Archive pour la catégorie 'LITURGIA STUDI'

22 febbraio – Cattedra di San Pietro Apostolo (storia)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20800

Cattedra di San Pietro Apostolo

22 febbraio 

Il 22 febbraio per il calendario della Chiesa cattolica rappresenta il giorno della festa della Cattedra di San Pietro. Si tratta della ricorrenza in cui viene messa in modo particolare al centro la memoria della peculiare missione affidata da Gesù a Pietro. In realtà la storia ci ha tramandato l’esistenza di due cattedre dell’Apostolo: prima del suo viaggio e del suo martirio a Roma, la sede del magistero di Pietro fu infatti identificata in Antiochia. E la liturgia celebrava questi due momenti con due date diverse: il 18 gennaio (Roma) e il 22 febbraio (Antiochia). La riforma del calendario le ha unificate nell’unica festa di oggi. Essa – viene spiegato nel Messale Romano – « con il simbolo della cattedra pone in rilievo la missione di maestro e di pastore conferita da Cristo a Pietro, da lui costituito, nella sua persona e in quella dei successori, principio e fondamento visibile dell’unità della Chiesa ». (Avvenire)

Martirologio Romano: Festa della Cattedra di san Pietro Apostolo, al quale disse il Signore: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Nel giorno in cui i Romani erano soliti fare memoria dei loro defunti, si venera la sede della nascita al cielo di quell’Apostolo, che trae gloria dalla sua vittoria sul colle Vaticano ed è chiamata a presiedere alla comunione universale della carità.

Per ricordare due importanti tappe della missione compiuta dal principe degli apostoli, S. Pietro, e lo stabilirsi del cristianesimo prima in Antiochia, poi a Roma, il Martirologio Romano celebra il 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia e il 18 gennaio quella della sua cattedra a Roma. La recente riforma del calendario ha unificato le due commemorazioni al 22 febbraio, data che trova riscontro in un’antica tradizione, riferita dalla Depositio mar rum. In effetti, in questo giorno si celebrava la cattedra romana, anticipata poi nella Gallia al 18 gennaio, per evitare che la festa cadesse nel tempo di Quaresima.
In tal modo si ebbe un doppione e si finì per introdurre al 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia, fissando al 18 gennaio quella romana. La cattedra, letteralmente, è il seggio fisso del sommo pontefice e dei vescovi. E’ posta in permanenza nella chiesa madre della diocesi (di qui il suo nome di « cattedrale ») ed è il simbolo dell’autorità del vescovo e del suo magistero ordinario nella Chiesa locale. La cattedra di S. Pietro indica quindi la sua posizione preminente nel collegio apostolico, dimostrata dalla esplicita volontà di Gesù, che gli assegna il compito di « pascere » il gregge, cioè di guidare il nuovo popolo di Dio, la Chiesa.
Questa investitura da parte di Cristo, ribadita dopo la risurrezione, viene rispettata. Vediamo infatti Pietro svolgere, dopo l’ascensione, il ruolo di guida. Presiede alla elezione di Mattia e parla a nome di tutti sia alla folla accorsa ad ascoltarlo davanti al cenacolo, nel giorno della Pentecoste, sia più tardi davanti al Sinedrio. Lo stesso Erode Agrippa sa di infliggere un colpo mortale alla Chiesa nascente con l’eliminazione del suo capo, S. Pietro. Mentre la presenza di Pietro ad Antiochia risulta in maniera incontestabile dagli scritti neotestamentari, la sua venuta a Roma nei primi anni dell’impero di Claudio non ha prove altrettanto evidenti.
Lo sviluppo del cristianesimo nella capitale dell’impero attestato dalla lettera paolina ai Romani (scritta verso il 57) non si spiega tuttavia senza la presenza di un missionario di primo piano. La venuta, qualunque sia la data in cui ciò accadde, e la morte di S. Pietro a Roma, sono suffragare da tradizioni antichissime, accolte ora universalmente da studiosi anche non cattolici. Lo attestano in maniera storicamente inoppugnabile anche gli scavi intrapresi nel 1939 per ordine di Pio XII nelle Grotte Vaticane, sotto la Basilica di S. Pietro, e i cui risultati sono accolti favorevolmente anche da studiosi non cattolici.

Autore: Piero Bargellini 

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 22 février, 2010 |Pas de commentaires »

DI DOM PROSPER GUÉRANGER – 22 FEBBRAIO: CATTEDRA DI SAN PIETRO IN ANTIOCHIA

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-22feb.htm

22 FEBBRAIO

CATTEDRA DI SAN PIETRO IN ANTIOCHIA

di dom Prosper Guéranger

Festa della Cattedra di Antiochia.

Per la seconda volta la santa Chiesa festeggia la cattedra di Pietro; ma oggi, siamo invitati a venerare non più il suo Pontificato in Roma, ma il suo Episcopato ad Antiochia. La permanenza del Principe degli Apostoli in quest’ultima città fu per essa la più grande gloria che conobbe dalla sua fondazione; pertanto, questo periodo occupa un posto tanto rilevante nella vita di san Pietro da meritare d’essere celebrato dai cristiani.

Il Cristianesimo ad Antiochia.

Cornelio aveva ricevuto il battesimo a Cesarea dalle mani di Pietro, e l’ingresso di questo Romano nella Chiesa preannunciava il momento in cui il Cristianesimo doveva estendersi oltre la popolazione giudaica. Alcuni discepoli, i cui nomi non ci furono tramandati da Luca, fecero un tentativo di predicazione in Antiochia, ed il successo che ne riportarono indusse gli Apostoli ad inviarvi Barnaba. Giunto questi colà, non tardò ad associarsi un altro giudeo convertito da pochi anni e conosciuto ancora col nome di Saulo, che, più tardi, cambierà il suo nome con quello di Paolo e diventerà oltremodo glorioso in tutta la Chiesa. La parola di questi due uomini apostolici suscitò nuovi proseliti in seno alla gentilità, ed era facile prevedere che ben presto il centro della religione di Cristo non sarebbe stato più Gerusalemme, ma Antiochia. Così il Vangelo passava ai gentili e abbandonava l’ingrata città che non aveva conosciuto il tempo della sua visita (Lc 19,44).

San Pietro ad Antiochia.

La voce dell’intera tradizione c’informa che Pietro trasferì la sua residenza in questa terza città dell’Impero romano, quando la fede di Cristo cominciò ad avere quel magnifico sviluppo che abbiamo qui sopra ricordato. Tale mutamento di luogo e lo spostamento della Cattedra primaziale stanno a dimostrare che la Chiesa s’avanzava nei suoi destini e lasciava l’augusta cinta di Sion, per avviarsi verso l’intera umanità.

Sappiamo dal Papa sant’Innocenzo I ch’ebbe luogo in Antiochia una riunione degli Apostoli. Ormai il vento dello Spirito Santo spingeva verso la gentilità le sue nubi sotto il cui emblema Isaia raffigura gli Apostoli (Is 60,8). Sant’Innocenzo, alla cui testimonianza si unisce quella di Vigilio, vescovo di Tarso, osserva che si deve riferire al tempo di questa riunione di san Pietro e degli Apostoli ad Antiochia, quanto san Luca scrive negli atti, là dove afferma che alle numerose conversioni di gentili, si incominciò a chiamare i discepoli di Cristo con l’appellativo di Cristiani.
 

Le tre Cattedre di san Pietro.

Dunque Antiochia è diventata la sede di Pietro, nella quale egli risiede, e dalla quale partirà per evangelizzare le diverse province dell’Asia; qui farà ritorno per ultimare la fondazione di questa nobile Chiesa. Sembrava che Alessandria, la seconda città dell’impero, volesse rivendicare a sé l’onore della sede del primato, quando piegò la testa sotto il giogo di Cristo. Ma ormai Roma, da tempo predestinata dalla divina Provvidenza a dominare il mondo, ne avrà maggior diritto. Pietro allora si metterà in cammino, portando nella sua persona i destini della Chiesa; si fermerà a Roma, ove morirà e lascerà la sua successione. Nell’ora segnata, si distaccherà da Antiochia e stabilirà vescovo Evodio, suo discepolo. Questi, quale successore di Pietro, sarà Vescovo di Antiochia; ma la sua Chiesa non eredita il primato che Pietro porta con sé. Il principe degli Apostoli designa Marco, suo discepolo, a prender in suo nome possesso di Alessandria; la quale sarà la seconda Chiesa dell’universo e precederà la stessa sede di Antiochia, per volontà di Pietro, che però non ne occupò mai personalmente la sede. Egli è diretto a Roma: ivi finalmente, fisserà la Cattedra sulla quale vivrà, insegnerà e governerà nei suoi successori.

Questa l’origine delle tre grandi Cattedre Patriarcali così venerate anticamente: la prima, Roma, investita della pienezza dei diritti del principe degli Apostoli, che gliele trasmise morendo; la seconda, Alessandria, che deve la sua preminenza alla distinzione di cui volle insignirla Pietro adottandola per sua seconda sede; la terza, Antiochia, sulla quale si assise di persona, allorché, rinunciando a Gerusalemme, volle portare alla Gentilità le grazie dell’adozione.

Se dunque Antiochia cede in superiorità ad Alessandria, quest’ultima le è inferiore rispetto all’onore d’aver posseduta la persona di colui che Cristo aveva investito dell’ufficio di Pastore supremo. È dunque giusto che la Chiesa onori Antiochia per aver avuto la gloria d’essere temporaneamente il centro della cristianità: è questo il significato della festa che oggi celebriamo [1].

Doveri verso la Cattedra di san Pietro.

Le solennità che si riferiscono a san Pietro devono interessare in modo speciale i figli della Chiesa. La festa del padre è sempre quella dell’intera famiglia, perché da lui viene la vita e l’essere. Se v’è un solo gregge, è perché esiste un solo Pastore. Onoriamo perciò la divina prerogativa di Pietro, alla quale il Cristianesimo deve la sua conservazione; riconosciamo gli obblighi che abbiamo verso la Sede Apostolica. Il giorno che celebravamo la Cattedra Romana, apprendemmo come viene insegnata, conservata e propagata la Fede dalla Chiesa Madre nella quale risiedono le promesse fatte a Pietro. Onoriamo oggi la Sede Apostolica, quale unica sorgente del legittimo potere, mediante il quale vengono retti e governati i popoli in ordine alla salvezza eterna.

Poteri di Pietro.

Il Salvatore disse a Pietro: « Io ti darò le Chiavi del Regno dei cieli » (Mt 16,19), cioè della Chiesa; ed ancora: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle » (Gv 21,15-17). Pietro dunque è principe, perché le Chiavi, nella Sacra Scrittura, significano il principato; e Pastore, Pastore universale, perché non vi sono in seno al gregge che pecore ed agnelli. Ma ecco che, per divina bontà, in ogni parte incontriamo Pastori: i Vescovi, « posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio » (At 20,28), che in suo nome governano le cristianità, e sono anch’essi Pastori. Come mai le Chiavi, che sono eredità di Pietro, si trovano in altre mani, che non sono le sue? La Chiesa cattolica ce ne spiega il mistero nei documenti della sua Tradizione.

