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II DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B) (07/12/2014

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Il deserto e il « quadrinomio »

padre Gian Franco Scarpitta

II DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B) (07/12/2014

Figura molto significativa quella di Giovanni il Battezzatore, che mentre procede nel deserto geografico che separa la Palestina da Babilonia, invita tutti ad abbandonare il proprio deserto di immondezza peccaminosa e di perversione ostinata al male. L’aspetto di Giovanni è quello di un penitente irsuto e sciatto nel vestire, la cui sopravvivenza neurovegetativa è garantita da cibi precari come locuste e miele selvatico. Potremmo paragonarlo a uno degli anacoreti delle origini della vita eremitica in Egitto, i cosiddetti Padri del deserto. Il suo messaggio e le sue esortazioni richiamano quelli dell’Antico Testamento, in modo particolare i profeti della novità di una « strada nuova che attraversa il deserto » (Is 43, 19), rendendo questo luogo solitario e desolato un territorio percorribile. Il deserto è il luogo dell’assoluta mancanza e anche nell’accezione latina (de – serere) indica il vuoto, lo svuotamento, ciò che è stato tolto. Come si diceva, nell’ottica di Giovanni non ha solamente un significato topografico, ma si configura come la perdizione personale dell’uomo in conseguenza del suo peccato, lo stato di inopia spirituale e di aridità, la lontananza dell’uomo da se stesso per il rifiuto di Dio. Sulla scia del profeta Isaia, Giovanni ci si presenta come la « voce » di Colui che invita gli uomini a preparare la strada del Signore in una situazione di « deserto », cioè di peccato: « Raddrizzate i vostri sentieri ». Il che significa predisporre se stessi alla novità del Verbo che entra a far parte di questa condizione di bruttura morale per poterla radicalmente capovolgere. Preparare la via del Signore significa infatti optare per la conversione decisa, per il mutamento interiore e il rinnovamento radicale di se stessi in direzione di nuovi costumi e di nuove mentalità. Occorre insomma convertirsi, convincersi della vacuità a cui il peccato ci ha sempre condotti, della miseria e dell’inconsapevole insoddisfazione che apporta la via del male e dell’ingiustizia, convincersi dell’amore di Dio e della sua salvezza. Convertirsi vuol dire di conseguenza conformare la propria condotta secondo Dio, fermi nella deliberazione piena di dover fare esclusivamente la Sua volontà. Questo è il messaggio del Battista che ricalca le parole del profeta Isaia: nella solitudine e nello smarrimento, convertitevi e cambiate forma mentis e convinzioni personali, aprite il cuore a Dio. Se farete questo, Dio potrà avere il dovuto spazio in voi e « ogni uomo vedrà la salvezza di Dio ». L’episodio, che presenta un Battista quasi coetaneo di Gesù (secondo la cronologia) è meglio pertinente in tempo di Quaresima, visto che esalta appunto la necessità della conversione per il conseguimento della gloria pasquale cristiana, ma anche il presente tempo di predisposizione al Natale (l’Avvento) ci invita al mutamento radicale di noi stessi perché la bellezza e il fascino del Dio Bambino non possono che richiedere conversione e radicalità da parte nostra. Preparare la strada del Signore e spianare il suo ingresso nella nostra vita è un’allegoria per cui siamo chiamati a predisporre il Natale mentre percorriamo gli spazi e i tempi dell’Avvento: Colui che viene è Colui verso il quale si va incontro.
Nella sua attività di predicazione, Giovanni amministra un Battesimo, che è solamente un rito esteriore di infusione di acqua su quanti, pentiti, confessano i propri peccati per ottenere il perdono di Dio. Il bagno in acqua ipotizza il pentimento sincero ma impegna l’adepto a cambiare vita e a farla finita con il peccato, senza comportare automaticamente l’estinzione di esso. Il Battesimo amministrato da Gesù avverrà non soltanto in acqua ma soprattutto in Spirito Santo e sarà esso stesso a lavare ciò che è sordido nell’uomo, mondando interamente il soggetto dalla putredine del peccato. Il battesimo di Giovanni prepara e annuncia quello del Signore Gesù Cristo e attesta alla necessità di conversione e di ravvedimento. Ma soprattutto, costituisce un invito alla trasformazione e al ravvedimento di noi stessi in vista della novità del Dono che in Cristo Dio farà di se stesso.
Ammettere le proprie colpe responsabilizzandosi davanti a Dio è davanti agli uomini è l’inizio del processo di conversione; esso però non ha luogo se non in conseguenza di una virtù preventiva che si rende capaci di dissolvere davvero noi stessi in Dio: l’umiltà e la mansuetudine. Esse allontanano presunzione e orgoglio, scongiurano il pericolo di nefaste autoesaltazioni e inani attitudini alla superbia e per ciò stesso conducono a che il concetto di noi stessi non sia talmente esagerato da metterci al centro dell’attenzione. Senza l’umiltà non vi è conversione, senza conversione non avrà mai luogo la fede e la salvezza sarà una meta irraggiungibile.
Umiltà – Conversione – Fede – Salvezza. E’ questo il quadrinomio che leggiamo nell’invito che ci viene rivolto dal Battista, che mentre ci addita il Signore di cui egli è il Precursore ci dischiude anche un irrinunciabile itinerario in direzione di noi stessi e degli altri. Che cosa ci consegue infatti questo quadrinomio se non la pace interiore e la serenità di spirito, la costanza e la fiducia nella prova e nelle avversità? Che cosa comporta se non la gioia che sperimenteremo nel dare anziché ne ricevere (At 20, 21), il coraggio e la forza per trovare in Dio la felicità che invano cerchiamo in noi stessi e nelle nostre presunte prerogative. Cogliamo allora l’Avvento come una ricca opportunità che verte a vantaggio di noi stessi, purché ci decidiamo a uscire dal deserto che caratterizza da sempre la nostra vita.

