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Profezia e Bibbia (I)
sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 16-17 novembre 1985
La profezia è un fenomeno complesso, articolato e con diverse facce. Noi parleremo di tre sue manifestazioni qualificanti e complementari l’una all’altra. La prima manifestazione è la profezia nel popolo di Israele, durata secoli e secoli e che ha avuto esponenti di grande rilievo al punto che sono passati poi alla storia come i profeti per eccellenza. La seconda manifestazione, forse meno eclatante dal punto di vista esterno, ma certamente non meno importante, è la profezia della Chiesa, della comunità cristiana. Nell’Antico Testamento i protagonisti della profezia erano singoli individui, nel Nuovo Testamento sono le comunità cristiane, tutte. Terza manifestazione, altrettanto significativa delle altre due, è la profezia nella Chiesa, al suo interno. Dal punto di vista dei testi biblici a cui ci riferiremo, per la prima manifestazione abbiamo i libri profetici, di Israele, che poi sono stati fatti propri dalla comunità cristiana; per la seconda, la profezia della Chiesa, i testi di riferimento sono soprattutto quelli di Luca, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli; per la terza, la profezia nella Chiesa, presteremo attenzione alla prima lettera ai Corinzi di Paolo ai capp. 12-14.
1. La profezia nel popolo di Israele
La Bibbia parla di molti profeti e di alcuni, detti classici, ci trasmette la predicazione, la raccolta degli oracoli. Essi sono: nel secolo VIII Amos, Osea e Isaia, nel VII e VI Geremia, Ezechiele, che sono profeti del momento più drammatico che ha passato il regno di Giuda, cioè la presa di Gerusalemme, l’esilio, la perdita della terra e poi il Deuteroisaia, il cosiddetto profeta anonimo, la cui predicazione è stata messa nel libro di Isaia perché aveva delle affinità spirituali. Viene chiamato anche il profeta della consolazione perchè il nucleo
fondamentale della sua predicazione, riportata nei capp. 40-55, era una parola di consolazione agli esuli, depressi. La predicazione del grande Isaia si trova nei capp. 1-39. Poi ci sono i profeti del post-esilio tra cui il Tritoisaia, Aggeo, Zaccaria, Malachia ed altre figure minori su cui non ci soffermeremo.
una critica « progettatrice »
La profezia nella bocca e nella vita di questi sei protagonisti potrebbe essere intesa e interpretata come una radicale critica demolitrice per un aspetto e costruttrice per un altro. Queste sei figure che parlano in nome di Dio e che trasmettono al popolo la Parola, criticano l’esistente di questo popolo, l’acquisito, il pacificamente posseduto, criticano l’indiscusso e l’indiscutibile, le sicurezze, le certezze di fede e di morale, le schematizzazioni dei punti nodali della fede. La critica è rivolta ai detentori del potere, al re, ai sacerdoti, alla classe dominante, ma anche a tutto il popolo che vive con lo sguardo al passato, a ciò che di solido esso ha, ai grandi fatti salvifici del passato, come l’esodo. Questa critica è però anche finalizzata a far incamminare il popolo verso nuovi traguardi di fede, nuove acquisizioni, nuove avventure. La critica dunque è tesa a suscitare il distacco dal passato o dal presente per aprirsi al futuro, per essere disponibili al cambiamento e a vivere del nuovo, del sorprendente che è l’intervento futuro di Dio.
Come dice il testo straordinario del Deuteroisaia 43,18-19: « Non guardate più alle cose passate ma al nuovo che io, Jahvè, sto per fare ». Una critica dunque che mette in movimento verso la promessa nuova di Dio: il popolo di Dio non può ritenersi un popolo che è, che è già fatto, ma un popolo che si farà in rapporto al nuovo intervento di Dio, « i cieli nuovi e la terra nuova » di cui dirà il Tritoisaia. E’ una critica dunque progettatrice – nel senso letterale di progetto, proiezione in avanti – in quel futuro che è promesso da Dio. Essere credenti in questa parola profetica di Dio significa accettare l’esperienza di fede non come fruizione, godimento di ciò che si ha, di ciò che si è, ma come progettazione, dinamica. Questa è l’angolatura da cui noi consideriamo il fenomeno profetico in Israele.