Ecco Tertulliano affermare che « il Signore diede le Chiavi a Pietro, e per mezzo suo alla Chiesa » (Scorpiaco, c. 10); sant’Ottato di Milevi, aggiungere che, « per il bene dell’unità, Pietro fu preferito agli altri Apostoli, e, solo, ricevette le Chiavi del Regno dei cieli per trasmetterle agli altri » (Contro Parminiano, 1,8); san Gregorio Nisseno, dichiarare che « per mezzo di Pietro, Cristo comunicò ai Vescovi le Chiavi della loro celeste prerogativa » (Opp. t. 3); e infine san Leone Magno, precisare che « il Salvatore diede per mezzo di Pietro agli altri prìncipi della Chiesa tutto ciò che ha creduto opportuno di comunicare » (Nell’anno della sua elevazione al Sommo Pontificato, Discorso 4, P. L. 54, c. 150).

Poteri dei Vescovi.

Quindi l’Episcopato rimarrà sempre sacro, perché si ricollega a Gesù Cristo per mezzo di Pietro e dei suoi successori; ed è ciò che la Tradizione cattolica ha sempre affermato nella maniera più imponente, plaudendo al linguaggio dei Pontefici Romani, che non hanno mai cessato di dichiarare, sin dai primi secoli, che la dignità dei Vescovi era quella di compartecipare alla propria sollecitudine, in partem sollicitudinis vocatos. Per tale ragione san Cipriano non ebbe difficoltà d’affermare che, « volendo il Signore stabilire la dignità episcopale e costituire la sua Chiesa, disse a Pietro: Io ti darò le Chiavi del Regno dei cieli; e da ciò deriva l’istituzione dei Vescovi e la costituzione della Chiesa » (Lettera 33).

La stessa cosa ripete, dopo il vescovo di Cartagine, san Cesario d’Arles, nelle Gallie, nel V secolo, quando scrive al Papa san Simmaco: « Poiché l’Episcopato attinge la sua sorgente nella persona del beato Pietro Apostolo, ne consegue necessariamente che tocca a Vostra Santità prescrivere alle diverse Chiese le norme alle quali esse si devono conformare » (Lettera 10). Questa fondamentale dottrina, che san Leone Magno espresse con tanta autorità ed eloquenza, e che in altre parole è la stessa che abbiamo ora esposta mediante la Tradizione, la vediamo imposta a tutte le Chiese, prima di san Leone, nelle magnifiche Epistole di sant’Innocenzo I arrivate fino a noi. In questo senso egli scrive al concilio di Cartagine che « l’Episcopato ed ogni sua autorità emanano dalla Sede Apostolica » (ivi, 29); al concilio di Milevi che « i Vescovi devono considerare Pietro come la sorgente del loro appellativo e della loro dignità » (ivi, 30); a san Vitricio, Vescovo di Rouen, che « l’Apostolato e l’Episcopato traggono da Pietro la loro origine » (ivi, 2).

Non abbiamo qui l’intenzione di fare un trattato polemico; il nostro scopo, nel presentare i magnifici titoli della Cattedra di Pietro, non è altro che quello di alimentare nel cuore dei fedeli quella venerazione e devozione da cui devono essere animati verso di lei. Ma è necessario ch’essi conoscano la sorgente dell’autorità spirituale, che nei diversi gradi di gerachia li regge e li santifica. Tutto passa da Pietro, tutto deriva dal Romano Pontefice, nel quale Pietro si perpetuerà fino alla consumazione dei secoli. Gesù Cristo è il principio dell’Episcopato, lo Spirito Santo stabilisce i Vescovi, ma la missione, l’istituzione che assegna al Pastore il suo gregge ed al gregge il proprio Pastore, Gesù Cristo e lo Spirito Santo le comunicano attraverso il ministero di Pietro e dei suoi successori.

Trasmissione del potere delle Chiavi.

Com’è sacra e divina questa autorità delle Chiavi, che, discendendo dal cielo nel Romano Pontefice, da lui, attraverso i Prelati della Chiesa, scende su tutta la società cristiana ch’egli deve reggere e santificare! Il modo di trasmissione attraverso la Sede Apostolica ha potuto variare secondo i secoli; ma mai alcun potere fu emanato se non dalla Cattedra di Pietro. A principio vi furono tre Cattedre: Roma, Alessandria, Antiochia; tutte e tre, sorgenti dell’istituzione canonica per i Vescovi che le riguardano; ma tutte e tre considerate altrettante Cattedre di Pietro da lui fondate per presiedere, come insegnano san Leone (Lettera 104 ad Anatolio), san Gelasio (Concilio Romano, Labbe, t. 4) e san Gregorio Magno (Lettera ad Eulogio). Ma, delle tre Cattedre, il Pontefice che sedeva sulla prima aveva ricevuto dal cielo la sua istituzione, mentre gli altri due Patriarchi non esercitavano la loro potestà se non perché riconosciuti e confermati da chi era succeduto a Roma sulla Cattedra di Pietro. Più tardi, a queste prime tre, si vollero aggiungere due nuove Sedi: Costantinopoli e Gerusalemme; ma non arrivarono a tale onore, se non col beneplacito del Romano Pontefice. Inoltre, affinché gli uomini non corressero pericolo di confondere le accidentali distinzioni di cui furono ornate quelle diverse Chiese, con la prerogativa della Chiesa Romana, Dio permise che le Sedi d’Alessandria, d’Antiochia, di Costantinopoli e di Gerusalemme fossero contaminate dall’eresia; e che divenute altrettante Cattedre di errore, dal momento che avevano alterata la fede trasmessa loro da Roma con la vita, cessassero di tramandare la legittima missione. Ad una ad una, i nostri padri videro cadere quelle antiche colonne, che la mano paterna di Pietro aveva elevate; ma la loro rovina ancora più solennemente attesta quanto sia solido l’edificio che la mano di Cristo fondò su Pietro. D’allora, il mistero dell’unità s’è rivelato in una luce più grande; e Roma, avocando a sé i favori riversati sulle Chiese che avevano tradita la Madre comune, apparve con più chiara evidenza l’unico principio del potere pastorale.

Doveri di rispetto e sudditanza.

Spetta dunque a noi, sacerdoti e fedeli, ricercare la sorgente dalla quale i nostri pastori attinsero i poteri, e la mano che trasmise loro le Chiavi. Emana la loro missione dalla Sede Apostolica? Se è così, essi vengono da parte di Gesù Cristo, che, per mezzo di Pietro, affidò loro la sua autorità, e quindi dobbiamo onorarli ed esser loro soggetti. Se invece si mostrano a noi senza essere investiti del Mandato del Romano Pontefice, non seguiamoli, che Cristo non li riconosce. Anche se rivestono il sacro carattere conferito dall’unzione episcopale, non rientrano affatto nell’Ordine Pastorale; e le pecore fedeli se ne devono allontanare.

Infatti, il divino Fondatore della Chiesa non si contentò d’assegnarle la visibilità come nota essenziale, perché fosse una Città edificata sul monte (Mt 5,14) e colpisse chiunque la guardasse; egli volle pure che il potere divino esercitato dai Pastori derivasse da una visibile sorgente, affinché ogni fedele potesse verificare le attribuzioni di coloro che a lui si presentano a reclamare la propria anima in nome di Gesù Cristo. Il Signore non poteva comportarsi diversamente verso di noi, poiché, dopo tutto, nel giorno del giudizio egli esigerà che siamo stati membri della sua Chiesa e che abbiamo vissuto, nei suoi rapporti, mediante il ministero dei suoi Pastori legittimi. Onore, perciò, e sottomissione a Cristo nel suo Vicario; onore e sottomissione al Vicario di Cristo nei Pastori che manda.

Elogio.

Gloria a te, o Principe degli Apostoli, sulla Cattedra di Antiochia, dall’alto della quale presiedesti ai destini della Chiesa universale! Come sono splendide le tappe del tuo Apostolato. Gerusalemme, Antiochia, Alessandria nella persona di Marco tuo discepolo, e finalmente Roma nella tua stessa persona; ecco le città che onorasti con la tua augusta Cattedra. Dopo Roma, non vi fu città alcuna che ti ebbe per sì lungo tempo come Antiochia; è dunque giusto che rendiamo onore a quella Chiesa che, per tuo mezzo fu un tempo madre e maestra delle altre. Ahimé! oggi essa ha perduto la sua bellezza, la fede è scomparsa nel suo seno, e il giogo del Saraceno pesa su di lei. Salvala, o Pietro, e reggila ancora; assoggettala alla Cattedra di Roma, sulla quale ti sei assise, non per un limitato numero di anni, ma fino alla consumazione dei secoli. Immutabile roccia della Chiesa, le tempeste si sono scatenate contro di te, e più d’una volta abbiamo visto coi nostri occhi la Cattedra immortale essere momentaneamente trasferita lontano da Roma. Ci ricordavamo allora della bella espressione di sant’Ambrogio: Dov’è Pietro, ivi è la Chiesa, e i nostri cuori non si turbarono; perché sappiamo che fu per ispirazione divina che Pietro scelse Roma come il luogo dove la sua Cattedra poggerà per sempre. Nessuna volontà umana potrà mai separare ciò che Dio legò; il Vescovo di Roma sarà sempre il Vicario di Gesù Cristo e il Vicario di Gesù Cristo, sebbene esiliato dalla sacrilega violenza dei persecutori, rimarrà sempre il Vescovo di Roma.

Preghiera.

Calma le tempeste, o Pietro, affinché i deboli non ne siano scossi; ottieni dal Signore che la residenza del tuo successore non venga mai interrotta nella città che tu eleggesti ed innalzasti a tanti onori. Se gli abitanti di questa città regina hanno meritato d’essere castigati perché dimentichi di ciò che ti devono, risparmiali per riguardo dell’universo cattolico, e fa’ che la loro fede, come al tempo in cui Paolo tuo fratello indirizzava la sua Epistola, torni ad essere famosa in tutto il mondo (Rm 1,8).

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[1] Facemmo osservare il 18 gennaio che, secondo l’antica tradizione romana, conservata inalterata sino al XVI secolo, oggi si celebrava la festa della Cattedra romana di san Pietro, senza il menomo cenno di Antiochia, perché ci si limitava a venerare la Cattedra vaticana. simbolo del primato universale di san Pietro e dei suoi successori. Le Chiese delle Gallie, escludendo qualsiasi solennità in Quaresima, avevano trasferita tale festa al 18 gennaio. Da tre secoli a questa parte, fu la pietà verso il Principe degli Apostoli che suggerì di estendere gli onori dovuti alla sua parola anche alla Cattedra di Antiochia. 

