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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE

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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE

(13 maggio 2012: Sesta di Pasqua)

At 26,1-23; 1 Cor 15,3-11; Gv 15,26-16,4

Per comprendere il brano degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci propone in questa domenica come prima lettura bisognerebbe fare qualche passo indietro.
Paolo viene arrestato dal tribuno romano per proteggerlo da una sommossa popolare scatenata dai giudei. Prima o poi doveva succedere: l’apostolo ogni giorno predicava una Parola, quella di Cristo, che stava veramente provocando le ire dei capi. Viene condotto nella fortezza Antonia perché possa chiarire le vere motivazioni della sommossa. Prima però chiede di poter parlare al popolo per difendersi dalle accuse. Pronuncia così il primo dei tre discorsi in sua difesa. Il secondo lo pronuncerà davanti al procuratore Felice e il terzo davanti al re Agrippa e al procuratore Festo.
Quali sono le accuse che gli sono state rivolte? Sovvertire il popolo, violare la legge e aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario, accuse che potevano costare la morte. Anzitutto: sovvertire il popolo. Come vedete, siamo sempre alla solita accusa, quella di sovvertire l’ordine pubblico, un’accusa che fa sempre comodo e che può interessare sia la religione che lo stato. La religione può anche accontentarsi di difendere l’ordine diciamo dottrinale (l’Inquisizione insegna), ma allo Stato interessa in modo particolare l’ordine pubblico. Comunque, anche le eresie dottrinali fanno paura allo stato, in quanto creano un certo scompiglio tra la gente. Se poi le cosiddette eresie mettono in discussione lo stesso sistema statale, allora lo stato è sempre pronto a dare una mano alla religione per sradicarle. Seconda accusa: violare la legge, in particolare quella del sabato. D’altronde l’ordine pubblico non è forse fondato sulla legge? È sempre pericoloso parlare di Coscienza, perché la Coscienza mette in crisi ogni regime. Ogni regime è fondato sull’ordine, sull’obbedienza, sul rispetto del sistema: non sopporta gli spiriti liberi che agiscono in nome della Coscienza. Terza accusa: aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario.
Appena Paolo, sulla spianata del tempio, cerca di spiegare alla folla la sua missione tra i pagani, su un ordine ben preciso di Cristo, la folla non lo ascolta più, rompe il silenzio e, tra urla e gesti isterici, reclama la morte dell’apostolo. A irritarla non è il fatto che Paolo apra le porte ai gentili, ma che insegni loro, su ordine di Dio, che non sono tenuti a osservare la legge di Mosè. Ecco dove sta veramente il vizio di ogni religione, diciamo il suo più grosso peccato: pretendere che gli estranei, quelli di un’altra fede religiosa, si convertano caricandosi di tutti i pesi della propria religione. Il punto di riferimento è sempre, ad ogni costo, la religione. Qui bisognerebbe una buona volta chiarire il termine “evangelizzazione”. Già la parola dice che si tratta del Vangelo, ovvero della Buona Novella di Cristo. E che cos’è la Buona Novella di Cristo? Perché identificarla con la dottrina della Chiesa, che, in quanto struttura religiosa, sarà sempre tentata di far propria la stessa verità? Il Vangelo precede ogni struttura, precede la stessa Chiesa, la quale, se ha ricevuto una missione da Cristo, non è senz’altro quella di fare proselitismo, di andare alla ricerca di nuovi convertiti. Anche qui vedete: se capissimo che cos’è umanesimo nella sua pienezza, non confonderemmo il Vangelo con la Chiesa struttura.
Noi cristiani siamo chiamati a portare il messaggio rivoluzionario di Cristo senza per questo battezzare i pagani legandoli ad una struttura che di per sé, come struttura, non potrà mai esaurire il Vangelo di Cristo, che va ben oltre. Perché abbiamo dimenticato le dure parole di Cristo con cui si è scagliato contro i farisei e i dottori della Legge? «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Il tribuno, di fronte alle ire della folla, fa portare Paolo all’interno della fortezza. E qui lo sottopone ad un interrogatorio ricorrendo anche alla forza: lo fa flagellare. La flagellazione era una procedura permessa contro schiavi e stranieri, ma severamente proibita dalla legge Porcia nei confronti di un condannato munito di cittadinanza romana. E è a questa legge che Paolo si appella, avvertendo il centurione di trovarsi di fronte a “un cittadino romano”. Non solo: egli dichiara che neppure come castigo accetterà la flagellazione, non essendo stata ancora pronunciata una sentenza giudiziaria. Il tribuno chiede a Paolo spiegazioni, e l’apostolo conferma di essere un cittadino romano, non per aver comperato tale diritto, ma per diritto di nascita. Come vedete, l’apostolo sapeva far valere i propri diritti. Ma qui occorre chiarire una cosa. Perché Paolo si è appellato al suo diritto di cittadino romano? Se doveva essere condannato, solo il tribunale di Cesare a Roma poteva emettere un verdetto, e questo permetterà all’apostolo di recarsi nella capitale per divulgare anche là il Vangelo. Questo era il suo sogno. E il sogno si avvererà. Ma prima l’apostolo dovrà subire altre umiliazioni e minacce.
Il tribuno Lisia fa condurre Paolo dalla fortezza Antonia nell’aula del sinedrio con l’intento di capire quali siano le vere accuse che i capi ebrei gli hanno rivolto. Paolo, tra l’altro anche scaltro, riesce a dividere tra di loro gli stessi componenti del sinedrio, in parte farisei e in parte sadducei. Paolo affermando la sua fede nella risurrezione, si attira le simpatie dei farisei e le antipatie dei sadducei. Ne nasce un tumulto. Il tribuno è costretto a intervenire per proteggere l’apostolo, e lo riporta in caserma.
E non è finita. Una quarantina di giudei fanatici ordisce un’altra congiura ai danni di Paolo. Si impegnano con giuramento a ucciderlo. Giuramento cosiddetto esecratorio. Per farlo uscire dalla fortezza Antonia, organizzano un secondo interrogatorio, sempre nella sala delle adunanze del sinedrio, dato che il primo è degenerato in baruffa. Pensavano: durante il tragitto di trasferimento non sarebbe stato difficile sopprimerlo. Ma la congiura viene sventata da un nipote di Paolo, il quale avverte il tribuno, che, per garantire più sicurezza all’apostolo, lo fa trasferire sotto scorta a Cesarea, presso il pretorio di Erode: era un palazzo-fortezza fatto costruire da Erode il Grande, dove ora risiedevano e amministravano la giustizia i procuratori romani. Il sinedrio di Gerusalemme non molla, e invia a Cesarea una delegazione che, davanti al procuratore Felice, rinnova le accuse a Paolo, e Paolo di nuovo si difende. Le solite accuse: è un perturbatore della quiete pubblica, è uno dei capi della setta dei Nazirei (così era visto il cristianesimo, una setta!), infine un profanatore del Tempio. Il procuratore non crede alle accuse dei membri del Sinedrio o, meglio, a lui non interessano le questioni religiose. Però tiene Paolo ancora in carcere, e per ben per due anni. La politica prevale su ogni giustizia. Il procuratore doveva tenere buoni gli ebrei, che non erano molto contenti del suo governo.
Subentra a Felice un nuovo governatore, di nome Festo, il quale, a pochi giorni dal suo insediamento, si reca a Gerusalemme per farvi la prima visita. Subito i capi giudei colgono l’occasione per rinnovare l’accusa contro Paolo, e gli chiedono di condurre Paolo a Gerusalemme per essere di nuovo giudicato dal tribunale ebraico. Festo, dopo altri tentativi, fa la proposta a Paolo di salire a Gerusalemme. A questo punto Paolo, come era suo diritto, si appella al tribunale di Roma. Festo informa il Consiglio, e il Consiglio approva. Paolo sarà dunque inviato a Roma. Non è finita. La storia è davvero appassionante. Nel frattempo giungono a Cesarea il re Agrippa e la sorella Berenice. Il procuratore Festo espone al re il “caso di Paolo”. Il re Agrippa esprime il vivo desiderio di vedere l’apostolo. Il giorno seguente Agrippa e la sorella Berenice realizzano il loro desiderio: poter ascoltare Paolo. La cosa interessante, diciamo impressionante è il contesto in cui è avvenuto l’incontro. Non in via privata, ma ufficiale. L’incontro si svolge in una grande sala del palazzo di Erode, presenti i cinque comandanti di ognuna delle coorti di stanza a Cesarea, e gli uomini più rappresentativi della città. Davanti a loro Paolo fa la sua terza autodifesa. È il brano di oggi.
Vorrei ora fare qualche brevissima riflessione. Ciò che mi ha colpito dell’apostolo Paolo è la sua serenità interiore. Una serenità proveniente certamente dalle sue profonde convinzioni, ma in particolare dalla forza della Parola che egli annunciava. Una Parola-Verità, ma non basta: una Parola che salva. Una Verità che resta astratta a che serve? A dare forza è la Verità che salva, che libera, che rende umani. C’è un’altra riflessione. Sarebbe interessante soffermarsi un po’ sui vari personaggi “politici” che entrano ed escono dal racconto degli Atti degli Apostoli. Più che descrivere le loro nefandezze (ne sappiamo qualcosa di più grazie agli storici del tempo) Luca sembra che ci dica: Vedete questi “poveri” potenti? Nonostante la loro miseria morale, non hanno potuto fare a meno di riconoscere l’innocenza di Paolo! I potenti “corrotti” non hanno trovato colpe in Paolo, mentre gli ebrei “puri” (così si ritenevano!) hanno inventato accuse su accuse pur di uccidere l’apostolo. Sapete quel è il nemico che la verità e la giustizia temono maggiormente? Più che la depravazione morale è l’orgoglio, l’ostinazione mentale, l’accecamento del cuore. Ultimamente ho avuto una forte sensazione. I potenti di una volta, pur corrotti – non dimentichiamo comunque i tempi – sembravano particolarmente attratti dalla santità dei giusti. Se leggi la storia, ne incontrerai di re e di regine che hanno sentito il bisogno di consigliarsi con persone di diversa estrazione sociale, digiune di politica, aliene da ogni aspirazione connessa col potere, ma dotate di un grande dono, quello della saggezza e della profezia. Anche i buffoni di corte avevano il compito di dire la verità al sovrano. A me non sembra che oggi sia così. C’era uno in Italia che ultimamente si era circondato solo di galoppini, di gente pagata per dire ciò che gli faceva comodo, gente pronta a riverirlo in ogni suo capriccio, di prostitute e di avvocati disposti a falsificare la verità. La santità è sparita dai nostri palazzi politici. Anzi, i “puri” si sono contaminati appena si sono avvicinati al potere. I sovrani un tempo erano curiosi di conoscere i profeti, li ascoltavano, ne rimanevano anche affascinati, anche se poi gli interessi del potere avevano sempre il sopravvento. Oggi nei palazzi di potere è sparita perfino la saggezza, che è lasciata a quei pochi pazzi che vorrebbero un mondo diverso.