Ascensione del Signore

en e paolo Feast-of-the-Ascension-of-the-Lord - Copia

IV SETTIMANA DI PASQUA – VENERDI – UFFICIO DELLE LETTURE

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IV SETTIMANA DI PASQUA – VENERDI – UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 17, 1-18
Babilonia la grande è condannata
Io, Giovanni, vidi, e uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: «Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione». L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra».
E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. Al vederla, fui preso da grande stupore. Ma l’angelo mi disse: «Perché ti meravigli? Io ti spiegherò il mistero della donna e della bestia che la porta, con sette teste e dieci corna. La bestia che hai visto era ma non è più, salirà dall’Abisso, ma per andare in perdizione. E gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era e non è più, ma riapparirà. Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re. I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l’altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco. Quanto alla bestia che era e non è più, è ad un tempo l’ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione. Le dieci corna che hai viste sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un’ora soltanto insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli».
Poi l’angelo mi disse: «Le acque che hai viste, presso le quali siede la prostituta, simboleggiano popoli, moltitudini, genti e lingue. Le dieci corna che hai viste e la bestia odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco. Dio infatti ha messo loro in cuore di realizzare il suo disegno e di accordarsi per affidare il loro regno alla bestia, finché si realizzino le parole di Dio. La donna che hai vista simboleggia la città grande, che regna su tutti i re della terra».

Responsorio Breve Ap 17, 14; 6, 2
R. I potenti della terra combatteranno contro l’agnello, ma l’Agnello li vincerà. * è il Signore dei signori e il Re dei re, alleluia.
V. Gli fu data una corona, e uscì vittorioso per vincere ancora:
R. è il Signore dei signori e il Re dei re, alleluia.

Seconda Lettura
Dalla «Lettera ai Corinzi» di san Clemente I, papa
Capp. 36, 1-2; 37-38; Funk, 1, 145-149)

Molti sono i sentieri, una la via
Carissimi, la via, in cui trovare la salvezza, è Gesù Cristo, sacerdote del nostro sacrificio, difensore e sostegno della nostra debolezza.
Per mezzo di lui possiamo guardare l’altezza dei cieli, per lui noi contempliamo il volto purissimo e sublime di Dio, per lui sono stati aperti gli occhi del nostro cuore, per lui la nostra mente insensata e ottenebrata rifiorisce nella luce, per lui il Signore ha voluto che gustassimo la scienza immortale. Egli, che è l’irradiazione della gloria di Dio, è tanto superiore agli angeli, quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato (cfr. Eb 1, 3-4).
Prestiamo servizio, dunque, o fratelli, con ogni alacrità sotto i suoi comandi, santi e perfetti.
Guardiamo i soldati che militano sotto i nostri capi, con quanta disciplina, docilità e sottomissione eseguiscono gli ordini ricevuti. Non tutti sono capi supremi, o comandanti di mille, di cento, o di cinquanta soldati e così via. Ciascuno però nel suo rango compie quanto è ordinato dal re e dai capi superiori. I grandi non possono stare senza i piccoli, né i piccoli senza i grandi. Gli uni si trovano frammisti agli altri, di qui l’utilità reciproca.
Ci serva di esempio il nostro corpo. La testa senza i piedi non è niente, come pure i piedi senza la testa. Anche le membra più piccole del nostro corpo sono necessarie e utili a tutto l’organismo. Anzi tutte si accordano e si sottomettono al medesimo fine che è la salvezza di tutto il corpo.
Tutto ciò che noi siamo nella totalità del nostro corpo, rimaniamo in Gesù Cristo. Ciascuno sia sottomesso al suo prossimo, secondo il dono di grazia a lui concesso.
Il forte si prenda cura del debole, il debole rispetti il forte. Il ricco soccorra il povero, il povero lodi Dio perché gli ha concesso che vi sia chi viene in aiuto alla sua indigenza. Il sapiente mostri la sua sapienza non con le parole, ma con le opere buone. L’umile non dia testimonianza a se stesso, ma lasci che altri testimonino per lui. Chi è casto di corpo non se ne vanti, ma riconosca il merito a colui che gli concede il dono della continenza. Consideriamo dunque, o fratelli, di quale materia siamo fatti, chi siamo e con quale natura siamo entrati nel mondo. Colui che ci ha creati e plasmati fu lui a introdurci nel suo mondo, facendoci uscire da una notte funerea. Fu lui a dotarci di grandi beni ancor prima che nascessimo.
Pertanto, avendo ricevuto ogni cosa da lui, dobbiamo ringraziarlo di tutto. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Responsorio Breve Col 1, 18; 2, 12b.-9-10. 12a
R. Cristo è il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti.* Con lui siete stati risuscitati per la fede nella potenza di Dio, alleluia.
V. In Cristo abita la pienezza di Dio, corporalmente, e voi avete parte alla sua pienezza, e con lui siete stati sepolti insieme nel battesimo.
R. Con lui siete stati risuscitati per la fede nella potenza di Dio, alleluia.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA DELLE ORE |on 15 mai, 2017 |Pas de commentaires »

OMELIA V DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (14/05/2017)

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Vado a prepararvi un posto

don Luciano Cantini

OMELIA V DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (14/05/2017)