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p.  818-824

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 22 février, 2010 |Pas de commentaires »

Il Tempo Ordinario: La bellezza del quotidiano

dal sito:

http://www.oratoriovalentino.org/spiritualita/t_ordinario/tempo%20ordinario.doc

TEMPO ORDINARIO

La bellezza del quotidiano

Il Tempo ordinario ricorda che la vita cristiana è una continua memoria rinnovata della pasqua. La vita di Cristo, culminata nel mistero pasquale, viene attualizzata ogni domenica. Il legame della chiesa con il Salvatore non genera solo un rapporto di fedeltà al passato, ma apre al futuro. Radicata nel Risorto, la chiesa non ripete un cammino lineare, ma vive un rapporto circolare. La grazia della passione e risurrezione permette alla chiesa di inserirsi in modo vitale nelle situazioni sempre nuove del mondo.
 Il Tempo ordinario richiama all’attenzione al quotidiano. Terminate le grandi festività, con quanto di specifico le accompagna anche nella liturgia, l’evento pasquale di Cristo tende ad entrare nei meandri di ogni esperienza personale e familiare, sociale ed ecclesiale del credente. Nulla può restare fuori dalla grazia trasformante di Cristo: affetti e doti, beni e scelte, lavoro e festa, gioie e fatiche, malattia e morte. Tutto ne viene segnato profondamente. L’adesione al Risorto abbisogna di un percorso costante e progressivo, per arrivare a rivestirsi totalmente di lui (Gal 3,27). Il mistero pasquale è troppo denso per essere assimilato in poche settimane: occorrono tempi lunghi e varie mediazioni per accoglierlo come regola di vita e criterio di giudizio, forza di azione e certezza di futuro.
 Il Tempo ordinario non è irrilevante: è anzi il normale sbocco della celebrazione della pasqua. Nei secoli, la concentrazione dell’attenzione sul compimento del precetto pasquale ha forse ritardato la maturazione della consapevolezza che la pasqua va vissuta tutti i giorni della vita, in qualunque circostanza. La risurrezione di Cristo e il dono del suo Spirito non sono finalizzati solo alla domenica, ma anche ai giorni feriali. Infatti, il cristianesimo non è un insieme di riti o di idee, ma un incontro che cambia tutta la vita. Per la chiesa d’occidente, il martirio può consistere nel cammino di conversione e di fedeltà al Signore nelle piccole realtà e situazioni quotidiane. Ogni domenica i fedeli si fermano attorno a Cristo vittorioso per ritrovare la forza di affrontare cristianamente una nuova settimana di vita. Di qui l’importanza di riscoprire il senso della “festa” cristiana come punto trasformante di un’esistenza che diversamente trascorre nel grigiore e nella banalità.
 Nell’esortazione Sacramentum caritatis il papa afferma: «Il culto a Dio nell’esistenza umana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua tende a pervadere tutte le circostanze dell’esistenza in cui ogni particolare viene esaltato, in quanto vissuto dentro il rapporto con Cristo e come offerta a Dio» (n. 71). Al n. 79 il mondo è paragonato al «campo» e i cristiani laici al «buon seme» che il Padre vi semina per far germogliare «la novità radicale portata da Cristo proprio all’interno delle comuni condizioni di vita».
 
L’efficacia del Tempo ordinario

Vivere “da cristiani” il Tempo ordinario equivale ad essere fedeli all’eucaristia, che conferma la natura soprannaturale della vita cristiana e la riscatta dalle «mode del momento» (n. 37). Non si può «vivere secondo la domenica» (Ignazio di Antiochia) senza programmare impegni familiari, lavorativi, ludici ecc., per non mancare all’appuntamento eucaristico, ovunque ci si venga a trovare, anche in vacanza… Con troppa superficialità si omette la partecipazione al memoriale settimanale della pasqua.
 Non si tratta di moralismo, ma del dinamismo dell’amore: «La tensione morale che nasce dall’ospitare Gesù nella propria vita scaturisce dalla gratitudine per aver sperimentato l’immeritata vicinanza del Signore» (n. 82). La coerenza nasce dall’esigenza della pubblica testimonianza della propria fede, soprattutto in relazione ai valori non negoziabili, quali il rispetto e la difesa della vita umana, la famiglia, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune» (nn. 83,85). Il Tempo ordinario è la palestra per esercitare il dono ricevuto, con fedeltà e gratitudine.
È sorprendente l’esempio di Gesù, che per trent’anni conduce un’esistenza qualunque tra lavoro e casa, famiglia e amici. Anche il suo ministero è caratterizzato da incontri non eccezionali o eroici, quasi per sottolineare il valore del quotidiano. Ecco la scelta degli apostoli mentre stanno pescando o di Levi che riscuote le tasse; la partecipazione al matrimonio a Cana e la visita alla suocera di Pietro malata; il dialogo con la Samaritana che attinge acqua e la compassione al funerale del figlio della vedova di Nain; il riferimento al mondo agricolo e al vicinato…
 Gesù educa a cogliere la «perla preziosa» insita nella realtà, uscita buona dalle mani del Creatore, e nella persona umana, dotata del sigillo del soffio stesso di Dio: il tutto rigenerato dalla pasqua. Proprio perché non rinchiuso negli orizzonti del tempo, il cristiano è lungimirante, sa intuire ciò che altri non vedono. Sono suggestivi i suggerimenti di Paola Bignardi per intravedere nella propria esistenza quasi un “sacramento”, nel quale Dio si fa presente senza mostrarsi.
Anzitutto, il «lasciarsi stupire dal mistero» nelle molteplici forme in cui esso appare e negli infiniti luoghi che esso abita. La vita è molto più di ciò che le nostre giornate manifestano e questa convinzione va coltivata insieme a un atteggiamento e a un cuore vigili. La presenza di un Dio cui nulla è impossibile è sempre sorprendente e mai scontata.
Secondo, «svelare il mistero» di un’esistenza piena e affascinante, motivata e serena, non appassita nell’abitudine o bruciata dalla banalità. L’amore che “spinge” si fa parola di fiducia, gesto di misericordia e scelta di condivisione con i fratelli. Il Tempo ordinario è la serra delle relazioni semplici, della prossimità.
Terzo, «narrare il mistero» che racchiude il segreto luminoso che le dà senso. [1] Stretta al Signore Gesù, la vita profuma di vangelo e diventa evangelizzazione spontanea nella vicinanza alle persone. Come afferma efficacemente Benedetto XVI: «Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica… Chi non comunica la verità dell’Amore al fratello non ha ancora dato abbastanza» (nn. 85,86).
 Il Tempo ordinario è insieme risorsa, scuola di formazione e banco di prova per il laicato. Come annotava la Bignardi al convegno di Verona, è ora di riconoscere la vocazione dei laici non solo quando operano per sostenere le iniziative pastorali della comunità, ma quando si impegnano nell’azione secolare per mostrare a tutti che Dio ama la vita. È una straordinaria avventura quella dei fedeli laici, il cui cammino spirituale è tutt’uno con la loro responsabilità di trasformare la vita, stando dentro le sue ricchezze e le sue contraddizioni.
 L’esperienza insegna che nelle comunità c’è una certa separazione tra fede e vita, come pure si fatica a tentare il discernimento sulle problematiche emergenti della società in cambiamento. Si pensi alla limitata conoscenza della dottrina sociale della chiesa, ai non facili rapporti tra cristiani che fanno opzioni differenti in campo partitico e sindacale, alla scarsa attenzione alla salvaguardia del creato con uno stile di vita più sobrio, alla difficoltà di impegnarsi in prima persona a favore della pace e della giustizia, alla poca partecipazione alla vita civica, alla passività rassegnata di fronte a comportamenti neganti la salute e la vita propria e altrui (stragi del sabato sera, sfruttamento commerciale delle giovani generazioni, diffusione di alcol e droga), alla ritrosia a collaborare con cattolici di altre parrocchie e movimenti per proposte alternative, costruttive e credibili…
 Eppure, nella sua prima enciclica il papa ribadisce che i fedeli laici «non possono abdicare alla molteplice e svariata azione economica, sociale, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune» (n. 29). Esistono difficoltà oggettive, ma è un segno che forse il Tempo ordinario va meglio valorizzato per mostrare che l’azione dei cristiani può essere un’autentica e rispettosa risorsa per una società plurale come la nostra. Anche l’estate è una moneta preziosa da spendere bene per riposo, preghiera, servizio formativo e caritativo, contatti con altre comunità cristiane, letture spirituali, contemplazione dell’arte cristiana ecc.
 
Per guardare avanti

Parafrasando quanto indicato dal papa nel messaggio per la 22ª Giornata mondiale della gioventù, si possono individuare alcuni ambiti per l’impegno dei laici nel Tempo ordinario.
Il primo è amare realmente la chiesa nella quale si è inseriti, come comunione di persone segnata dalla varietà, dall’unità e dall’universalità. Sono ben appropriate le parole prolusive del card. Tettamanzi a Verona a proposito della comunione secondo una modulazione ecclesiale (rapporto tra vocazioni, doni e ministeri) ma anche antropologica e sociale (relazione tra uomini e donne, giovani e adulti, ricchi e poveri, studenti e maestri, sani e malati, potenti e deboli, vicini e lontani). L’auspicio dell’arcivescovo di Milano è una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli «più compattata e dinamica, più libera e insieme strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si dà testimonianza cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale!».
 Per maturare nella comunione-collaborazione-corresponsabilità è necessario incontrarsi, dialogare, condividere esperienze: è la via della “sinodalità”. Quanto è importante prevedere, ogni anno, occasioni per conoscere quanto stanno vivendo “altri fratelli” in parrocchia e nella zona pastorale, nella diocesi e nel mondo. Assemblea parrocchiale e consiglio pastorale allargato, apertura e chiusura dell’anno pastorale, programmazione e verifica, incontri informali e formali tra aggregazioni diverse, ascolto riconoscente per l’opera dello Spirito ovunque… È uno stile più che un dovere, una ricchezza più che un problema, un’occasione di grazia.
 Un secondo ambito è cogliere i “segni dei tempi” del presente e prepararsi al futuro, che non sarà la semplice riedizione del passato. Il sociologo Zigmunt Bauman individua tre parole-chiave del 21° secolo: società liquida, politica e città. Il cambiamento socioculturale in atto è caratterizzato dalla globalizzazione dell’economia e dei problemi, dalla compresenza di varie religioni e dall’acuirsi delle domande relative alla vita. Anche il cristiano vive nel proprio territorio e, contemporaneamente, si sente cittadino dell’Europa e del mondo. Questo chiede un cuore attento e una mente desiderosa di documentarsi, senza paure e senza anatemi, ma con lungimiranza e prudenza. Di fronte alla tentazione della semplificazione, dell’integralismo o del ripiegamento su di sé e sul proprio piccolo mondo, per il cristiano è fondamentale acquisire una cultura profonda, ampia, aggiornata alle grandi questioni del tempo: altrimenti la testimonianza risulta sfuocata, povera di ragioni, scarsamente incisiva, incapace di dialogo.
 Il confronto con altre fedi esige di superare l’analfabetismo religioso, molto diffuso tra i cattolici del nostro paese: non è un sintomo di ateismo ma di ignoranza. Per molti la chiesa è un impasto di diritti civili e di carità (o di buonismo, per dirla con Vittorio Messori; o di religione civile, semplice collante di una democrazia affaticata, direbbe il card. A. Scola), mentre la fede sembra risultare muta. Il Tempo ordinario è adatto per una formazione graduale e diversificata sui fondamenti del Credo, tramite varie forme ecclesiali e anche l’“autoformazione” (ben diversa dall’individualismo!). C’è troppa pigrizia di fronte alla secolarizzazione e al relativismo, che relegano la fede cristiana ai margini dell’esistenza, come se essa fosse inutile allo svolgimento concreto della vita degli uomini (n. 77) o che confondono la vita cristiana con le notizie vaticane. È tempo di ricerca per una nuova visione della laicità. [2]
 Terzo, l’audacia di «osare l’amore» sull’esempio dei santi e nella concretezza quotidiana, per evidenziare in “quale” Dio si crede e per rendere convincente la fede. Scrive il papa a proposito della spiritualità cristiana autenticamente eucaristica: «L’offerta della nostra vita, la comunione con tutta la comunità e la solidarietà con ogni uomo sono aspetti imprescindibili del culto spirituale, santo e gradito a Dio, in cui tutta la nostra concreta realtà umana è trasformata a gloria di Dio» (n. 94). Il forte legame con Gesù, unico Salvatore, impedisce di ridurre «in chiave meramente sociologica» la decisiva opera di promozione umana sempre implicata in ogni autentico processo di evangelizzazione (n. 86). Un aspetto dell’unità tra verità e amore è la «saggia misura», come suggerisce il monaco A. Grün: nei nostri tempi in cui non solo si usa il creato senza alcuna misura, ma in cui anche le pretese verso se stessi e la società sono senza misura, proprio la virtù della misura sarebbe un rimedio per le persone e per la convivenza, anche per mantenersi liberi da suggestioni ideologiche e da simpatie partitiche, come richiamava il papa a Verona.
 