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

http://www.ortodoxia.it/La%20Trasfigurazione.htm

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

La Sacra Scrittura ci dice che l’uomo non può vedere Dio e continuare a vivere. Sappiamo già con quale amore e con quali precauzioni Dio si è manifestato a Mosè e ad Elia per non annientarli. Quando Dio passa davanti a Mosè nella spaccatura della roccia, lo protegge con la sua mano. Quando Elia se ne sta davanti all’apertura della roccia, Dio non viene nel vento fortissimo per travolgere, né nel terremoto per distruggere, né nel fuoco per bruciare, bensì nel lieve sussurro, ed Elia è salvo.
Dio ci prepara e ci insegna ad incontrarlo quando il suo Figlio si è incarnato, si è fatto Figlio dell’uomo. Egli non si è mostrato nella sua Gloria, perché gli uomini non sarebbero stati capaci di sopportarlo. Si è fatto simile a loro, a noi, ha assunto la condizione umana, la condizione di schiavo sino alle estreme conseguenze. Niente lasciava trasparire la divinità di Gesù. Nella sua vita ci sono stati soltanto due momenti nei quali si è manifestato come Dio: il momento del Battesimo ed il momento della Trasfigurazione.
Il Battesimo nel Giordano ha rivelato che Gesù è il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità. Giovanni Battista l’ha visto e ne ha reso testimonianza. Alla Trasfigurazione, sul monte Tabor, i tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, hanno visto Gesù risplendere nella sua Gloria divina. Accanto a Lui c’erano due grandi testimoni che avevano visto questa stessa Gloria durante l’Antica Alleanza. Nel giorno della Trasfigurazione essi compaiono per attestare che si tratta di quella stessa Luce, di quello stesso Dio.
Mosè ed Elia stanno lassù, sul monte, come ce lo rappresenta l’icona della festa, e riescono a sostenere la Luce di Dio che mai tramonta, perché durante la vita terrena sono stati, insieme ad Isaia, le uniche persone a cui Dio, dopo la caduta, abbia concesso di vederlo. Elia è sceso dal cielo sul monte Tabor per contemplare Dio fattosi uomo, mentre Mosè, riunitosi con la morte ai suoi antenati, rappresenta coloro che aspettano la venuta di Cristo negli Inferi. Mosè personifica la legge. Con lui Elia viene in nome dei profeti a rendere testimonianza alla divinità di Cristo che è il compimento della Legge e dei Profeti. Al contrario, i tre apostoli riversi per terra fanno parte dell’umanità ancora viva. Nonostante il loro sbigottimento, alla vista del Cristo glorioso si sentono colmi di gioia e vorrebbero fermare questo istante, ma questo non era possibile perché era troppo presto e non erano ancora pronti per l’eternità. Dovevano passare con Cristo attraverso la morte per rivederlo glorioso dopo la Risurrezione.
L’ultimo versetto del racconto evangelico parla di una nuvola luminosa che avvolge gli apostoli, e dalla quale essi sentono una voce proclamare: “Questo è il Figlio mio, che io amo. Ascoltatelo!”. E’ la voce del Padre, la voce che aveva sentito S. Giovanni Battista al momento del battesimo di Gesù nel Giordano. La nuvola luminosa è lo Spirito Santo che avvolge e protegge gli apostoli, perché senza la presenza e l’illuminazione dello Spirito Santo l’uomo non può contemplare la Gloria di Dio. La trasfigurazione è una Teofania come il Battesimo di Cristo. Come San Giovanni anche gli apostoli hanno avuto la rivelazione dell’unico Dio in tre persone.
Il significato generale di questa sublime festa è riassunta in un breve versetto, tratto dall’esperinòs: “In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò”. La semplicità di queste poche parole, come quelle del racconto evangelico, hanno una profondità straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una prefigurazione. Questi due elementi appaiono con altrettanta evidenza e forza anche a Pasqua. La Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo trasferisce l’esistenza umana nella dimensione gloriosa, mostrando ai tre apostoli vivi dinanzi ai due profeti defunti l’attualità illuminata del passato e dell’avvenire. La Trasfigurazione rivela così il senso intimo del cristianesimo: Il Dio-uomo mostra loro l’uomo divinizzato.

padre Atanasio Marcacci

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850) SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

http://www.disf.org/Documentazione/87.asp  

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850)    SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

2955. La cosa è semplicissima. Il Nuovo Testamento è facilissimo da capire. Ma noi siamo dei bricconi matricolati e fingiamo di non capire, perché sappiamo che se lo capissimo sui serio, dovremmo anche subito metterlo in atto. Ma per rifarci un po’ con il Nuovo Testamento — perché esso non se l’abbia a male e non ci accusi di malafede! — ecco che lo lusinghiamo e andiamo raccontando che è tanto meravigliosamente profondo, tanto inscrutabilmente sublime ecc.: press’a poco come quando un bambino fa finta di non capire gli ordini che riceve, e poi ha la furberia di lusingare papà. Dunque noi altri uomini facciamo finta di non capire il Nuovo Testamento: non vogliamo capirlo. Ecco il compito della scienza cristiana. La scienza cristiana è l’invenzione enorme dell’umanità per difendersi contro il Nuovo Testamento, per assicurarsi di poter continuare ad essere cristiani, senza però che il Nuovo Testamento ci venga troppo vicino. La scienza cristiana è stata inventata allo scopo d’interpretare, chiarire, illuminare meglio ecc. ecc. il Nuovo Testamento. Grazie tante! Già, noi uomini siamo dei furfanti matricolati — e Nostro Signore è l’ingenuo; quell’ ingenuo però che non si lascia menare per il naso! Prendi qualsiasi parola del Nuovo Testamento: dimentica tutto il resto e ingègnati a vivere in conformità… Ohibò, si dirà, ma questo sarebbe un far arenare nello stesso momento tutta la mia vita temporale e terrestre… Che fare allora? Oh, scienza impagabile: che sarebbe di noi, poveri uomini, se tu non ci fossi? “è orrendo cadere nelle mani del Dio vivente” [Eb 10,31] — ma è già orrendo star soli con il Nuovo Testamento. Non mi faccio migliore di quel che sono; io confesso (eppure potrebbe darsi che qui da noi io fossi uno dei più coraggiosi) che non ho osato ancora di starmene assolutamente solo con il Nuovo Testamento. Stare solo con esso, significa come se fossi solo in tutto il mondo, e come se Dio mi stesse seduto accanto e mi dicesse: “Vuoi tu avere la compiacenza di osservare ciò che vi sta scritto e riflettere che devi vivere in conformità?”. Solo con esso! … cioè come se io fossi solo in tutto il mondo e come se Cristo stesse in mia compagnia per impedire di svignarmela, dimenticando che quanto sta scritto si deve anche fare, come mostra l’esempio di Cristo. Oh, ma quanti son quelli che in 1800 anni di Cristianesimo hanno usato stare soli con il Nuovo Testamento? A quali tremende conseguenze non potrebbe portarmi questo ribelle e tiranno libro, se si deve stare soli con esso a questo modo. Come la situazione cambia invece completamente, se prendo in mano un libro di concordanze, un dizionario, un paio di commenti, tre traduzioni: il tutto per capire questa cosa profonda, meravigliosamente bella, quest’altezza inaccessibile! “Perché (lo dico candidamente!) basta che io ‘capisca’ il Nuovo Testamento: quanto al farlo… ci penserò poi e saprò ben cavarmela!”. In verità, che fortuna e che consolazione unica, che sia tanto difficile comprendere il Nuovo Testamento! È la causa dell’umanità che io difendo quando dico: “stiamo uniti, impegniamoci per la cosa più sacra e manteniamo questa promessa di nulla risparmiare, non fatiche, né veglie, per rendere il Nuovo Testamento sempre più difficile da comprendere. Se per spiegare e interpretare la S. Scrittura non bastassero le scienze inventate finora, inventiamone delle altre!” Io apro il Nuovo Testamento e leggo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quel che hai e dàllo ai poveri e seguimi” [Mt 19,21]. Gran Dio! Tutti i capitalisti, tutti i funzionari, anche quelli in pensione, tutta l’umanità, eccettuati i mendicanti: tutti saremmo perduti, se qui non ci fosse la scienza. La scienza! Questa parola ha un suono magnifico. Onore a chiunque consacra le sue forze a servizio della scienza! Lodato sia chiunque contribuisce a rafforzare la considerazione della scienza fra gli uomini! La scienza che trattiene il Nuovo Testamento, questo libro – che la scienza afferma “ispirato”; cioè quest’impiastro di libro, che in quattro e quattr’otto ci butterebbe tutti a terra se io si sciogliesse, cioè se la scienza non lo trattenesse! Invano il Nuovo Testamento fa sentire la sua voce, che grida al cielo più alta del sangue di Abele [Eb 12,24], invano comanda con autorità, invano ammonisce, e supplica: noi non lo sentiamo, cioè sentiamo questa voce soltanto attraverso la scienza. Come uno straniero che difende davanti a una Maestà Reale il suo diritto nella sua lingua materna, quando la passione lo spinge a dire la parola audace, l’interprete non osa tradurla al re e vi sostituisce qualcos’altro: così tuona il Nuovo Testamento attraverso la scienza. Come quel grido dei suppliziati nel toro di Falaride aveva il suono di soave musica agli orecchi del tiranno, così l’autorità divina del Nuovo Testamento attraverso la scienza è un lieve tintinnare di sonagli o come un nulla [1Cor 13,1 ss.]. Attraverso la scienza; … sì, perché noi uomini siamo astuti. Come si rinchiude il pazzo perché non abbia a disturbare la gente, come il tiranno allontana l’uomo franco perché non si possa sentire la sua voce, così noi abbiamo rinchiuso il Nuovo Testamento con la scienza. Invano grida, s’arrovella, strepita e gesticola: non serve, noi non lo intendiamo che attraverso la scienza; e per metterci del tutto al sicuro diciamo ch’è precisamente essa ad aiutarci a capirlo meglio e così potremo udirne la voce… Oh nessun pazzo, nessun prigioniero politico è stato mai rinchiuso così! Perché nessuno nega che costoro siano rinchiusi; ma nei riguardi del Nuovo Testamento la cautela è ancora maggiore; lo si rinchiude, ma si dice che si fa il contrario, che si fa di tutto perché possa avere il potere e il dominio. Tuttavia, e questo è intuitivo, nessun pazzo, nessun prigioniero politico sarebbe per noi tanto pericoloso come il Nuovo Testamento se fosse lasciato a piede libero. Veramente noi protestanti facciamo molto perché possibilmente ciascuno abbia il Nuovo Testamento. Ma cosa anche non facciamo per inculcare a tutti che il Nuovo Testamento non sia capito che attraverso la scienza? Voler capire il Nuovo Testamento, cercare di considerare subito ciò che vi si legge come un comando, voler agire subito in conformità: che sbaglio! No, il Nuovo Testamento è una dottrina, ed è necessario il rincalzo della scienza per comprenderlo! Ecco, si tratta di questo, e quel po’ ch’io ho creduto di poter fare, è presto detto. Ho voluto spingere gli uomini a fare ciascuno questa confessione: per parte mia trovo che il Nuovo Testamento è facilissimo da capire, ma finora quando si tratta di dover fare alla lettera secondo quel che non è difficile capire, ho trovato in me stesso difficoltà enormi. Avrei forse potuto prendere un’altra strada, cercar d’inventare una nuova scienza: ma mi soddisfa di aver fatto questa confessione.   Søren Kierkegaard, Diario , a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1981 vol. 7, pp. 184-187 [X3 A 34].

