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L’arte di celebrare: un impegno per tutti

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L’arte di celebrare: un impegno per tutti

ROMA, martedì, 20 luglio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine a Rovereto, apparso sulla rivista « Liturgia ‘culmen et fons’ ».

* * *

Il modo ordinario per alimentare la fede della maggior parte dei fedeli passa attraverso la Messa domenicale. Essa è la normale catechesi e la preghiera basilare dalle quali la fede viene continuamente rinverdita e la spiritualità irrobustita. Ci si domanda tuttavia quali sono le condizioni perché tale incontro domenicale sia fruttuoso e non scada in un costume abitudinario senza incisività nella vita di fede. Questo è un pericolo sempre latente e richiede continua vigilanza. Il precetto domenicale, infatti, se da un lato stimola alla fedeltà, dall’altro può indurre ad una osservanza passiva, solo formale e quindi infruttuosa. Ecco allora il valore di una partecipazione cosciente e attiva alla celebrazione liturgica, che si esplica nell’arte del celebrare (ars celebrandi). Questa espressione però non riguarda solo alcuni fedeli: sacerdote, ministri, ecc., ma coinvolge tutti i partecipanti alla celebrazione.

Per ars celebrandi si intende la capacità di compiere bene le varie azioni del rito e per questo occorre conoscerle nel loro significato ed essere abili nel porle nel modo dovuto. Ecco che vi è una ars celebrandi propria del sacerdote, che presiede; una propria del lettore, che proclama la Parola di Dio; una propria del coro, che guida i canti sacri; una propria degli accoliti, che servono all’altare; una propria del ministri straordinari della comunione, ecc. Tutti coloro che svolgono un ministero devono essere competenti nel loro servizio per offrirlo con efficacia e nobiltà. Ma anche ogni fedele presente nell’Assemblea deve avere una ars celebrandi minimale, che consiste nel conoscere la struttura della Messa e le sue parti e nel saper intervenire con convinzione ed efficacia nelle parti che competono a tutta l’Assemblea. Un fedele, infatti, deve almeno conoscere i gesti del corpo: fare il segno della croce, quando stare in ginocchio, in piedi, seduto, muoversi in processione; deve conoscere il senso delle risposte che deve dare: Amen, E con il tuo spirito, ecc.; deve conoscere i testi e i canti fondamentali per partecipare nella recitazione e nel canto sacro con un intervento corale.

Si comprende allora come la riuscita di un rito liturgico non possa essere pretesa dalla prestazione del solo sacerdote, ma deve essere esigita dalla responsabilità e del concorso di tutti i presenti. La liturgia decade non solo per l’impreparazione del sacerdote, ma anche per quella dei lettori, dei cantori, dei ministranti, dei sacristi, ecc. Essa abbassa il suo livello soprattutto quando l’Assemblea dei fedeli è fredda, estranea e assiste come muta spettatrice allo svolgimento rituale. Anche quando i singoli fedeli si isolano in comportamenti individualistici e si estraniano con comportamenti superficiali o in atteggiamenti di distrazione, concorrono a ridurre la forza dell’ars celebrandi che compete a tutti per il bene di tutti. Essa inizia col modo di entrare in chiesa, col silenzio che rispetta il luogo sacro, con l’uso dell’acqua benedetta, con la genuflessione al SS. Sacramento, col clima di orazione che deve aleggiare sovrano.

In questo campo ognuno ha la sua parte nell’ars celebrandi e nessuno può delegare ad un altro gli atteggiamenti che sono di sua esclusiva competenza. Per questo oggi si parla di Assemblea celebrante: per affermare la parte di tutti e di ciascuno, nessuno escluso, nella realizzazione degna dell’azione liturgica. Oggi, a causa della diffusa assenza di molti fedeli dalla Messa domenicale, si nota una sempre più estesa impreparazione degli stessi, soprattutto in riti come quelli delle esequie, dei battesimi, dei matrimoni o altre circostanze. Si notano fedeli ormai assenti da ciò che si svolge all’altare: chiacchiere in chiesa; stare seduti quasi sempre e in momenti come la prece eucaristica e la stessa consacrazione; non conoscenza delle risposte liturgiche e atteggiamenti impropri nel comportamento, nel vestito, ecc.; non è infrequente un accesso superficiale e inopportuno alla comunione, senza alcun discernimento morale e rispetto esteriore.

Tutto questo rivela la necessità di una coraggiosa presa di posizione da parte di tutti i presenti per assicurare un clima di vera preghiera, che scoraggi e riduca quella superficialità dilagante che attenta alla dignità e sacralità del Mistero posto nelle nostre mani. Tale riforma non può diventare operativa col solo intervento del sacerdote, ma occorre che ogni fedele attui una vera ars partecipandi, ossia acquisisca la capacità di partecipare interiormente ai riti che si svolgono e alle preci che si pronunziano. Ecco allora che all’ars celebrandi, propria di ciascuno al proprio posto, si aggiunge l’ars partecipandi, mediante la quale ciò che si fa esteriormente produce un effetto interiore di grazia e di trasformazione spirituale.

La celebrazione allora, se mediante l’ars celebrandi diventa oggettiva, bella, degna, corretta, solenne, mediante l’ars partecipandi diventa efficace, fruttuosa, santificante per ognuno dei presenti. E’ questa partecipazione interiore l’obiettivo di quella partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (SC n. 11), tanto auspicata dal Concilio Vaticano II e dalla sua grande e universale riforma liturgica. Ma per raggiungere tale interiorità occorre l’educazione al silenzio liturgico, che consente una appropriazione personale dei contenuti ufficiali e pubblici della liturgia. Allora il rito oggettivo diventa esperienza soggettiva e ciò che è rivolto a tutti interpella individualmente e personalmente ognuno. L’azione liturgica allora produce il calore della devozione personale, che afferma l’intima partecipazione al Mistero, che tutti salva.

Publié dans:LITURGIA STUDI |on 20 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi

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Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Durante l’Anno Sacerdotale, da poco concluso, la rubrica Spirito della Liturgia ha sviluppato il tema de «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», scelto a motivo della concomitanza, nel 2009-2010, di diversi anniversari: il 150° della morte del Santo Curato d’Ars (1859), il 40° di promulgazione del Messale di Paolo VI (1969) e il 440° del Messale di San Pio V (1570), che nell’edizione approvata dal beato Giovanni XXIII (1962) rappresenta la forma straordinaria del Rito Romano[1]. Di qui l’opportunità di mettere in luce la peculiare dignità del sacerdozio ordinato, approfondendo la teologia e la spiritualità della S. Messa, particolarmente nella prospettiva del ministro che la celebra.
In quest’ultimo articolo, col quale intendiamo anche congedarci dai nostri lettori prima della pausa estiva, vogliamo riflettere con la consueta brevità sul tema dell’ars celebrandi.

1. La situazione nel post-Concilio

Il Concilio Vaticano II ha ordinato una riforma generale della sacra liturgia[2]. Essa è stata effettuata, dopo la chiusura del Concilio, da una commissione comunemente detta, per brevità, il Consilium[3]. È noto che la riforma liturgica è stata sin dall’inizio oggetto tanto di critiche, a volte radicali, quanto di esaltazioni, in certi casi eccessive. Non è nostra intenzione soffermarci su questo problema. Possiamo invece dire che si è generalmente d’accordo nel notare un forte aumento degli abusi in campo celebrativo dopo il Concilio.
Anche il Magistero recente ha preso atto della situazione e in molti casi ha richiamato alla stretta osservanza delle norme e delle rubriche liturgiche. D’altro canto, le leggi liturgiche stabilite per la forma ordinaria (o di Paolo VI) – quella che, eccezioni a parte, si celebra sempre e dovunque nella Chiesa di oggi – sono molto più « aperte » rispetto al passato. Esse consentono molte eccezioni e diverse applicazioni, e anche prevedono molteplici formulari per i diversi riti (la pluriformità persino aumenta nel passaggio dalla editio typica latina alle versioni nazionali). Nonostante ciò, un gran numero di sacerdoti ritiene di dover ulteriormente ampliare lo spazio lasciato alla « creatività », che si esprime soprattutto con il frequente cambiamento di parole o di intere frasi rispetto a quelle fissate nei libri liturgici, con l’inserimento di « riti » nuovi e spesso del tutto estranei alla tradizione liturgica e teologica della Chiesa e anche con l’uso di paramenti, vasi sacri e arredi che non sempre sono adeguati e, in alcuni casi più rari, rasentano persino il ridicolo. Il liturgista Cesare Giraudo ha sintetizzato la situazione con queste parole:
«Se prima [della riforma liturgica] c’erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una « liturgia di ferro », oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno – o perlomeno rischiano di fare – della liturgia una « liturgia di caucciù », sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in un ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale. [...] Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo, è il nuovo « criterio » che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.
[...] Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso»[4].
Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, ha manifestato il suo malcontento per gli abusi liturgici che spesso avvengono, particolarmente nella celebrazione della S. Messa, in quanto «l’Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni»[5]. E ha aggiunto:
«Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al « formalismo » ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le « forme » scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti.
Sento perciò il dovere di fare un caldo appello perché, nella Celebrazione eucaristica, le norme liturgiche siano osservate con grande fedeltà. Esse sono un’espressione concreta dell’autentica ecclesialità dell’Eucaristia; questo è il loro senso più profondo. La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i misteri»[6].