Una fede amica dell’uomo
Nella sua prima prolusione da presidente della Cei, mons. A. Bagnasco ha chiesto ai vescovi che «il primato di Dio sia il più possibile “visibile” e “palpabile” nell’esistenza concreta e quotidiana delle nostre persone e delle nostre comunità… Questa è la missione della chiesa, lo scopo del suo esserci e il suo unico desiderio: l’annuncio della speranza che è Cristo». Rivelando il mistero del Padre e del suo amore, Cristo svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (GS 22). Per questo, «la fede è gioia e la vita cristiana, proprio perché alta ed esigente, è gioia. Generare le persone alla vera gioia esprime in modo eminente la maternità della chiesa».[3]
 Il Tempo ordinario è il più adatto a mostrare una fede amica dell’uomo, a testimoniare cioè la bellezza di essere cristiani in un’epoca in cui è diffusa l’opinione che il cristianesimo sia qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Come amava ripetere mons. L. Giussani, Cristo è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell’uomo, poiché egli non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. Senza temere il confronto con la cultura odierna, l’avvenimento cristiano è fonte di nuovi valori e capace di orientare l’intera esistenza.
 È così che lo Spirito prepara le “pietre vive” sagomandole e cementandole sulla pietra angolare che è Cristo, per costruire la chiesa corale e sinfonica, popolare e missionaria, gioiosa e pellegrinante.   (Luigi Guglielmoni)
 
 
[1] Bignardi P., “Lasciamoci sorprendere dal mistero”, in Messaggero di Sant’Antonio, aprile 2007, p. 51; cf. la sua relazione al convegno di Verona.
[2] Scola A., Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio 2007.
[3] Avvenire 27 marzo 2007, p. 7.

Liturgia latina : Inno per l’Avvento : Rorate caeli desuper

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091211

Venerdì della II settimana di Avvento : Mt 11,16-19
Meditazione del giorno
Liturgia latina
Inno per l’Avvento : Rorate caeli desuper

Convertirsi in risposta alla chiamata del Dio che viene

Non irritarti, Signore, e non ricordare oltre l’iniquità. Ecco, la città del Santo è fatta deserto, Sion è fatta deserta; Gerusalemme, la casa della tua santificazione e della tua gloria, dove i nostri Padri ti lodarono, una desolazione. O cieli stillate rugiada e dalle nubi discenda la salvezza (cfr Is 64,8s ; 45,8).

Abbiamo peccato, e siamo divenuti cosa impura; siamo caduti come foglie morte e i nostri peccati ci hanno portato via come il vento. Ci hai nascosto il tuo volto e ci hai abbandonati in potere della nostra iniquità. O cieli stillate rugiada e dalle nubi discenda la salvezza (cf. Is 64,5s).

Vedi, Signore, l’afflizione del tuo popolo e manda colui che stai per mandare. Lascia andare l’Agnello che dominerà la terra, dalla roccia del deserto fino al monte della figlia di Sion, affinché tolga il giogo della nostra schiavitù. O cieli stillate rugiada e dalle nubi discenda la salvezza (cfr Ap 2,12 ; Sal 78,15 ; Is 9,3).

Consolati, consolati, popolo mio: presto verrà il tuo salvatore. Perché ti consumi nella tristezza ? Perché ti riassale il dolore ? Non temere, io ti salverò, perché io sono il Signore tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo Redentore. O cieli stillate rugiada e dalle nubi discenda la salvezza (cfr Is 40,1s).