Amos: contro l’ingiustizia e le false sicurezze
Cominciamo da Amos, profeta scrittore della prima metà del secolo VIII, quando Israele era diviso in due stati, lo stato del Nord con capitale Samaria e lo stato del Sud con capitale Gerusalemme.
Amos è un uomo del sud, un pecoraio e tagliatore di sicomori, che, chiamato da Dio, va nel regno del Nord a esercitare il suo ministero profetico, di critica molto radicale al punto che il sommo sacerdote del tempio di Betel e il re Geroboamo decidono di espellerlo come perturbatore della quiete pubblica. La critica di Amos è rivolta alla condizione sociale del popolo di Dio nello stato di Samaria, alla ingiustizia diffusa consistente nello sfruttamento degli indifesi, dei poveri, dei servi della gleba, da parte di alcuni accaparratori potenti sostenuti dalla corona, dalla corte e dal sommo sacerdote. Ciò che però distingue il profeta da un operatore sociale o da un agitatore politico o un rivoluzionario è che la denuncia è fatta in nome del Dio della alleanza, che non può tollerare l’ingiustizia. Amos in questo manifesta la funzione rivendicatrice della profezia: il popolo è infedele al suo Dio in quanto vive nell’ingiustizia dei rapporti sociali (2, 6-7; 4, 1ss.; 5, 7-13; 8,4-8). In Israele identità tra il popolo di Dio e la società civile perchè siamo in una concezione teocratica.
Un secondo aspetto della critica di Amos riguarda le false sicurezze che il popolo di Dio in quanto tale coltivava. Esse erano di duplice ordine, innanzitutto quella di ritenersi beneficiario di una elezione perpetua. La falsa sicurezza consisteva nel dedurre dalla coscienza di essere il popolo eletto, attraverso una storia di salvezza, l’idea di essere al sicuro, al riparo da ogni possibilità del fallimento, o, detto in termini più teologici, al riparo dalla possibilità di un giudizio di condanna: « Dio ci ha scelto, siamo suoi, Dio è con noi contro i nostri nemici ». Nell’Antico Testamento vi sono tante testimonianze di questa equiparazione: i nostri nemici sono i nemici di Dio e i nemici di Dio sono i nostri nemici. La falsa sicurezza è erigere questa coscienza dell’elezione come usbergo sotto il quale il popolo si sente sicuro di fronte alla minaccia di un fallimento, della rovina, della perdizione. Amos denuncia questo preteso privilegio e ne mostra la falsità dicendo: l’elezione e la storia salvifica, che sono due realtà qualificanti, non varranno a salvare il popolo di Dio di fronte al giudizio.
Un fatto assolutamente nuovo e sorprendente è questo: il popolo di Dio è soggetto al giudizio, Dio giudica il suo popolo e lo condanna. Dio era ritenuto giudice, ma solo nei confronti degli altri popoli, a favore di Israele. Accade la cosa più inaspettata quando i profeti dicono: Dio si eleva a giudice, contro di voi, popolo suo (Amos 9, 7-8). Dall’altra parte il popolo di Israele aspettava con ansia e con gioia il giorno di Jahvè, della collera di Dio contro gli altri popoli e la salvezza del popolo di Israele. Ma Amos dice (5, 18-20): « Aspettate il giorno di Dio non come giorno di luce, ma come giorno di tenebra ». Anche questo era contro i dogmi più sacri del tempo, che il giorno di Jahvè si rivoltasse contro il suo popolo. Questa è la novità assoluta che porta il profetismo all’interno del popolo di Israele: il popolo di Dio è soggetto a un processo di verità, di autenticità, non è « ipso facto » nella verità, ma è soggetto alla verifica storica e passibile di condanna eterna. Le applicazioni alla Chiesa sono perfettamente legittime perchè la Chiesa ritiene di essere il popolo di Dio dei tempi nuovi.