2. Cause ed effetti del fenomeno

Il fenomeno della « disobbedienza liturgica » si è talmente esteso, per numero e in certi casi anche per gravità, da formare in molti una mentalità per la quale nella liturgia, fatte salve le parole della consacrazione eucaristica, si potrebbero apportare tutte le modifiche ritenute « pastoralmente » opportune dal sacerdote o dalla comunità. Questa situazione ha indotto lo stesso Giovanni Paolo II a chiedere alla Congregazione per il Culto Divino di preparare un’Istruzione disciplinare sulla Celebrazione dell’Eucaristia, pubblicata col titolo di Redemptionis Sacramentum il 25 marzo 2004. Nella citazione sopra riprodotta della Ecclesia de Eucharistia, si indicava nella reazione al formalismo una delle cause della « disobbedienza liturgica » del nostro tempo. La Redemptionis Sacramentum individua altre cause, tra cui un falso concetto di libertà[7] e l’ignoranza. Quest’ultima in particolare riguarda non solo la non conoscenza delle norme, ma anche una scarsa comprensione del valore storico e teologico di molti testi eucologici e riti: «Gli abusi trovano, infine, molto spesso fondamento nell’ignoranza, giacché per lo più si rigetta ciò di cui non si coglie il senso più profondo, né si conosce l’antichità»[8].
Innestando il tema della fedeltà alle norme in una comprensione teologica e storica, nonché nel contesto dell’ecclesiologia di comunione, l’Istruzione afferma:
«Troppo grande è il Mistero dell’Eucaristia « perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale ». [...] Atti arbitrari, infatti, non giovano a un effettivo rinnovamento, ma ledono il giusto diritto dei fedeli all’azione liturgica che è espressione della vita della Chiesa secondo la sua tradizione e la sua disciplina. Inoltre, introducono elementi di deformazione e discordia nella stessa Celebrazione eucaristica che, in modo eminente e per sua natura, mira a significare e realizzare mirabilmente la comunione della vita divina e l’unità del popolo di Dio. Da essi derivano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo del popolo di Dio e, quasi inevitabilmente, reazioni aspre: tutti elementi che nel nostro tempo, in cui la vita cristiana risulta spesso particolarmente difficile in ragione del clima di « secolarizzazione », confondono e rattristano notevolmente molti fedeli.
Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della Santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito, come prescritto nei libri liturgici e dalle altre leggi e norme. Allo stesso modo, il popolo cattolico ha il diritto che si celebri per esso in modo integro il sacrificio della Santa Messa, in piena conformità con la dottrina del Magistero della Chiesa. È, infine, diritto della comunità cattolica che per essa si compia la celebrazione della Santissima Eucaristia in modo tale che appaia come vero sacramento di unità, escludendo completamente ogni genere di difetti e gesti che possano generare divisioni e fazioni nella Chiesa»[9].
Particolarmente significativo in questo testo è il richiamo al diritto dei fedeli di avere la liturgia celebrata secondo le norme universali della Chiesa, nonché la sottolineatura del fatto che trasformazioni e modifiche della liturgia – pur se operate per motivi « pastorali » – non hanno in realtà un effetto positivo in questo campo; al contrario confondono, turbano, stancano e possono perfino far allontanare i fedeli dalla pratica religiosa.

3. L’ars celebrandi

Ecco i motivi per i quali il Magistero negli ultimi quattro decenni ha richiamato diverse volte i sacerdoti all’importanza dell’ars celebrandi, la quale – se non consiste solo nella perfetta esecuzione dei riti in accordo alle rubriche, ma anche e soprattutto nello spirito di fede e adorazione con cui essi si celebrano – non si può però attuare se ci si discosta dalle norme fissate per la celebrazione[10]. Così si esprime ad esempio il Santo Padre Benedetto XVI:
«Il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al Rito sacro è la celebrazione adeguata del Rito stesso. L’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa participatio. L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cf. 1Pt 2,4-5.9)»[11].
Richiamando questi aspetti, non si deve cadere nell’errore di dimenticare i frutti positivi prodotti dal movimento di rinnovamento liturgico. Il problema segnalato, tuttavia, sussiste ed è importante che la soluzione ad esso parta dai sacerdoti, i quali devono impegnarsi innanzitutto a conoscere in maniera approfondita i libri liturgici e anche a metterne fedelmente in pratica le prescrizioni. Solo la conoscenza delle leggi liturgiche e il desiderio di attenersi strettamente ad esse impedirà ulteriori abusi ed « innovazioni » arbitrarie che, se sul momento possono forse emozionare i presenti, in realtà finiscono presto per stancare e deludere. Fatte salve le migliori intenzioni di chi la commette, dopo quarant’anni di esperienza in merito possiamo riconoscere che la « disobbedienza liturgica » non costruisce affatto comunità cristiane migliori, ma al contrario mette in pericolo la solidità della loro fede e della loro appartenenza all’unità della Chiesa Cattolica. Non si può utilizzare il carattere più « aperto » delle nuove norme liturgiche come pretesto per snaturare il culto pubblico della Chiesa:
«Le nuove norme hanno di molto semplificato le formule, i gesti, gli atti liturgici [...]. Ma neppure in questo campo non si deve andare oltre a quello che è stabilito: difatti, così facendo, si spoglierebbe la liturgia dei segni sacri e della sua bellezza, che sono necessari, perché sia veramente attuato nella Comunità cristiana il mistero della salvezza e sia anche compreso sotto il velo delle realtà visibili, attraverso una catechesi appropriata. La riforma liturgica infatti non è sinonimo di desacralizzazione, né vuole essere motivo per quel fenomeno che chiamano la secolarizzazione del mondo. Bisogna perciò conservare ai riti dignità, serietà, sacralità»[12].
Tra le grazie che speriamo di poter ottenere dalla celebrazione dell’Anno Sacerdotale vi è pertanto anche quella di un vero rinnovamento liturgico in seno alla Chiesa, affinché la sacra liturgia sia compresa e vissuta per quello che essa è in realtà: il culto pubblico e integrale del Corpo Mistico di Cristo, Capo e membra, culto di adorazione che glorifica Dio e santifica gli uomini[13].

Note

1) Cf. M. Gagliardi, «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», Zenit 11.11.2009: http://www.zenit.org/article-20283?l=italian.
2) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 21.
3) Abbreviazione di Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
4) C. Giraudo, «La costituzione « Sacrosanctum Concilium »: il primo grande dono del Vaticano II», in La Civiltà Cattolica (2003/IV), pp. 532; 531.
5) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 10.
6) Ibid., n. 52. Cf. anche Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 28.
7) «Gli abusi non di rado si radicano in un falso concetto di libertà. Dio, però, ci concede in Cristo non quella illusoria libertà in base alla quale facciamo tutto ciò che vogliamo, ma la libertà, per mezzo della quale possiamo fare ciò che è degno e giusto»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 7.
8) Ibid., n. 9.
9) Ibid., nn. 11-12.
10) Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 20: «Per favorire il corretto svolgimento della sacra celebrazione e la partecipazione attiva dei fedeli, i ministri non debbono limitarsi a svolgere il loro servizio con esattezza, secondo le leggi liturgiche, ma debbono comportarsi in modo da inculcare, per mezzo di esso, il senso delle cose sacre».
11) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 38. Si veda il n. 40 che sviluppa adeguatamente il concetto.
12) Sacra Congregazione per il Culto Divino, Liturgicae instaurationes, n. 1. Il testo continua: «L’efficacia delle azioni liturgiche non sta nella ricerca continua di novità rituali, o di ulteriori semplificazioni, ma nell’approfondimento della parola di Dio e del mistero celebrato, la cui presenza è assicurata dall’osservanza dei riti della Chiesa e non da quelli imposti dal gusto personale di un singolo sacerdote. Si tenga presente, poi, che la imposizione di rifacimenti personali dei sacri riti da parte del sacerdote offende la dignità dei fedeli, e apre la via all’individualismo e al personalismo nella celebrazione di azioni che direttamente appartengono a tutta quanta la Chiesa».
13) Cf. Pio XII, Mediator Dei, I, 1; Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 7.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 1 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Ultima cena e sacrificio: L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento (nella Lettera agli Ebrei)

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2009/07/24/ultima-cena-e-sacrificio.html

Ultima cena e sacrificio

(nella Lettera agli Ebrei))

L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento

di Robert Abeynaike

Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena. Quest’affermazione potrebbe, a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento, almeno direttamente, all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di « sacerdote » – o piuttosto, « sommo sacerdote » – e di « mediatore della Nuova Alleanza ». L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato:  l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione. Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali. Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole « Ecco il sangue dell’alleanza… » (cfr. Esodo, 24, 8; Lettera agli Ebrei, 9, 18-22). Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il « Santo dei Santi » dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (cfr. Levitico, 16; Lettera agli Ebrei, 9, 6-10). Ma secondo quanto dice il nostro autore:  « è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri » (Lettera agli Ebrei, 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 6-10).

L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di:  un nuovo sacerdote – « Il Signore ha giurato e non si pente:  « Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek »" (Salmi, 110, 4); un nuovo sacrificio – « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto:  « Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà »" (Salmi 40, 7-9 ; una nuova alleanza – « Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri… Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati » (Geremia, 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza. Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice:  « Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri (…) non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario (del cielo), procurandoci così una redenzione eterna… il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza… » (Lettera agli Ebrei, 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda. Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole:  « Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » (Matteo, 26, 28). Dicendo infatti le parole « Questo è il mio sangue dell’alleanza », Cristo, si manifestava come il Mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi, contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole:  « Ecco il sangue dell’alleanza » (Esodo, 24, 8). Aggiungendo le parole « versato per molti in remissione dei peccati », egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata:  « Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati » (31, 34). Inoltre, le parole:  « il mio sangue… versato per molti in remissione dei peccati », dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima, non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno d’Espiazione. Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – « Entrò una volta per sempre nel santuario », (Lettera agli Ebrei, 9, 12) – il parallelo con l’azione del sommo sacerdote  levitico – il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui il nostro autore avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza. Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo. Le parole, invece, sul pane – « Questo è il mio corpo » – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei Salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza – « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà » (40, 7-9). Il nostro autore infatti commenta al riguardo:  « Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre » (Lettera agli Ebrei, 10, 10). Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni di Melchisedek (cfr. Genesi, 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena fosse appunto – in adempimento del vaticinio del Salmo 110, 4 – il sacerdote « al modo di Melchisedek ».
In conclusione, possiamo dire che quando il nostro autore in Lettera agli Ebrei, 9, 11-15 – il cuore della sua epistola – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena. I versetti immediatamente seguenti lo confermano:  « Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa. Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive. Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue » (Lettera agli Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca diathéke, che era usata nella Settanta per tradurre la parola ebraica berith – alleanza – mentre nel greco contemporaneo significava testamento. Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno. Come una diathéke – testamento – diventa valida solo alla morte del testatore,  così pure, la diathéke – alleanza – proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca – diathéke – un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune:  il concetto di un’eredità. L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan. L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio. Quindi, noi troviamo Cristo all’ultima cena non solo manifestandosi nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio:  « Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo, 26, 29; cfr. Luca, 22, 29-30). Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione:  « Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di  modo che, quando la sua morte fosse intervenuta… coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Lettera agli Ebrei, 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu:  un sacrificio in cui Cristo « offrì se stesso a Dio » (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 14) per la remissione dei peccati; la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in « eredità eterna » (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (cfr. Matteo, 26, 29; Luca, 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce adesso doveva seguire ineluttabilmente. Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale, non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma, la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice. Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione era entrato nel santuario celeste « per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore » (Lettera agli Ebrei, 9, 24); « procurandoci così una redenzione eterna » (Lettera agli Ebrei, 9, 12). Appunto perché Cristo « offrì se stesso con uno Spirito eterno » (Lettera agli Ebrei, 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane « sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek » (Lettera agli Ebrei, 6, 20). Abbiamo dunque, potremmo dire, un « Giorno di Espiazione » che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice:  « Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente » (Lettera agli Ebrei, 9, 14). E ancora:  « Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario (celeste) per mezzo del sangue di Gesù… e un sacerdote grande sopra la casa di Dio accostiamoci… (Lettera agli Ebrei, 10, 19-22). In un altra occasione egli parla di cristiani come di un popolo che si è accostato « al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione… » (Lettera agli Ebrei, 12, 22-24). Il « sangue di Gesù » è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella ben nota preghiera liturgica, dove si afferma che ogni volta che la messa è celebrata « si effettua l’opera della nostra redenzione » (cfr. Presbyterorum ordinis, 13). Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo, effettivamente:  « Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare » (cfr. Lettera agli Ebrei, 13, 10). San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella Prima Lettera ai Corinzi, 10, 14-22 paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (cfr. Levitico, 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto. Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo:  « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me » (6, 56-57). Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra. Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende. Giustamente i padri orientali l’avevano chiamato il sacrificium tremendum. È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – l’ars celebrandi – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti. È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale appena indetto, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano ii:  « (I presbiteri) esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico » (Lumen gentium, 28).