Non sia turbato il vostro cuore
Per tentare di capire la straordinarietà della affermazione di Gesù occorre entrare nell’esperienza dei suoi discepoli la cui vita era diventata un viaggio continuo dietro al Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo (Lc 9,58). Pietro aveva affermato «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Mc 10,28). Anche dopo la morte qualcuno dovrà imprestare a Gesù un sepolcro… il senso della provvisorietà era totale.
Gesù aveva appena affermato Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire (Gv 13,33).
Un cuore turbato non riesce a vivere il momento presente e tanto meno avere una speranza nel futuro, difronte al turbamento dei suoi, Gesù li rincuora, chiede loro di trovare in se stessi il modo di difendersi dalla paura: Abbiate fede in Dio. Non si tratta di non avere paura ma di avere la certezza che Dio continua ad operare nella storia degli uomini nonostante ci appaia il contrario: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? – afferma san Paolo – Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (Rm 8,35)
Nella casa del Padre mio
Siamo tentati di immaginare un luogo paradisiaco, lontano dalle difficoltà della storia, dalle brutture dell’umanità, immerso tra mille bellezze, forse neppure troppo lontano da noi, semplicemente nell’aldilà. Ci sarebbe da domandarci se ci troviamo davanti ad un mito o una illusione consolatoria, un futuribile che nulla ha a che fare con la quotidianità. Davvero immaginiamo un Dio che ci aspetta sulla soglia della sua casa mentre noi ci arrabattiamo tra mille difficoltà, soli e abbandonati?
Ma la casa di Dio è la Chiesa del Dio vivente (1Tim 3,15), chiunque ha fede in Dio si trova nella sua «casa», quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo (1 Pt 2,5).
Gesù promette molte dimore: ognuno di noi sente il bisogno di una casa sicura dove poter crescere in armonia, circondati di affetto… il dramma della casa non è quello dei muri ma della vita, non è il camper distrutto dal fuoco, né l’edificio crollato dal terremoto, neppure uno sfratto piuttosto la mancanza di vita, la precarietà degli affetti, l’insufficienza di relazioni, la carenza di dignità. La dimora è il luogo del riposo, dell’indugiare, luogo di relazioni e di affetti dove ognuno può essere se stesso; la dimora esprime il divenire della crescita e della storia, la ricchezza delle generazioni. Nella casa di Dio, là dove Dio sta operando ci sono molte dimore, così che ciascuno possa trovare il suo posto nella storia della salvezza. Per questo ci è chiesto di avere fede, di incamminarci nella stessa direzione del Signore.
Vado a prepararvi un posto
Si ha l’impressione, a volte, di trascinare la vita nella ricerca del nostro posto, non solo un posto di lavoro, nella società, tra gli amici; sogniamo un posto speciale nel cuore di qualcuno o proviamo ad arrampicarci per occupare qualche primo posto (cfr. Lc 14, 7-11): fatica sprecata, speranze malriposte.
Gesù ci precede, si fa carico dell’iniziativa per facilitarci il compito, compie quei passi necessari perché calcando le sue orme scopriamo che quella dimora promessa è già sotto i nostri piedi, è nella esperienza di comunione, è stile di vita, è sintonia dello spirito.
Comprendiamo bene la perplessità di Tommaso «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» ma la risposta di Gesù «Io sono la via, la verità e la vita» diventa chiara a mano a mano che rispecchiamo la nostra vita nella sua, che facciamo nostra ogni sua parola e la traduciamo in esperienza di vita.

 

IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (07/05/2017) – OMELIA

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Il Signore è il buon pastore che assicura a tutti la felicità

padre Antonio Rungi

IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (07/05/2017) – OMELIA

La quarta domenica del tempo di Pasqua è detta del Buon Pastore, sia perché ci viene proposto il testo del Vangelo che ci parla di Gesù Cristo, buon pastore e sia perché nel contesto della Pasqua siamo tutti invitati a pregare il Buon pastore che mandi alla sua chiesa pastori buoni, generosi e santi, che vadano alla ricerca della pecorella smarrita e si assumano tutte le responsabilità in ordine al loro ministero a servizio delle anime, della comunità dei credenti e della stessa umanità.
Nella preghiera iniziale delle liturgia eucaristica, noi preghiamo oggi con queste significative parole, che sono la sintesi di quanto sentiremo ed ascolteremo dalla voce del buon Pastore, che è Cristo stesso, che parla a noi attraverso la Chiesa di oggi, a partire dalla figura autorevole di Papa Francesco: « Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna, perché l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore ».
Il testo degli Atti degli apostoli di questa quarta domenica ci fa ritornare al giorno della Pentecoste e ai discorsi di Pietro alla gente che si avvicina progressivamente alla nuova religione, quella cristiana, di cui il principe degli apostoli si fa interprete e annunziatore, focalizzando la sua attenzione che « Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso ». Le conseguenze immediate di questo discorso è la disponibilità delle persone a cambiare vita e strada. Ecco perché chiedono a Pietro e agli Apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?», dal momento che erano stati profondamente toccate nel cuore. Pietro replica invitando alla conversione tutti coloro che vogliono venire alla fede, partendo dal ricevere il battesimo « nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati », e dalla Cresima, dal momento che riceveranno « il dono dello Spirito Santo ».
L’ultimo caloroso appello che Pietro rivolge a presenti fu: «Salvatevi da questa generazione perversa!». I frutti di quella prima catechesi o predicazione di massa si videro subito, al punto tale che negli Atti si annota che « quel giorno furono aggiunte circa tremila persone ». Come è facile capire l’azione pastorale degli apostoli si fa sempre più evidente, attingendo lo stimolo ad ampliare gli spazi di comunicazione dalla sacra scrittura e dalla preghiera dei Salmi, come oggi è ricordato nel Salmo 22, nel quale si riconosce che « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino. Con il Signore non temo alcun male, anche in una condizione di buio totale in tutti i sensi. Un pastore buono ed attento che dà sicurezza al gregge, che cammina sicuro su pascoli erbosi.
Anche nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla prima lettera di san Pietro apostolo, troviamo un forte appello alla pastorale della pazienza, della sofferenza e della sopportazione. Infatti scrive San Pietro « se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme. Gesù non commise peccato, fu una persona sincera, un soggetto di grande sopportazione, in quanto « insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Gesù si è caricato sulla sua persona i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti ».
Tutto cambia con la venuta di Gesù e con la sua morte e risurrezione, l’umanità ritrova le ragioni della sua speranza e del suo presente e futuro: « Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime ».
Nel Vangelo di San Giovanni troviamo il passo relativo alla figura del buon pastore, su cui si incentrato il tema e la liturgia di questa quarta domenica di Pasqua: « egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Di fronte alla scarsa comprensione del discorso di Gesù, nello stesso brano del Vangelo troviamo la replica e l’ulteriore spiegazione di quanto Gesù andava dicendo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo…io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Avere la vita in abbondanza in Gesù Cristo è incamminarsi sulla strada della santità che passa attraverso una convinta purificazione dei nostri peccati e con il desiderio, vivo e sincero, di iniziare un percorso nuovo di vita vera che non scende a compromesso con nessuno e soprattutto con la propria coscienza. Il modello a cui ispirarci è Gesù stesso e accanto a Lui poniamo in queste mese di maggio anche la sua dolcissima Madre, Maria Santissima, che il 13 maggio 1917, apparendo ai tre pastorelli, a Fatima, chiedeva la conversione del mondo al bene supremo della pace, della giustizia, della verità e della purezza dei sentimenti. Nell’imminenza di questa ricorrenza mariana, chiediamo alla Vergine Santa che ci confermi nel nostro proposito di raggiungere la santità, partendo da questa terra e vivendo da santi in questa misera valle di lacrime.

II DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (23/04/2017) – DAL FATTO ALLA FEDE

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II DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (23/04/2017) – DAL FATTO ALLA FEDE

padre Gian Franco Scarpitta

Dopo la sua risurrezione Gesù esorta i suoi a rendergli testimonianza e a recare a tutti l’annuncio della sua vittoria sulla morte e la novità di salvezza che ne consegue. Sarà particolarmente dopo l’evento di Pentecoste che, animati dallo Spirito Santo, gli apostoli diffonderanno il lieto annuncio della resurrezione di Cristo « fino agli estremi confini della terra », cioè secondo la concezione di allora fino a Roma. E inizierà il cosiddetto Tempo della Chiesa. Anche adesso però, Gesù Risorto invita tutti i suoi alla testimonianza, cioè a recare agli altri la notizia gioiosa del fatto che lui è vivo e presente e non è per niente defunto. La fede e la testimonianza sono quindi lo scopo e la risultante delle apparizioni di Gesù. Giovanni ci racconta di questo duplice aspetto collocando l’episodio nella dimensione temporale del « primo giorno della settimana », lo stesso nel quale era avvenuta, la mattina presto, la visita di Maria di Magdala al sepolcro con la sorpresa della tomba vuota. Appare loro mentre le porte della casa dove erano riuniti erano sprangate per paura dei Giudei. Avviene questo singolare episodio nel quale Gesù compare loro nonostante l’inaccessibilità del locale nel quale sono riuniti. In questa circostanza reca loro la pace, cioè la serenità e la gioia che scaturiscono dall’avvento del Regno di Dio instauratosi dopo la morte e la Resurrezione di Gesù. Quindi, seppure Giovanni non lo mostra immediatamente, convince i suoi discepoli della veridicità della sua resurrezione e da ultimo li invita all’annuncio universale, alla testimonianza dell’evento di salvezza. Cosicché gli apostoli annunceranno in ogni angolo del mondo allora conosciuto, a partire da Gerusalemme, la novità della Resurrezione e del Regno di Dio che si è instaurato in Cristo stesso. Inizia il tempo della Chiesa, quello in cui lo Spirito (lo vedremo il giorno di Pentecoste) rende missionaria la Chiesa. Lo stesso Signore, seppure nella forma invisibile, sarà presente nella loro azione di annuncio secondo la sua promessa: « Io sono con voi fino alla fine del mondo ».
Man mano che la Chiesa è animata nella sua missione, organizza anche se stessa nella comunione e la strutturazione interna: i discepoli si mostrano motivati, zelanti, assidui nella concordia e nella carità e convengono tutti nello spezzare il pane e nelle preghiere. Quanto più la comunità accresce il numero dei suoi membri, tanto più emergono nuove necessità di organizzazione e si impongono nuovi ruoli e nuove suddivisioni di compiti e di ministeri; il tutto però fatto salvo il proposito dell’annuncio salvifico, che viene diffuso con rinnovato zelo e fondata intraprendenza.
Fedele al mandato del Salvatore, la Chiesa si prodiga tuttora nella comunicazione del messaggio di salvezza e della lieta notizia del Cristo Risorto e lo fa’ attraverso tutti i mezzi, adoperando tutti gli strumenti e facendosi forte di ogni espediente atto a realizzare tale apostolato. Anche noi siamo inviati. Non solo i successori degli apostoli (Papa e Vescovi) si incaricano di comunicare la lieta notizia, ma tutti i battezzati, ciascuno nel suo ambito e secondo la propria vocazione specifica, contribuiscono alla comunicazione della lieta notizia del Risorto. La Chiesa non sarebbe tale se non si configurasse come Comunione e Missione, e lo stesso Signore unitamente allo Spirito Santo garantiscono tuttora queste prerogative.
Ma prima ancora di codeste caratteristiche, il Risorto ci chiede la radicalità e la convinzione della fede in lui. Se la fede deriva dall’annuncio (Paolo), siamo invitati in primo luogo all’accettazione in prima persona del messaggio di salvezza che ci è stato annunciato dagli apostoli e che viene promulgato dai loro successori. Occorre pertanto che innanziuttto ci affasciniamo del Risorto e aderiamo incondizionatamente e senza riserve alla sua presenza silente ma operosa, accogliendo l’annuncio che legittimamente altri ci hanno fatto di Lui. La fede si realizza nel pieno coinvolgimento di noi stessi al mistero di Dio e nel fascino dell’adesione all’assoluto. Nella misura in cui si mostra fede nel Risorto, tanto più si accresce in noi la gioia e l’entusiasmo di appartenere a lui e di renderci suoi testimoni.
Fede, comunione e missione costituiscono la Chiesa. Ma il famoso episodio di Tommaso ci ragguaglia sulle side che anche al giorno d’oggi è costretta ad affrontare la nostra fede, a motivo della freddezza, della vacuità e dell’indifferenza del cuore.
L’errore di Tommaso non è poi così unico e singolare se consideriamo che anche Pietro era stato definito da Gesù « uomo di poca fede » e addirittura luogo di tentazione satanica perché pensava secondo gli uomini e non secondo Dio. E del resto neppure lo stesso Pietro e l’altro discepolo, arrivati al sepolcro dalla pietra ribaltata, avevano immediatamente creduto, ma solo dopo aver visto le bende per terra e il sudario piegato Pietro « vide e credette ». E anche le donne, giunte al sepolcro, avevano constatato la sparizione del cadavere di Gesù pensando a un cambiamento di loculo. Piuttosto, assente la sera della prima apparizione di Gesù, Tommaso sbaglia nell’essere refrattario alla testimonianza dei suoi fratelli, che pure non potevano non essere credibili, poiché gli avevano raccontato un evento che certo aveva impresso ulteriormente nella loro vita. Il discepolo incredulo reagisce alle loro parole con l’atteggiamento di ripulsa tipicamente umano, il quale non si accontenta di testimonianze o di racconti, ma pretende verifiche e sottili dimostrazioni. Cosicché oseremmo affermare che il vero colpevole di siffatta mancanza non è Tommaso, ma la concezione sofista ed empirista di cui è vittima, cioè la cultura imperante anche ai nostri giorni per la quale nulla è reale se non è dimostrabile.
La fede è invece la reale prova delle cose che non si vedono (Eb 11, 1 e ss) e consiste nell’affidarsi, nel concedersi e nell’accogliere anziché opporre resistenza e recalcitrare di fronte a qualcosa che siamo chiamati a concepire come Dono. Il Cristo Risorto ad essa ci scuote e verso di essa ci incoraggia.
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IL DINAMISMO PASQUALE (PAOLO GIANNONI, CAMALDOLESE)

