghiera dettata dallo Spirito. Ma la preghiera dettata dallo Spirito, che grida dentro di noi: “Abbà-Padre”, si identifica con la preghiera insegnata dal Signore e che noi siamo in grado di riconoscere nel «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Gesù viene ad essere così colui che ci ha iniziati alla preghiera “spirituale” e colui che, donandoci lo Spirito, ci ha posti anche nella possibilità concreta di far nostra una preghiera che è insieme sia dello Spirito che della Verità:
«Quale preghiera infatti può essere più “spirituale” di quella insegnata da Gesù dal quale lo Spirito santo è stato avviato? E quale preghiera può essere più vera presso il Padre di quella che è venuta fuori dalle labbra del Figlio che è la Verità?»[28].
La preghiera cristiana è dunque veramente “spirituale” quando è espressione della presenza dello Spirito santo, che è Spirito di unità, di concordia e di pace. Se perciò è presente lo Spirito dell’unità perfino una preghiera fatta prima della venuta del Signore, come per esempio quella dei tre fanciulli nella fornace ardente[29], può essere considerata, ed è di fatto, una “spiritalis oratio”[30]. La concordia e l’armonia reciproca che regnavano fra i tre fanciulli erano già segno evidente sia della presenza dello Spirito santo che dell’adesione al Cristo venturo. È un tentativo di proiezione che oggi potremmo definire ecumenica?
 
5. Preghiera feconda
La preghiera del cristiano deve essere “pacifica, semplice e spirituale”, ma non può in alcun modo essere una preghiera sterile (“sterilis oratio”). Già abbiamo visto sottolineare in modo fortissimo la necessità della concordia coi fratelli per l’orante cristiano. Cipriano richiede anche qualcos’altro: l’impegno alla conversione. Se infatti è assurda la preghiera di un cuore discorde coi fratelli, è per lo meno inefficace una preghiera che non sia accompagnata da opere di conversione[31]. Le opere di conversione sono anzitutto quelle che stabiliscono la comunità cristiana nell’umiltà, nella pace, nella ricerca della concordia reciproca, nella sottomissione timorosa al Signore[32]; ma esse si esprimono anche in un cammino ascetico vero e proprio che comporterà, fra l’altro, una certa discrezione nel cibo ed abbondanza di lacrime, digiuno ed elemosine[33].
 
6. Preghiera di santi
Cosa in fin dei conti chiediamo nella preghiera? Il cristiano – risponde Cipriano – chiede una cosa soltanto: la perseveranza nella grazia battesimale
«in modo che noi, (i quali siamo stati) santificati nel battesimo, possiamo avere la forza di proseguire nel cammino intrapreso»[34].
Chiediamo quindi una santità non da raggiungere o conquistare, ma da riconoscere e conservare. Il battesimo ha già reso santo il cristiano; la preghiera chiede allora a Dio il dono della permanenza in questa santità[35]. Nessuna preoccupazione perfezionista, ma soltanto desiderio e richiesta di restare solidamente nella nuova condizione inaugurata dal battesimo. Il punto centrale intorno al quale ruota tutta la preghiera cristiana è perciò la permanenza nella chiesa, nell’unità del corpo di Cristo. A questo tende la richiesta del “pane quotidiano” nel «Padre nostro»
«Chiediamo il nostro pane, perché Cristo è il pane di coloro che fanno parte del suo corpo»[36].
A questo è ordinato il nutrimento eucaristico quotidiano[37]. Il peccato è perciò il male più grave che può capitare al cristiano appunto perché, allontanandolo dall’eucaristia, rischia di separarlo dal corpo di Cristo:
«Dobbiamo temere e pregare perché non accada per qualcuno che, dovendosi astenere dall’eucaristia, non venga separato da Cristo e si ritrovi lontano dalla salvezza… Perciò chiediamo che ci venga dato il nostro pane, cioè Cristo, ogni giorno affinché, rimanendo e vivendo in Cristo, non ci stacchiamo dalla santificazione che viene dal suo corpo»[38].
 