(L’Osservatore Romano – 24 luglio 2009)

IL MISTERO PASQUALE

dal sito:

http://centrostudiedithstein.myblog.it/archive/2010/03/12/il-mistero-pasquale.html

12/03/2010
IL MISTERO PASQUALE

Il mistero che celebriamo ogni anno e che tentiamo sempre di approfondire non smetterà mai di stupirci se sapremo guardarlo con occhi limpidi e accoglierlo con cuore aperto.
È il vertice della nostra salvezza, il punto centrale che conferisce senso a tutta la nostra esistenza di cristiani credenti in quel Gesù di Nazareth che è il Cristo.
Se osservo lo stile di vita odierno, e le ragioni a questo sottese, in molte persone che conosco ritrovo in uno iato, perché?
Trovo un vuoto che non si lascia spiegare e sembra contraddistinguere atteggiamenti, scelte, iniziative. Un vuoto che potrebbe richiamare all’essenziale, a quanto vi è di ineludibile e che, a meno di essere degli uomini struzzo e quindi di vivere con la testa sotto la sabbia, una volta o l’altra si dovranno affrontare.
Il vuoto può parlare ed esprimere essenzialità, accoglienza, disponibilità a essere colmato; oppure tragicamente, parlare ed esprimere, distruzione, macerie, rifiuto a ricevere.
La conseguenza è netta: il vuoto si orna, si creano orpelli, esigenze di comparire e di apparire, le vetture sono di cilindrata super, le case sono eccessivamente lussuose, gli abiti sono stravaganti e ricercati.
Sotto vi è cenere e disgusto. Insipienza di vita e timore di morte.
Nessuno ha tramandato, in famiglia prima, nella scuola o nei più svariati ambienti di vita poi, una cultura di vita autentica che sappia contenere in sé la vita, quella bella, quella di cui sempre ringraziare come dono, quella ardua che richiede fatica ma che consente di non amputare la persona e di lasciarla invece sviluppare in pienezza assoluta.
La perdita dei valori diviene tragedia e genera commedia: una commedia che mistifica il reale e lacera la persona. Senza umorismo, satura di riso amaro e salato.
Come uscire dallo iato? Guardando a Colui che lo ha colmato, con la sua stessa vita, con la sua stessa persona.
Ho sempre prediletto la cultura egiziana, la sua raffinatezza, l’acutezza e la genialità di cui attestano la lingua, i testi e le costruzioni che ci restano. Tuttavia, mi rimane un profondo interrogativo sulla concezione della vita e della morte egizia.
Mi spiego. Osservate quel mirabile prodotto di ingegneria che è la piramide, io ne resto sempre attonita, con tutto l’arredamento interno che riproduce la vita del defunto nei minimi particolari, con una ricchezza e un dispendio di denaro e abilità artistiche e artigianali di grande classe.
In fin dei conti però è riproporre il già vissuto in una dimensione che non si conosce e si nega proprio con lo stesso riproporla, per timore dell’ignoto, perché la vita non è stata letta nella sua corretta interpretazione.
Questo è uno iato, antico e con la polvere dei secoli che lo fa diventare archeologia.
Però, perché vivere e dare il proprio contributo alla vita con figli, azione sociale, impegno politico, servizio agli altri, quando io, tutti e tutto saremo condannati e relegati ad un’archeologia polverosa?
Bene, ritengo che questo iato sia abitabile, sia possibile dimorarvi, proprio oggi, mentre si avvicina il giorno di Pasqua.
Come? Con una mossa molto semplice e elementare: stando seduti all’Anastasis, a quello che, erroneamente, è detto il Santo Sepolcro, mentre con termine greco corretto è appunto l’Anastasis, cioè la Risurrezione.
Le pietre nude, il masso rovesciato, l’incavo in cui fu deposto il corpo del Crocifisso, le bende abbandonate, tutto parla di vita, di futuro, non di archeologia polverosa.
Allora perché spendere la propria vita costruendosi la propria piramide, invece di sostare all’Anastasis’
Sia questo il dono di vita di Colui che è il Risorto. 

C. Dobner

(Il Castello dell’anima, 31.03.07)

La Domenica delle Palme: 2. Osanna (di Olivier Clement)

di Oliver Clemént, ricordo che è della Chiesa Ortodossa, dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/palmeschmem.htm

2. Osanna

La Domenica delle Palme

            Dal punto di vista liturgico, il sabato di Lazzaro si presenta come la pre-festa della domenica delle Palme, giorno in cui si celebra l’ingresso del Signore a Gerusalemme. Queste due feste hanno un tema comune: il trionfo e la vittoria. Il sabato rivela il nemico che è la morte, la domenica annuncia la vittoria come trionfo del regno di Dio, accettazione da parte del mondo del suo solo Re, Gesù Cristo. L’ingresso solenne nella città santa fu, nella vita di Gesù, il suo solo trionfo visibile. Fino a quel giorno, egli aveva volontariamente respinto ogni tentativo di glorificarlo. Solo sei giorni prima della pasqua non soltanto accetta volentieri l’avvenimento, ma lo provoca. Compiendo alla lettera ciò che aveva detto il profeta Zaccaria – «Ecco, a te viene il tuo re… cavalca un asino» (Zc 9, 9) –, egli ha mostrato chiaramente che voleva essere riconosciuto e acclamato come Messia, Re e Redentore d’Israele. Il racconto del vangelo sottolinea, in effetti, tutti questi tratti messianici: le palme, i canti di Osanna, l’acclamazione di Gesù come Figlio di Davide e Re d’Israele. La storia di Israele raggiunge il suo scopo: tale è il senso di questo avvenimento. Infatti, il senso di questa storia era di annunciare e preparare il regno di Dio, la venuta del Messia. Oggi essa è compiuta, perché il re entra nella sua città santa, e in lui le profezie e tutta l’attesa di Israele trovano il loro compimento. Egli inaugura il suo regno.

            La liturgia della domenica delle Palme commemora questo avvenimento; con rami di palme in mano, noi ci identifichiamo con il popolo di Gerusalemme, con esso salutiamo l’umile Re, cantandogli Osanna. Ma quale è il senso di tutto ciò per noi, oggi?

            Noi confessiamo anzitutto che Cristo è nostro Re e nostro Signore. Troppo spesso ci dimentichiamo che il regno di Dio è già stato inaugurato e che nel giorno del nostro battesimo ne siamo stati fatti cittadini e abbiamo promesso di porre la nostra fedeltà a questo regno al di sopra di ogni altra cosa. Dobbiamo sempre ricordare che, per qualche ora, Cristo è stato veramente Re sulla terra, in questo mondo che è il nostro. Per qualche ora soltanto, e in una sola città. Ma come in Lazzaro abbiamo riconosciuto l’immagine di ogni uomo, così possiamo vedere in questa città il centro mistico del mondo e di tutta la creazione. Tale è il senso biblico di Gerusalemme, il punto focale di tutta la storia della salvezza e della redenzione, la città santa della Venuta di Dio. Pertanto, il regno inaugurato a Gerusalemme è un regno universale, che abbraccia tutti gli uomini e la creazione intera… Per qualche ora, e tuttavia queste ore sono decisive; è l’ora di Gesù, l’ora del compimento operato da Dio di ogni sua promessa, di ogni suo volere. Quest’ora è al termine dell’intero processo di preparazione rivelato nella Bibbia, il compimento di tutto quello che Dio ha fatto per l’uomo. E così, questa breve ora del trionfo terreno di Cristo acquista un significato eterno. Essa introduce la realtà del regno nel nostro tempo, in tutte le ore, facendo di questo regno ciò che dà senso al tempo, il suo ultimo scopo. A partire da questa ora, il regno è stato rivelato al mondo, e la sua presenza giudica e trasforma la storia umana. E quando nel momento più solenne della celebrazione liturgica noi riceviamo una palma dalle mani del sacerdote, rinnoviamo il suo regno come lo scopo ultimo e il contenuto della nostra vita. Confessiamo che tutto, nella nostra vita e nel mondo, appartiene a Cristo, che niente può essere sottratto al solo e unico Signore, e che nessun campo della nostra esistenza sfugge al suo potere, alla sua salvezza e alla sua azione redentrice. Infine, proclamiamo l’universale e totale responsabilità della Chiesa riguardo alla storia dell’umanità, e affermiamo la sua missione universale.

            Tuttavia, sappiamo che il Re che gli ebrei acclamavano allora e che noi acclamiamo oggi si incammina verso il Golgota, verso la croce e la tomba. Sappiamo che questo breve trionfo non è che il prologo del suo sacrificio. Le palme nelle nostre mani significano perciò la nostra prontezza e la nostra volontà a seguirlo sul cammino del sacrificio, la nostra accettazione del sacrificio e la nostra rinuncia a noi stessi come unica via regale che conduce al regno.

            Infine, queste palme, questa celebrazione, proclamano la nostra fede nella vittoria finale di Cristo. Il suo regno è ancora nascosto e il mondo lo ignora. Esso vive come se l’avvenimento decisivo non avesse mai avuto luogo, come se Dio non fosse morto sulla croce e come se, in lui, l’uomo non fosse risuscitato dai morti. Ma noi cristiani crediamo nella venuta di questo regno in cui Dio sarà tutto in tutti e Cristo il solo Re.

            Nelle nostre celebrazioni liturgiche ricordiamo avvenimenti del passato; ma tutto il senso e l’efficacia della liturgia consistono proprio nel trasformare il ricordo in realtà. Nella domenica della Palme la realtà di cui si tratta è il nostro coinvolgimento con il regno di Dio, è la nostra responsabilità verso di esso. Cristo non entra più a Gerusalemme; l’ha fatto una volta per tutte. Egli non ha bisogno del «simbolo» e non è certo perché noi possiamo perpetuamente «simbolizzare» la sua vita che è morto sulla croce. Cristo vuole da noi una reale accoglienza del regno che egli ci ha portato… E se noi non siamo pronti ad essere totalmente fedeli al giuramento che rinnoviamo ogni anno la domenica delle Palme, se veramente non siamo decisi a fare del regno la misura di tutta la nostra vita, allora la nostra celebrazione è senza senso e senza significato sono le palme che portiamo dalla chiesa a casa.

