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PAOLO E LA LITURGIA
Antonio Pitta
Durante l’anno liturgico, in genere l’attenzione si concentra sul “vangelo dell’anno” e, per ogni domenica, sulle relazioni tra i passi scelti per la prima e la terza lettura domenicale: poca o scarsa attenzione è conferita alla seconda lettura tratta, in prevalenza, dalle lettere di san Paolo. Non si hanno tutti i torti poiché si precisa che queste sono difficili e poco comprensibili per le nostre comunità contemporanee. Tuttavia, l’occasione dell’anno dedicato all’Apostolo delle genti offre un’opportunità unica: quella di approfondire le relazioni tra le sue lettere e l’eucaristia, il giorno del Signore, le dossologie liturgiche, sino a coinvolgere gesti che sono diventati abitudinari, e per questo poco coinvolgenti, come il canto, lo scambio della pace e la raccolta economica per i poveri.
Nel presentare, per grandi linee, il variegato rapporto tra Paolo, la liturgia e il culto, cercheremo di cogliere i tratti di continuità e di novità che ha apportato alla liturgia cristiana e che si possono, pur se con sviluppi secolari, cogliere nelle sue lettere. Qual è il tessuto comunitario nel quale nasce e si sviluppa la liturgia cristiana? Che cosa Paolo ha trasmesso del culto giudaico alle comunità cristiane della diaspora? E quale il suo contributo sul culto cristiano? L’attenzione a questo versante della teologia paolina permetterà di riconoscere come, dopo duemila anni di storia del cristianesimo, siamo debitori al suo modo di vedere la liturgia che cadenza il cammino annuale della Chiesa contemporanea.
1. Assemblee familiari
Quando tra il 50 e il 60 d.C., Paolo dettava e inviava le sue lettere, il tempio, il monoteismo, le Scritture d’Israele e la legge mosaica, rappresentavano ancora i pilastri portanti della pietà giudaica: in pratica non si assisteva ancora a quella definitiva separazione delle vie tra il giudaismo e il cristianesimo primitivo che di fatto si verificherà, in modo traumatico, con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Il contesto storico che abbiamo appena evocato permette di riconoscere che il movimento cristiano delle origini non era ancora espressione di una religione adulta, separata e nata come un fungo bensì, insieme agli altri movimenti interni al giudaismo – si pensi al fariseismo, al sadduceismo, all’essenismo o alle correnti apocalittiche – costituiva una delle correnti giudaiche del tempo.
In verità quanti appartenevano ai “credenti” in Cristo, consideravano il loro movimento giudaico come la massima espressione dello stesso giudaismo, poiché attestavano la loro fede in Gesù Cristo, il Signore, nonostante la sua morte ignominiosa sulla croce. Proprio l’esplosione improvvisa del “culto di Cristo”, il Signore, induceva i primi credenti a non limitarsi a frequentare il tempio e le sinagoghe, sparse nella Palestina e nelle comunità giudaiche della diaspora, ma a «spezzare il pane» nelle loro case. Da questo versante, l’attestazione di Luca negli Atti degli apostoli presenta un alto grado di storicità:
«Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46).
Dunque, senza ignorare l’importanza del tempio e delle sinagoghe, in modo progressivo il culto cristiano andava concentrandosi nelle case private, dove ci si riuniva per ascoltare gli insegnamenti degli apostoli e per spezzare il pane.
Dal punto di vista sociale, quanti frequentavano le domus ecclesiae non dovevano superare le 50-60 unità, si radunavano nella casa più spaziosa, occupando, nello stesso tempo, l’atrium e il triclinium, e provenivano, in gran parte, dalle classi più indigenti della società greco-romana. Molti dei credenti erano poveri, schiavi o liberti che, provenendo dalle loro tabernae, venivano ospitati nelle domus di quanti godevano di un migliore welfare. Tuttavia nonostante la rigida separazione sociale tra ricchi e poveri, religiosa tra giudei e greci, e sessuale tra maschi e femmine, la frazione del pane nel giorno del Signore si andava sviluppando con la convinzione che «in Cristo Gesù non c’è maschio né femmina, giudeo né greco, schiavo né libero» (Gal 3,28). Quanti condividevano il pane eucaristico, si consideravano «fratelli», accomunati dalla stessa fede nel Messia crocifisso e Signore, dall’unico battesimo e dall’azione dell’unico Spirito che li andava consolidando, come le membra di un unico corpo: quello della Chiesa.