LA «LITURGIA DELLE ORE»: PREGHIERA DI CRISTO E DELLA CHIESA

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2006/articolo1_37.asp

LA «LITURGIA DELLE ORE»: PREGHIERA DI CRISTO E DELLA CHIESA 

di Matias Augé

In queste pagine vogliamo illustrare la natura della Liturgia delle Ore (= LdO) come preghiera di Cristo e della Chiesa. Si tratta, in fondo, di descrivere i tratti essenziali di una teologia dell’Ufficio divino. Iniziamo indicando, in primo luogo, i principali documenti magisteriali che si sono occupati dell’argomento dal concilio Vaticano II in poi, da considerarsi perciò fonte privilegiata della nostra riflessione; in secondo luogo, forniamo alcuni ragguagli sul metodo con cui intendiamo organizzare il nostro discorso.
La Costituzione Sacrosanctum concilium (= SC) del Vaticano II dedica il c. IV all’Ufficio divino; nei due primi numeri di questo capitolo (SC 83-84) troviamo una breve sintesi dottrinale sulle dimensioni ecclesiologica e cristologica della LdO. In seguito, riprendono e sviluppano la stessa tematica la Costituzione apostolica Laudis canticum (= LC), con cui Paolo VI promulga il 1 novembre del 1970 la Liturgia delle Ore, rinnovata dopo il Vaticano II, e i Principi e norme per la Liturgia delle Ore (= PNLO) pubblicati in volume a parte il 2 febbraio del 1971, e poi inseriti, assieme alla Costituzione apostolica, all’inizio del primo volume dell’edizione tipica del libro della Liturgia delle Ore, libro pubblicato dalla Congregazione per il culto divino l’11 aprile del 1971. È stato detto che i PNLO sono uno dei documenti
«più importanti, se non il più prestigioso, di tutta la riforma liturgica postconciliare. Un vero trattato teologico, pastorale, ascetico, liturgico sulla preghiera, sul significato della Liturgia delle Ore e delle parti di cui si compone»[1].
Da un punto di vista del metodo da seguire, il nostro discorso potrebbe partire dalla prospettiva della celebrazione liturgica o dalla prospettiva della preghiera o, forse meglio ancora, dalla prospettiva della preghiera liturgica in quanto è vera celebrazione rituale. Nei non numerosi approfondimenti sulla nostra tematica che sono stati pubblicati in questi ultimi decenni[2], notiamo il più delle volte una specie di dicotomia, per cui la LdO è considerata semplicemente o prevalentemente come celebrazione liturgica o, nel caso contrario, viene ridotta quasi esclusivamente alla dimensione generica di preghiera (ufficiale) della Chiesa. Lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (= CCC) non sembra che sia sfuggito a questa tentazione. Infatti il tema della preghiera della Chiesa viene affrontato in due momenti diversi: nella parte seconda, dedicata alla «celebrazione del mistero cristiano», si parla ampiamente della LdO, e nella parte quarta, dedicata alla «preghiera cristiana», si approfondisce il tema più generale della preghiera nella vita della Chiesa, vista soprattutto nella prospettiva personale, mentre alla LdO si fa soltanto un fugace riferimento. Più che di un doppione, si tratta piuttosto di una mancanza di osmosi tra le due trattazioni che, in ogni caso, dovrebbero essere lette in un’ottica di complementarità[3].
1. La Liturgia delle Ore è una celebrazione liturgica
Notiamo che i PNLO, al n. 10, considerano la LdO «tra le altre azioni liturgiche». La preghiera pubblica della Chiesa è una celebrazione liturgica vera e propria e, in quanto tale, è un evento rituale che introduce i partecipanti nel mistero storico-salvifico di Cristo. Dalle sue origini, caratteristica propria della LdO è quella di segnare il tempo della giornata con incontri e scadenze fissate in momenti significativi; incontri che sono da considerarsi vere celebrazioni di preghiera. Ci si permetta a questo proposito ricordare molto brevemente, a modo di flash, alcuni dati della storia[4]. Essa ci insegna che la LdO come celebrazione e il suo sviluppo nel corso dei secoli appaiono strettamente collegati all’evolversi della specifica riflessione ecclesiologica.
Incontriamo una prima epoca, dal IV-V sec. in poi, in cui tempo, preghiera e celebrazione si fondono in maniera armonica. È l’epoca in cui le due grandi tradizioni della LdO, quella cattedrale e quella monastica, pur distinguendosi, s’incontrano e si arricchiscono reciprocamente. In questa prima tappa, l’Ufficio divino è inteso come la preghiera oraria celebrata dalle comunità cristiane. In una seconda tappa di questa storia – che inizia dopo il sec. IX, si consolida nel corso del sec. XIII, e sostanzialmente perdura fino al sec. XX – vediamo che comincia a venir meno uno dei fattori principali della celebrazione: il soggetto comunitario. Con l’emergere e lo stabilizzarsi di un’immagine di Chiesa clericale, l’Ufficio divino, che poi si chiamerà Breviario, si avvia a divenire non solo preghiera individuale ma anche compito proprio e quasi esclusivo del clero e dei monaci. Decaduta l’ecclesiologia che la sostentava, l’evoluzione ha offuscato seriamente l’immagine della Chiesa come comunità orante e la testimonianza della preghiera fatta unanimemente (cf. At 2,42), come suo compito primario e una delle espressioni fondamentali della sua vita.
Con il privatizzarsi della LdO la dimensione celebrativa dell’Ufficio divino è stata sacrificata in favore del suo valore ascetico e didattico-pedagogico e ordinata a nutrire la preghiera quotidiana del clero e dei monaci. Per sua natura, però, la LdO non usa solo il linguaggio delle parole, ricorre anche al canto e ai silenzi, ai gesti e alle azioni, ai tempi e agli spazi, alle cose e alle persone. Contro ogni concezione dualistica, bisogna affermare inoltre che la LdO si può e si deve esprimere anche attraverso il linguaggio del corpo, come semplice presenza davanti a Dio del soggetto in atteggiamento orante. Afferma R. Guardini:
«Ciò che opera nell’azione liturgica, che prega, offre e agisce non è l’anima, non l’interiorità, bensì l’uomo: è l’uomo intero che esercita l’attività liturgica»[5].
D’altra parte, ciò si può e si deve affermare anche della preghiera in generale: in seguito alla separazione cartesiana di res cogitans e res extensa, il pensiero moderno tende talvolta a vedere il pregare prevalentemente come un accadimento dell’interiorità e perciò non corporeo; certo, la preghiera comincia nella quiete del cuore ma, nella misura in cui accade come linguaggio, accade anche in modo corporeo[6].
Come abbiamo accennato sopra, la parte quarta del CCC fa soltanto un fugace riferimento alla LdO per affermare che essa è proposta dalla tradizione della Chiesa come uno dei «ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua» (n. 2698). Il CCC parla invece appositamente della LdO nella parte seconda che ha come argomento «La celebrazione del mistero cristiano», in concreto nel c. II che si occupa della «celebrazione sacramentale del mistero pasquale» (nn. 1174-1178). Notiamo, quindi, che il CCC, pur non essendo riuscito ad armonizzare LdO e preghiera, considera giustamente la LdO come vera e propria celebrazione liturgica. Così pure il Codex iuris canonici (= CIC) si occupa della LdO nel Libro IV sulla «Funzione santificatrice della Chiesa», in concreto nei Cann. 1173-1175 della parte seconda che si interessa degli «altri atti del culto divino». Non si tratta di osservazioni insignificanti, ma di scelte metodologiche precise di cui dobbiamo tener conto in ordine a ricuperare la dimensione celebrativa della LdO.
Stabilito che la LdO è vera celebrazione liturgica, possiamo affermare anche che essa è, come ogni celebrazione liturgica, azione di Cristo e della Chiesa (cf. SC 7). È quanto affermano i PNLO: la LdO «è principalmente preghiera di lode e di supplica, e precisamente preghiera della Chiesa con Cristo e a Cristo» (n. 2). È, però, una celebrazione liturgica che ha una sua specificità, come si dice più avanti in PNLO 10, riprendendo concetti espressi da SC 83-84: la LdO «tra le altre azioni liturgiche, ha come sua caratteristica per antica tradizione cristiana di santificare tutto il corso del giorno e della notte». È nota tipica e caratteristica della LdO che essa si svolga intimamente unita al ritmo del tempo. Si tratta di un dato della storia che ha una valenza teologica. Il tempo è il «terreno» della parola orante. Riscoperta la dimensione celebrativa della LdO, viene messa in risalto anche la sua dimensione segnica, il che comporta ricollocare la preghiera delle ore dentro il disegno naturale del tempo, dentro le sue ordinate scansioni: un segno è sempre tale dentro un disegno, come un testo è sempre tale dentro un contesto. Le figure del tempo vengono assunte nella prospettiva cristiana come simboli del tempo salvifico-cristologico. I simboli sono significanti, non convenzionali, dotati di una certa affinità con la realtà significata, e quindi sono capaci di sintonizzare con essa i ritmi antropologici, a livello sia biologico che affettivo. Così, ad esempio, la relazione mattino-lode o sera-abbandono fiducioso[7]. Si potrebbe dire che la preghiera delle «ore» appare e si realizza come «sacramento della vita»[8].
2. La Liturgia delle Ore è preghiera di Cristo
Cristo, come uomo, è il primo orante, l’adoratore perfetto del Padre, l’intercessore più vicino e più efficace dell’umanità davanti a Dio. La preghiera di Gesù è orazione del Figlio che, dal profondo della sua propria identità, si rivolge a Dio come Abbà, Padre. La preghiera introduce Gesù nel cuore di un’intimità unica e personalissima con il Padre e, al tempo stesso, essa scaturisce dalla comunione con lui. La natura della preghiera cristiana è fondata sul fatto che è partecipazione dell’amore del Figlio verso il Padre, e di quelle orazioni e suppliche che egli, durante la vita terrena, ha espresso con le sue parole, anche nella sofferenza (cf. Eb 5,7), e che ora nella gloria non cessa mai di elevare al Padre per noi (cf. Eb 7,25) e insieme con noi nella comunione dello Spirito Santo (cf. Rm 8,15.26). Tale mistero di comunione con la preghiera di Cristo risorto (cf. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1) si attua in noi per la potenza dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori. Ecco quindi che la dimensione cristologica della preghiera dischiude quella trinitaria e quindi anche quella pneumatologica nonché è a fondamento, come vedremo più avanti, della dimensione ecclesiale della preghiera stessa.
La celebrazione della LdO, come ogni altra celebrazione liturgica, ha carattere anamnetico: è memoria efficace della preghiera di Cristo dilatata al suo corpo che è la Chiesa. Essa la realizza e la rende efficacemente presente: l’ecclesialità della LdO, come di ogni altra forma di preghiera, è fondata sul suo presupposto cristologico. Cristo continua l’«ufficio sacerdotale per mezzo della sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita dell’Ufficio divino» (SC 83). Questa dottrina viene ripresa e sviluppata dai PNLO 15:
«Nella Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l’ufficio sacerdotale del suo capo, offre a Dio “incessantemente” (1Ts 5,17) il sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome (cf. Eb 13,15). Questa preghiera è “la voce della stessa sposa che parla allo sposo, anzi è la preghiera che Cristo, unito al suo corpo, eleva al Padre” (SC 84)».
È quindi lo stesso Cristo a conferire alla preghiera della Chiesa tutto il suo profondo valore salvifico e la sua vera dimensione cultuale. Cristo è il punto di riferimento di tutta l’attività orante della Chiesa.
La nostra preghiera si dice «cristiana» non perché, o non in primo luogo, perché modellata su quella di Cristo o perché da lui insegnata, ma molto più profondamente perché egli ne diviene il principio primo, tanto da poter dire: non siamo noi a pregare, ma è Cristo che prega in noi. Infatti la preghiera della Chiesa è possibile come preghiera cristiana in quanto «un vincolo speciale e strettissimo intercorre tra Cristo e quegli uomini che egli per mezzo del sacramento della rigenerazione unisce a sé come membra del suo corpo, che è la Chiesa» (PNLO 7). Se possiamo invocare Dio come «Padre» è perché nel Figlio, mediante il battesimo, siamo incorporati e adottati come figli di Dio (cf. CCC 2798). L’iniziazione cristiana è quindi anche iniziazione alla preghiera di Cristo. La preghiera dei battezzati, poi, è da considerarsi esercizio del sacerdozio battesimale, per cui siamo stati abilitati al culto[9].
Cristo è al centro della nostra preghiera perché è indissolubilmente unito a noi, come lo sposo alla sposa, come il capo al corpo. Afferma Agostino:
«[Gesù Cristo] è il capo, noi il corpo. Noi dunque preghiamo rivolti a lui; preghiamo per mezzo di lui e in lui. Noi preghiamo insieme con lui ed egli prega con noi. Noi diciamo in lui ed egli dice in noi la preghiera di questo salmo…»[10].
Senza la presenza del Signore che unisce come pontefice le sponde della terra e del cielo, la nostra preghiera non potrebbe arrivare fino al Padre. D’altra parte, per la comunione con Cristo, capo dell’umanità, e per la solidarietà della Chiesa con tutti gli uomini, la preghiera ecclesiale raccoglie le preghiere di tutti gli uomini e trasforma in lode e offerta tutte le situazioni umane, intercede per la salvezza di tutti e feconda misteriosamente la vita e le opere dell’umanità per l’avvento del regno di Dio. Come afferma Paolo VI nella LC 8:
«La preghiera cristiana è anzitutto implorazione di tutta la famiglia umana, che Cristo associa a se stesso»[11].
Il nostro canto rende udibile il canto di Cristo; la nostra preghiera di lamento dà concretezza alla protesta del Cristo contro il male di questo mondo; la nostra preghiera dei salmi, rende attuale e sperimentabile la salmodia di Cristo, non solo quella della sua vita mortale, ma anche quella attuale come Signore glorioso. La comunità cristiana che prega è da considerarsi come un segno efficace, una specie di «sacramento» della preghiera che risuona anche oggi nel cuore del Cristo glorioso e che così può farsi percepibile su questa terra per mezzo della sua comunità. Chi realizza questa mutua presenza tra Cristo e la sua comunità orante è lo Spirito Santo, che «è lo stesso in Cristo, in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati» (PNLO 8). È lui che nel cuore umano edifica il tempio della gloria del Padre, «viene in aiuto della nostra debolezza» e «intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26); è lo Spirito del Figlio che, «mandato nei nostri cuori», eleva dall’intimo il grido: «Abbà, Padre!» (Gal 4,6; Rm 8,15); è lo Spirito che accompagna la sposa nella sua invocazione allo sposo: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).
Se Gesù orante manifesta esistenzialmente la sua realtà ontologica di totale e vitale immersione nel mistero del Padre nello Spirito, possiamo parlare di una dimensione trinitaria della LdO. Anzi, si potrebbe affermare in qualche modo che la stessa Trinità, l’unione del Padre con il Figlio nello Spirito, è la forma primigenia di preghiera. La preghiera cristiana partecipa dell’amore del Figlio per il Padre e della preghiera che di questo amore costituisce l’espressione. Lo Spirito Santo, donato alla Chiesa, è questo amore che «unificando tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio la conduce al Padre» (PNLO 8)[12]. La preghiera della Chiesa è, quindi, partecipazione alla comunicazione che avviene incessantemente all’interno della Trinità. La preghiera – in particolare, nel nostro caso, la lode e la dossologia – è prolungamento e attualizzazione nella Chiesa della comunione dialogica tra le tre persone, ossia partecipazione alla stessa vita trinitaria.
Se prendiamo in considerazione lo schema trinitario tipico della teologia greca, vediamo che tutto parte dal Padre, tutto si attua per mezzo del Figlio, poi con lo Spirito Santo si risale su e per il Figlio si ritorna al Padre. Questo schema teologico riflette il movimento reale della storia della salvezza. È quindi Dio che apre il dialogo di sua iniziativa, e inizia un rapporto che è dono suo. E quanto afferma con altre parole SC:
«Il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti. Egli unisce a sé tutta la comunità degli uomini, e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode» (SC 83; cf. anche PNLO 3).
Il «proprium» della preghiera cristiana, a partire dal quale soltanto si può intendere la sua articolazione, è il fatto di non essere una preghiera che sale istintivamente dal cuore dell’uomo, ma una preghiera «donata».
3. La Liturgia delle Ore è preghiera della Chiesa
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come non si può parlare della preghiera di Cristo senza coinvolgere nel discorso la preghiera dei fedeli cristiani. Se l’orazione di Cristo è espressione della sua unione personale con il Padre, e la preghiera dei cristiani, seguendo il suo esempio e il suo mandato, è anche espressione di comunione vitale con Dio e con tutti gli uomini, ne consegue che la preghiera cristiana è essenzialmente comunitaria e quindi ecclesiale, anche quando essa si svolge nel segreto della propria camera (cf. Mt 6,6). Anche nei momenti di preghiera più intima, il cristiano deve conservare un’apertura verso la comunità ecclesiale e verso l’intera umanità. Non è possibile essere in comunione con Dio e immergersi nel mistero del Cristo senza prendere coscienza che questo Dio è il Padre di tutti gli uomini e che Cristo è il Salvatore universale. Ogni preghiera cristiana è fatta sempre da un membro della Chiesa, per Cristo, nello Spirito. Dobbiamo aggiungere, però, che, in ogni caso, la celebrazione in comune della LdO rappresenta sempre un valore aggiunto, in quanto «manifesta più chiaramente la [sua] natura ecclesiale» (PNLO 33).
Che la LdO non sia solo preghiera del clero (e dei monaci), ma vera e propria celebrazione ecclesiale, è una convinzione che, dopo secoli di pratico oblio, si è imposta soprattutto nel corso del movimento liturgico classico e ha trovato autorevole conferma nei documenti del Vaticano II nonché nella riforma da esso promossa[13]. Contro una visione ecclesiologica ristretta in senso clericale, che rischiava di ridurre la Chiesa alla sola gerarchia, il Vaticano II, ricollegandosi all’antica tradizione cristiana, ha compreso la Chiesa di nuovo come soggetto comunitario che è costituito dall’intero popolo di Dio[14]. Orbene, la comunità dei credenti diviene un soggetto comunitario attraverso l’ascolto comune della parola di Dio, attraverso la partecipazione alla celebrazione liturgica dei misteri della salvezza e alla preghiera comune nonché attraverso l’esperienza della vita fraterna comunitaria. Il soggetto Chiesa costituito in questo modo non è dunque un’ipostasi separabile dalla concreta comunità dei credenti[15].
In questo particolare settore, si capisce meglio il progresso dottrinale compiuto dai PNLO, se vengono confrontati con l’impostazione dottrinale dei documenti magisteriali precedenti, compresi gli stessi documenti del Vaticano II[16]. Prendiamo come punto di confronto il solo documento del magistero pontificio, anteriore al concilio, che si è occupato in modo significativo della teologia della LdO, e cioè l’Enciclica Mediator Dei (= MD) di Pio XII (20.11.1947). All’inizio della parte terza, MD parla del «fondamento teologico» dell’Ufficio divino[17]. Per meglio valutare però l’impostazione dottrinale della MD, è utile ricordare prima alcuni principi proposti dall’attuale CIC.
Il Can. 834, § 2, del CIC, attenendosi al Can. 1256 del Codice precedente, delinea il concetto di culto liturgico, mettendone in rilievo le tre condizioni richieste tradizionalmente, e cioè il culto liturgico è tale «quando esso viene reso in nome della Chiesa, da parte di persone legittimamente a ciò deputate e mediante gli atti (libri) approvati dall’autorità della Chiesa stessa». MD riprende questi concetti giuridici e li applica alla LdO:
«L’Ufficio divino è, dunque, la preghiera del corpo mistico di Cristo, rivolta a Dio a nome di tutti i cristiani e a loro beneficio, essendo fatta dai sacerdoti, dagli altri ministri della Chiesa e dai religiosi, a ciò dalla Chiesa stessa delegati»[18].
Sembra che si dovrebbe concludere da queste affermazioni che l’Ufficio divino è preghiera del corpo mistico di Gesù Cristo solo quando viene celebrato da sacerdoti, ministri e religiosi a tale compito delegati. È evidente che sotto tutto questo non vi è soggiacente nessuna reale teologia, ma solo una semplice visione giuridica, applicata a realtà teologiche[19]. Il Vaticano II nella SC ripete sostanzialmente la stessa dottrina:
«Il divino Ufficio, secondo l’antica tradizione cristiana, è costituito in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode di Dio. Quando poi a celebrare debitamente quel mirabile canto di lode sono i sacerdoti e altri a ciò deputati per incarico della Chiesa, o i fedeli che pregano insieme col sacerdote nella forma approvata, allora è veramente la voce della sposa stessa che parla allo sposo, anzi è preghiera di Cristo che, unito al suo corpo, rivolge al Padre» (SC 84).
Notiamo però una novità importante in questo testo conciliare, se confrontato con quello anteriore della MD, ed è l’inclusione dei «fedeli che pregano insieme col sacerdote». In ogni modo, la mentalità dell’insieme del testo è sempre prevalentemente quella giuridica del CIC.
I PNLO compiono un significativo passo avanti, quando da un’impostazione che fin qui appare per lo più giuridica passano a un’impostazione di tipo strettamente teologico. Alla LC di Paolo VI. che afferma che l’Ufficio è «preghiera di tutto il popolo di Dio», fa eco la PNLO che esordisce con queste parole: «La preghiera pubblica e comune del popolo di Dio è giustamente ritenuta tra i principali compiti della Chiesa» (PNLO 1). E più avanti: «La Liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è un’azione privata, ma appartiene a tutto il corpo della Chiesa» (PNLO 20). E verso la fine del documento, si afferma ancora: «La lode della Chiesa non è riservata, né per la sua origine, né per la sua natura, ai chierici o ai monaci, ma appartiene a tutta la comunità cristiana» (PNLO 270). Ecco perché i ministri sacri devono curare che «i fedeli siano invitati e siano istruiti con opportuna catechesi a celebrare in comune, specialmente nei giorni di domenica e di festa, le parti principali della Liturgia delle Ore» (PNLO 23).
Stabilito il principio teologico secondo cui la comunità intera è il soggetto primario della LdO, in PNLO 28-32 si parla del «mandato di celebrare la Liturgia delle Ore». In questo caso, però, il mandato o «deputazione» fatta ai ministri sacri (e ai religiosi) sta a indicare il livello ecclesiale della LdO. Infatti la Chiesa li deputa alla celebrazione della LdO «perché il compito di tutta la comunità sia adempiuto in modo sicuro e costante almeno per mezzo loro, e la preghiera di Cristo continui incessantemente nella Chiesa» (PNLO 28). La dimensione ecclesiale della LdO non è quindi legata a un mandato della Chiesa, ma è strettamente connessa con la deputazione alla preghiera insita nel battesimo e che riguarda perciò tutti i cristiani. Così si esprime autorevolmente il CCC dopo aver affermato – citando SC 98 – che la LdO è la preghiera pubblica della Chiesa: «Nella quale i fedeli (chierici, religiosi, laici) esercitano il sacerdozio regale dei battezzati» (CCC 1174). Notiamo che col termine «fedeli» vengono indicati sia i laici che i religiosi e i chierici[20].
A conferma di tutto ciò, si abbia presente che la LdO è preghiera della Chiesa anche quando la comunità orante è formata eventualmente da soli laici: «Anche i laici riuniti in convegno, sono invitati ad assolvere la missione della Chiesa, celebrando qualche parte della Liturgia delle Ore» (PNLO 27 [corsivi miei]; cf. n. 32; CIC, can. 230, § 3). In questo caso, in mancanza del sacerdote o del diacono, un laico può quindi «presiedere» la celebrazione della LdO (cf. PNLO 258). I laici esercitano questa presidenza in virtù del loro sacerdozio battesimale (cf. CCC 1669).
Dopo quanto abbiamo detto, è evidente che il soggetto orante – ministro sacro, religioso o fedele laico – si deve autocomprendere anzitutto come Chiesa, come membro del popolo di Dio e, in concreto, come soggetto che forma parte di una assemblea. I PNLO 20, applicano questo principio generale alla LdO per esaltarne la sua celebrazione comunitaria:
«Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento di unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi» (SC 26).
4. Considerazioni conclusive
Paolo VI nella LC afferma:
«Rinnovata […] e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio» (LC 8).
Alla luce di queste parole, possiamo dire che quanto abbiamo esposto sulla LdO deve interpretarsi nel contesto di un’adeguata teologia della preghiera cristiana. Oggettivamente, dato il suo carattere normativo, il contenuto della preghiera liturgica si accorda perfettamente con l’ideale della preghiera cristiana. Quando la Chiesa afferma che una preghiera è liturgica, garantisce che quel testo particolare manifesta la sua coscienza di comunità orante. Naturalmente, questo non esclude che altri testi, anche le preghiere delle persone umili e senza cultura, siano preghiere veramente ecclesiali e rivelatrici della coscienza orante della Chiesa. L’atto giuridico del riconoscimento ufficiale della Chiesa è da considerarsi conseguente alla realtà oggettiva preesistente di cui è garanzia.
Il mistero della preghiera cristiana è una realtà unitaria, globale. L’ultima parte di SC 83 si esprime con queste parole: Cristo Gesù «continua questo ufficio sacerdotale per mezzo della sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente [aliis modis, praesertim] con la recita dell’Ufficio divino» (SC 83). Le parole che abbiamo scritto in corsivo non erano presenti nei due primi schemi della Costituzione liturgica; sono state aggiunte sotto richiesta di un padre conciliare affinché non si dimentichi «illa oratio Ecclesiae, quae fit sine intermissione per totum orbem a populo christiano, tum communiter, tum privatim a singulis»[21].
La preghiera liturgica realizza ed esprime in modo eminente ed esemplare (praesertim) il mistero della preghiera cristiana. Perciò la LdO non esclude altre forme di preghiera; è da considerarsi però la norma o criterio di ogni preghiera cristiana perché è una preghiera eminentemente biblica, oggettiva e tradizionale. L’Ufficio divino assicura una struttura che modella, nutre e modera la preghiera privata e che, a sua volta, la preghiera privata può rendere più interiore, personale e intensa. Si può ben dire che ogni forma di preghiera nella Chiesa ha il suo referente cristologico ed ecclesiologico nella LdO.
Finalmente, la LdO esprime con il suo linguaggio legato al ritmo del giorno e della notte, quella stessa logica di unità profonda tra vita e preghiera che i sacramenti perseguono nell’arco della vita intera del credente nei suoi passaggi fondamentali (dall’iniziazione all’unzione degli infermi)[22].