Tratto da: Alexander Schmemann – Olivier Clément, “Il mistero pasquale”, Lipa Edizioni, pp 9-12.

Il memoriale nel lungo cammino di Israele e continuità di quello cristiano: La salvezza è nel ricordo” (Baal Shem Tov)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/memoriale-Fozzati.htm#allora-ora

Il memoriale nel lungo cammino di Israele
e continuità di quello cristiano [*]

di Renza Fozzati

1. Il Memoriale: quando « allora » diventa « ora » (T. Merton)    torna su

“La salvezza è nel ricordo” (Baal Shem Tov)

Nel silenzio di una notte di primavera, nella raccolta intimità di “una sala al piano superiore” (« cenaculum magnum stratum ») in Gerusalemme (Lc 22,12) un giovane Rabbi « celebra » una cena rituale insieme ai suoi discepoli : una dozzina di uomini in quel momento commossi e sconcertati. E pronuncia, compiendo gesti antichi, parole nuove: « Eis ten emèn anàmnesin: fate questo in memoria di me » (I Cor 11, 24-25).

Venti secoli dopo, il massimo magistero della Chiesa cattolica affermerà: « Il nostro Salvatore istituì il sacrificio eucaristico per affidare alla Chiesa il memoriale della sua morte e della sua resurrezione » (cfr. « Sacrosanctum Concilium », 47). È vero che il Concilio di Trento aveva già proclamato che per mezzo della Messa doveva essere « rappresentato quel sacrifìcio cruento compiuto una volta sulla croce cosicché « la sua memoria perdurasse fino alla fine del tempo » (cfr. Sess. XXII, Ds 1740).

Ma – commenta B. Neunheuser – la teologia medievale ha trascurato i termini ‘commemoratio’, ‘memoriale’, ‘memoria’ come meno appropriati. La situazione cambierà solo negli ultimi decenni. Lo studio rinnovato ed intenso delle fonti nel campo dell’esegesi e della patristica ci ha insegnato a comprendere e valutare di nuovo il concetto di memoriale nel suo senso pieno.

II memoriale è una memoria-reale, la ripresentazione (re-presentatio) di ciò che è commemorato, la presenza reale di ciò che è storicamente passato e che qui e ora si comunica in modo efficace.

Oggi si è pienamente concordi nel ritenere che il retroterra dell’ordine di Cristo: “fate questo in memoria di me” vada ricercato nel mondo biblico-giudaico del Primo Testamento. Forme della radice z k r ricorrono nella Bibbia ebraica circa 288 volte. Questo verbo gioca un ruolo essenziale nella auto-rivelazione di Dio. Questa memoria di Dio non è un semplice ‘ricordarsi’ ma è piuttosto un comportamento di Dio. Ciò riveste una particolare importanza in quei passi in cui z k r esprime l’obbligo che Israele ha di dedicarsi alla memoria cultuale ».

Pertanto, all’interno dell’Alleanza l’istituzione cultuale di Dio è, da parte dell’uomo, attualizzazione e ‘perennizzazione’ dell’azione salvifica storica compiuta una volta da Dio. Un tema fondante, dunque, ma quasi mai preso in considerazione nel tempo (molto meno di alleanza, elezione, patto). È merito del Concilio Vaticano II l’aver recuperato a fondamento del suo insegnamento del mistero liturgico la centralità della memoria celebrata: così Cristo ritrova il suo posto nel cuore stesso di quel mistero di cui è il fondamento.

Questa può essere la motivazione base della riflessione su queste pagine. Non può essere l’unica visto che non ci è lecito ridurre l’inesauribile e inesausta ricchezza dell’azione di Dio all’opera per e con il suo popolo ebraico, a pura premessa dell’oggi cristiano. Si tratta più propriamente di un doveroso atto di riconoscimento dell’identità di Israele e del suo significato perenne.

Per tutti questi motivi (e altri ancora: di studio di scoperta, di gratitudine) torniamo a quella notte nella « sala superiore » di una Gerusalemme in preghiera e cerchiamo quale consapevolezza quale senso di appartenenza fremeva nell’intimo del giovane Rabbi Gesù.

Noi non faremo riferimento se non al senso del memoriale biblico-giudaico, tacendo del suo rapporto con la realtà cristiana.

Riemergente lungo tutte le Scritture di Israele, l’evento fondante di tutta la sua realtà storico-teologica – Mar Rosso – Sinai – si condensa soprattutto nel libro dell’Esodo e del Levitico.

Gesù ha presente tutta la forza epica del racconto dell’uscita dall’Egitto, del cammino nel deserto e tutta la minuziosa, appassionata normativa degli olocausti (di espiazione, di comunione, pacifici) della consacrazione sacerdotale con il rito del lavacro. Questo Gesù lo sapeva. Questo era sempre stato nella sua riflessione e nella sua preghiera. Da quelle profondità approda il gesto di Gesù sulla tovaglia del Cenacolo.

In quelle parole arcaiche velate di incenso, fragranti di oli e di pani, popolate di sacerdoti e di vittime, nobilitate dalla imponenza del Tempio risonante delle invocazioni possenti del sacro qãhãl, santificato dalla Shekinah, Gesù « ha abitato » con tutta l’intensità della sua giovinezza fedele.

Scrive il pensatore ebreo A. J. Heschel: « L’esperienza di Dio non è per Israele il frutto di una ricerca. Non è stato Israele a scoprire Dio; Israele piuttosto è stato scoperto da Dio. E la Bibbia è la testimonianza dell’accostarsi di Dio al suo popolo. Infatti nella Bibbia si trovano più affermazioni che testimoniano l’amore di Dio per Israele, che non viceversa. Non siamo stati noi a scegliere Dio, è stato Lui che ha scelto noi.

Non c’è nessun concetto nella Bibbia di un Dio eletto, ma c’è invece l’idea di un popolo eletto.

Tormentati, perseguitati da torti e inimicizie, i nostri padri hanno continuato, malgrado tutto, a gioire di essere ebrei. In quanto parte di Israele, noi possediamo una rara e preziosa consapevolezza: la consapevolezza di non vivere nel vuoto. Mai ci sentiamo straziati dall’ansia e dal terrore di vagare in un vuoto di tempo.

A noi appartiene il passato e, di conseguenza, non abbiamo paura del futuro. Ricordiamo l’inizio e crediamo in una fine. La nostra vita si svolge tra due poli della storia: il Sinai e il Regno di Dio » (Dio alla ricerca dell’uomo. Ed. Borla).

II Dio biblico è il Dio della storia, che cammina alla testa del suo popolo che esce dalla schiavitù dell’Egitto, che lo guida attraverso il Mar Rosso, che lo accompagna, umiliato Nome, tra prigionieri umiliati, nell’esilio assiro e babilonese.

Ben diverso dagli dèi cananei, egiziani e assiri, dèi della natura, dei fiumi, della fertilità, delle greggi delle stagioni, della fecondità dei campi, dei « a dimora fissa » ; è un Dio che cammina nel deserto e abita sotto una tenda.

Il Dio biblico non è un Dio che venga fuori da una serie di sillogismi, è lontanissimo dal Dio dei filosofi greci con le loro sublimi architetture logiche. Dire « il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe » non è come dire « il Dio della verità, della bontà e della bellezza ». Abramo, Isacco, Giacobbe, non sono idee e princìpi. Sono persone in carne e ossa con una storia, con una vita drammaticamente densa di eventi.

Nell’ambito delle culture cananee ogni tempio, ogni stele e persino ogni casa venivano rese sacre da un sacrifìcio o rito d’alleanza con la divinità locale. Ciò che distingue queste iniziative dalla grande alleanza di cui Israele si sente privilegiato, a partire dall’elezione di Abramo e dall’alleanza stipulata con lui e la sua discendenza da parte dell’unico Dio, sancita sul Sinai con Mosé, confermata a Sichem da Giosuè, ampliata con David, restaurata dopo l’esilio con Esdra, sta nel punto di partenza dell’iniziativa. Nelle alleanze cananee era l’uomo che, per paura o per chiedere protezione, proponeva un patto alle varie divinità e se le propiziava con offerte e sacrifìci: erano cioè alleanze nate da atti sacri compiuti in risposta a una domanda di protezione. Per gli ebrei è esattamente il rovescio: l’alleanza, il Patto è partito non dall’uomo ma da Dio stesso in una scelta totalmente gratuita che ha trasformato un piccolo popolo seminomade in una « sua proprietà, popolo sacerdotale e nazione santa » (Es 19,5-6).

La Parola convocante costituisce la comunità: Israele non è « preso tra i popoli » perché ancora non esisteva. Comincia ad esistere quando Dio gli parla. La nostra mentalità occidentale ci porta a considerare le parole esclusivamente come veicolo del pensiero che vogliamo esprimere. Per lo spirito ebraico invece, la parola è qualcosa di più. È piuttosto veicolo di una forza. La mentalità semitica concepisce la parola come una realtà vivente che ha in se stessa potenza, dinamismo. La parola ebraica « dabar » non indica una « parola-pensiero », bensì una « parola-azione », « parola-fatto ».

« La parola uscita dalla mia bocca… opererà tutto quello che io voglio e compirà quelle cose per le quali l’ho mandata » (Is 55,11).

E poiché l’azione di Dio è per tutto Israele (l’Israele dei tempi, del presente e del futuro e per il futuro di tutta l’umanità, « le genti ») , Israele racconta. E nascono i primi racconti che si condenseranno poi in segni sul papiro e sulla pergamena (e fino ai nostri computer!).

Nasce il libro dell’Esodo, al cui centro è cantata la testimonianza teologica della solidarietà di Dio con un popolo oppresso, un legame divino-umano che sostituisce legami di oppressione con un patto di alleanza e sigilla la solidarietà del Dio liberante con il popolo liberato. Liberato per obbedire a Dio: « Noi faremo e ascolteremo » (Es 24,7).

Israele racconta e ricorda. E nasce il memoriale, questo « unicum » di Israele che fonde storia e cronaca, ieri e oggi, in tutta l’estensione dell’azione di Dio coinvolto nella storia dell’uomo. Che nobilita il presente e dà senso, un orizzonte di senso, all’esistenza dell’uomo, che fonda la speranza, che libera dalla spirale del ripetitivo, che squarcia i cieli.