Osea: contro la deriva naturalistica e deresponsabilizzante
Osea è un profeta del regno del Nord, a metà del secolo VIII e anch’egli esercita una critica radicale rivolta soprattutto alla baalizzazione di Jahvè. Jahvè, che si era rivelato a Israele come il Dio della storia, a contatto con la religione naturalistica dei cananei, una religione fondata sul culto delle forze della fecondità e della fertilità, era stato progressivamente inteso e vissuto come il Dio della fertilità cioè un Dio naturalistico, donatore delle energie della fertilità del campo e della fecondità degli animali e degli uomini e quindi un Dio immerso nel ritmo della natura come il dio Baal. Il Dio della storia, cioè del divenire e del cambiamento delle situazioni umane, era stato trasformato in un Dio naturalistico, un Dio dunque che giustificava un atteggiamento deresponsabilizzante sul piano storico del popolo. Nella visione religiosa naturalistica l’importante era, per le persone, entrare attraverso ai riti, anche orgiastici, nei ritmi della natura, nel grembo della natura. La natura è il regno della necessità mentre la storia è il regno della libertà, delle scelte, delle decisioni. Nella natura non si decide, ma tutto è determinato e necessario. La religione jahvistica, colorata in senso baalistico, era divenuta una religione deresponsabilizzante.
Abbiamo in Osea, soprattutto nei primi tre capitoli, la denuncia della baalizzazione di Jahvè e della adorazione degli idoli, intendendo per idoli le immagini di culti naturalistici, i famosi vitelli d’oro che compaiono anche nel racconto dell’esodo come retroproiezione della condanna che i profeti hanno lanciato contro il loro innalzamento nei templi quale rappresentazione di un Jahvè fonte di energie naturalistiche.
Osea denuncia una religione intesa come utero materno: il bambino nell’utero non sceglie, non decide, vive l’estasi delle acque dolci e della protezione materna. E’ una denuncia della religione come rifugio, lontano dai pericoli e dalla drammaticità della storia, delle scelte, delle decisioni.
In secondo luogo anche Osea annuncia il giudizio di condanna di Jahvè su questo popolo e la denuncia è così radicale da essere rappresentata in termini di ripudio attraverso l’immagine dello sposo che, tradito dalla sposa Israele, le dà il libello del ripudio (Osea 1,9).
Questo popolo si era rifugiato in una religione che adorava un Jahvè naturalistico per cui non è sposa una volta per sempre, ma può ricevere la sentenza di ripudio, e diventa « Lo’ ‘ami », cioè « non-mio-popolo ».
Il legame tra il popolo di Dio e Dio è dissolubile per infedeltà del popolo. Per cui i profeti pongono la verità del popolo di Dio sotto il segno della fedeltà, è la fedeltà a Dio che fa sì che un gruppo è popolo di Dio, è l’ubbidienza al Dio storico. Osea 6,6: il patto è reso duraturo dalla lealtà del partner, e non dai sacrifici, dalle espressioni cultuali, dagli olocausti. Al di fuori della lealtà c’è il ripudio.
Dall’altra parte questa critica violenta si coniuga in Osea con una apertura verso il futuro: verrà tempo in cui io – dice il Signore – sedurrò il mio popolo, io parlerò al cuore di questo popolo e allora lui sarà fedele, leale e per sempre. In 2, 14 ss., la possibilità della salvezza risiede nell’intervento prodigioso di Dio: « Io parlerò al cuore, ricondurrò la mia sposa nel deserto – lontano dai culti baalistici – e sedurrò di nuovo nell’amore questa sposa che ho ripudiato ».
E’un’altra caratteristica del profeta quella di essere radicale nella denuncia e altrettanto radicale nella promessa tanto è vero che Jahvè in quel giorno dirà a Israele: « Tu di nuovo popolo mio ». Il nuovo, il futuro verso cui i profeti vogliono puntare lo sguardo del popolo è questo intervento prodigioso: la salvezza sta davanti. L’esodo non può più salvare questo popolo, ma ci vuole una iniziativa di Dio perché ridiventi, e per sempre, popolo suo.