Non è fortuito allora che nelle uniche volte in cui Paolo utilizza le formule della trasmissione delle prime tradizioni cristiane («Vi trasmetto quanto ho ricevuto», in 1Cor 11,23 e in 1Cor 15,3), riporti le «parole di Gesù» durante la cena e la scansione degli eventi che cadenzano il cuore del kerygma più antico:
«Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese il pane e dopo aver reo grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo per voi; fate questo in mia memoria”. Allo stesso modo, dopo aver cenato,prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo quando bevete, in mia memoria”» (1Cor 11,23b-25);
«Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto, è risorto nel terzo giorno, secondo le Scritture, apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5).
Ogni assemblea delle prime comunità cristiane era caratterizzata dal memoriale della frazione del pane, compiuta da Gesù durante l’ultima cena, e dalla rilettura delle Scritture per dare senso al “per i nostri peccati” della sua morte e risurrezione al terzo giorno, il «giorno del Signore»: quello che diventerà per antonomasia la domenica o il giorno “Signoriale” per eccellenza. Le due tradizioni sulla celebrazione eucaristica e sul contenuto fondamentale della passione del Signore non vanno intese in modo separato, bensì con profonde connessioni, giacché le parole della cena illuminano l’oscurità del venerdì santo, sino alla luce abbagliante della domenica di Pasqua, al punto che per Paolo «Cristo nostra pasqua è stato immolato» (1Cor 5,7). La «pasqua» o l’agnello pasquale che i credenti celebrano e consumano, non è più quella degli agnelli che fa memoria della liberazione dall’Egitto, bensì Cristo stesso. Un ulteriore frammento pre-paolino della prima tradizione cristiana sostiene che lui è lo «strumento di espiazione» con cui Dio ha realizzato un nuovo percorso della riconciliazione e della giustificazione universale (Rm 3,25).
2. Fractio verbi, panis, vitae
La ripresentazione degli eventi centrali della passione e della cena del Signore permette di delineare tre fasi assembleari del primo culto cristiano, che si enucleano nelle lettere paoline. Anzitutto la “frazione della Parola”, dove con la Parola s’intende la rilettura comunitaria delle Scritture d’Israele. Già in ambito sinagogale sembra che il canovaccio fondamentale fosse rappresentato dalla lettura di un passo scelto dalla Torah (o dal Pentateuco), denominato seder, e di uno tratto dai profeti (compresi i Salmi), proposto come commento o haftarah. Noti sono i collegamenti liturgico-sinagogali tra le vicende di Abramo (Gn 15-22) e le attualizzazioni profetiche mutuate da Isaia (cf. Is 54), da Abacuc (cf. Ab 2,4) e dai Salmi (cf. Sal 31,1-2). Non a caso la stessa scansione si riscontra in alcuni paragrafi delle lettere paoline, come Gal 4,21-27 e Rm 4,1-25. Gli sviluppi della liturgia cristiana proseguono nella stessa traiettoria, con la novità che il testo centrale diventa quello dei vangeli e quello a commento anticipatorio è rappresentato da tutto l’Antico Testamento.
Il metodo con cui i due livelli dell’Antico e del Nuovo Testamento sono posti in relazione è quello complesso dell’allegoria e della tipologia: nel primo caso lo stesso evento della storia d’Israele acquista nuove prospettive, nel secondo si crea una relazione tra promessa antico-testamentaria e adempimento in Cristo. Ancora una volta, si deve a Paolo l’uso dei termini «allegoria» (cf. Gal 4,24) e «tipo» (cf. Rm 5,14). Ai due figli di Abramo si aggiungono i figli della schiava e della libera e Adamo è posto in relazione con Cristo.
Quanto risalta dalla ripresa delle Scritture d’Israele nelle comunità cristiane è l’enorme impegno ermeneutico svolto sull’Antico Testamento: questo non è né «vecchio Testamento», né «primo Testamento», come se siano ipotizzabili due o più Testamenti, bensì l’antica alleanza, che diventa nuova alleanza ogni qualvolta si legge Mosè nelle comunità cristiane; dirà Paolo:
«Infatti, sino al giorno d’oggi, lo stesso velo rimane nella lettura dell’antica alleanza; non è svelato, perché in Cristo è tolto di mezzo.Ma sino a oggi quando si legge Mosè, un velo ricopre il loro cuore.Quando però torna al Signore, il velo viene tolto» (2Cor 3,14-16).