Il memoriale è un rivivere vibrante: ora dolente, ora esaltato, ora rallegrantesi, ora stupito, contemplante, lodante, ringraziante. Con i gesti, le parole, i silenzi, le cose. Se si prende sul serio l’impegno di Dio con la creatura, capiamo perché il memoriale sia il luogo indispensabile, imprescindibile in cui si dice Dio. Questo Israele ha intuito: Dio è sempre lo stesso, è l’identico. L’uomo cambia. Il memoriale fa sì che l’Eterno abiti il tempo e ciò che è temporale abiti l’eternità e l’infinito. E tanto è vero che questo è nella linea del pensiero divino che niente è più consono alla nostra natura di uomini che ripetere i grandi momenti del nostro vissuto. Israele non può prescindere dal memoriale. Attraverso la categoria del memoriale, Israele mostra di aver « sentito » l’amore del suo Dio.

Dio asseconda – perché le ha create – le dinamiche della relazione: riunirsi, incontrarsi, raccontare, riconoscersi. Il memoriale è dell’ordine strutturante, non accessorio. Nella relazione con Dio il solo ricordo storico rimarrebbe qualcosa di incompiuto, di non vitale. Ma non può esistere rapporto con il Vivente che non attenga all’ordine dell’esistenziale.

Per questo Israele non solo ricorda e racconta. Il suo ricordare e raccontare (Magnalia Dei) si fa celebrazione. « Il memoriale è un rispondere alla presenza di un Vivente. È entrare nell’esperienza totale di Dio. Il memoriale immette radicalmente nell’oggi di Dio » (Maggioni).

E questo non nel senso di una ri-presentazione dell’evento fondatore (Esodo-Sinai) al popolo, bensì nel senso di una ri-presentazione del popolo all’evento fondatore.

L’evento fondatore rimane un evento unico (ephapax) irripetibile. È la comunità cultuale che ritorna al mare, poiché nella fede dei padri era già là, poiché nella fede con cui essa celebra il rito superando ogni limite di tempo e di spazio, effettivamente è sulla riva del mare, è ai piedi della santa montagna. Ancora oggi il padre di famiglia, durante il Seder ammonisce; « Ognuno è tenuto a vedersi come essendo proprio lui uscito dall’Egitto » (Haggadah).

Tutta la Liturgia ebraica scaturisce dal Memoriale. Il culto si forma in Israele attorno alla memoria storica delle gesta del Signore. Per Israele il culto è il momento in cui tutto il popolo diventa contemporaneo dei grandi fatti della storia biblica.

Israele arriva solo in un secondo momento a percepire Dio come Creatore. Fondamento di Israele è la ri-memorazione di Dio Liberatore. La storia è interpretata come storia di salvezza, manifestandosi in tutta la sua unità e continuità! C’è un unico disegno di Dio sull’umanità. Ne fanno fede i tre grandi « Credi » : Dt 6, 20-25. 26, 5- 10; Gs 24, 2-13. La nota distintiva dei culto è quella di rendere attuale il passato e trasformarlo in memoria esistenziale per il credente.

2. Il memoriale nel lungo cammino di Israele             torna su
In questa parte della riflessione si è fatta la scelta motivata di « non fare riferimento se non al senso del memoriale biblico-giudaico, tacendo del suo rapporto con la realtà cristiana », ampiamente trattato nei altri capitoli.

Ripartiamo dunque dal Cenacolo, ma per subito incamminarci lungo il percorso di Israele. Quello che per i pellegrini cristiani è il Cenacolo in Gerusalemme, ora è un edificio a due navate, diviso da tre maestose colonne di chiara impronta gotica trecentesca. Un « mihrab », cioè la nicchia di orientamento per la preghiera verso la Mecca, ne rivela la perentoria trasformazione in moschea.

Gli ebrei sono soliti dire che « non Israele ha custodito il sabato, ma il sabato (la sua amorosa, fedele osservanza) ha custodito Israele ».

Si può con altrettanta verità dire che « non Israele ha custodito il Memoriale, ma il Memoriale ha custodito, vivificato Israele, nella sua pluri-millenaria, spesso tragica storia ».

L’uscita dall’Egitto è l’avvenimento più ricordato nella tradizione ebraica. Esso è presente nella vita dell’ebreo non solo durante gli otto giorni di Pesach ma tutto l’anno, in molti passi della liturgia quotidiana.

Il cristianesimo ha preso molto presto le distanze da quella che pure era e rimane la sua radice.

Lo ha fatto con estrema veemenza proprio a proposito della Pasqua quando nel 325, al Concilio di Nicea, decise di dissociare la data della festa cristiana da quella ebraica, con parole come queste: « Sarebbe indegno che noi ci conformassimo alle usanze degli ebrei che hanno sporcate le loro mani con i più atroci crimini e sono rimasti ciechi spirituali. Non vogliamo avere più nulla in comune con il popolo ebraico ».

Ma Israele continua il suo cammino. Aveva scritto Paolo: « I doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento » (Rm 11,29) e, dopo secoli di negazioni, Giovanni Paolo II proclamerà: (Magonza, novembre 1980): « L’antica alleanza non è mai stata revocata ». Il nostro Catechismo degli adulti sintetizza così efficacemente questo densissimo cammino: « Già in epoca biblica questo piccolo popolo rischia ripetutamente di essere distrutto dai potenti vicini e ripetutamente, contro ogni ragionevole previsione, riesce a salvarsi: così con gli egiziani, con i filistei, con gli assiri, con i babilonesi, con Antioco Epifane. Le aggressioni proseguono nei secoli della nostra era. Non è possibile dimenticare le ribellioni duramente represse dai romani, i sanguinosi tumulti popolari antigiudaici nel medioevo, la cacciata dalla Spagna nel secolo XV, l’insurrezione cosacca nel secolo XVII, infine lo sterminio nazista di milioni di ebrei. Una tragica catena di violenze, una tradizione di martirio. È davvero sorprendente che sopravviva e conservi la propria identità una minoranza, privata della sua terra, dispersa in mezzo a molte nazioni, emarginata e perseguitata. La Bibbia, per quanto riguarda le crisi più antiche, attribuisce esplicitamente l’imprevedibile salvezza alla fedeltà di Dio: è da pensare la stessa cosa per quelle successive » (n.445).

Ricordare celebrando non è iniziativa di Israele. È volere di Dio. « Ricordati di queste cose o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo, io ti ho fatto. Tu sei mio servo, o Israele. Non ti dimenticare di me ». (Isaia 44,21).

L’esodo, così difficilmente identificabile nei suoi contorni storici sfumati dalle lontananze secolari è quanto di più presente all’identità ebraica nel tempo. Diventerà la chiave interpretativa delle diverse fasi storiche di questo popolo. Il secondo Isaia (cc. 30-55) canterà il ritorno concesso da Ciro (VI secolo a.C.) adottando tutte le categorie simboliche e teologiche del libro dell’Esodo. E la Sapienza (cc. 11-19) (I secolo a.C.) celebrerà su questa traccia l’ingresso della storia nella pienezza escatologica.

A partire da Giosué (5,10-12) la Pasqua è memoriale.

Nel deserto la Pasqua dev’essere stata celebrata con la manna. È ancora una Pasqua di miracolo. Da Giosué comincia la Pasqua-racconto. Ed è estremamente toccante nella sua asciutta severità la constatazione dell’autore sacro: « mangiarono dei frutti della terra, pani azzimi … e non ci fu più manna per Israele ». ( Gs 5,11-12).

Israele continua a essere Popolo perché continua a celebrare l’Alleanza con il suo Dio. Anche oggi è così.

Dai secoli è così. Perché in Israele il fare memoria non è « dire » soltanto, ma è « sperimentare ».

Questa è l’inaudita intuizione di Israele :aver percepito che Dio sempre opera e che lui, Israele, vivrà finché si lascerà « lavorare » da Dio, cooperando.

La tradizione non è un fatto di illuministica citazione. È l’impegno travolgente di continuare a vivere. Scrive il premio Nobel per la pace (1986) Elie Wiesel: « Che è essere ebrei? È essere. Essere presenti nel mondo, inventare ogni giorno il nostro ruolo in una storia incomprensibile. Essere, e custodire la memoria che è alla base di questo essere. Essere e aspettare ». E scrive il Card Ratzinger:  » A Israele (distrutto il Tempio) fu dato di vivere una nuova esperienza. Non poteva celebrare nessuna liturgia … Poteva solo soffrire per amore di Dio. I suoi spiriti più grandi colsero per illuminazione di Dio che questa sofferenza dell’Israele credente era il vero sacrificio, il nuovo, grande culto con cui presentarsi davanti a Dio … ». Fede, speranza, sofferenza, nel corso dei secoli si condensano e si esprimono in quell’ « unicum » liturgico e anche letterario che è l’Haggadah, la narrazione che innerva tutta la interminabile cena pasquale, il Seder che la famiglia ebraica celebra ogni anno al plenilunio del mese primaverile di Nissan.

 
 
 
 
 
Parti ed esemplari diversi di Haggadah: è possibile, cliccando, ingrandire le miniature
 

Il filo d’oro della liturgia familiare, che si annoda direttamente alla liturgia del Tempio scomparso nel ’70, con il quale scompare anche l’agnello sacrificato, è il segno di una continuità mai spezzata. La traccia minuziosa si ritrova nel trattato « Pesahim » del codice giuridico ebraico chiamato « Mishnah » (dalla radice « Shanah », ripetere) che risale a dopo la distruzione del Tempio ma raccoglie tutte le indicazioni precedenti, molto più antiche.

Impossibile – e non è nostro compito qui – percorrere tutto il complesso e lunghissimo cammino dello strutturarsi dell’Haggadah che compare oggi sulle mense pasquali ebraiche. Diciamo soltanto che esso è l’unico libro liturgico illustrato; che dal 1482 a oggi sono uscite circa 3000 edizioni diverse di Haggadah le quali cominciano ad apparire illustrate dal 1320 con splendide miniature; che dal 1550 dovranno avere l’imprimatur della Inquisizione (!); che ogni famiglia, nella fedeltà alla sostanza « personalizza » la propria Haggadah (se è vero che su una rivista ebraica italiana si è potuto simpaticamente leggere di recente: « Una Haggadah on line: il sito « www.torah.it » pubblica una Haggadah traslitterata completa di traduzione e note. Chiunque può scaricarla in formato word per stamparla e anche modificarla ad uso del proprio Seder di Pesah ».

Il Pesach ebraico ha lo scopo di ricordare e di insegnare, e lo si festeggia particolarmente in casa, in famiglia con una cena chiamata Sèder, cioè ordine. Ordine in quanto si sviluppa e dipana con una serie ordinata e codificata di rituali consistenti in domande e risposte, letture, canti, cibi che hanno un loro significato e simbolismo.