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO » – DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/syria/GPsyr13.html

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO »

DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio

(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997

Molti hanno parlato e continuano a parlare di conversione, ma il termine non si adatta bene al caso eccezionale di Paolo. Anzi, genera confusione e tradisce il senso profondo dei testi, sia delle Lettere che degli Atti. Per Paolo non si trattò di passare da una religione ad un’altra: fino a quel momento il cristianesimo non aveva ancora operato nessuna rottura ufficiale con il giudaismo e quindi al massimo Paolo sarebbe passato da una setta giudaica ad un’altra setta giudaica; né si trattò di una crisi religiosa – il testo di Rom 7,7-25 non ha certamente valore autobiografico – che determinò il passaggio da una fede mediocre ad un’esistenza religiosamente più impegnata: Paolo è sempre stato un uomo zelante di Dio e della sua legge.
Il mutamento di Paolo è stato qualcosa di più radicale: a contatto con Cristo egli è divenuto una « creatura nuova ». Dio, facendo irruzione nella sua vita per mezzo di Cristo, ha determinato in lui una nuova creazione, qualitativamente e radicalmente diversa. Paolo stesso, forse richiamandosi a questa sua esperienza damascena, dirà in 2Cor 5,17: « Chi è in Cristo, questi è una nuova creatura ». La luce del volto di Cristo brillò per opera di Dio nella sua vita: « Iddio che ha detto: ‘Dalle tenebre lampeggi la luce’ (Gen 1,3), proprio lui ha brillato nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2Cor 4,6). « Da quel momento considerai tutto una perdita di fronte alla suprema cognizione di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ho stimato come immondizia allo scopo di guadagnare Cristo e ritrovarmi in lui non con la mia giustizia che deriva della legge, ma con quella che si ottiene con la fede » (Fil 3,8-9). Il fariseo Paolo, che fino allora aveva esaltato al di sopra di ogni cosa la legge, da quel momento in poi dirà: « La mia vita è Cristo » (Fil 1,21), « perché niente ha valore né l’essere ebreo né gentile, ma ciò che conta è essere una nuova creatura » (Gal 6,15); nessun’altra sapienza di questo mondo ha più importanza, se non conoscere Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifisso (1Cor 2,2); e rifiutando il vanto della legge dirà: « Quanto a me, di nessun’altra cosa mi glorierò se non della Croce del Signore nostro Gesù Cristo, sulla quale il mondo per me fu crocifisso e io per il mondo » (Gal 6,14). Cristo è divenuto per lui il « termine della legge » (Rom 10,4): ha finito il suo ruolo di « pedagogo » (Gal 3,24) e ha trovato il suo totale perfezionamento nella « legge di Cristo » (Gal 6,2), nella legge dell’amore (Gal 5,14).
È Paolo stesso che ci offre una simile interpretazione di quest’esperienza che ha rivoluzionato la sua vita, scrivendo ai Galati: « Poi, quando Colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi tra le genti, subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue… » (Gal 1,15-16). Quindi, Paolo vede « l’evento di Damasco » non come una conversione, ma come il culmine della sua esistenza: dalla nascita egli è stato condotto da Dio lentamente e pazientemente a questo momento decisivo, in cui il Cristo l’ha afferrato e l’ha fatto suo per sempre (Fil 3,12). L’iniziativa è di Dio, che sceglie chi vuole e quando vuole: l’imperscrutabile e libera decisione divina aveva un disegno concreto su di lui e lo ha realizzato « quando si compiacque di farlo ». In quel momento tutto è cambiato: « Tutte quelle cose che per me erano guadagni, io le ho stimate invece una perdita per amore di Cristo » (Fil 3,7). Sta qui, nell’amore di Cristo la chiave interpretativa di tutto « l’evento di Damasco », quell’evento che ha reso Paolo un innamorato di Cristo e un apostolo infaticabile del suo Signore.
Gli Atti degli Apostoli, con la triplice narrazione di quest’ »evento » non si distaccano molto dall’interpretazione che Paolo ha dato di esso. Pur non essendo una copia conforme, l’opera lucana presenta « l’esperienza di Damasco » come un incontro di Cristo con Paolo, durante il quale l’apostolo viene investito della missione tra i gentili. La concordanza essenziale tra Gal 1,15-16 e At 26,12-18, sotto quest’aspetto, mi sembra evidente: una visione e l’investitura per una missione. È vero che, rispetto alle Lettere, l’autore degli Atti insiste soprattutto nella descrizione della visione oggettivando fortemente il dato esperienziale del « rivelare in me il suo Figlio » di Gal 1,16, ma nonostante ciò è proprio la descrizione di Atti che si mantiene ad un livello molto più prudente di quanto non fa Paolo. Egli continuamente ripete nelle sue Lettere: « io ho visto il Signore » (1Cor 9,1; 15,8-9; Gal 1,15-16), fondando così la sua posizione di apostolo delle genti (Gal 2,8-9) nella chiesa, mentre gli Atti si limitano a dire soltanto che l’apostolo fu avvolto in una grande luce e sentì la voce del Cristo che lo investiva della missione delle genti (9,3b-6; 22,6b-10; 26,13-18). Ciò è molto significativo per noi e ci induce a pensare che Luca sia rimasto molto fedele alla sua fonte storica, anche se da un punto di vista letterario ha dovuto fare le sue scelte. Gli accenni all’ »evento di Damasco » nelle « lettere paoline » sono tutti occasionali, negli Atti invece fanno parte integrante di un preciso programma letterario, che ci presenta « l’evento » sotto forma di « racconto », al momento in cui esso sembra inserirsi nello sviluppo storico della Chiesa primitiva, e sotto forma di « discorso apologetico », largamente interpretato teologicamente, quando Paolo ha da rendere la sua testimonianza dinanzi ai giudei, ai re e ai gentili.
Non è questo il luogo di addentrarci in minuziose analisi, per dimostrare l’attendibilità storica dei testi. Molti autori, hanno già svolto questo lavoro con molta competenza e acume. A noi interessa qui ribadire un concetto fondamentale: la triplice narrazione dell’ »evento di Damasco », fatta dagli Atti, non deve essere considerata né come l’esatta relazione cronachistica degli avvenimenti né come una pura invenzione. Luca riferisce una tradizione storicamente bene attestata dalle lettere di Paolo e la inserisce nel contesto vitale dello sviluppo della Chiesa primitiva, interpretandola e attualizzandola alla luce dei racconti veterotestamentari delle vocazioni profetiche e di quelle del servo sofferente di Jahwè.