[1] Riferito nel libro-memoria sulla riforma liturgica di A. Bugnini, La riforma liturgica 1948-1975, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1983, p. 512.
[2] Qualche anno fa, io stesso ho affrontato questo argomento nel volume La Liturgia delle ore scuola ecclesiale di preghiera. Atti del XLII Convegno liturgico-pastorale dell’A.L.F.S. Cuore Opera della Regalità di N.S.G.C. (Roma, 20-22 febbraio 2001), Centro Ambrosiano, Milano 2001, pp. 29-42. Il presente contributo rappresenta una profonda ristrutturazione della precedente riflessione, sia per quanto riguarda il metodo che il contenuto. Tra gli autori che più ci sono spesi nell’approfondimento della teologia della LdO, è degno di menzione S. Marsili (cf. gli studi citati più sotto, alla nota 16 e 19).
[3] Cf. D. Sartore, Liturgia e preghiera nel Catechismo della Chiesa cattolica. Confronto tra la seconda e la quarta parte, in «Rivista Liturgica» 81 (1994) 753-763.
[4] Cf. A. Catella, Modelli storici di riforma dell’«Officium divinum», in Liturgia delle ore. Tempo e rito. Atti della XXII Settimana di studio dell’APL (Susa [TO], 29 agosto-3 settembre 1993), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1994, pp. 107-140.
[5] R. Guardini, Formazione liturgica. Saggi, Edizioni OR, Milano 1988, p. 21.
[6] Cf. B. Casper, Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso, CEDAM, Padova 2003, pp. 89-91.
[7] Cf. A. Rizzi, Tempo e liturgia, in Il tempo, EDB (= PSV 36), Bologna 1997, pp. 326-328.
[8] Cf. V. Croce, Cristo nel tempo della Chiesa. Teologia dell’azione liturgica, dei sacramenti e dei sacramentali, LDC, Leumann (TO) 1992, p. 536.
[9] Tommaso d’Aquino parla di una «deputazione» del battezzato «al culto divino» (cf. Somma Teologica III, q. 63, a. 6, ad 2).
[10] Agostino, Esposizioni sui salmi 85, 1: CCL 39, 1176 (ed. it. Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova, Roma 1965ss).
[11] Su tutto ciò cf. J. Castellano Cervera, La Chiesa in preghiera, in E. Ancilli (ed.), La preghiera. Bibbia, teologia, esperienze storiche, vol. 1, Città Nuova, Roma 1988, pp.107-145.
[12] Cf. A. Grillo, Tempo e preghiera. Dialoghi e monologhi sul «segreto» della Liturgia delle Ore, EDB, Bologna 2000, p. 72.
[13] Cf. E.J. Lengeling, Dialog zwischen Gott und Mensch in der «Liturgia Horarum», in P. Jounel – R. Kaczynski – G. Pasqualetti (edd.), Liturgia opera divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti a S.E. mons. Annibale Bugnini in occasione del suo 70o compleanno, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1982, pp. 533-571. L’autore raccoglie alcune testimonianze al riguardo.
[14] Si veda, in particolare, il c. II sul «popolo di Dio» della Lumen gentium.
[15] Sull’argomento c’è un’abbondante letteratura. Qui mi limito a rimandare allo studio di G. Tangorra, Dall’assemblea liturgica alla Chiesa. Una prospettiva teologica e spirituale, EDB, Bologna 1999.
[16] Sull’argomento, cf. S. Marsili, Aspetto «ecclesiale» e «personale» della Liturgia delle Ore, in La preghiera della Chiesa. Atti della I Settimana di studio dell’APL (Bergamo, 4-8 settembre 1972), EDB, Bologna 1974, pp. 57-76.
[17] Leggiamo il testo in C. Braga – A. Bugnini (edd.), Documenta ad instaurationem liturgicam spectantia (1903-1963), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2000.
[18] (Corsivi miei). «Est igitur “Divinum officium”, quod vocamus, mystici Iesu Christi corporis precatio, quae christianorum omnium nomine eorumque in beneficium adhibetur Deo, cum a sacerdotibus aliisque Ecclesiae ministris et a religiosis sodalibus fiat, in hanc rem ipsius Ecclesiae instituto delegatis» (Braga – Bugnini [edd.], Documenta ad instaurationem, cit., n. 2001).
[19] Cf. S. Marsili, Preghiera comune – preghiera della Chiesa, in «Rivista Liturgica» 62 (1975) 321.
[20] Il fatto che l’intera comunità cristiana sia soggetto della LdO non vuol dire che in seno alla comunità i ministri ordinati e i consacrati non abbiano motivi speciali per partecipare in modo più frequente e inteso alla preghiera delle ore. Anzi, in essa trovano un elemento caratteristico della loro spiritualità (cf. J. Aldazábal, Attori della preghiera, in J. Aldazabal – A. Altisent – P. Farnés – R. Grandez – P. Tena (edd.), La lode delle ore. Spiritualità e pastorale, LEV, Città del Vaticano 1996, pp. 7-33).
[21] Cf. F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Constitutio de Sacra Liturgia «Sacrosanctum concilium», LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 248-251.
[22] Cf. E. Bargellini, Liturgia delle Ore: elemento unificante dell’esperienza spirituale, in «Vita Monastica» 214 (2000) 13.