Gesù Cristo si rivela così l’ermeneuta della Scrittura, colui che con la sua risurrezione e con il dono dello Spirito, si fa compagno di viaggio di ogni persona, per aprire gli occhi del cuore alla comprensione delle Scritture. I primi credenti in Cristo sono persuasi che senza la sua morte e risurrezione, tutta la Scrittura resta un libro sigillato, in modo ermetico: soltanto l’agnello che sta diritto in mezzo al trono ma sgozzato può togliere i sigilli e trasformare la Scrittura in Parola viva (Ap 5), utile per l’insegnamento e l’ammonimento della fede (cf. 1Cor 10,11; Rm 15,4).
La prima e più pericolosa tentazione delle comunità cristiane è stata quella di abbandonare l’Antico Testamento, frequentando soltanto le prime tradizioni cristiane che confluiranno nei vangeli e negli insegnamenti degli apostoli; il marcionismo darà consistenza a questo canone nel canone che giungerà sino al protestantesimo. La prospettiva di Paolo, il fariseo, costituisce il fondamento ineludibile per cui non una parte, bensì tutta la Scrittura parla di Cristo e della sua sposa; ed è lo Spirito che orienta nella comprensione cristologica ed ecclesiale della Scrittura.
La frazione della Parola prosegue in quella del pane, come l’antica alleanza si rinnova nella cena del Signore, in quel memoriale per cui ogni “oggi” diventa ripresentazione dell’antico e anticipazione del futuro. Ancora a Paolo si deve questa ripresentazione dello zikkaron unico che si ripresenta ogniqualvolta si celebra la cena del Signore: «Ogni volta che mangiate a questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (cf. 1Cor 11,26) è il suo primo commento alle parole di Gesù durante la cena. Il maranatha che chiude la prima lettera ai Corinzi e l’Apocalisse (cf. 1Cor 16,22; Ap 22,20) torna quando si pronunciano le parole di Gesù: egli è il veniente, ci raggiunge nell’oggi, ed è convinzione della fede, ed è invocato come colui che deve venire, sino alla fine della storia. Sulla certezza della fede s’innesta il desidero dell’incontro tra la sposa e il suo sposo, come una vergine casta, data in sposa all’unico sposo che è Cristo (2Cor 11,2).
Se, infine, durante la stessa celebrazione eucaristica, anche se spesso in modo distratto e superficiale, si compie il gesto della colletta di denaro, è perché questo gesto, di carità come qualsiasi dono di sé per gli altri, rientra nella stessa liturgia cristiana: è la frazione della Parola che, trasformandosi in frazione del pane, diventa frazione della vita o dell’agape. Per questo Paolo non esita a definire “liturgia” la colletta economica che raccomanda, con vivo afflato, alle sue comunità per i poveri della Chiesa di Gerusalemme (cf. 2Cor 9,12).
Troppo spesso si assiste alla distinzione, se non alla separazione, tra l’ambito catechetico, quello liturgico e quello caritativo delle nostre comunità, come se ognuno potesse procedere in modo autonomo e a prescindere dall’altro. I paragrafi paolini che abbiamo evocato dimostrano come la frazione della Parola, senza quella del pane e della carità, si riduce a un semplice insegnamento dottrinale che non coinvolge l’esistenza, che la frazione del pane senza quella della vita crea lo stesso scandalo verificatosi a Corinto, tra ricchi e sazi e poveri o indigenti, e che senza le ragioni ultime del «per voi» detto da Gesù, la Scrittura resta occulta e la carità non è destinata a durare a lungo. Abbiamo bisogno di riscoprire le continuità tra le tre mense, che alla fine si rivelano come una sola mensa: quella della condivisione della vita di Cristo in noi.
3. Il culto razionale
La raccolta di denaro per i poveri, proposta da Paolo alle sue comunità, si realizza nelle nostre celebrazioni poiché esprime non il dono del superfluo o, ancor peggio, come denuncia in 2Cor 9, una forma di spilorceria, bensì l’offerta della propria stessa esistenza. Così inizia la sezione esortativa della lettera ai Romani:
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto razionale» (Rm 12,1).
Si deve ancora alla sua formazione farisaica se Paolo può esortare con queste parole le comunità cristiane di Roma, giacché è della corrente farisaica pensare che il sacrificio del tempio è inconcepibile senza il sacrificio della propria esistenza. Le stesse condizioni richieste perché il sacrificio di un agnello nel tempio risulti efficace sono proposte per la propria esistenza: una santità che è integrità e interezza della propria esistenza.