Isaia: contro un culto scisso dalla vita e una visione autosufficiente
Il grande Isaia è profeta del regno del Sud, personaggio aristocratico che vive tra la seconda metà del sec. VIII e l’inizio del sec. VII a Gerusalemme.
Un aspetto del messaggio di Isaia è la critica al culto disincarnato, dissociato dalla vita sociale, profana. Qualche volta si ritiene che la denuncia di Isaia, come quella di Amos e di altri, sia contro un culto esteriore, ma non è così. I profeti non vogliono denunciare un culto in cui il cuore dell’uomo non ha partecipazione, rimane in superficie, ma la critica dei profeti è contro un culto anche intensamente vissuto, contro una liturgia in cui magari le persone ci mettono tutta l’anima e la partecipazione è intensa, ma dissociata dal vivere profano. La contrapposizione nei profeti non è tra interno ed esterno dell’uomo, ma è tra area sacra, cultuale, sacramentale, festiva e area profana, feriale dell’uomo. La denuncia in Isaia 1, 10ss. non è contro un culto formalistico, ma contro un culto scismatico, scisso dalla fedeltà storica a Dio nella esperienza quotidiana, sul piano economico, sociale, politico, familiare.
In secondo luogo la critica di Isaia è verso la politica di alleanze, di rafforzamento, di potenza e di militarizzazione dello stato del regno del Sud. Da questo punto di vista la critica è rivolta soprattutto al re, alla classe dirigente che vuole acquisire forza politica come via alla salvezza, come motivo di autosufficienza. Acaz era un re molto pio, ma predicava una politica di sicurezza basata sulla forza militare e sulle alleanze politiche in modo da sfuggire alla grande potenza assira. Isaia interviene a denunciare questa situazione come espressione di sfiducia in Jahvè: la salvezza viene solo da Jahvè. Questa denuncia la troviamo soprattutto in Isaia 7; 22, 8ss.; 30, 1-7; 31, 1-3. « Voi vi appoggiate a un bastone, il bastone cadrà e voi insieme a lui ». Dal punto di vista positivo l’appello è ad una fede assoluta, ad appoggiarsi su Jahvè. La fede – si tratta della prima riflessione teologica sulla fede nella Bibbia – è questo appoggiarsi su Jahvè per non vacillare.
Geremia: contro false sicurezze in attesa della legge scritta nei cuori
Geremia, profeta nel regno del Sud, vive in un tempo in cui la crisi volge verso l’epilogo drammatico della presa di Gerusalemme, della distruzione, della perdita della terra e dell’esilio del popolo. Geremia vive con un pathos straordinario la vicenda del popolo che tradisce Dio. Il profeta critica la sicurezza feticistica che il popolo mette nelle sue istituzioni sacre per eccellenza, come il tempio, luogo della presenza di Dio, luogo intangibile. Quando Geremia chiamava i gerosolimitani alla conversione, alla fedeltà, alla lealtà per scampare alla catastrofe rappresentata dalla minacciosa potenza babilonese, i gerosolimitani rispondevano che non avevano bisogno di cambiare vita perché Gerusalemme è protetta grazie al tempio in cui Dio è presente. Geremia invita gli abitanti di Gerusalemme a fare un pellegrinaggio al santuario di Betel al Nord per vedere che cosa è rimasto del santuario di Jahvè. Simile sarà la sorte del santuario di Gerusalemme, che diverrà un cumulo di rovine.
Il popolo di Dio si sente sicuro nel riporre la propria fiducia sulle istituzioni sacre, come il tempio, la terra, il sacerdozio, ma si tratta di una falsa sicurezza, dato che anche la istituzione più sacra non garantisce la salvezza.