[È possibile, cliccando, ingrandire la miniatura che riproduce l' "Ordine del Seder"]
 
 Nel vassoio al centro del tavolo c’è l’azzima, a ricordo del pane non lievitato nella fretta della partenza; c’è l’erba amara, a ricordo dell’amarezza della schiavitù; e l’impasto di frutta (charòset) che simboleggia il fango con cui gli schiavi ebrei erano obbligati a fabbricare mattoni. C’è la zampa d’agnello, a ricordo del sacrificio dell’agnello in quella drammatica notte; e c’è l’uovo, che simboleggia i cambiamenti della sorte umana.
 

Tutti ascoltano le domande che il figlio o i figli rivolgono al padre sul significato di una tale sera così diversa dalle altre. Commenta il Pastore Martin Cunz:  » II seder non è un pasto memoriale molto pio. La salvezza di un tempo diventa davvero presente attraverso il ricordo concreto tramite i cibi simbolici e i racconti esplicativi. E come si lascia la porta socchiusa per il profeta Elia, così durante il seder, si affaccia su quanti vi partecipano la salvezza futura, che sarà salvezza per Israele e per l’umanità intera. « 

« A uscire dall’Egitto non è stato soltanto Israele », dicono i rabbini spiegando Es 12,38. « Con esso, dalla casa di schiavitù è uscita l’intera umanità » (Exodus Rabbà,18).

Si può ancora osservare che l’Haggadah non ha una riga di accento trionfalistico: non è un Te Deum per la vittoria. E non nomina mai Mosé: la liberazione è opera di Dio solo: « Non per mano di un angelo, ma il Santo, benedetto sia, egli stesso con la sua gloria ».

 
 
 
 
Altre parti ed esemplari di haggadah
 

Non è una festa « contro ». Ancora oggi i primogeniti ebrei digiunano la vigilia, in ricordo dei primogeniti egiziani.

Abrabanel (Maestro tra il 1400 e 1500) fa notare che « noi versiamo gocce di vino mentre nominiamo le piaghe per diminuire la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza di altri esseri umani « .

Sarebbe affascinante e soprattutto molto istruttivo percorrere con Israele i millenni, soffermandoci a considerare come esso abbia vissuto le sue diverse Pasque, a seconda dei tempi e dei luoghi: notti di gioia pacifica in mezzo a popolazioni capaci almeno di rispetto, raramente. Notti di trepidazione e paura in mezzo a vicini ostili, sotto tante latitudini, più spesso purtroppo. E ancora sarebbe necessario fermarsi a riflettere, sulla traccia delle parole dei Maestri, su ciascuno dei momenti così ricchi di significati e di tradizione. Non è possibile. Nella nostra inadeguata riflessione prenderemo solo due punti estremi nel tempo: la stagione dei ghetti e quella della Shoah e le tre parole-chiave:

PESACH – MATZAH – MAROR di cui Rabban Gamliel, maestro di Paolo dice: »Chi non pronuncia queste tre parole non fa Pasqua ».

Ecco alcune spiegazioni tratte dall’Haggadah.

PESACH (agnello pasquale).

L’agnello pasquale che i nostri padri mangiavano quando il Santuario esisteva, perché lo mangiavano? Perché il Signore Santo e Benedetto passò oltre le case dei nostri padri in Egitto, come è detto: « Direte : Questo è il sacrificio della Pasqua del Signore, il quale passò oltre alle case dei figli di Israele in Egitto, quando Egli colpì gli Egiziani e salvò le nostre case, il popolo si inchinò e si prostrò ».

Pressoché sterminata la raccolta di riflessioni sull’agnello. Il Targum di Lev 22,27 vede Isacco come agnello del sacrificio e l’idea di un agnello predisposto è così forte che la tradizione continuerà a parlare di agnello anche se il testo dell’Esodo parla di ariete, e situerà a Pasqua il sacrificio di Isacco. Un’altra tradizione afferma che questo agnello appartiene alle dieci cose create prima della creazione del mondo, vi vede la figura di Mosè liberatore e soprattutto trasferisce sugli uomini l’immagine dell’agnello pasquale. Il Salmo 33,21 dice del giusto: « Il Signore preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato ».

Diversi passi del Targum legheranno il suo sangue a quello della circoncisione, dando a entrambi valore espiatorio. Ma soprattutto, dal periodo dei Maccabei, sono tutti gli Israeliti a essere visti come agnelli. Questo sentimento riemergerà ai tempi della Shoah, nella riflessione del termine aramaico « talya » che significa sia « agnello » che « Servo », illuminandosi dolorosamente di tutta la misteriosa luce del Servo di cui dice Isaia.

MATZAH (azzima).

Questo pane azzimo che noi mangiamo, perché lo mangiamo? Perché l’impasto dei nostri padri in Egitto non ebbe tempo per lievitare, essendosi ad essi rivelato il Re dei Re, il Santo e Benedetto Iddio, ed avendoli subito liberati, come è detto: « Ed essi fecero cuocere la pasta, che avevano portata fuori d’Egitto, in focacce azzime, sebbene non fosse lievitata perché, essendo scacciati dagli Egiziani non si erano potuti trattenere, non avevano potuto preparare alcuna provvista ».

La matzàh rappresenta una corsa verso la libertà.

I nostri saggi chiesero: « Perché assaggiamo la matzàh – che rappresenta la libertà – prima del maror – che rappresenta la schiavitù, se nel corso della nostra storia essi si succedono in modo inverso?

La risposta fu: Ciò si spiega col fatto che solo dopo aver gustato il sapore della libertà abbiamo cominciato a capire ed a provare l’amarezza dell’esilio.

MAROR (erba amara).

Quest’erba amara che noi mangiamo, perché la mangiamo? Perché gli Egiziani amareggiarono la vita dei nostri padri in Egitto, come è detto:’amareggiarono la loro vita con dura schiavitù, impiegandoli in lavori con argilla e mattoni, e in ogni servizio nei campi: tutta la schiavitù alla quale li sottoponevano, era aspra ».

Il maror viene mangiato da tutti, come se tutti noi fossimo schiavi. I nostri saggi preferivano mangiare il maror con foglie di lattuga, sedano dolce, per spiegare il carattere della nostra schiavitù in Egitto.

La nostra oppressione ebbe inizio con le accattivanti parole degli Egiziani, ma finì poi in fatica amara. Così il maror acquista per noi lo stesso sapore della schiavitù, che comincia con dolcezza e finisce con l’amarezza. Ma ciò che dà inequivocabilmente la percezione di quanto sia rimasto nel passare dei secoli e nella sconfinata diversità dei luoghi e delle situazioni – è l’impianto totalmente pedagogico dell’Haggadah. Tutta la struttura della cena pasquale è costruita attorno ai figli, per loro. « Dirai ai tuoi figli » è il comando del Signore. Nasce per Israele la speranza: così saranno figli – il futuro – a fare domande. Gabriel Marcel parla di tradizione come « fedeltà creatrice ». E i maestri dicono: « È parlando al bambino che si esce dall’Egitto ». L’Haggadah è un ricordo che profuma di futuro. l’Israele nomade biblico, con le vesti cinte e il bastone del pellegrino frettoloso è il paradigma dell’Israele dei tempi che si traduce nei figli. Le domande del figlio mostrano che si tratta di ritrovare un significato al passato che sia valido per la generazione presente. La risposta del padre sottolinea come il passato degli antenati sia vissuto realmente nell’oggi: sono « le nostre case … » la « mia uscita dall’Egitto … ». « In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, come è detto: « in quel giorno racconterai a tuo figlio dicendogli: questa celebrazione ha luogo per quello che mi fece il Signore quando uscii dall’Egitto » (Es 12,13). « … Perché il Santo, benedetto egli sia, non liberò soltanto i nostri padri, ma noi pure liberò insieme con loro; come è detto: noi egli fece uscire di là, per condurci e dare a noi la terra che aveva giurato ai nostri padri » (Dt 6) .

Il Targum a Esodo 12 dice: « La Pasqua è la notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le gene razioni d’Israele » per cui ognuno nella sua generazione deve considerare se stesso liberato.

L’Haggadah parla di quattro figli che simbolizzano quattro tipi: il saggio, il cattivo, l’ingenuo e colui che non sa fare domande. Il « saggio » è colui che conosce la pasqua, sperimentandone la libertà e la gioia. Egli si esprime: « Quali sono i precetti, gli statuti e le leggi che il Signore ci ha comandato? ». E la risposta non può essere che una: « Impara i precetti della Pasqua »; cioè: penetra sempre più nella realtà di pesah, la casa e il fondamento della libertà e della verità. Il « cattivo” è l’esatto contrario: ignora la pasqua ed è ignaro dell’esperienza della libertà. È incapace di « domandare » e quindi anche di apprendere: “Che cosa dice il malvagio? Che cosa è per voi questa cerimonia? Per voi, non per lui, escludendo se stesso dalla comunità, egli nega il fondamento della religione. Tu mettilo a tacere rispondendogli: Per quello che fece a me il Signore quando uscii dall’Egitto. A me e non a lui: se fosse stato là non sarebbe stato liberato ». L’ »ingenuo » è l’uomo superficiale, incapace di « vere domande »e, quindi, di evolvere, di cambiare e di camminare. È l’uomo che chiede « perché questo? », ma come battuta retorica e non per esigenza reale. È l’uomo che crede di sapere e che, per questo, vittima della sua illusione, resta condannato all’ignoranza. Il « non ingenuo » è « colui che non sa fare domande », che sa di non sapere ma che è disponibile ad apprendere: « Per colui che non sa fare domande incomincia tu stesso al posto suo come è detto: « Racconterai a tuo figlio quel giorno: per quello che fece a me il Signore, quando uscii dall’Egitto » (Es 13,8) ».

Rabbi Levi Yishaq di Berditchev giungeva al brano dell’Haggadah che narra dei quattro figli e leggendo la parte dedicata al quarto figlio, colui che non sa cosa domandare, diceva: « Sono io. Levi Yishaq di Berditchev colui che non sa cosa domandare. Io non so come rivolgermi a te. Signore del mondo, ma anche se lo sapessi non sarei in grado di farlo. Come oserei chiederti … perché siamo spinti da un esilio all’altro, o perché i nostri nemici hanno la possibilità di tormentarci tanto? ». Ma l’haggadah, citando la Torah dove è scritto: « E racconterai a tuo figlio … » impegna il padre di chi non sa domandare a dare egli stesso una risposta al figlio. « Signore del mondo, diceva Levi Yishaq di Berdichtev, non sono forse tuo figlio? ».