21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO – IL VANGELO DI SAN MATTEO

  http://www.pastoraleliturgica.it/varie/matteo/sintesi_matteo.htm

21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO

IL VANGELO DI SAN MATTEO

AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE
Il Vangelo secondo Matteo è scritto in greco. Il testo non dice nulla a proposito dell’autore, ma il nome di Matteo compare nel racconto della chiamata di un funzionario che riscuoteva le imposte a Cafàrnao (9,9-13) e nell’elenco dei dodici apostoli, dove è accompagnato dal soprannome «il pubblicano». (10,3).
Un vescovo del II secolo (Papia) e altri dopo di lui hanno affermato che l’apostolo Matteo ha scritto in lingua «ebraica», cioè nell’aramaico parlato ai tempi di Gesù, un testo che potremmo chiamare un «Vangelo».
Dopo aver analizzato con molta precisione le caratteristiche letterarie del Vangelo di Matteo nel testo che è arrivato fino a noi, gli studiosi sono attualmente propensi a credere che quello di Marco sia più antico.
Nel Vangelo secondo Matteo troviamo alcune allusioni alla distruzione di Gerusalemme come a un fatto già avvenuto (22,7); vediamo inoltre riflettersi nelle sue pagine l’aspra lotta tra il giudaismo ortodosso dei farisei e la nascente chiesa cristiana. Possiamo concludere che è stato scritto non prima dell’anno 70 d.C., probabilmente intorno all’80.
Gli studiosi sono abbastanza concordi anche nel ritenere che sia stato redatto in Siria (Antiochia) o in Fenicia, due zone dove i cristiani provenivano in gran parte dal giudaismo. La cosa più importante comunque è sapere che il primo Vangelo, come tutti i libri della sacra Scrittura, è stato composto sotto la guida dell’ispirazione divina.

I DESTINATARI DEL PRIMO VANGELO
Se vogliamo conoscere meglio il volto della giovane chiesa a cui probabilmente è indirizzato il primo Vangelo dobbiamo soffermarci su tre sue caratteristiche:
I suoi membri sono cristiani provenienti dal giudaismo.
Prendono decisamente le distanze dalla dottrina ufficiale dei farisei.
Si sforzano di aprire progressivamente le porte ai pagani.
 CRISTIANI PROVENIENTI DAL GIUDAISMO
  Ebrei di razza, fino a poco tempo prima questi cristiani erano anche di religione giudaica. Sono riconoscibili nel Vangelo secondo Matteo situazioni, problemi, residui di tradizioni e preoccupazioni che rivelano un ambiente e un’origine giudaica. Molti particolari lo indicano chiaramente: la presenza di una genealogia dettagliata che risale fino ad, Abramo; l’importanza attribuita alla legge di Mosè e all’insegnamento dei dottori della legge; l’interesse per il mantenimento delle tradizioni degli antichi (preghiera, elemosina, digiuno); il rispetto per il sabato; l’aspirazione alla «giustizia» che apre le porte del regno tanto atteso.
È evidente tuttavia che i destinatari del Vangelo secondo Matteo non sono giudei, ma cristiani che hanno bisogno di una «catechesi» per consolidare la propria fede in Gesù, il Messia figlio di Davide. Essi sanno che la legge è stata portata a compimento dal Cristo. Non ignorano che la celebrazione del culto eucaristico esige una vita di perdono, di amore e di misericordia. Sanno che i responsabili della comunità e tutti i suoi membri hanno bisogno di essere continuamente stimolati a preoccuparsi con amore dei più piccoli e dei più deboli, a perdonare senza misura, a denunciare l’ipocrisia e a non lasciarsi trascinare dal desiderio degli onori umani. E poiché l’attesa della venuta del Signore si prolunga, sono minacciati dal pericolo della stanchezza. Di qui il pressante invito: vegliate, tenetevi pronti, perché non conoscete né il giorno né l’ora.
PRENDONO LE DISTANZE DALLA DOTTRINA UFFICIALE DEI FARISEI
L’autore del primo Vangelo ha compreso l’enorme pericolo che correrebbe la comunità cristiana se intendesse la legge del Cristo come i farisei intendono la legge di Mosè. L’insistente affermazione: « Ma io vi dico», contrapposta all’espressione: «Avete inteso che fu detto», mette davanti agli occhi dei discepoli la distanza tra l’antica e la nuova legge, che si può osservare soltanto con la grazia del Cristo e che trasforma il mondo e i rapporti fra gli uomini.
In molte pagine del primo Vangelo si avverte la contrapposizione al fariseismo. Certi farisei non hanno visto la luce che brillava in Gesù. Una parte del popolo si è lasciata trascinare al punto da prendere su di sé la responsabilità della condanna del Cristo («II suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli») (27,23-25). Il regno sarà tolto loro e sarà dato ad altri (21,43). Un primo segnale del castigo è la distruzione della città santa e del suo tempio (24,2). Nel giorno del giudizio costoro avranno una sorte più dura di quella degli abitanti di città come Sòdoma e Gomorra (10,15) o come Tiro e Sidone (11,22-24).
Notiamo tuttavia che le minacce non sono soltanto per i farisei, ma anche per i cristiani che non amano Dio. L’opposizione al fariseismo inoltre non è un invito alla vendetta e all’odio. Il richiamo all’amore per i nemici viene ricordato in maniera molto esplicita (5,44-47).
SI SFORZANO DI APRIRE PROGRESSIVAMENTE LE PORTE AI PAGANI
Si tratta di una preoccupazione reale, che in Marco e Luca emerge con molta maggior forza ma che è riconoscibile anche in Matteo. La comunità per cui scrive l’evangelista ha i suoi problemi sul piano dell’organizzazione, della vita morale, della preghiera e della pratica sacramentale, ma non tralascia per questo di sforzarsi di essere una comunità in cui possano trovare posto tutti gli uomini.
Il racconto dei magi (i primi adoratori del Messia) (2,1-12) e le ultime parole di Gesù risorto (che chiede ai suoi di portare l’annuncio evangelico a tutti i popoli) (28,19) inquadrano una serie di allusioni all’idea che la salvezza di Dio è per tutti: «Questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo» (24,14). «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (8,11). Gesù infatti è « il servo che annunzierà la giustizia alle genti», come ricorda Matteo (12,18-21) citando il profeta Isaia (Is 42,1-4).

UNO SCRIBA DIVENUTO DISCEPOLO DEL REGNO DEI CIELI
L’autore del primo Vangelo redige il suo testo dando un’interpretazione nuova a tradizioni preesistenti. Cura attentamente il suo stile. È chiaro e preciso nelle sue espressioni. Usa un linguaggio raffinato. Non trascura i piccoli particolari e li inserisce armoniosamente all’interno dei blocchi dottrinali.
Nel Vangelo di Matteo troviamo espressioni e procedimenti letterari molto usati dagli ebrei della Palestina.
Fra le prime, le principali sono: «il regno dei cieli», «la Legge e i Profeti», «legare e sciogliere», «prendere sopra di sé il giogo».
Fra i secondi ricordiamo:
I raggruppamenti numerici, molto in uso presso i giudei. Hanno valore simbolico e rendono più facile imparare il testo a memoria. (Abbiamo ad esempio una serie di sette parabole. Sette sono anche le invettive contro i farisei e le domande del Padre nostro. I grandi discorsi sono cinque e le tentazioni tre).
ll parallelismo sinonimico o antitetico, cioè l’introduzione di formule parallele facili da ricordare («Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico»).
La ripetizione di determinate espressioni («Guai a voi, scribi e farisei»; « Tu invece»; «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»).
Matteo è attratto, più degli altri evangelisti sinottici, dagli insegnamenti di Gesù maestro. Li raggruppa in cinque discorsi, lunghi, densi di contenuto e molto più completi di quelli riportati da Marco o da Luca nei rispettivi Vangeli:
Il cosiddetto discorso della montagna, che si apre con le « beatitudini» e costituisce una specie di dichiarazione programmatica o di grande annuncio del regno di Dio (5-7).
Il discorso ai missionari, che raccoglie i consigli dati da Gesù ai discepoli inviati a predicare il regno di Dio (10).
Le parabole del regno. Il regno è un mistero e non solo una legge nuova. Attraverso una serie di parabole Gesù ci rivela i misteri di Dio (13).
Il discorso ai responsabili della comunità, in cui si raccomanda vivamente la sollecitudine per i più piccoli, la fraternità e il perdono delle offese (18).
Il discorso sulla fine dei tempi, in cui risuona il pressante invito a vegliare in modo attivo e responsabile, dedicandosi al servizio dei più umili (24-25).
Matteo si rifà molto spesso all’Antico Testamento. Nel suo Vangelo è possibile rintracciare quarantatré riferimenti molto chiari. La formula introduttiva più usata è: «Perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta». L’Antico Testamento viene citato ad esempio per quanto riguarda:
il concepimento verginale di Gesù (1,22);
l’adorazione dei magi (2,5);
la fuga in Egitto (2,15);
la strage degli innocenti (2,17);
il ritorno di Gesù a Nàzaret (2,23);
la predicazione iniziale in Galilea (4,14);
l’insegnamento per mezzo di parabole (13,14.35);
la guarigione di indemoniati e di altri infermi (8,17;12,17);
l’ingresso trionfale in Gerusalemme (21,4);
la triste fine di Giuda (27,9).
In tutti questi casi l’evangelista afferma non solo che si compie ciò che era stato predetto, ma anche che il disegno di Dio raggiunge in Gesù la piena realizzazione prevista da Dio stesso.
 Le indicazioni geografiche del primo Vangelo sono vaghe e non permettono di ricostruire un itinerario preciso. Alcuni studiosi pensano che potrebbero anche avere un significato religioso.
Bambino, Gesù ritorna dall’Egitto e si stabilisce in Galilea. Proprio in questa regione, che aveva ben poco valore agli occhi degli abitanti di Gerusalemme, Gesù comincia a predicare il regno di Dio. Matteo vede in questo fatto la grande luce annunciata da Isaia per il popolo che camminava nelle tenebre (4,15-16).
Gesù risorto si manifesta ai discepoli in Galilea. Da questa terra disprezzata dai giudei la parola di Dio rimbalzerà in tutto il mondo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (28,19). Tranne qualche rapida puntata in terra pagana, Gesù esce soltanto due volte dalla Galilea: la prima per essere battezzato da Giovanni sulla riva del fiume Giordano. Qui egli riceve e accetta la sua missione. Il Padre dichiara Gesù Figlio e Messia. Sullo sfondo si delinea la figura del servo sofferente preannunciato da Isaia (3,17).
Gesù esce una seconda volta dalla Galilea per andare a morire nella città santa. A Gerusalemme si consumerà il rifiuto del Cristo da parte dei capi e del popolo. Matteo segnala questo fatto riferendo nel suo Vangelo che alla morte di Gesù il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (27,51).
«Vi precede in Galilea; là lo vedrete» (28,7). «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato…, lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani… perché sia crocifisso…» (20,18-19). Galilea e Gerusalemme. Due luoghi e anche due simboli. La regione disprezzata si apre alla luce. La città santa si chiude e porta fino in fondo il rifiuto di Dio.