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IL DINAMISMO PASQUALE (PAOLO GIANNONI, CAMALDOLESE)

PER VIVERE CON MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA IL TEMPO FORTE LITURGICO PASQUALE

La forza della pasqua non va pensata come realtà che si manifesterà solo alla fine dei tempi, perché essa penetra e trasforma già oggi la storia del cristiano, della chiesa e del mondo. I « cieli nuovi e la terra nuova » sono già iniziati, i segni della risurrezione sono presenti tra noi. Quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura. La « memoria » che lo Spirito di Dio compie degli eventi della salvezza nella via liturgica continua il metodo dell’incarnazione e della pasqua. Una glorificazione della condizione umana, che viene assunta nella sua concretezza. È questo che fa di ogni tempo liturgico un’esperienza antica nella perennità del dono e un’esperienza nuova nella concretezza sempre diversa della vicissitudine storica.
Nei fatti l’attuale cammino storico è segnato da profondi disagi di varia natura. La crisi economica che porta impoverimento in molte famiglie (e a fronte di questo sta insopportabile il lusso di altri); l’oscurità delle prospettive dei prossimi mesi; una crisi evidente sul piano della validità e dell’orientazione vitale delle persone e della società; un politica persa nei luoghi del potere, degli interessi particolari e delle menzogne senza vergogna; la difficoltà di una chiesa che sembra voler seguire sempre più una chiusura conservatrice perdendo la sua funzione di lievito e di speranza concreta per gli uomini e le donne di oggi; la precarietà dell’ecumenismo ridotto spesso ai convenevoli dei pasticcini e delle parole retoriche.
È un quadro pesante. Può essere alleggerito in uno sguardo al futuro possibile e alla certezza escatologica? Ma, in questa maniera, non lasciamo questi giorni al serpente? Non facciamo della pasqua un lusso alienante? Dinanzi a questo, è opportuno vivere il tempo grande di quaresima-pasqua, la santa decima dell’anno e il cinquantenario della gloria, collocandoli dentro una prospettiva che assuma la difficoltà attuale portandola dentro la luce pasquale senza alienarsi dalla durezza delle sue oscurità, anzi portandole dentro la luce del risorto Signore. La risurrezione non è un evento che avverrà alla fine, perché è un evento già avvenuto e illumina il cammino dei giorni e delle opere. La luce della pasqua è ora e qui.