di dom Prosper Guéranger: Il senso della festa della Croce (14 settembre)

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-14set.htm

di dom Prosper Guéranger

14 SETTEMBRE

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

Il senso della festa della Croce.

« Abbiate in voi, fratelli miei, lo stesso sentimento da cui era animato Cristo Gesù il quale esistendo nella forma di Dio, non considerò questa sua eguaglianza con Dio come una rapina, ma annichilì se stesso, prendendo la forma di servo e, divenendo simile agli uomini, apparve come semplice uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce ». Le parole dell’Apostolo, che leggiamo nell’Epistola della Messa, ci danno il senso della festa che oggi celebriamo. I termini schiavo, croce sono, è vero, per noi parole correnti, perché hanno perduto il senso abbietto che avevano nel mondo antico, prima dell’era cristiana e perciò i destinatari della lettera di san Paolo capivano meglio di noi l’orrore della cosa e misuravano meglio di noi quanto Gesù Cristo si era abbassato con l’Incarnazione e la morte sulla Croce.

Il supplizio della Croce.

Non era la croce considerata dagli antichi come « il supplizio più terribile e più infamante » (Cicerone, In Verrem II)? Era allora cosa frequente vedere un ladro o uno schiavo messo in croce e ciò che di questo supplizio indirettamente conosciamo ci permette di valutarne l’atrocità. Il crocifisso moriva con lenta agonia, soffocato per l’asfissia, determinata dalla estensione delle braccia in alto, e torturato da crampi ai nervi irrigiditi.

Il culto della Croce.

Il Cristo ha subito lo spaventevole supplizio per ciascuno di noi; ha offerto al Padre, con un amore infinito, il sacrificio del suo corpo disteso sulla Croce. Lo strumento di supplizio, fino allora oggetto di infamia, diventa per i cristiani la gloria e san Paolo non vuole aver gloria che nella croce del Signore, nella quale risiede la nostra salvezza, la nostra vita, la risurrezione, e per la quale siamo stati salvati e liberati (Introito della Messa).

Il culto della Croce, strumento della nostra redenzione, si è molto diffuso nella Chiesa: la Croce è adorata e riceve omaggi, che non si concedono ad altre reliquie e le feste della Santa Croce rivestono particolare splendore.

È stato già festeggiato il fortunato avvenimento del rinvenimento della Croce il tre maggio, oggi la Chiesa celebra l’Esaltazione della Croce, festa che ha un’origine complessa ma che la storia ci permetterà di precisare.

Origine della festa.

La data del 14 settembre segna l’anniversario di una dedicazione che lasciò nella storia ecclesiastica un profondo ricordo.

Il 14 settembre del 335 una folla considerevole di curiosi, di pellegrini, di monaci, di clero, di prelati, accorsi da tutte le province dell’Impero, si riunivano a Gerusalemme per la Dedicazione del magnifico santuario restaurato dall’imperatore Costantino nel luogo stesso dove il Signore aveva sofferto ed era stato sepolto.

L’anniversario continuò ad essere celebrato con non minore splendore negli anni seguenti. La pellegrina Eteria, venuta a Gerusalemme, al tramonto del IV secolo, ci riferisce che più di 50  vescovi assistevano ogni anno alla solennità del 14 settembre. La Dedicazione aveva rito pari alla Pasqua e all’Epifania e si protraeva per otto giorni con immenso concorso di pellegrini.

Doppio oggetto della festa.

Altri elementi si aggiunsero in seguito alla festa anniversaria della Dedicazione. Primo fu il ricordo dell’antica festa giudaica dei Tabernacoli, che coronava le fatiche della vendemmia. Si credeva che fosse celebrata il 14 settembre e la festa cristiana della Dedicazione doveva prenderne il posto. Dal secolo IV un altro ricordo, questo prettamente cristiano, si attaccava alla festa del 14 settembre. e cioè il ritrovamento del legno sacro della Croce. Una cerimonia liturgica detta elevazione o esaltazione (hypsosis) della Croce ricordava tutti gli anni la fortunata scoperta. Il luogo in cui la Croce era stata innalzata era considerato centro del mondo e per questo un sacerdote alzava il legno sacro della Croce verso le quattro diverse parti del mondo. I pellegrini, a ricordo della cerimonia, si portavano a casa una minuscola ampolla contenente dell’olio, che era stata posta a contatto del legno della Croce.

Diffusione della festa.

La cerimonia prese un’importanza sempre più grande e avvenne che nel VI secolo il ricordo del rinvenimento della Croce e la Dedicazione avvenuta sul Golgota passarono in secondo piano.

I frammenti del sacro legno furono distribuiti nel mondo e con i frammenti si diffuse nelle Chiese cristiane la cerimonia della Esaltazione. Costantinopoli adottò la festa nel 612, sotto l’imperatore Eraclio e Roma l’ebbe nel corso del secolo VII. Sotto papa Sergio († 701) al Laterano il 14 settembre si ripeteva l’adorazione della Croce del Venerdì Santo e gli antichi Sacramentari hanno conservato un’orazione ad crucem salutandam in uso in tale cerimonia. Il rito durò poco e scomparì dagli usi romani, ma l’orazione restò nelle raccolte di orazioni private (Ephemerides liturgicae, 1932, p. 33 e 38, n. 16). Ai nostri tempi l’adorazione della Croce il 14 settembre si fa ormai solo nei monasteri e in poche chiese.

Nuovo splendore della festa.

Un avvenimento venne nel corso dei secoli a rinnovare lo splendore della festa della Esaltazione. Gerusalemme nel 614 era stata occupata dai Persiani e messa a ferro e fuoco. Dopo le vittorie del pio imperatore Eraclio, la città santa era stata restaurata ed Eraclio aveva ottenuto che fosse restituita la Santa Croce, portata dagli invasori a Ctesifonte. Il 21 marzo del 630, la Croce fu di nuovo eretta nella Chiesa del S. Sepolcro e si riprese il 14 settembre seguente la cerimonia della Esaltazione.

Carattere nuovo della festa.

Si resta stupiti nel vedere che la festa, ripristinata con l’antica cerimonia, ha un nuovo carattere di tristezza e di penitenza. Hanno forse contribuito a fare della cerimonia di adorazione un rito di intercessione, nel corso del quale si ripete il Kyrie eleison, le sventure dell’Impero.  Il digiuno diventa in quel giorno di rigore, almeno nel mondo monastico. Il carattere di intercessione resta nei testi della nostra liturgia proprii della festa di questo giorno (gli altri testi sono presi dalla festa del 3 maggio o dalla Settimana Santa). Offertorio e Postcommunio chiedono protezione e soccorso mentre il Vangelo ricorda l’Esaltazione del Figlio dell’Uomo sulla Croce, figurata dal serpente di bronzo.

Essendo stata l’adorazione della Croce un rito della festa di oggi per molto tempo, riportiamo la preghiera composta da sant’Anselmo per la cerimonia del Venerdì Santo.

O Croce Santa, la vista della quale ci ricorda un’altra croce, quella sulla quale Nostro Signore Gesù Cristo ci ha strappati con la sua morte alla morte eterna, nella quale stavamo precipitando miseramente, risuscitandoci alla vita eterna perduta per il peccato, adoro, venero, glorifico in te la Croce che rappresenti e, in essa, il misericordioso Signore. Per essa egli compì la sua opera di misericordia. O amabile Croce, in cui sono salvezza, vita, e resurrezione nostra! O legno prezioso per il quale fummo salvati e liberati! O simbolo di cui Dio ci ha segnati! O Croce gloriosa della quale soltanto dobbiamo gloriarci!

Come ti lodiamo? Come ti esaltiamo? Con quale cuore ti preghiamo? Con quale gioia ci glorieremo di te? Per te è spogliato l’inferno; è chiuso per tutti coloro che in te sono stati riscattati. Per te i demoni sono terrificati, compressi, vinti, schiacciati. Per te il mondo è rinnovato, abbellito, in virtù della verità che splende e della giustizia che regna in Lui. Per te la natura umana peccatrice è giustificata: era condannata ed è salvata; era schiava del peccato e dell’inferno ed è resa libera; era morta ed è risuscitata. Per te la beata città celeste è restaurata e perfezionata. Per te Dio, Figlio di Dio, volle per noi obbedire al Padre fino alla morte (Fil 2,8-9). Per questo egli, elevato da terra, ebbe un nome che è al di sopra di ogni nome. Per te egli ha preparato il suo trono (Sal 9,8) e ristabilito il suo regno.

Sia su di te e in te la mia gloria, in te e per te la mia vera speranza. Per te siano cancellati i miei peccati, per te la mia anima muoia alla sua vita vecchia e sorga a vita nuova, la vita della giustizia. Fa’, te ne prego, che, avendomi purificato nel battesimo dai peccati nei quali fui concepito e nacqui, tu ancora mi purifichi da quelli che ho contratto dopo la nascita alla seconda vita, e che per te io pervenga ai beni per i quali l’uomo è stato creato per il medesimo Gesù Cristo Nostro Signore, cui sia benedizione nei secoli.
 

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1072-1076

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE, LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 13 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

di dom Prosper Guéranger : Trasfigurazione di Nostro Signore

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-6ago.htm

L’anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

 6 AGOSTO

TRASFIGURAZIONE DI NOSTRO SIGNORE

« O Dio, che nella gloriosa Trasfigurazione del tuo Unigenito confermasti con la testimonianza dei patriarchi i misteri della fede, e con la voce uscita dalla nube luminosa proclamasti mirabilmente la perfetta adozione dei figli, concedici, nella tua bontà, di divenire coeredi della gloria e partecipi della medesima » (Colletta del giorno). Nobile formula, che riassume la preghiera della Chiesa e ci presenta il suo pensiero in questa festa di testimonianza e di speranza.