GESÙ È IL MESSIA ATTESO. LA CHIESA LO PROCLAMA SIGNORE

 Il Vangelo secondo Matteo è costruito su due idee chiave:
Gesù è il Messia atteso da Israele. Ma in seno al suo popolo questa verità non è stata riconosciuta.
Gesù fonda una nuova comunità e la chiama chiesa. È il nuovo Israele. Il suo capo è Pietro. Questa comunità è depositaria delle promesse di Dio e viene incaricata di annunciare a tutti i popoli il regno dei cieli.
Matteo vuol rivelare il mistero meraviglioso di Gesù. Per questo presenta il Cristo con nomi e titoli che sono molto significativi per i suoi ascoltatori giudeo-cristiani.
Gesù è il figlio di Abramo, il figlio di Davide, il re dei giudei. Secondo le antiche promesse, il Messia sarebbe venuto dalla stirpe di Abramo (Gn 12,2) e il suo regno avrebbe reso eterno il regno di Davide (2Sam 7,12).
Gesù è anche il Figlio dell’uomo. Questo misterioso personaggio del libro di Daniele riceve da Dio il potere divino di giudicare (Dn 7). Gesù riceverà questo potere il giorno della sua risurrezione. Di conseguenza è il titolo che Gesù preferisce, perché esprime velatamente la gloria che egli possiede come Figlio eterno del Padre e che lo attende come uomo.
Gesù è il servo sofferente che si carica della nostra miseria e versa il suo sangue per la remissione dei nostri peccati (Is 42,1 = Mt 12,18; Is 53,4 = Mt 8,17; Is 53,12 = Mt 26,28). Egli rivela così la misericordia di Dio verso tutti.
Il Cristo del Vangelo di Matteo si presenta rivestito di una maestà e di una dignità straordinaria. È il maestro per eccellenza, che vive in mezzo alla comunità. Insegna la nuova «giustizia» e interpreta la legge con autorità e in maniera definitiva. Non la sopprime, ma ne mette in luce l’essenza e la porta a compimento: Dio vuole che amiamo anche i nemici.
 Il Cristo di Matteo infine è il Signore onnipotente. Questo titolo, ripetuto per ottanta volte nel corso del Vangelo, equivale all’affermazione che Gesù è Dio (il termine «Signore» traduce l’ebraico JHWH). Gesù vive nella sua chiesa e agisce in essa con potenza.
Il contenuto del primo Vangelo si potrebbe sintetizzare in una frase: «La salvezza di Dio è Gesù Cristo per mezzo della chiesa».

UN POSSIBILE SCHEMA DEL VANGELO SECONDO MATTEO
Per la sua semplicità e chiarezza, presentiamo come semplice guida di lettura il seguente schema del primo Vangelo:

Vangelo dell’infanzia del Cristo                                1,1-2,23
Il regno dei cieli: proclamazione
                – Sezione narrativa                                           3,1-4,25
                – Discorso della montagna                                5,1-7,29
Il regno dei cieli: istruzioni agli apostoli
                – Sezione narrativa (miracoli)                            8,1-9,38
                – Discorso ai missionari                                    10,142
Il mistero del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                            11,1-12,50
                – Le parabole del regno                                     13,1-52
Il primo frutto del regno dei cieli: la chiesa
                – Sezione narrativa                                             13,53-17,27
                – Discorso alla comunità                                     18,1-35
L’avvento prossimo del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                              19,1-22,46
                – Discorso contro i capi del popolo                      23,1-39
                – Insegnamenti sulla fine                                      24,1-25,46
Vangelo della passione e della risurrezione                      26,1-28,20

IL MIDRASH NEL NUOVO TESTAMENTO

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Il MIDRASH : UNA LETTURA SPIRITUALE DELLA BIBBIA

IL MIDRASH  NEL NUOVO TESTAMENTO

Premessa

   Il termine midrash (al plurale: midrashim) viene dal verbo ebraico « darash » (« cercare ») e nella sua accezione più generale denota ogni tipo di ricerca. Originariamente indicava la ricerca della volontà di Dio in generale (2Cr 17,4; 22,9; 30,19; Sal 119,10). Nell’uso successivo la parola si riferisce alla ricerca della volontà di Dio nella Scrittura (Esd 7,10; Sal 111,2), per diventare alla fine un termine tecnico per descrivere qualsiasi tipo di ricerca esegetica sulla Scrittura, sia tecnica che omiletica (1QS 8,15; 4QFlor 1,14). In quest’ultimo senso viene a coincidere con il « commentario » che rende la Scrittura attuale e ne scopre tutte le ricchezze. Si può dire che si tratta di una lettura spirituale della Bibbia nel senso di una lettura che combina senza soluzione di continuità lettera e spirito, filologia e commento. L’interesse del midrash non è la ricerca della storia del testo, come cercherà di sviluppare l’esegesi moderna e contemporanea, ma il senso del testo così come si presenta al lettore e all’interprete. Per usare une terminologia di oggi, potremmo dire che il midrash giunge al senso di un testo attraverso un metodo sincronico, mentre l’esegesi recente ha preferito una lettura diacronica. Tuttavia, il midrash non elimina la comprensione della lettera del testo. Esiste talvolta l’equivoco di intendere l’interpretazione midrashica come accessibile a tutti, perché priva di quegli strumenti indispensabili per un’interpretazione « scientifica » dei testi. I commenti midrashici sono ricchi di annotazioni filologiche, di rimandi ai testi paralleli, quindi di confronti, di citazioni di studiosi. Non dobbiamo pensare che lettura spirituale significhi quella lettura spontanea, che fa a meno di ricorrere agli strumenti tecnici dell’esegesi. I rabbini che commentarono la Bibbia erano degli studiosi, non dei lettori sprovveduti che si affidavano all’improvvisazione o al sentimento. Tracce di midrash si trovano già nella Tanak. Ad esempio alcuni studiosi sostengono che i libri delle Cronache sono una sorta di midrash dei libri di Samuele e dei Re, mentre elementi midrashici sono presenti nell’elogio degli antenati di Sir 44-50 o nella rilettura dell’esodo di Sap 10-19 (Cf. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma 1995, 328-329). Si può discutere fino a che punto la lettura e il commento sinagogale abbia influito sulle raccolte midrashiche successive. Il midrash tuttavia si sviluppa principalmente nelle scuole e nelle accademie rabbiniche soprattutto dell’epoca tannaitica (I-II sec. D. C.; comincia con R. Gamaliel I e Jonatan Ben Zakkai e si conclude con R. Jehuda ha-Nassi; la chiusura coincide con la redazione della Mishna) e amoraica (III- VI sec.; si chiude con la redazione del Talmud). Anche i Padri della Chiesa e i primi commentatori della Bibbia cristiana erano buoni conoscitori dei testi. Pensiamo solo a un Origene o a un Girolamo. Vedremo anche come gli scrittori del Nuovo Testamento siano lettori attenti delle Scritture ebraiche che utilizzano. Il midrash è un vero e proprio metodo esegetico, non una lettura improvvisata o spontanea della Scrittura, che finalmente può fare a meno delle necessarie conoscenze esegetiche. Certo, nello sviluppo soprattutto dei midrashim haggadici ci si discosta talvolta dalle regole esegetiche e dalla filologia, ma ciò non  può essere preso come la regola dell’esegesi midrashica. Spiritualità non equivale a spontaneità!
 Il midrash ha raggiunto la sua forma più sofisticata e consapevole negli scritti dei rabbini. Ivi designa un commentario o una spiegazione che segue un versetto, un passo oppure anche un libro della Scrittura prodotto con lo scopo di rendere il testo della Scrittura rilevante per le nuove circostanze della vita della comunità dei credenti. Per legittimare un tale procedimento e per farlo diventare meno soggettivo possibile ci si è serviti di precise regole ermeneutiche. Le più famose erano le sette regole (middot) di Hillel (I secolo d.C.), le 13 di Rabbi Ishmael (II secolo d.C.) o le 32 di Rabbi Eliezer (II secolo d.C.; sono attribuite a lui).  Il loro uso è molto diffuso nei libri del Nuovo Testamento. I principi dell’esegesi midrashica vi si trovano non soltanto nell’uso del materiale veterotestamentario da parte dei singoli evangelisti (per es. le numerose allusioni al Primo Testamento nei vangeli dell’infanzia non si capiscono se non alla luce di gezera shawa) ma sono adoperati anche nell’ insegnamento di Gesù stesso (qal wahomer, cioè il passaggio a minori ad maius: Mt 6,26; cf. 2 Cor 3,7-11; gezera shewa, letteralmente « uguale decreto », cioè la deduzione analogica: Mc 2,23-24 etc.). Le lettere paoline ne conservano gli esempi più chiari e più numerosi. Oltre all’uso massiccio delle regole ermeneutiche (qal wahomer: 2Cor 3,7-11; gezera shewa: Gal 3,11-12), vi si trovano anche alcuni parallelismi formali con gli scritti rabbinici: (1) le catene delle citazioni correlate tra di loro tramite l’uso delle stesse parole (per es. Rom 9,25-29 che cita successivamente Os 2,23; 1,10; Isa 10,22-23 e 1,9), (2) la strutturazione dell’esposizione in forma analoga alla tecnica di  Yelammedenu rabbenu (Gal 4,21-31) che inizia con un riferimento generale al testo di base (Gen 16 e 21), nell’esposizione introduce un testo secondario (Isa 54,1) e nell’applicazione cita il testo di Gen 21,10, legato ai due precedenti tramite richiami terminologici e tematici).
Tuttavia, l’uso delle regole e tecniche ermeneutiche da solo non basta per poter definire una interpretazione come un midrash nel senso della precisa forma letteraria. Gli specialisti parlano di midrash come forma o genere letterario soltanto quando l’uso dei principi esegetici è accompagnato dalle due seguenti condizioni: (1) si indica chiaramente il testo commentato e il discorso fa ad esso delle ripetute allusioni riprendendone  esplicitamente parole o espressioni; (2) oltre al testo biblico commentato (chiamato testo principale) si utilizzano gli altri passi biblici (chiamati testi connessi o secondari), aventi dei legami verbali sia tra loro che con il testo commentato. Queste condizioni trovano la loro perfetta applicazione nei midrashim rabbinici la cui redazione e l’edizione avvenne però ben più tardi dell’epoca del Nuovo Testamento. Se vogliamo entrare nei testi del Nuovo Testamento, bisogna riconoscere che non c’è neppure un testo nel Corpus Paulinum – e Paolo è indubbiamente il più grande cultore  dell’esegesi giudaica all’interno del Nuovo Testamento – dove tutti questi elementi sarebbero esplicitamente presenti.
Inoltre esiste un aspetto abbastanza sostanziale per poter affermare l’utilizzo da parte dell’Apostolo, e a maggior ragione degli altri scritti del N.T.,  del metodo midrashico. Nelle esposizioni dell’Apostolo il testo biblico non costituisce il punto di partenza e la sua comprensione non è il punto d’arrivo. Infatti, quando Paolo interpreta dei testi del Primo Testamento,  il suo scopo non è quello di scoprire il loro significato e la loro rilevanza per le nuove circostanze della vita dei credenti, ma quello di trovare in essi e tramite essi la conferma della coerenza delle realtà cristiane con l’agire di Dio in tutta la storia della salvezza. Non i testi biblici dunque, ma la figura di Cristo e l’esperienza cristiana, costituiscono il punto di partenza delle sue esposizioni dei testi del Primo Testamento, mentre lo scopo dell’utilizzo e dell’interpretazione del Primo Testamento è quello di capire e spiegare meglio le realtà cristiane. Per queste due ragioni sembra più corretto non parlare di midrash in Paolo, ma soltanto del carattere midrashico della sua interpretazione del Primo Testamento oppure del suo uso delle tecniche midrashiche.  Questo, come vedremo, vale anche per i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento. Si dovrebbe anche tener presente il pesher, interpretazione rinvenuta Qumran, che applica ogni versetto del testo biblico alla situazione attuale. Il più noto tra i commentari di Qumran è il pesher di Abacuc. Per concludere la premessa si deve riconoscere che i testi del Nuovo Testamento non contengono dei veri e propri midrashici né seguono in maniera sistematica altri metodi interpretativi contemporanei (come ad es. quello allegorico di Filone), ma si inseriscono all’interno dei metodi di lettura e interpretazione delle Scritture ebraiche dei loro contemporanei. Farò qualche esempio, offerto solo come breve accenno e invito all’approfondimento, dato l’esiguo spazio a disposizione.