Che s’intende per « risurrezione »?
La quaresima prende luce e ragione dalla pasqua, come suggerisce in modo così bello s. Benedetto: «Attendere la santa pasqua nella gioia di un più intenso desiderio spirituale» (RM 49,7). Lo Spirito «che dà la vita»è questo istinto vitale che ci porta verso la vita vincente sulla morte. Egli « fa memoria », rende attuale la risurrezione aiutandoci a compiere un cammino di verifica della sorgente e delle ragioni della vita che viviamo e che siamo.
Questa luce illumina la creazione, che è un discorso della fede non sulle origini ma sul progetto di pienezza con il quale Dio vuole le creature: la creazione è di suo escatologica e Tertulliano parlando della creazione dell’uomo afferma: «Quando il fango assumeva la sua forma veniva configurato Cristo, l’uomo futuro», e il Cristo risorto, l’èschatos Adàm (1Cor 15,45), è la pienezza dell’uomo.
Quando parliamo di escatologia non intendiamo semplicemente parlare delle « cose ultime », perché vengono alla fine della vita, ma di quella « realtà di pienezza » che già intride la vita presente. E questa realtà di pienezza trova anticipazione nella storia. Nel presente la pienezza finale, anche se in passi poveri, trova realizzazione (se Dio asciugherà ogni lacrima, un anticipo avviene ogni volta che si asciuga una lacrima, anche con una politica seria di giustizia verso i poveri). Perciò la risurrezione vive nei nostri giorni, soprattutto quando l’abisso vorrebbe ingoiare la luce, il che avviene ogni volta che la nostra finitudine viene attentata dal nulla che la segna nel profondo: tanto il nulla che si esprime nel limite, nelle impotenze, nel fallimento, nel dolore, nella malattia, nella decadenza e, infine, nella morte, quanto il nulla che vince in ogni peccato. Quando la speranza vince la rinunzia che viene dal limite e dall’impotenza, quando il perdono vince il peccato, è pasqua e ne sperimentiamo la gioia. Forse tutti abbiamo ammirato il dono della risurrezione farsi presente nella pace serena, anche se dolorosa, e nella forza capace di fratelli e sorelle particolarmente feriti dalla vita: sono stati e sono vincenti come frutto vivente della risurrezione del Signore.

Partecipare al Risorto
La prima istanza pasquale è il senso della risurrezione, il senso di una vita così forte che vince la morte (e con lei la disperazione e il peccato), sicché essa appare un’attrice che sulla scena realizza un evento, ma è finto. Ma forse questa interpretazione di S. Kierkegaard nasce da una fede troppo sbrigativa. Occorre più veracemente congiungere la fede della pasqua con la difficoltà concreta della morte e del morire.
Questo è possibile se il senso della fede nell’invincibilità della vita, assicurato dalla risurrezione del Signore, ha un impatto personale profondo in noi, congiungendosi a quel desiderio di vita che tutti siamo.
Ora, avviene che il desiderio della vita per molti diventa il tema dell’immortalità dell’anima. In questa prospettiva si perde troppo del prezioso essere umano. Si trascura l’entità profonda della corporeità, come realtà in sé, ricca e viva, e come atto e capacità di relazione e di vivere nella storia, di fare la storia. La vita cristiana santifica il corpo, solo che si pensi all’acqua battesimale, al crisma, all’eucaristia, all’unzione confortante nella malattia, all’onore al corpo defunto che non è un cadavere e lo si incensa come un corpo santo. La pienezza della vita riguarda l’uomo per intero.
Inoltre, il fatto che il desiderio di vita sia segnato da un’inevitabile finitudine può far ripiegare in un interesse su di noi che rischia di impoverirci. Il senso della pasqua, infatti, ci assicura che la « cornice » della nostra esistenza non è solo la finitudine, ma l’apertura all’oltre, all’altro, al Dio santo. Senza questa apertura, si rischia di camminare nella proiezione di un desiderio invece di vivere una realtà visitata dalla grazia.
Per questo emerge e ha da emergere in noi la luce della risurrezione, anzi del Risorto. Se il riferimento a Cristo per la nostra fede è cosa di sempre, nel caso della risurrezione si ha il massimo del verismo del rapporto con il Verbo della vita. Nel rapporto con lui noi viviamo la continuità fra il suo prendere la nostra carne fino a partecipare alla nostra morte (con un’espressione potente dice s. Gregorio: «Si è fatto più profondo dell’abisso della morte, perché la trascese portandola sulle sue spalle», Moralia in Job 10,9) e la sua risurrezione. Tutto si stabilisce nel verismo di una unità vitale per la quale noi partecipiamo di lui: «sepolti con Cristo nel battesimo, in lui anche risuscitati» (Col 2,12).
Certamente il riferimento al Risorto comporta una difficoltà perché chiede la fede in un evento che apre oltre la storia, mentre il pensiero della risurrezione si trova coinvolto nel profondo desiderio della vita che è ogni persona e riguarda la storia dell’umanità. E tuttavia esso ha una potenza che attrae con forza perché inserisce nella nostra persona il riferimento ad un evento nel quale la storia reale e la nostra singolare e reale storia si trasformano in un « oltre storia », cioè nel compimento che risponde alla stoffa umana e storica, ma anche la trasforma.
Qui si tocca il grave problema dell’evento reale della risurrezione. La stessa liturgia nella gloria pasquale sa di essere davanti ad una realtà che nessuno ha visto e paradossalmente canta la luce di una notte: l’evento lo ha visto solo la notte («O notte beata, tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagl’inferi!»). Questo grido ha l’umiltà della verità e lo stupore di un’eccedenza che nessuno ha visto accadere. Ci resta (e ci basta) alzare la lode della notte «di cui è stato scritto: la notte splenderà come il giorno e sarà fonte di luce per la mia delizia».
Se si insiste sull’esperienza della risurrezione, si rimane nella « notturnità ». Infatti, se noi non abbiamo rapporto di verifica sulla risurrezione (ma lo abbiamo forse della sua incarnazione? è forse un caso che la nascita sia avvenuta nell’altra notte santa?), noi abbiamo rapporto col Risorto. Così fu per gli apostoli e noi ne accogliamo la testimonianza.
La risurrezione non è un tema che rimanda solo ad un futuro, ma raggiunge l’esperienza umana, vi si colloca all’ interno, diventando non solo l’aspettativa di un futuro escatologico, ma una realtà sempre presente e operante. La risurrezione è insieme storia (è una realtà che avviene all’interno della storia) e trapasso nell’oltre della storia come sua pienezza.
È chiaro che tutto questo vive ed è in un ambito di fede. Ma la fede è un dato divino e insieme umano ed ha la possibilità di portare un beneficio esperienziale importante, perché la risurrezione non è una luce oltre le tenebre, ma una luce che si fa presente nella fragilità creaturale.