Doveva essere ben difficile rispondere alle domande dei figli in tempi duri come quelli del ghetto o quelli della persecuzione nazista. Bisogna essere un popolo ben speciale per arrivare a tanto. Israele è un popolo ben speciale. « All’esterno, gli uomini del ghetto possono essere apparsi come un popolo di mercanti, ma all’interno del ghetto essi crearono una comunità di intensa spiritualità, ricolma di fede messianica e di tutti gli aspetti di una pietà che informava la vita quotidiana » (F. Friedman – Da Cohen a Benjamin – Giuntina ’95).

E, accettando lo stile del tempo, non suoneranno significative le parole del romano Angelo Orvieto, scritte nel 1928? « Chiusi nel ghetto, dal consorzio esclusi, come appestati in odio all’umano genere, noi conservando e venerando gli usi, il fuoco manterremo sotto la cenere. Non conteranno gli anni, chi ci impose quest’ardua porta che ci serra in bando, l’aprirà quando ad Altri piaccia … Noi non l’aspetteremo con mani irose. Ma, scritto il Santo Nome sugli spigoli (la mezuzah, ndr) aspetteremo che la porta cigoli ». 1928: siamo ormai nell’imminenza della persecuzione nazista, quando come si esprime il Pastore Martin Cunz: « l’Europa ha perso la sua anima ».

Elie Wiesel racconta l’ultima Pasqua della sua famiglia, nel villaggio di Sighet, in Transilvania, già invaso dai nazisti. « Ci sono i tedeschi. Con le autoblindo, le macchine decapottabili, le motociclette. Portano uniformi nere, nere da far paura, vengono avanti senza uno sguardo né a destra né a sinistra… Pessah è vicina: è la festa della memoria e della speranza. La vigilia, un decreto ha ordinato la chiusura delle sinagoghe. I miei amici e io ci separiamo tristi dalla nostra, quella dei giovani. Contemplo i muri un’ultima volta: affido loro i sacri rotoli, i libri del Talmud. Li ritroveremo?… Mio padre e io assistiamo al servizio del Rabbi di Borshe. Recitiamo l’Hallèl, canto di ringraziamento, una serie di salmi, di lodi a Dio per ringraziarlo della sua bontà verso il suo popolo. Abbiamo il cuore stretto, tuttavia cantiamo anche se a bassa voce. Ci lasciamo stringendoci le mani, e augurandoci a vicenda: « Buona festa, buona festa! » A casa la tavola è preparata. Tovaglia bianca, sei candelieri, argenteria brillante. Mia nonna, vestita per la festa, è ancora più raccolta del solito. Anche la piccola Tsipuka…Mio padre ci presenta il nostro ospite: è Moishele, lo Scaccino … Mio padre prende Tsipuka sulle ginocchia e declama: « Ecco il pane della nostra miseria e della nostra afflizione … I nostri antenati l’hanno mangiato in terra d’Egitto … » Faccio la prima delle quattro domande rituali.

« Perché questa notte è diversa da tutte le altre? . Il padre risponde: « … Perché un tempo vivevamo in schiavitù, sotto il Faraone, in Egitto. Un’idea mi attraversa la mente: e, se fosse lui il profeta Elia travestito da scaccino? Non si dice che stasera visiti tutte le famiglie ebree dove si ricorda e dove si bevono quattro coppe di vino in onore della liberazione? A metà del pasto, Moishele si mette a parlare con voce dolce e ardente: « Reb Shloime la ringrazio per avermi invitato … Vorrei raccontarle ciò che vi attende. Glielo devo ».

Intorno al tavolo gli sguardi sono sospesi alle sue labbra aride. Bella e dolce, bella e seria da spezzarmi il cuore, la mia sorellina, seduta compostamente sulle ginocchia di mio padre, si mette una mano sugli occhi come per scacciare un’immagine penosa. Mio padre la rassicura accarezzandole i capelli. « Non ora, » dice a Moishele lo scaccino. « Le sue storie sono tristi e la legge ci proibisce di essere tristi la sera di Pessah …

Sarà la mia ultima Pessah – e la mia ultima festa – a casa ». (E.Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare. Bompiani ’96).

Disperso finalmente l’orribile fumo dei camini, Israele, per il quale « sopravvivere diventa il 614° precetto », ricomincia a celebrare Pasqua. In diaspora e in terra d’Israele. Scrive il Card. Martini: « Questo popolo – pur così colpito – non ha chiesto vendetta, non ha percorso l’Europa con cortei di fuoriusciti, non ha seminato il terrorismo sanguinario: sta solo cercando da 50 anni una sicurezza nella sua terra e nei nostri Paesi ».

Quante Pasque – fino a oggi – sconvolte da attentati? Nei paesi della diaspora e in terra d’Israele, la notte di ogni Pasqua si leva un canto da ogni casa ebraica: « … Pertanto è nostro dovere rendere omaggio, lodare, celebrare, glorificare, esaltare, magnificare, encomiare Colui che fece ai nostri padri e a noi tutti questi prodigi. Che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalla soggezione alla redenzione, dal dolore alla letizia, dal lutto alla festa, dalle tenebre a splendida luce; diciamo dunque davanti a Lui: Alleluja ».

3. Il memoriale e la benedizione pietra di fondamento        torna su

« Noi abbiamo bisogno dei fratelli ebrei perché essi hanno con le Scritture una « connivenza » incomparabile, perché essi sanno le gravi benedizioni che fanno della vita una liturgia; essi ricordano ai cristiani la necessaria tensione escatologica » (Olivier Clément).

Torniamo per la terza e ultima volta nella « sala adorna al piano superiore » quel « cenaculum magnum stratum » di Gerusalemme (Lc 22,12), dove in una silenziosa notte primaverile, nel cuore di una città in preghiera, un giovane Rabbi celebra una cena rituale insieme ai suoi discepoli.

Siamo in pieno clima pasquale. È il mese di Nissan: il mese in cui, secondo la tradizione ebraica, il mondo è stato creato e il Messia viene, e fiorisce la pace per tutto l’universo.

Questo è anche il mese in cui la tradizione ebraica pone l’evento liberante dell’Esodo.

Una splendida preghiera conclude il banchetto pasquale (era già nota nel III secolo e sicuramente risale a forme precedenti):

« L’anima di ogni vivente benedica il Tuo Nome, Signore, Iddio nostro, e lo spirito di ogni creatura magnifichi ed esalti la Tua memoria, o nostro Re, sempre. Dall’eternità e in eterno tu sei Dio, e all’infuori di Te non abbiamo re, né redentore, né salvatore, né liberatore, che ci salvi, ci nutra, e abbia pietà di noi in ogni momento d’angustia e bisogno. Non abbiamo re all’infuori di Te, Dio dei tempi primordiali e dei tempi ultimi. Dio di ogni creatura. Signore di tutte le generazioni, lodato con molte lodi, che conduce il Suo mondo con grazia e le Sue creature con misericordia. Il Signore non sonnecchia, né dorme. Egli sveglia i dormienti, desta i torpidi; fa parlare i sordi, libera i prigionieri, sostiene i cadenti, rialza i curvi.

Te, Te solo noi ringraziamo. Se le nostre bocche fossero piene di canto come il mare, e le nostre lingue di cantici come la moltitudine delle sue onde, e le nostre labbra di lode come le distese del firmamento, se i nostri occhi fossero lucenti come il sole e la luna e le nostre mani aperte come le ali delle aquile del cielo, e i nostri piedi veloci come quelli delle gazzelle, non saremmo sufficienti a lodarti. Signore nostro Dio, e Dio dei nostri padri, e a benedire il Tuo Nome per una sola delle miriadi e infinite volte che ci ha beneficati, noi e i nostri padri. Tu ci hai redento dall’Egitto, Signore Iddio nostro, dalla casa di schiavitù ci hai liberato; nella fame ci hai nutrito, nell’abbondanza ci hai sostenuto; ci hai salvato dalla spada, ci hai scampato dai flagelli e da gravi malattie; hai dato sollievo a noi fiduciosi. Fino ad ora ci ha aiutato la Tua misericordia, né ci ha abbandonato la Tua grazia. Non ci respingerai, Signore Dio nostro, in eterno! Perciò ogni membro che ci hai dato, lo spirito e l’anima che hai spirato nelle nostre narici, e la lingua che hai posto nella nostra bocca, ecco: esse confesseranno e benediranno e loderanno e magnificheranno ed esalteranno e celebreranno il Tuo Nome, e proclameranno la Tua santità e la Tua regalità, o nostro re. Infatti ogni bocca Ti confesserà; ogni lingua giurerà a Te, e ogni ginocchio si piegherà davanti a Te; ogni altezza si prostrerà al Tuo cospetto, e ogni cuore Ti temerà. L’interno di ogni uomo canterà lodi al Tuo Nome, come sta scritto: ‘Ogni osso dirà: Signore, chi come Te?. Tu salvi il povero da chi è più forte di lui e il povero e il misero da chi lo depreda. Chi Ti assomiglia o chi Ti pareggia, e chi può essere messo a confronto con Te, Dio grande e forte, venerando, Dio eccelso, che hai creato il cielo e la terra?’.

Noi Ti lodiamo. Ti celebriamo, Ti magnifichiamo, benediciamo il Tuo Nome Santo come è detto da David: ‘Benedici, anima mia il Signore, e tutto quello che è dentro di me benedice il Nome Suo santo’ « .

Tutta Israele, da secoli, in ogni latitudine, fa memoria con queste parole. Israele ricorda lodando e benedicendo. Israele « dice bene » di Dio. Anima del memoriale, anima della preghiera ebraica è la benedizione. Un autore la chiama: « pietra e fondamento »; un altro, con espressione più dinamica e strutturante: « nucleo generativo’. Benedizione in ebraico si dice « Berakah » e d’ora in avanti useremo questa suggestiva espressione ebraica, le cui radici sono le consonanti BRK, per cui viene collegata anche – allusivamente – a “berek »: ginocchio. Struttura fondante della berakah è : « Benedetto sei tu. Signore, nostro Dio, Re dell’universo perché … » ma le variazioni sono infinite.

Da chi impara Israele a benedire? Israele impara da Dio. La berakah è all’inizio della storia dell’uomo (« Dio li benedisse dicendo … » Gen 1,22) e di Israele (« Io ti benedirò … e tu sarai una benedizione » Gen 12,2-3). È improprio assimilarla a una delle tante formule di preghiera: la berakah è la modalità per la quale Dio, l’uomo e il mondo entrano in relazione, per la quale si orienta a Dio la realtà. Insegnano i maestri: « È vietato all’uomo assaggiare qualcosa prima di aver detto una berakah. Resta vietato all’uomo di godere di quello che è di questo mondo senza dire una berakah. Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una berakah commette un atto di infedeltà, è come se godesse illecitamente delle cose sacre, come è detto: ‘Del Signore è la terra nel Salmo 21,1′  » (Ber 35 a) . « Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una berakah fa come se depredasse il Santo, benedetto sia, e la comunità di Israele » (Ber 35 b). Benedire per ogni cosa, in ogni istante del giorno, per quanto si percepisce come dono e persino per il mistero del dolore e della morte.