Paolo

Per comprendere il modo attraverso cui il Nuovo Testamento utilizza le tecniche midrashiche, vorrei  partire dagli scritti paolini, che sono senza dubbio quelli che più di tutti contengono riferimenti ai libri del Primo Testamento. Si è calcolato che negli scritti paolini, comprese le pastorali, ci siano 107 citazioni del Primo Testamento. Di queste alcune concordano con il testo ebraico masoretico, altre con i LXX, altre sono elaborazioni (traduzioni) di Paolo stesso, mostrando la sua conoscenza di ebraico, greco ed aramaico.
Mi fermo brevemente su un solo esempio, che è un modo per entrare nella lettura che il Nuovo Testamento fa del Primo, nel tentativo di individuare il processo esegetico che ad esso sottende. Non mi interessa perciò il senso e il valore dell’interpretazione paolina all’interno del rapporto ebraico-cristiano, ma unicamente il metodo. Prendo il passo dal capitolo quarto della lettera ai Galati (4,21-31), dove l’apostolo reinterpreta le due figure di Sara e Agar. Vi troviamo procedimenti midrashici interessanti, senza tuttavia poter dire che si tratta di un vero e proprio midrash. Si inizia con la citazione introdotta da « sta scritto », che corrisponde alle citazioni scritturistiche rabbiniche. E poi inizia una sorta di haggadah del testo biblico di Gen 16 e 21, a cui Paolo dà subito un’interpretazione, che di per sé non contraddice il testo: « Quello dalla schiava è nato secondo la carne, quella dalla donna libera in virtù della promessa ». Ma poi aggiunge « tali cose sono dette per allegoria ». Infatti, per poter coerentemente continuare nel suo intento interpretativo deve ricorrere all’allegoria, alla trasposizione e alla corrispondenza delle immagini, comprovata però da un altro testo citato da Is 54, per poter avvallare la corrispondenza tra la donna libera e la Gerusalemme di lassù, la donna feconda. Dopo le citazioni e la dimostrazione esegetica, Paolo applica il suo ragionamento alla comunità cui si rivolge introducendo il « voi »: « Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco ».
Due figli:     dalla schiava                                                     dalla donna libera
                    Nato secondo la carne                                       in virtù della promessa
Due alleanze: quella del monte Sinai        
                       Che genera nella schiavitù
                       Rappresentata da Agar
                       Essa corrisponde alla Gerusalemme attuale  La Gerusalemme di lassù
                       Schiava insieme ai suoi figli                           è libera
                                                                                                Ed è la nostra madre
(citazione di Isaia)
                                                                                               Voi siete figli della promessa
                     Colui che è nato secondo la carne perseguitava
                                                                                              Quello nato secondo lo spirito
(cosa dice la Scrittura?)
                    « Manda via la schiava e suo figlio
    Poiché il figlio della schiava non avrà eredità                 col figlio » della donna libera
    Così     noi non siamo figli di una schiava                        ma di una donna libera.

Possiamo dire che non siamo di fronte a un vero e proprio midrash, perché non si tratta di un commentario a un testo biblico, facendo Paolo riferimento al Primo Testamento solo a partire da una precomprensione cristologia, ma non si può neppure dire che l’Apostolo non conosca il modo di argomentare rabbinico, che si avvale di testi scritturistici accostati per assonanze o temi comuni in vista dell’interpretazione. Le citazioni servono a Paolo per contrapporre due termini che hanno un ruolo essenziale nello sviluppo del suo pensiero, schiava/libera, per poi mostrare le conseguenze che il rapporto con le due donne hanno sui « figli ». Cinque  volte ricorre il termine « schiava » e una volta « schiavitù », quattro volte l’aggettivo « libera », e ben sette volte il riferimento ai figli-figlio. Il problema centrale per l’apostolo sono i figli, cioè la comunità dei discepoli, in rapporto al « figlio » della donna libera, Sara, e in opposizione a quello della schiava, Agar. La schiava, Agar, è stata mandata via da Dio insieme al figlio, mentre la donna libera, Sara, ha generato il figlio Isacco che ci permette di partecipare all’eredità di Israele e all’alleanza. È chiaro che il punto di partenza dell’interpretazione viene dall’evento di Gesù, che permette al credente di raggiungere la maturità di figlio, proprio perché Dio ha mandato « nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, che grida: « Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » Così si legge all’inizio del capitolo, mentre dopo 4,21-31 segue la parenesi del capitolo 5, che inizia con l’esortazione a vivere nella libertà: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; siate dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. » La libertà di cui Paolo parla è quella dalla circoncisione e dalla legge. Si vede bene come i testi del Primo Testamento sono citati in vista di un insegnamento che aiuta a comprendere la vita cristiana di colui che è diventato discepolo di Gesù di Nazaret e che si inserisce pienamente all’interno della rivelazione di Dio al suo popolo Israele. Il procedimento si muove all’interno delle tecniche misdrashiche, anche se non si tratta mai di un vero e proprio commentario a un testo biblico. Le lettere di Paolo sono infarcite di simili procedimenti interpretativi, mostrando come l’apostolo conoscesse molto bene le Scritture Ebraiche.
Accanto alla letteratura paolina le nostre Bibbie collocano la lettera agli Ebrei. Questo scritto è un altro esempio illuminante del valore che il Primo Testamento ebbe per le prime comunità per comprendere la vicenda di Gesù all’interno di eventi a loro contemporanei. Scritta forse da un giudeo cristiano, ottimo conoscitore della Tanak, rimangono diversi problemi aperti relativi sia alla data di composizione che allo scopo del testo. Certo una cosa colpisce in particolare per il nostro tema: la presenza massiccia di testi del Primo Testamento, ma soprattutto il fatto che ben otto capitoli (da 3 a 10) abbiano come tema il sacerdozio e il culto nel tempio. L’intento è di mostrare che Cristo è l’unico Sommo Sacerdote e che egli ha offerto il sacrificio definitivo, rendendo così inutile l’apparato sacrificale del tempio di Gerusalemme. Perché questa insistenza? R. Brown in uno studio famoso, Antioch and Rome, avanzava l’ipotesi che la lettera fosse stata scritta contro alcuni giudeo cristiani di Roma che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, avrebbero creduto possibile una sua sostituzione in un tempio cristiano che avrebbe ripreso purificandola la tradizione cultuale ebraica. Mi sembra che questa possa essere una linea interpretativa interessante, indispensabile per quegli ebrei soprattutto di origine sacerdotale divenuti cristiani. La lettera potrebbe essere quindi la risposta di una comunità giudeo cristiana alla distruzione del tempio, tuttavia nel senso di una reinterpretazione cristologica dell’apparato cultuale del tempio. Infatti non si trovano elementi polemici contro il tempio. Anche un ebreo convertito – come d’altro canto dovette fare la tradizione rabbinica reinterpretando le leggi cultuali -  doveva spiegarsi teologicamente perché il tempio era stato distrutto e che fine avrebbe fatto l’apparato cultuale, che aveva una funzione essenziale nell’espressione della fede di Israele. Sappiamo come l’ebraismo risolse il problema, ma anche le comunità giudeo cristiane dovevano motivare l’evento, continuando i primi discepoli a frequentare il tempio. Da qui la reinterpretazione di tutto quanto riguardava il sacerdozio e il tempio in relazione a Cristo. Non abbiamo tempo sufficiente per seguire i metodi interpretativi della lettera, ma è evidente anche a una lettura superficiale l’efficacia delle argomentazioni scritturistiche portate dall’autore a dimostrazione della sua verità.