Di difficile traduzione è l’aggettivo logikê, che definisce il culto cristiano: certo la traduzione con «spirituale» è quella meno adeguata, poiché non c’è un culto spirituale che si distingua da uno materiale o globale, appunto integrale. Forse la traduzione più idonea è “mentale” o “razionale”, in quanto l’attenzione si concentra sul centro del proprio modo di pensare per coinvolgere l’esistenza in tutte le sue espressioni. Ed è in questa direzione che il “culto razionale” o “mentale” si sviluppa nella sezione successiva di Rm 12,2-15,13: l’offerta del proprio corpo si realizza nella valorizzazione dei carismi e dei ministeri, nella comunità cristiana, ossia in quell’operare come membra di un unico corpo. Offerta “razionale” è attaccarsi al bene, senza lasciarsi vincere dal male, rispondere al fratello non seguendo la legge del taglione, bensì quella del perdono senza ipocrisia, assolvere ai propri doveri nei confronti delle autorità civili, non aver alcun debito se non quello di un amore vicendevole, abbandonare le opere delle tenebre e indossare le armi della luce (cf. Rm 13,12), sino a farsi carico delle infermità dei deboli nella propria comunità.
Non c’è aspetto dell’esistenza umana che venga tralasciato perché il proprio corpo, ossia la persona nella sua totalità si trasformi, con la potenza dello Spirito, in “culto razionale”, vivente, santo e gradito a Dio. La stessa separazione tra sacro e profano si assottiglia, sino a scomparire del tutto, quando si tratta di cercare la santità della vita. Una fede che si trasforma in carità e speranza è quella che propone Paolo alle sue comunità senza cadere, ancora una volta, nella separazione delle tre virtù fondamentali, poiché ogni credente è esortato a compiere il sacrificio e la liturgia della propria fede (cf. Fil 2,17).
Allora diventa “liturgia” ossia, nello stesso tempo, azione di culto per il Signore e a favore del prossimo, la colletta in denaro (cf. Rm 15,27), l’aiuto che Epafrodito reca a Paolo stesso, durante la sua ultima prigionia (cf. Fil 2,25.30), e il proprio ministero e servizio per il vangelo o per Cristo (cf. Rm 1,9). Con il linguaggio tipico del culto, così Paolo ringrazia i Filippesi per il sostegno economico inviatogli: «Soave odore, sacrificio accolto, gradito a Dio» (Fil 4,18). Qualsiasi sostegno economico possiamo elargire per le necessità dei fratelli è, in quanto tale, come l’odore della vittima sacrificale offerta a Dio, ed è gradita al lui più di tutti gli animali portati nel tempio. Il dare la vita come e perché Cristo l’ha donata per noi, in quella imitazione irraggiungibile che diventa ragione ultima del nostro sacrificio, rappresenta uno degli aspetti più centrali del modo con cui Paolo intende la liturgia e il culto cristiano.
E quando si è costretti a riconoscere che nessuno al mondo può, come Cristo «non considerare un tesoro geloso la sua uguaglianza divina, ma umiliarsi sino alla morte di croce» (cf. Fil 2,5-7), allora bisogna cercare dei modelli più a misura umana. Modelli per i credenti sono coloro che come Timoteo non cercano «i propri interessi, bensì quelli di Gesù Cristo» (cf. Fil 2,21-22) e come Epafrodito, che «a causa dell’opera di Cristo è stato vicino alla morte, mettendo a rischio l’anima, affinché potesse sostituire la vostra assenza per la mia liturgia» (Fil 2,30).
Si comprende allora perché Paolo contrapponga un culto fondato sulla semplice circoncisione fisica, a uno dettato o che scaturisce dall’azione dello Spirito di Dio (Fil 3,3): il culto cristiano è azione dello Spirito; di quello Spirito che trasforma la Scrittura in Parola di Dio, il pane e il vino in corpo e sangue del Signore, e la comunità cristiana in corpo di Cristo, con la stessa importanza del corpo eucaristico che si celebra.
4. La libagione
Un tipo particolare di sacrificio è la libagione che accompagnava, nel culto pagano, il sacrificio degli animali: consisteva nel versamento del sangue, dell’acqua o del latte. Per questo era rifiutato dalla religiosità giudaica, ma era diffuso nei culti pagani, presso i quali era considerato un vero e proprio sacrificio. Paolo non esita a considerare l’effusione della propria vita, sia per le quotidiane fatiche per il vangelo, sia per l’esito più o meno imminente della propria morte, come libagione:
«Ma se anche sono sparso sul sacrificio e sulla liturgia della vostra fede, gioisco e congioisco insieme a tutti voi» (Fil 2,17).
Il sacrificio e la liturgia principali sono quelli della fede dei Filippesi; a questi si aggiunge lo spargimento di sé e della propria vita.