Senso del mistero.

Ma è bene osservare subito che la memoria della gloriosa Trasfigurazione è già stata fatta due volte nel Calendario liturgico: la seconda Domenica di Quaresima e il Sabato precedente. Che cosa significa ciò, se non che la solennità odierna ha come oggetto, più che il fatto storico già noto, il mistero permanente che vi si ricollega, e più che il favore personale che onorò Simon Pietro e i figli di Zebedeo, il compimento dell’augusto messaggio di cui essi furono allora incaricati per la Chiesa? Non parlate ad alcuno di questa visione, fino a quando il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti (Mt 17,9). La Chiesa, nata dal costato squarciato dell’Uomo-Dio sulla croce, non doveva incontrarsi con lui faccia a faccia quaggiù; e quando, risuscitato dai morti, avrebbe sigillato la sua alleanza con lei nello Spirito Santo, solo della fede doveva alimentarsi il suo amore. Ma, per la testimonianza che supplisce la visione, nulla doveva mancare alle sue legittime aspirazioni di conoscere.

La scena evangelica.

A motivo di ciò, appunto per lei, in un giorno della sua vita mortale, ponendo tregua alla comune legge di sofferenza e di oscurità che si era imposta per salvare il mondo, egli lasciò risplendere la gloria che colmava la sua anima beata. Il Re dei Giudei e dei Gentili (Inno dei Vespri) si rivelava sul monte dove il suo pacifico splendore eclissava per sempre i bagliori del Sinai; il Testamento dell’eterna alleanza si manifestava, non più con la promulgazione d’una legge di servitù incisa sulla pietra, ma con la manifestazione del Legislatore stesso, che veniva sotto le sembianze dello Sposo a regnare con la grazia e lo splendore sui cuori (Sal 44,5). La profezia e la legge, che prepararono le sue vie nei secoli dell’attesa, Elia e Mosè, partiti da punti diversi, si incontravano accanto a lui come fedeli corrieri al punto di arrivo; facendo omaggio della loro missione al comune Signore, scomparivano dinanzi a lui alla voce del Padre che diceva: Questi è il mio Figlio diletto! Tre testimoni, autorizzati più di tutti gli altri, assistevano a quella scena solenne: il discepolo della fede, quello dell’amore, e l’altro figlio di Zebedeo che doveva per primo sigillare con il sangue la fede e l’amore apostolico. Conforme all’ordine dato e alla convenienza, essi custodirono gelosamente il segreto, fino al giorno in cui colei che ne era interessata potesse per prima riceverne comunicazione dalle loro bocche predestinate.

Data della festa.

Fu proprio quel giorno eternamente prezioso per la Chiesa ? Parecchi lo affermano. Certo, era giusto che il suo ricordo fosse celebrato di preferenza nel mese dell’eterna Sapienza: Splendore della luce increata, specchio immacolato dell’infinita bontà (Verso alleluiatico; cfr. Sap 7,26).

Oggi, i sette mesi trascorsi dall’Epifania manifestano pienamente il mistero il cui primo annuncio illuminò di così dolci raggi il Ciclo ai suoi inizi; per la virtù del settenario qui nuovamente rivelata, gli inizi della beata speranza [1] sono cresciuti al pari dell’Uomo-Dio e della Chiesa; e quest’ultima, stabilita nella pace del pieno sviluppo che l’offre allo Sposo (Ct 8,10), chiama tutti i suoi figli a crescere come lei mediante la contemplazione del Figlio di Dio fino alla misura dell’età perfetta di Cristo (Ef 4,13). Comprendiamo dunque perché vengano riprese in questo giorno, nella sacra Liturgia, formule e cantici della gloriosa Teofania. Sorgi, o Gerusalemme; sii illuminata; poiché è venuta la tua luce, e la gloria del Signore s’è levata su di te (I Responsorio di Mattutino; cfr. Is 60,1). Sul monte, infatti, insieme con il Signore viene glorificata la sua Sposa, che risplende anch’essa della luce di Dio (Capitolo di nona; cfr. Ap 21,11).

Le vesti di Gesù.

Mentre infatti « il suo volto risplendeva come il sole – dice di Gesù il Vangelo – le sue vesti divennero bianche come la neve » (Mt 17,2). Ora quelle vesti, d’un tale splendore di neve – osserva san Marco – che nessun tintore potrebbe farne di così bianche sulla terra (Mc 9,2), che altro sono se non i giusti, inseparabili dall’Uomo-Dio e suo regale ornamento, se non la tunica inconsutile, che è la Chiesa, e che Maria continua a tessere al suo Figliuolo con la più pura lana e con il più prezioso lino? Sicché, per quanto il Signore, attraversato il torrente della sofferenza, sia personalmente già entrato nella sua gloria, il mistero della Trasfigurazione non sarà completo se non allorché l’ultimo degli eletti, passato anch’egli attraverso la laboriosa preparazione della prova e gustata la morte, avrà raggiunto il capo nella sua resurrezione. O volto del Salvatore, estasi dei cieli, allora risplenderanno in te tutta la gloria, tutta la bellezza e tutto l’amore. Manifestando Dio nella diretta rassomiglianza del suo Figliuolo per natura, tu estenderai le compiacenze del Padre al riflesso del suo Verbo che costituisce i figli di adozione, e che vagheggia nello Spirito Santo fino alle estremità del manto che riempie il tempio (Is 6,1).

Il mistero dell’adozione divina.

Secondo la dottrina di san Tommaso, infatti (III, qu. 45, art. 4), l’adozione dei figli di Dio, che consiste in una conformità di immagine con il Figlio di Dio per natura (Rm 8,29-30), si opera in duplice modo: innanzitutto per la grazia di questa vita, ed è la conformità imperfetta; quindi per la gloria della patria, ed è la conformità perfetta, secondo le parole di san Giovanni: « Ora noi siamo figli di Dio; ma non si è manifestato ancora quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo quale egli è » (1Gv 3,2).

Le parole eterne: Tu sei il mio Figliuolo, OGGI io ti ho generato (Sal 2,7) hanno due echi nel tempo, nel Giordano e sul Tabor; e Dio, che non si ripete mai (Gb 33,14) non ha in ciò fatto eccezione alla regola di dire una sola volta quello che dice. Poiché, per quanto i termini usati nelle due circostanze siano identici, non tendono però allo stesso fine – dice sempre san Tommaso – ma a mostrare quel modo diverso in cui l’uomo partecipa alla rassomiglianza con la filiazione eterna. Nel battesimo del Signore, in cui fu dichiarato il mistero della prima rigenerazione, come nella sua Trasfigurazione che ci manifesta la seconda, apparve tutta la Trinità: il Padre nella voce intesa, il Figlio nella sua umanità, lo Spirito Santo prima sotto forma di colomba e quindi nella nube risplendente; poiché se, nel battesimo, egli conferisce l’innocenza indicata dalla semplicità della colomba, nella resurrezione concederà agli eletti lo splendore della gloria e il ristoro di ogni male, che sono significati dalla nube luminosa (III, qu. 45, ad 1 et 2).

Insegnamento dei padri.

« Saliamo il monte – esclama sant’Ambrogio; – supplichiamo il Verbo di Dio di mostrarsi a noi nel suo splendore e nella sua magnificenza; che fortifichi se stesso e progredisca felicemente, e regni nelle anime nostre (Sal 44). Alla tua stregua infatti, o mistero profondo, il Verbo diminuisce o cresce in te. Se tu non raggiungi quella vetta più elevata dell’umano pensiero, non ti appare la Sapienza; il Verbo si mostra a te come in un corpo senza splendore e senza gloria » (Comm. su san Luca, l. vii, 12).

Se la vocazione che si rivela per te in questo giorno è così santa e sublime (VII Responsorio di Mattutino; cfr. Tm 1,9-10), « adora la chiamata di Dio – riprende a sua volta Andrea da Creta (Discorso sulla Trasfigurazione): – non ignorare te stesso, non disdegnare un dono così sublime, non ti mostrare indegno della grazia, non essere tanto pusillanime nella tua vita da perdere questo celeste tesoro. Lascia la terra alla terra, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Mt 8,22); disprezzando tutto ciò che passa, tutto ciò che muore con il secolo e con la carne, segui fino al cielo senza mai separartene Cristo che per te compie il suo cammino in questo mondo. Aiutati con il timore e con il desiderio, per sfuggire alla caduta e conservare l’amore. Donati interamente; sii docile al Verbo nello Spirito Santo, per raggiungere quel fine beato e puro che è la tua deificazione, con il gaudio di indescrivibili beni. Con lo zelo delle virtù, con la contemplazione della verità, con la sapienza, arriva alla Sapienza principio di tutto e in cui sussistono tutte le cose » (Col 1,16-17).

Storia della festa.

Gli Orientali celebrano questa festa da lunghi secoli. La vediamo fin dagli inizi del secolo IV in Armenia, sotto il nome di « splendore della rosa », rosae coruscatio, sostituire una festa floreale in onore di Diana, e figura tra le cinque feste principali della Chiesa armena. I Greci la celebrano nella settima Domenica dopo Pentecoste, benché il loro Martirologio ne faccia menzione il 6 di agosto.

In Occidente, viene celebrata soprattutto dal 1457, data in cui il Papa Callisto III promulgò un nuovo Ufficio e la rese obbligatoria in ringraziamento della vittoria riportata l’anno precedente dai cristiani sui Turchi, sotto le mura di Belgrado. Ma questa festa era già celebrata in parecchie chiese particolari. Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ne aveva prescritto la celebrazione in tutte le chiese del suo Ordine quando Cluny ebbe preso possesso, nel secolo XII, del monte Thabor.

La benedizione delle uve.

Vige l’usanza, presso i Greci come presso i Latini, di benedire in questo giorno le uve nuove. Questa benedizione si compie durante il santo Sacrificio della Messa, al termine del Nobis quoque peccatoribus. I Liturgisti, insieme con Sicardo di Cremona, ci hanno spiegato la ragione di tale benedizione in un simile giorno: « Siccome la Trasfigurazione si riferisce allo stato che dev’essere quello dei fedeli dopo la resurrezione, si consacra il sangue del Signore con vino nuovo, se è possibile averne, onde significare quanto è detto nel Vangelo: Non berrò più di questo frutto della vite, fino a quando non ne beva del nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio » (Mt 26,29).

Terminiamo con la recita dell’Inno di Prudenzio, che la Chiesa canta nei Vespri ed al Mattutino di questo giorno:

INNO

O tu che cerchi Cristo, leva gli occhi in alto; ivi scorgerai il segno della sua eterna gloria.

La luce che risplende manifesta Colui che non conosce termine, il Dio sublime, immenso, senza limiti, la cui durata precede quella del cielo e del caos.

Egli è il Re delle genti, il Re del popolo giudaico, e fu promesso al patriarca Abramo e alla sua stirpe per tutti i secoli.

I Profeti sono i suoi testimoni, e sotto la loro garanzia, testimone egli stesso, il Padre ci ordina di ascoltarlo e di credere in lui.

Gesù, sia gloria a te che ti riveli agli umili, a te insieme con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

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[1] San Leone: II Discorso sull’Epifania.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 5 août, 2009 |Pas de commentaires »
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