Vita trasfigurata e trasfigurante
Se leggiamo i vangeli – come in realtà sono – come un racconto che è stato composto a partire dalla luce trasfigurante del Risorto e se siamo convinti della densità del termine « corpo di Cristo » con il quale viene indicata la chiesa, e della « ricapitolazione » che interessa l’intero creato, noi arriviamo a cogliere il vangelo come un commento liberatore della vita nella sua integralità. La risurrezione infatti è non solo una verità che riguarda il Signore, ma una verità che riguarda la comunità dei credenti e tutta la storia e il cosmo intero (la cui materia vediamo accomunata al destino del corpo di Gesù). In verità, noi comprendiamo che quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura.
Questo non diventa un criterio di retorica vuota, perché tutto parte dal realismo nel quale Dio assume la carne nella sua fragilità e le dà amore: l’incarnazione porta la risurrezione nel tessuto vivente dell’umanità, del cosmo, di ogni vita.
Questo determina la possibilità di un annunzio che fa della proclamazione del Risorto un’esperienza di liberazione, nell’incontro con la libertà umana nella storia concreta (era l’ispirazione della teologia della liberazione). In questo sta la fedeltà di Dio alla carne nella sua debolezza: egli l’ha esperita e segnata nella morte del Signore, vivificato dallo Spirito.
Nella vita della fede
Dinanzi a questa prospettiva di gloria, la fede accetta senza sviamenti la fragilità umana, ma non come umiliazione o destino di entropia, di inarrestabile declino verso la morte e il nulla, bensì come fonte di quell’affidamento motivato dalla potenza del Risorto che si proclama nella beatitudine della povertà. Il povero è beato solo perché c’è la risurrezione e si apre alla potenza di vita che si dischiude nel Risorto. Così si apre un modo diverso, nuovo, di vita e di esperienza.
Il «non conformarsi alla mentalità di questo secolo» (Rom 12,2) non è un invito ad una snobistica forma alternativa e non si inscrive in un ambito di obblighi che nascono da un’appartenenza, perché indica che la vita quotidiana ha da essere resa coerente con la luce trasfigurante. Questa non apre un percorso di ostentazione o di trionfo, non di sicurezze né di presunzione, perché è un cammino che porta e vive il segreto di una certezza di gloria nell’umiltà dei giorni feriali con la loro fatica, durezza, creatività. La fedeltà di Dio alla fragilità della carne porta in noi e sostenta la fedeltà alla vita ordinaria. Pasqua così diventa una pro-vocazione, una chiamata dell’intera esistenza nella piccola e preziosa opera e presenza di ogni uomo/donna. Si parla non solo di « opera », ma anche di « presenza », perché la trasfigurazione impedisce di cogliere qualsiasi persona come scarto, come un nulla che appesantisce il cammino degli altri: nessuna persona è più trascurabile, tutti siamo una gloria di Dio.
Di più: la trasformazione in « corpo spirituale » per l’opera del Cristo risorto divenuto « Spirito datore di vita » (1Cor 15,45) porta una specie di transustanziazione, mai di alienazione. L’ombra del nulla che sta dietro ogni creatura è come vinta dalla gloria dell’intenzione creativa di Dio che, come suo principio, ha voluto la creatura per la sua pienezza. In conseguenza di questo, il mondo e la sua esistenza, l’umanità e l’esistenza dei singoli si capiscono superando la limitazione di uno sguardo che si posa soltanto sulla loro origine, per cogliere l’universo nella luminosità della sua verità escatologica. La loro pienezza di vita trova il primo compimento nella risurrezione del primogenito della creazione che è anche primogenito dei risorti da morte (Col 1,15-18).
Questa è la profonda ricchezza della fede. Essa ci rende coscienti che la visione cristiana dell’uomo non è secondo una « natura » concepibile solo a livello di ragione. Il discorso paolino sulla risurrezione (1Cor 15) ci fa capire che « la natura » è la decadenza del « corpo di polvere » e l’insufficienza del « corpo psichico ». Essa ha da essere trasformata nella potenza del « corpo spirituale » (1Cor 15,42-46).
La fede apre la speranza, e qui ritorna l’espressione bella e determinante del vescovo Dionigi di Milano: «La speranza per la vita porta l’intelligenza della vita», un’espressione profondamente e fondatamente pasquale. Il Risorto è sorgente di una vita intrinsecamente, veracemente risorta, e questo porta la luce su ogni forma di vita. Apre anche la preoccupazione e l’impegno a che la vita sia più grande possibile. Qui si collocano l’impegno politico e l’impegno ecologico (e si coglie la contraddizione di un’ecologia che non ha orrore dell’aborto).
In questa luce l’amore è conoscenza e la conoscenza è amore. L’amore prende questa forma particolare e diventa un riconoscimento relazionale che coglie l’intensa profondità ed essenzialità di vita vincente in ogni creatura e la vuole, la mette in atto nella storia con gesti forse poveri ma veri di risposta al desiderio vitale di pienezza. Sempre si ama non un/a morituro/a ma un vivente. Questo porta ad una forza di volere incondizionato che conduce o almeno tenta di organizzare il reale non secondo il principio della morte, perché la morte e il nulla non sono più condizioni che bloccano il vivere e l’impegno.
Se la vita non ha il gusto della vita, ma ha il gusto della morte, nasce l’angoscia che determina la ricerca – vana – del potere, di ogni forma di potere, come vano surrogato di esistenza e di potenza, che trasforma la storia in un processo di competizioni e la relazione in un contesto di paure, perché l’altro – nella fosca ombra del niente -è un non-me, un attentato al mio essere. Inoltre, si scambia la gioia col piacere, come un disperato risarcimento in frammenti che non conoscono l’arte di essere posti come tessere nell’intero di un mosaico di vita.
L’esistenza nel Risorto fa cessare ogni istinto di potere, perché l’eredità del Risorto porta il senso « signorile » (Rom 6,5-9) della propria vita, dal momento che egli, Spirito vivificante, è il segreto del corpo che è sotto la luce del suo essere.
Noi abitiamo un tempo trasfigurato, come anticipo che non sogna un « al di là », ma vive con fedeltà il « qui-ora » come veracità della verità risorta di tutto il cosmo e la storia (qui tutta la forza di Rom 8,19-25) e che avrà compimento « lassù » (Col 3,1-4), quando si manifesterà Cristo nostra vita.