Matteo

Lo stesso avviene per gli altri scritti del Nuovo Testamento.  Il caso di Matteo è forse quello più significativo tra i Sinottici. Infatti, l’evangelista è senza alcun dubbio il più interno alle pagine del Primo Testamento. Egli si presenta come uno scriba che conosce ebraico e greco. Scrive in greco, ma conosce l’ebraico, come si evince dalle sue citazioni, che sono fatte prevalentemente dalla LXX, ma con ricorsi anche alla Tanak. Come ha ben mostrato Alberto Mello nel suo commentario a Matteo, l’evangelista è un targumista, nel senso che traduce, ma anche interpreta il testo, quindi un esegeta. Nel suo vangelo si trovano, secondo il Greek New Testament, 62 citazioni del Primo Testamento, mentre Luca ne ha solo 31, Giovanni 10. Giovanni tuttavia ha un altro approccio al Primo Testamento e alla tradizione ebraica. Alberto Mello avanza un’idea interessante. Si può parlare di Matteo come di un midrash, ma non del Primo Testamento, bensì del Vangelo di Marco, allo stesso modo in cui i due libri delle Cronache sono un midsrash dei libri dei Re. Infatti il midrash non è semplicemente la citazione di un testo biblico o la sua interpretazione in un nuovo contesto, ma un vero e proprio commentario al testo biblico nel suo insieme. Così almeno sono i midrashim rabbinici.
Di solito si fa riferimento ai primi due capitoli di Matteo come esempio di interpretazione midrashica dell’infanzia di Gesù a partire dai testi del Primo Testamento. Senza alcun dubbio l’evangelista fin dai primi due capitoli intende mostrare che le Scritture di Israele giungono al loro compimento in Gesù di Nazaret. Lo fa innanzitutto nella genealogia, che riprende un genere letterario tipico della Genesi ed anche di Cronache, che dedica addirittura quasi interamente i primi 10 capitoli a genealogie, il cui scopo è di mostrare che il compimento della storia di salvezza avviene in Davide e nel tempio, che egli aveva in animo di costruire. Infatti nella teologia sacerdotale delle Cronache è il tempio il cuore della fede e della vita dell’Israele postesilico. Quindi Matteo, più che un midrash, utilizza un genere letterario noto, con lo stesso scopo dei libri delle Cronache: la genealogia mostra che la storia non è frutto del caso, ma conduce a un risultato il cui artefice è Dio. Gesù di Nazaret è colui che realizza la storia di Israele, racchiusa in Abramo e in Davide. Da qui l’importanza nei primi due capitoli di Matteo della figura di Giuseppe, discendente di Davide, che ne è il protagonista. La diversità dalla narrazione proposta nei vangeli dell’infanzia della redazione lucana, dove la figura preminente è la Vergine Maria, è visibile anche ad occhi inesperti. A Giuseppe Dio rivela la sua volontà mediante il sogno, perché la vita del Salvatore non sia annientata dai poteri ostili. L’uso delle citazioni scritturistiche è funzionale a questa visione della storia di Israele, che in Gesù, discendente di Davide, viene riproposta. Del resto, per un ebreo convinto e radicato nelle Scritture di Israele,  non sarebbe stato possibile fare diversamente: l’evento di Gesù doveva inserirsi nel piano salvifico di Dio, altrimenti non avrebbe avuto senso.
Si tratta di un midrash? Direi che siamo di fronte a un modo spirituale di leggere le Scritture, che affonda le sue radici nell’interpretazione ebraica, come si evince da Qumran e dagli scritti rabbinici, anche se questi ultimi sono tutti posteriori al N.T., almeno nella loro elaborazione scritta. È significativo che la formula « perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per messo del profeta (o del profeta Geremia, o dai profeti) si ripeta ben tre volte nel capitolo secondo (un’altra volta al versetto 5 troviamo « perché così è scritto per mezzo del profeta »). È Gesù che permette a Matteo l’utilizzo delle citazioni profetiche. Esiste un intreccio tra vicenda-messaggio di Gesù di Nazaret e Scritture ebraiche che risulta indispensabile per comprendere l’uno e le altre.

Giovanni

Sebbene le citazioni esplicite del Primo Testamento siano ridotte rispetto a Matteo e Paolo, le allusioni a testi, motivi o temi presenti nelle Scritture ebraiche sono molto numerose, tanto da rendere possibili delle vere e proprie nuove narrazioni, che reinterpretano interi racconti biblici. Alcuni esempi: nel prologo Gesù incarnato rappresenta la nuova creazione e la realizzazione della shekina di Dio nel mondo (1,14); in 2,21 il corpo di Gesù è il nuovo tempio, luogo della presenza di Dio; in 4,3 ss si allude alla vicenda del profeta Osea; in 6,1 ss è la narrazione dell’esodo che fa da base; in 20,1 ss si potrebbe rileggere il Cantico dei Cantici.
Inoltre Giovanni usa la simbologia delle feste ebraiche per illustrare l’opera di Gesù. Sei sono le feste nominate esplicitamente: – una prima Pasqua in 2,13; – una non specificata festa in 5,1 (secondo alcuni la Pentecoste); – una seconda Pasqua in 6,4; – la festa delle Capanne in 7,1; – la festa della Dedicazione in 10,23; – una terza Pasqua in 11,55. Il prologo rilegge il racconto della creazione e l’insieme della storia dell’esodo, componendole in un quadro che ne vuole mostrare il compimento.

Conclusione
I padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli si muoveranno in questa direzione, anche se essi scriveranno dei veri e propri commentari al testo biblico. Lì allora si potrà dire se si tratta di generi interpretativi simili al midrash, perché siamo di fronte a dei commentari ai libri della Bibbia. Ma non spetta a me addentrarmi in questa ulteriore questione. Le due scuole esegetiche che si contenderanno l’interpretazione cristiana antica della Bibbia, quella antiochena e quella alessandrina, si muovono in pratica contemporaneamente a quelle midrashiche rabbiniche. Ma per i commentatori cristiani delle Scritture ebraiche lo yelammedenu rabbenu sarà sostituito dall’insegnamento del Vangelo di Gesù di Nazaret, ormai norma di vita e di fede dei cristiani. È chiaro che questa è la differenza sostanziale con l’ebraismo nascente e con l’interpretazione della Tanak ad esso propria. Tuttavia possiamo dire che ambedue le esegesi bibliche, e quindi in un certo senso ambedue le raccolte misdrashiche, ci danno delle indicazioni importanti per l’interpretazione della Bibbia, che vorrei così riassumere:
- ricentrare l’esegesi del testo sulla Bibbia nel suo insieme, per comprendere che la Bibbia va interpretata innanzitutto con la Bibbia e che non è solo il senso storico a dare valore e significato al testo;
- il testo va interpretato all’interno della propria tradizione di fede. Lo yelammedenu rabbenu sottolinea il valore della tradizione interpretativa, che non può essere liquidata come superata, come è stato fatto talvolta con troppa facilità, anche se bisogna riconoscere che oggi abbiamo a disposizione maggiori strumenti e conoscenze per poter giungere a un’interpretazione filologicamente e storicamente più accurata dei testi (archeologia, testi letterari, metodi di analisi…);
- la contrapposizione tra metodo storico critico, che potremmo chiamare « lettera », e interpretazione spirituale, non ha senso, anzi impoverisce la portata del testo. Se ogni esegesi deve partire dalla lettera e dalla storia, pena la negazione del valore stesso della rivelazione che è storica, non può non tener conto di un di più di senso che si sviluppa ogni volta che il credente pone mano a leggere e a comprendere le Scritture. « Scriptura crescit cum legente », scriveva sapientemente Gregorio Magno. In questo senso l’esegesi midrashica provoca l’interprete a un di più di senso, che va ricercato non solo nella lettera del testo o nella sua storia redazionale, ma nella sua interpretazione all’interno del contesto di fede, che è storia ma anche contemporaneità. La Wirkungsgeschichte forse ha cercato di compiere questo ulteriore passo, che nessun esegeta può più omettere. In Italia anche lo sviluppo della Lectio Divina ha contribuito a dare di nuovo attualità al metodo esegetico rabbinico e patristico.
Per concludere, oserei dire che siamo sulla buona strada per provare a recuperare alcuni aspetti importanti dell’esegesi antica, che non annullano lo sforzo della ricerca esegetica dell’ultimo secolo, ma ci inducono a una lettura più attenta e profonda del testo biblico, accettandone la complessità e la stratificazione interpretativa, dovuta non solo alla sua storia letteraria, ma anche alla ricchezza della vita di fede di coloro che nei secoli vi hanno attinto. I maestri della Tanak insieme ai primi commentatori della Bibbia cristiana ci insegnano a riappropriarci del testo biblico senza lasciarlo sotto il dominio della sola archeologia storica per coglierne la profondità spirituale che da esso sprigiona.