7. Preghiera di vita
Un’ultima domanda: Quando pregare? Per Cipriano non esistono dubbi a questo proposito. Occorre pregare sempre:
«Procura di essere assiduo alla preghiera e alla lettura: o sii tu a parlare con Dio o sia Dio a parlare con te insegnandoti i suoi comandamenti e disponendoti ad osservarli. Se sarà lui ad arricchirti, nessuno ti impoverirà: non vi sarà più indigenza per colui il cui petto sarà stato saziato una volta dal grano del cielo»[39].
Potrebbe essere una sintesi sulla preghiera e invece questo brano è la semplice esortazione di un vescovo. Il carattere dialogico della preghiera cristiana è evidente. Ancora più chiaro è il riferimento alla “lectio” come momento in cui Dio stesso parla al cuore del cristiano. La voce, la risposta, l’insegnamento di Dio, si fanno vivi e presenti attraverso la “lectio”. Attraverso di essa il “pectus” del cristiano è talmente saziato dal “grano del cielo” che ormai più nulla può mancargli. Si ha l’impressione di essere alle sorgenti di quella abitudine alla “lectio divina” che diverrà poi una costante dell’intera tradizione monastica sia d’oriente che d’occidente. Ma Cipriano ci dice anche altro: il legame fra il tempo della preghiera cristiana e il tempo nuovo inaugurato da Cristo.
La novità della venuta di Cristo dà la ragione della preghiera fatta nel tempo, ma nella misura in cui libera la preghiera stessa da ogni tipo di vincolo col tempo cronologico. L’evento-Cristo è infatti l’unica vera misura del tempo. Così la mattina si prega per celebrare la resurrezione del Signore e la sera si prega per implorarne l’avvento. L’intera giornata del cristiano è immersa nell’evento pasquale e il giorno o il sole di questo mondo terreno ritrovano il loro carattere di segni e figure del mondo celeste «perché è Cristo il vero sole e il giorno vero»[40]. Anzi, a ben riflettere – prosegue Cipriano –, per colui che ha scoperto in Cristo il vero sole e il giorno vero, non esiste più il problema di stabilire quali ore del giorno o della notte siano le più adatte alla preghiera.
Il cristiano non è legato più al ciclo cosmico di luce-tenebre, tenebre-luce. Egli abita costantemente nella luce, ed è figlio della luce, perché abita in Cristo unica e vera luce del mondo. La preghiera a questo punto non è più qualcosa che si fa, ma si identifica con l’essere: essere in Cristo, essere nella luce, essere nello Spirito e nella Verità. Divenire preghiera. È questa la conclusione di Cipriano. A questo lo ha condotto il «Padre nostro» e la sua esegesi.

DOMENICA 8 MAGGIO 2011 – III DI PASQUA

DOMENICA 8 MAGGIO 2011 – III DI PASQUA

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqA/PasqA3Page.htm

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 6, 1-17

L’Agnello apre il libro di Dio
Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora.
Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: «Vieni». Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada.
Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d’orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati».
Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.
Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce:
«Fino a quando, Sovrano,
tu che sei santo e verace,
non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue
sopra gli abitanti della terra?».
Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro.
Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?

Responsorio    Cfr. Ap 6, 9. 10. 11
R. Vidi sotto l’altare di Dio le anime di coloro che furono immolati. Gridarono a gran voce: Fino a quando non vendicherai il nostro sangue? * E fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro fratelli, alleluia.
V. Venne data a ciascuno di essi una veste candida.
R. E fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro fratelli, alleluia.

Seconda Lettura
Dalla «Prima Apologia e favore dei cristiani» di san Giustino, martire
(Cap. 66-67; PG 6, 427-431)

La celebrazione dell’Eucaristia
A nessun altro è lecito partecipare all’Eucaristia, se non a colui che crede essere vere le cose che insegniamo, e che sia stato purificato da quel lavacro istituito per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e poi viva così come Cristo ha insegnato.
Noi infatti crediamo che Gesù Cristo, nostro Salvatore, si è fatto uomo per l’intervento del Verbo di Dio. Si è fatto uomo di carne e sangue per la nostra salvezza. Così crediamo pure che quel cibo sul quale sono state rese grazie con le stesse parole pronunciate da lui, quel cibo che, trasformato, alimenta i nostri corpi e il nostro sangue, è la carne e il sangue di Gesù fatto uomo.
Gli apostoli nelle memorie da loro lasciate e chiamate vangeli, ci hanno tramandato che Gesù ha comandato così: Preso il pane e rese grazie, egli disse: «Fate questo in memoria di me. Questo è il mio corpo». E allo stesso modo, preso il calice e rese grazie, disse: «Questo è il mio sangue» e lo diede solamente a loro.
Da allora noi facciamo sempre memoria di questo fatto nelle nostre assemblee e chi di noi ha qualcosa, soccorre tutti quelli che sono nel bisogno, e stiamo sempre insieme. Per tutto ciò di cui ci nutriamo benediciamo il creatore dell’universo per mezzo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo.
E nel giorno, detto del Sole, si fà l’adunanza. Tutti coloro che abitano in città o in campagna convengono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti per quanto il tempo lo permette.
Poi, quando il lettore ha finito, colui che presiede rivolge parole di ammonimento e di esortazione che incitano a imitare gesta così belle.
Quindi tutti insieme ci alziamo ed eleviamo preghiere e, finito di pregare, viene recato pane, vino e acqua. Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con tutto il fervore e il popolo acclama: Amen! Infine a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi.
Alla fine coloro che hanno in abbondanza e lo vogliono, danno a loro piacimento quanto credono. Ciò che viene raccolto, è deposto presso colui che presiede ed egli soccorre gli orfani e le vedove e coloro che per malattia o per altra ragione sono nel bisogno, quindi anche coloro che sono in carcere e i pellegrini che arrivano da fuori. In una parola, si prende cura di tutti i bisognosi.
Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del Sole, sia perché questo è il primo giorno in cui Dio, volgendo in fuga le tenebre e il caos, creò il mondo, sia perché Gesù Cristo nostro Salvatore risuscitò dai morti nel medesimo giorno. Lo crocifissero infatti nel giorno precedente quello di Saturno e l’indomani di quel medesimo giorno, cioè nel giorno del Sole, essendo apparso ai suoi apostoli e ai discepoli, insegnò quelle cose che vi abbiamo trasmesso perché le prendiate in seria considerazione.

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