Memoria passionis e promissionis
Quando dallo sguardo al mistero passiamo allo sguardo sul mondo e sulla storia, la prima cosa che abbiamo da compiere è la memoria passionis: nella liturgia celeste l’agnello che « sta » nella posizione del Risorto resta sempre immolato (Ap 5). In lui resta il segno della passione e della morte, per ricordarci che la fede nella risurrezione, anzi nel Risorto, contiene dentro di sé e sancisce il criterio dell’ »autorità dei sofferenti ». Di qui la chiamata ad un «ecumenismo della compassione» (J.B. Metz) che porta dentro di sé una speranza che si basa sulla memoria della promessa (quale forza in Cristo assume anche la « grande compassione » buddista!).
La memoria che lo Spirito realizza in noi (Gv 14,26) non è un ricordo, ma l’attualizzazione della promessa di Dio attraverso l’opera nostra, come chiesa e come singoli. L’escatologia chiede che la storia sia un anticipo della pienezza finale, attraverso gesti forse poveri ma realizzatori della pienezza.
In concreto, qui l’affermazione conclusiva della storia che Dio dà in Ap 21,4 (che riprende la promessa di Is 25,8: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»), diventa la necessità di coloro che vivono la caparra della risurrezione ad essere asciugatori di lacrime, dal gesto maternale della carezza fino all’impegno in una politica, come arte di costruire una polis dove pace, giustizia, verità non siano parole ma stoffa della vita, non gioco di potere ma potenza di servizio (e tutti sappiamo quanto questo sia manchevole e necessario). Quanto avviene nella gloria che il cuore vive nella celebrazione della pasqua, nella luminosa notte pasquale, ha da muovere le mani nei giorni feriali della storia.
Di questo sono testimoni la teologia della speranza e la teologia della liberazione, che non sono episodi culturali, ma presenze necessarie nel vivere dei cristiani.

Uomo e cosmo
Se ricordiamo la Contra gentiles di s. Tommaso nei capitoli 15-19 del terzo libro, noi comprendiamo che il destino della pienezza riguarda non solo l’uomo, ma tutte le creature e l’intero cosmo: «conseguire Dio ognuno nella propria maniera». Lasciamo nell’enigma il tema dei « cieli nuovi » e della « terra nuova » (2Pt 3,13), ma teniamo di conto la bellezza della comunanza del desiderio e della promessa che riguarda tutte le creature. L’antico cuore della chiesa ha sentito questo quando nell’Exultet, dopo gli angeli, per prima viene invitata alla gioia non la chiesa ma «la terra inondata da così grande splendore». Ora si adempie la promessa di Gen 8,21-22 e l’arco delle saette degli dèi è stato trasformato nell’iride dell’alleanza di Dio con ogni « carne » (Gen 9, 11-17). Questa promessa raggiunge la verità del compimento nel corpo risorto di Gesù. In lui l’intera materia e l’intera basar-carne diventano glorificate. E questo ha il suo acme nel mistero dell’ascensione, che porta la materia e l’universo nel cuore stesso di Dio mediante il corpo dell’Agnello immolato e risorto che sale nel fastigio della gloria.
Nasce un nuovo modo di procedere, quello di un cuore largo come la spiaggia del mare che accoglie ogni onda e ogni relitto. In esso l’operosità di carità di una fede ricca di speranza vive la feconda intesa insieme a tutte le creature, in ogni nuova via verso la verità (GS 44).
La fede sente sorelle e sodali le scienze e la cultura creativa umana. La coscienza della risurrezione intride il quotidiano e porta motivazione ad una tecnica che chiede una risposta di senso. E anche se non la chiede – ma ce l’ha dentro di sé! – noi la portiamo e la doniamo, non come colonizzazione delle scienze, ma come offerta fraterna di un servizio di gioia.

Paolo Giannoni

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