Un secondo aspetto che caratterizza la predicazione profetica di Geremia è l’accusa di baalizzazione di Jahvè. Geremia nel cedimento ai culti naturalistici vede la dimostrazione di come l’uomo sia ormai completamente spaesato. In altre parole l’uomo non ha perduto solo la fedeltà, ma si è perduto, non è più un soggetto capace, non vale neppure la pena di chiamarlo alla fedeltà perchè non sa più decidere, è ormai un relitto, un oggetto. Gli idoli sono penetrati nel suo cuore e lo dominano come un superego. In 5,23 Geremia parla del cuore ribelle del popolo, in 9,25 di « cuore incirconciso »: cioè dell’impotenza dell’uomo ad accogliere la parola di Dio come parola provocatrice di una decisione alternativa. In 10,23 dice che l’uomo non ha più la capacità di dirigere i suoi passi, è un cieco sulle strade del mondo. Geremia sostiene che la sposa Israele ripudiata, impossibilitata dalla legge a riconciliarsi, sarà ripresa da Dio, dal suo intervento miracoloso e prodigioso. Jahvè cambierà la natura del popolo suo. C’è l’annuncio di un prodigio, di un nuovo patto, di una nuova alleanza. A differenza dell’alleanza del Sinai la nuova legge sarà scritta nei cuori. E’ la possibilità nuova fatta nascere là dove c’è l’impotenza, come prodigio di grazia, una possibilità contro ogni possibilità umana. In 31, 31-34, si parla non di una legge aggiornata, ma di una legge che contiene un dinamismo nuovo. E’ l’uomo che è fatto nuovo: Dio si crea un partner nuovo, fedele.
Ezechiele: dal cuore di pietra al cuore di carne
Ezechiele è in parte contemporaneo a Geremia, vive in esilio ormai con la prima deportazione del 597 e un aspetto della sua critica è rivolta al collettivismo morale. Nel popolo circolava questo proverbio: « I padri hanno mangiato l’uva acerba e noi ne abbiamo i denti legati », cioè la responsabilità del male, della tragedia, delle catastrofi è fatta risalire agli antenati. Il collettivismo morale era un tentativo da parte della generazione israelitica di deresponabilizzare i soggetti. La colpa, la causa dell’esilio è attribuibile ai nostri padri, mentre noi siamo le vittime. E’ il passato che pesa su di noi. E’ un modo per sfuggire alla responsabilità personale, individuale, nascondendosi dentro una solidarietà male intesa e affidando il proprio destino alla collettività invece che alle proprie decisioni. Ezechiele nel cap. 18 difende l’individualismo morale e condanna il collettivismo: ciascuno avrà la vita e la morte in base a ciò che si merita.
Ezechiele inoltre critica i pastori che sfruttano le pecore (cap. 34). Il popolo è un gregge portato alla rovina dai pastori, cioè dalle guide religiose e politiche. Anche la prospettiva di Ezechiele è quella di Jahvè che si costituirà pastore e che susciterà un nuovo pastore. E’ l’attesa messianica.
Un terzo aspetto della denuncia di Ezechiele riguarda la situazione ormai compromessa umanamente (cap. 37). Israele nell’esilio è un ammasso di ossa aride nel deserto e il profeta si domanda come sfida: « Potranno rivivere queste ossa? » Per Ezechiele sarà lo Spirito di Dio a compiere il prodigio della resurrezione, la vita che scaturisce dalla morte. In questo modo le attese del popolo ormai rassegnato, vinto, adagiato sono proiettate in avanti. In 36, 2-28 Ezechiele parla di Dio che toglie il cuore di pietra, insensibile, impermeabile, sclerotizzato e mette al suo posto un cuore di carne, sensibile, che avverte le esigenze e può rispondere a Dio.
Deuteroisaia e la speranza
Il Deuteroisaia, che vive e opera verso la fine dell’esilio, è un anonimo dalla spiritualità vicina al grande Isaia. Egli punta la sua critica contro il disfattismo e la rassegnazione degli esuli. Crea speranze, predica una parola consolatrice, di conforto che non si limita a lenire il dolore all’esterno ma che, sostenuta dalla promessa del prodigio di Dio, dice: » »non guardate più in dietro alle cose passate » ma « avanti alle cose nuove che sto per fare » (43, 18-19). E’ la liberazione prodigiosa, il ritorno dall’esilio.