AMBROGIO SPREAFICO

XXI DOMENICA DEL T.O. – COMMENTI SUL LETTURE: ISAIA 66:18-21, EBREI 12:5-7.11-13; LUCA 13,22-30

http://livingspace.sacredspace.ie/OC211/

(traduzione Google dall’inglese, non è una buona traduzione, ma è leggibile, mi sembrano buoni commenti)

XXI DOMENICA DEL T.O.

COMMENTI SUL LETTURE: ISAIA 66:18-21, EBREI 12:5-7.11-13; LUCA 13,22-30

C’è una tendenza mondiale tra le persone che credono in una religione di sentire che sono un gruppo privilegiato, che portano con loro qualche garanzia in ghisa che il loro futuro è assolutamente sicura. Il concetto di « popolo eletto » non è in realtà confinata agli ebrei. Lo troviamo tra i cristiani, indù, musulmani e anche tra i buddisti militanti (una contraddizione in termini?).
Non è per noi qui a valutare altre credenze religiose. Ci limiteremo ai cristiani. Anche tra gli stessi cristiani non ci sono divisioni su chi viene scelto e sulla strada giusta. Basta ascoltare alcuni dei cristiani di Irlanda del Nord parlano l’uno dell’altro.
I cristiani hanno creduto per lungo tempo che loro e solo loro saranno, come si diceva, « salvato ». « Fuori della Chiesa non c’è salvezza » è stato un grido di battaglia per secoli e, se non andiamo errati, è ancora per un po ‘. Eppure era ben prima del Concilio Vaticano II che il gesuita Leonard Feeney è stato condannato dalla Santa Sede per negare la salvezza ai non cristiani.

Quanti saranno salvati?
Forse questo era ciò che Gesù ‘interrogante aveva in mente quando – nel brano evangelico di oggi – ha chiesto, « ? Ci sarà solo pochi salvati » La domanda riflette la convinzione di molti ebrei in Gesù’ di tempo che loro e solo loro erano di Dio  » popolo eletto « . Per loro che significava, da un lato, che i « pagani » e « non credenti », gente che non osservano la legge di Mosè, furono emarginati per essere respinti da Dio per sempre. La salvezza del popolo di Dio, però, era praticamente garantita, purché mantenuto la Legge.
Come spesso accade, Gesù non risponde direttamente alla domanda di suo Enquirer. Se non lo fa in realtà contatore con un’altra domanda, si parlerà in parabole o immagini. In ogni caso, il suo significato sarà chiaro a una mente aperta. Gesù parla oggi di venire attraverso una porta stretta e di un padrone di casa che si rifiuta di aprire la porta dopo che si è bloccato per la notte. Il fatto che coloro che bussano sostengono di essere compagni a lui noti non fargli cambiare idea. « Sei in ritardo e io non riconosci tu più ». Parole Terribile!
Quindi, in risposta alla domanda di una persona, Gesù non confermare o negare che solo pochi saranno salvati. Che lui non dice è che la salvezza non è garantito per nessuno. « Siamo i tuoi popolo eletto » non sarà sufficiente. Quello che Gesù sta dicendo è che nessuno, non importa chi siano, è una garanzia assoluta di essere salvati, di essere accettato da Dio. Nessuno si salva da rivendicare identità con un particolare gruppo o effettuando un particolare tag nome.

Messaggio è per tutti
Gesù non affatto dire che solo pochi saranno « salvati ». Tutta la spinta del Vangelo, e soprattutto del Vangelo secondo Luca che stiamo leggendo, è che Gesù è venuto a portare l’amore e la libertà di Dio per il mondo intero. Il messaggio del Vangelo è quella che non ci sia una sola persona, non un solo popolo, nazione, razza o classe, che sono esclusi dallo sperimentare l’amore e la liberazione che Dio offre.
Il ruolo primario della comunità cristiana non è mai stato sufficiente a garantire la « salvezza » dei propri membri. Non è la funzione della Chiesa di trasformare tutte le sue energie nel vedere che i suoi membri « salvarsi l’anima » e, talvolta, pregate per coloro che « tenebre di fuori ».
Il ruolo della comunità cristiana, dall’inizio fino ad oggi è prima di tutto per proclamare al mondo intero la Buona Novella dell’amore di Dio per il mondo, per condividere il messaggio del Vangelo su ciò che costituisce vivente reale con il mondo intero. Si spera anche che molti risponderanno al suo messaggio di vita attraverso una conversione della loro vita. La Chiesa tradisce completamente questo mandato quando si diventa ossessionato con la propria sopravvivenza e propri « diritti » e privilegi.
E non è solo un messaggio verbale, l’insegnamento orale di Gesù, che deve essere comunicato. Tutto il nostro stile di vita, individualmente e in comunità, come cristiani è di per sé di essere un proclama a tutti coloro che hanno fame di una vita di verità, di amore, di giustizia e di una maggiore condivisione, una vita di compassione e di sostegno reciproco, una fine alla solitudine e emarginazione, lo sfruttamento e la manipolazione … è che un quadro della comunità cristiana vi appartiene?

Come essere ‘salvato’?
Quante persone saranno salvati? Che cosa significa, « essere salvati »? Non è molto utile per buttare fuori il vecchio catechismo gergo di coloro che muore « in stato di grazia », ?? »senza peccato mortale sulle loro anime ». Cercando di metterla in termini più realistici, per essere « salvato » significa vivere e morire in un rapporto d’amore stretto con Dio e con gli altri. Si tratta di condividere la visione della vita che Gesù ha offerto a noi. E ‘semplice e difficile da fare. « Da questo saranno tutti sapete che siete miei discepoli che si amano l’un l’altro. » Per amarsi in nome e lo spirito di Gesù è davvero tutto ciò che è necessario per essere « salvato ».
Quanti, poi, sarà salvato? Nessuno lo sa, ma sicuramente è la volontà di Dio che dovrebbe essere molti. E, come la Scrittura dice spesso, non saranno frustrati i piani di Dio. Non sta a noi giudicare.

Una posizione abbellito
Ma veniamo più vicino a casa e guardare la seconda parte dell’insegnamento di Gesù ‘oggi. Per appartenere al Popolo di Dio (una frase usata dal Concilio Vaticano II), di appartenere alla comunità cristiana è, per molti versi, una, una posizione privilegiata graziato.
Se davvero parte di una comunità che condivide e spiega la Parola di Dio in un modo che mi aiuta a capire il significato più profondo della vita, se trovo conforto e sostegno – spirituale, emotivo, sociale e materiale – da quella comunità, poi mi sto benedetto davvero. Ma una tale grazia è anche una delle responsabilità.
Gesù esprime questo in diversi modi. Il cammino verso la vita è attraverso una « porta stretta ». Dal punto di vista del Vangelo, la porta verso la vita può essere riassunto nella parola « amore ». In un certo senso, l’amore è una parola onnicomprensiva in entrambi i suoi significati figurativi e letterale. Eppure, per guidare tutta la propria azione solo con l’amore è una scelta che molti non sono in grado di fare. Molti trovano estremamente difficile e molti semplicemente rifiutano. Preferiscono andare per la via più ampia (che pure la invocano « più umano ») di odio, risentimento, gelosia, competitività e vendetta.
Quanti di noi può affermare di essere riusciti a piedi la via stretta di amore incondizionato e incessante? Eppure, se falliamo in amore, che tipo di cristiani siamo? Noi meritiamo la ricompensa finale di fratelli e sorelle, discepoli, di Gesù?

Possibilità spaventosa
Quindi, quello che Gesù sta dicendo oggi è che molti di coloro che si considerano « cattolici » possono trovare la porta chiusa in faccia. Essi potranno sentire quelle parole terribili: « Io non ti conosco ». Come Gesù può non riconoscere qualcuno che è stato battezzato come cattolico e che è andato regolarmente a Domenica Messa? Perché queste persone a loro volta non hanno riconosciuto Gesù stesso a tutte quelle persone che possono avere odiati, risentiti, usato, sfruttato, manipolato, rifiutato, calpestato. « Ogni volta che non siete riusciti a farlo al più piccolo dei miei fratelli, lo avete dimenticato di farlo per me. »
Quando ci troviamo faccia a faccia con Dio – e speriamo – si può essere sorpresi che non c’è. Possiamo anche essere più sorpreso a coloro che ci sono: persone che abbiamo considerato come « pagani » (buddisti, induisti, musulmani), animisti, agnostici e persino atei, persone di altre razze che tendeva a disprezzare, la feccia della società. « La gente da est e ovest, da nord a sud, verranno a prendere posto al banchetto nel regno di Dio ».
Queste persone saranno nel Regno perché, qualunque cosa le etichette che abbiamo dato loro, erano a cuore amorevole, la cura e la condivisione di persone, persone che hanno vissuto la loro vita per gli altri come ha fatto Gesù. Queste persone Gesù riconoscerà. Facciamo in modo che egli sarà in grado di riconoscere a ciascuno di noi, anche. Che cosa intende fare oggi per essere sicuri che Gesù ti conosce?

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