La metafora è molto loquace poiché, alla fine della propria vita, Paolo pone l’attenzione non sul proprio sacrificio o sulla propria liturgia esistenziale bensì su quella dei credenti: il suo è soltanto un accompagnare con la partecipazione attiva alla propria sentenza di morte il loro sacrificio. Il commento più bello a questa proposizione si trova nella seconda lettera a Timoteo, con cui la tradizione ecclesiale reinterpreta la partecipazione attiva di Paolo alla sua morte:
«Io infatti sono pronto per essere versato in libagione, ed è giunto il momento della mia partenza: ho sostenuto la buona battaglia, ho concluso la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7).
Libagione è non soltanto l’ultimo momento della propria vita, attraversato non in modo passivo bensì attivo, poiché si segue la stessa via compiuta da Cristo sino alla morte di croce, ma tutta la propria esistenza: quella che comprende la lotta quotidiana per il vangelo, la corsa nell’annunciare Cristo a tutti e ad ognuno, e il custodire la fede in Cristo, unico Signore.
Mentre Seneca avrebbe sostenuto che quotidie morimur, Paolo non avrebbe esitato a sostenere che ogni giorno offriamo noi stessi con l’effusione della vita per Cristo e per i fratelli. Non c’è momento dell’esistenza che non sia liturgia sacrificale quando è vista in questa cornice: e il tutto è accompagnato, in modo paradossale, dalla gioia diffusiva che contagia e rende solidali i fratelli. Prima di andare incontro al martirio Ignazio di Antiochia scriverà nella sua Lettera ai Romani, utilizzando lo stesso verbo scelto da Paolo in Fil 2,17: «Non procuratemi di più che essere versato in libagione per Dio…» (2,2).
5. Conclusione
La liturgia cristiana è canto di gioia, nelle e nonostante le tribolazioni che non mancano. E Paolo non dimentica di esortare in questo modo i credenti di Colossi:
«La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, istruendovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16; cf. anche Ef 5,19).
Sembra che sin dagli albori il movimento cristiano si sia caratterizzato per il canto: i diffusi «inni» riportati nelle lettere paoline (Fil 2,5-11; Ef 1,3-14) erano forme di canto rivolte al Signore, per mezzo di Cristo, nello Spirito, per la sua azione di grazia. Ai Corinzi, Paolo raccomanda:
«Quando vi riunite, avendo ciascuno di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione, si faccia ogni cosa per l’edificazione» (1Cor 14,26).
Non sorprenderà quindi se una delle più antiche testimonianze sui cristiani, la lettera di Plinio il Giovane a Traiano (primi decenni del II sec. d.C.), il mittente ricorderà:
«D’altra parte, essi affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio» (Lettera 10,96,7).
Non è questione soltanto di cura del particolare o dell’accessorio, ma è in questione il tipo di partecipazione che si realizza quando partecipiamo alle celebrazioni ecclesiali, che dovrebbero trasudare di gioia per la condivisione dell’unico corpo, dell’unico Spirito, dell’unica fede, dell’unico battesimo e dell’unica speranza: l’unicità delle relazioni che apre alla sinfonia del cuore e della parola, del pensiero e del canto. Se non sappiamo cantare insieme è perché partecipiamo da spettatori a quanto dovrebbe vedere tutti i credenti uniti nella diversità dei carismi e dei ministeri.
Le nostre comunità, con tutte le loro manchevolezze, sono ancora comunità paoline: dai saluti iniziali (2Cor 13,13: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio padre e la comunione dello Spirito»), ai ringraziamenti che introducono le sue lettere e le nostre celebrazioni (Rm 1,7: «Prima di tutto ringrazio il mio Dio, per mezzo di Gesù Cristo»), alle dossologie e all’Amen che cadenzano la liturgia (2Cor 1,20: «Per questo per mezzo di lui [Cristo] sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria»), sino al maranatha che pronunciamo dopo la consacrazione delle specie.
I gesti che compiamo sono quelli delle comunità paoline: la colletta per i poveri, il bacio santo fra i credenti e la genuflessione davanti a Gesù Cristo, il Signore nostro (cf. Fil 2,8-11). Tuttavia, se non riscopriamo il tessuto familiare e comunitario delle celebrazioni liturgiche, rischiamo di dimenticare del tutto il significato dei gesti e delle parole che compiamo.
L’anno paolino ci offre la preziosa opportunità di riappropriarci di quanto spesso compiamo, in ogni celebrazione liturgica, senza renderci conto, poiché ogni liturgia è ripresentazione della vita che si trasforma.