L’ebreo in lutto prega: « Sia magnificato e santificato il suo grande Nome, nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà: venga il suo regno, durante la vostra vita e i vostri giorni e durante la vita di tutta la casa di Israele, fra breve e nel tempo prossimo. (Si dice:) Amen. Sia il suo grande nome benedetto per tutti i secoli dei secoli. Sia lodato, glorificato, esaltato, innalzato, dichiarato eccelso, splendido, elevato e celebrato il Nome del Santo, egli sia benedetto; egli è al di sopra di ogni benedizione, canto, lode e parola di consolazione che si pronunci nel mondo. (Si dice:) Amen. Sia concessa pace grande dal cielo e vita prospera sopra di noi e sopra Israele. Amen. Colui che rei luoghi eccelsi stabilisce la pace, nella sua misericordia stabilisca la pace sopra di noi e sopra tutto Israele. Amen. Benedite il Signore, degno di lode.

Benedite il Signore, degno di lode in eterno e per sempre ». In questo testo non si fa cenno al dolore né alla morte, ma – trovata la forza di questo atto di fede pura e di abbandono incondizionato – chi recita il qaddish allude chiaramente alla resurrezione e alla vittoria sulla morte.

Benedire svegliandosi al mattino, coricandosi la sera, benedire per un viaggio, per un dono ricevuto, per la dolcezza di un amore e per la tenerezza di un tramonto, per un albero in fiore, per la primizia di un frutto, per l’incontro con un amico. Preghiera solitaria, silenziosa, segreta; preghiera corale, liturgica, cantata: la berakah permea, intride, attraversa tutta la quotidianità dell’ebreo osservante.

« Berakah è uno di quei termini in cui si condensa tutta la ricchezza e l’originalità del pensiero ebraico; forse il termine per eccellenza in cui si riassume l’antropologia ebraica: il suo modo di porre l’uomo di fronte a Dio e di fronte al mondo. Infatti la berakah definisce un triplice rapporto: con Dio, con il mondo e con i propri simili. Ma più che di un triplice rapporto si tratta, in realtà, di un unico rapporto, che si potrebbe definire triangolare. La berakah non solo impedisce di separare Dio dall’uomo (teologia speculativa) e dal mondo (teologia disincarnata), o l’uomo da Dio (antropologia atea) e dal mondo (antropologia pseudo-spirituale) o il mondo da Dio (cosmologia secolarizzata) e dall’uomo (cosmologia estetizzante) ma, mantenendo uniti e inseparabili i tre poli, ne fissa le condizioni grazie alle quali permangono nella verità. Rispetto all’uomo e al mondo. Dio è « la fonte » e la « norma »: pone in essere l’uomo e il mondo e ne stabilisce le modalità di fruizione e di fruttificazione. Rispetto a Dio e al mondo, l’uomo è l’interprete e il beneficiario: è oggetto dell’attenzione divina e destinatario dei beni della terra. Rispetto a Dio e all’uomo, il mondo è sacramento e dono: segno della benevolenza divina e dono concreto per l’uomo. Con la preghiera di benedizione, l’israelita riconosce questi tre poli e la qualità della loro relazione. Pronunciando la formula: « Benedetto sei tu, Signore, per i frutti della terra … » riconosce Dio come origine e « proprietario » delle cose; il mondo come dono da accogliere e da condividere; gli uomini come fratelli con i quali partecipare all’unico banchetto della vita. In tal modo la berakah coglie la vera intenzionalità del mondo e si pone come condizione per la realizzazione del Regno. » (C. Di Sante – La preghiera di Israele – Marietti 2000).

La citazione è lunga, ma è improbabile dire meglio che cosa sia – nella sua più intima sostanza – questa altissima forma di preghiera che da secoli Israele ci insegna. Ancora: l’ebreo benedice il Signore anche per il dono della Torah: « Benedetto sei tu. Signore Dio nostro. Re dell’universo, che ci hai dato la Torah della verità e hai piantato in mezzo a noi la vita eterna ».

Se è tutta la Torah che diviene occasione di benedizione, lo diventano soprattutto i suoi capisaldi fondamentali: il Patto, il Tempio e la Promessa messianica.

Questa consapevolezza produce un sano timore, perché collega le cose all’amore di Dio ponendole sotto il suo sguardo creativo e provvidente. Grazie alla berakah l’universo diventa un immenso santuario da attraversare con venerazione e contemplazione.

Ancora: la benedizione toglie all’uomo il potere sulle cose per affidarlo alle mani di Dio. Dio è il vero proprietario. L’uomo si percepisce come beneficiario: Dio lo colma di doni. Ma questi non sono esclusivamente per lui: l’uomo impara la gioia spoglia della condivisione. Non solo: ma l’uomo percepisce che – se donate, dunque non possedute in assoluto – le cose vanno accolte con rispetto, assecondando l’intenzionalità del Donatore.

Tutto questo è percepito in uno sfondo di gioia e sicurezza. La gioia di cui fa dono la benedizione nasce dal sapersi oggetto di tenerezza divina in un mondo capace di armonia. La berakah non mette santità nelle cose: piuttosto riconosce in esse una espressione dell’amore gratuito di Dio e per questo lo loda. Per l’ebreo le cose sono nella loro dimensione ontologica un dono.

Ecco ancora i Maestri: R. Pinchas, R. Levi e R. Jochanan in nome di R. Menachem di Galilea dissero: « Nel tempo futuro tutti i sacrifici cesseranno, ma il sacrificio di lode non cesserà mai, tutti gli inni cesseranno ma l’inno di lode non cesserà mai, come sta scritto: Voce di giubilo e voce di gioia, voce di sposo e voce di sposa, voce di coloro che dicono: Lodate il Signore delle schiere. » (Gen 33,11) (Levitico Rabba XVII.12).

La berakah è talmente legata alla essenzialità del vivere per la cultura biblica, che la sola berakah « comandata » dalla Torah scritta riguarda il nutrimento: »… quando avrai mangiato e sarai sazio, rendi grazie al Signore tuo Dio … », brano che va letto all’interno dello splendido contesto di tutto il capitolo (Deut. 8,10).

Nasce la benedizione per il cibo, che si articola nei due momenti: prima e soprattutto dopo, la »birkath ha mazon », la lunga, articolata lode la cui origine risale al periodo del secondo Tempio, anche se la tradizione ne attribuisce addirittura la paternità a Mosè, Giosuè e Salomone rispettivamente: « La prima benedizione che inizia con le parole: « tu che nutri » è stata istituita per Israele da Mosè nel periodo in cui dal cielo scese la manna. La seconda fu istituita da Giosuè quando gli ebrei presero possesso della terra. Infine Davide e Salomone istituirono la terza, che si conclude con le parole: ‘tu che costruisci Gerusalemme’ »(Talmud bab.Ber 48b).

Questa berakah è sentita come opera corale dei Maestri di Israele e loda Dio per il cibo. per la terra, per l’alleanza, per la legge, evocando così la manna. l’Esodo, il Sinai, Israele, collocandosi nel cuore del tempo, della storia e del senso stesso di Israele e dell’umanità.

La prima parte dice:

« Benedetto sii tu. Signore, nostro Dio, re dell’universo che nutri il mondo intero nella tua bontà con favore, grazia e misericordia, che dai il cibo ad ogni creatura perché la tua grazia è eterna. Per la tua grande bontà, il cibo non ci è mai mancato e mai ci mancherà. Per il tuo grande nome tu nutri e sostieni ogni cosa, concedi i tuoi benefici a tutti e prepari il cibo a tutte le tue creature che hai create. Benedetto sii tu, o Signore, che nutri tutti gli esseri ».

La seconda benedizione si fa storica e puntuale.

« Ti rendiamo grazie. Signore nostro Dio, di aver dato ai nostri padri un paese delizioso, bello e vasto, di averci fatto uscire. Signore Dio nostro, dal paese di Egitto e di averci liberato dalla casa della schiavitù; per l’alleanza che hai suggellato nella nostra carne, per la legge che ci hai consegnato, per i precetti che ci hai fatto conoscere; per la vita, la pietà e la clemenza di cui ci hai gratificati, e per il nutrimento che ci procuri costantemente, ogni giorno, sempre e dovunque. Signore nostro Dio, ti rendiamo grazie e ti benediciamo per tutto. Che il tuo nome sia benedetto dalla bocca di tutti i viventi, sempre e per l’eternità, conforme a quanto è scritto: ‘Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, benedirai il Signore tuo Dio per il paese che ti ha donato’. Benedetto sii tu. o Signore, per la terra e per il nutrimento ».

La terza benedizione ringrazia Dio per i suoi molteplici interventi a favore del suo popolo e, in particolare, invoca Dio e lo benedice come « ricostruttore di Sion ».

« Benedetto sii tu. Signore, nostro Dio, re dell’universo. Dio, padre nostro, re nostro, protettore nostro, creatore nostro, liberatore nostro, formatore nostro. Santo nostro, il Santo di Giacobbe, pastore nostro, il pastore di Israele, re buono e amorevole per tutti, che ogni giorno ci hai fatto del bene, ce ne fai ancora e sempre ce ne farai. Egli ci ha colmati, ci colma e ci colmerà sempre di favori, di grazia e di misericordia, di prosperità, di liberazione, di vittoria, di benedizione, di salute, di soccorso, di sussistenza, di nutrimento, di misericordia, di pace e di ogni bene. Egli non ci fa mancare niente ».

 Tutto questo (e quanto ancora!) canta nel cuore dell’ebreo osservante Gesù, quella sera, nel Cenacolo.
 

« Prese il pane e rese grazie … prese il calice e rese grazie … » narrano i Vangeli, rievoca Paolo. Gesù nel Cenacolo è un ebreo innamorato della Parola e dei Precetti, che si ostina a osservarli tutti, scrupolosamente, fino alla fine. Gesù fa memoria « dicendo – bene » di Dio. Ben lo sapeva la chiesa della Didaché che insegnava: « Rendete grazie in questi termini. Prima sul calice: « Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vigna di Davide tuo servo. Gloria a Te nei secoli. Amen! » Poi sul pane spezzato: « Ti rendiamo grazie o Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai concesse attraverso Gesù tuo servo. Gloria a Te nei secoli. » (9,1-3).

Successivamente, allontanandosi sempre più dal mondo ebraico e sotto l’influsso platonico del paganesimo, la tradizione cristiana si orienterà a benedire le cose, quasi a porre in esse una sacralità mancante, perdendo di vista la berakah che invece riconosce e rivela la loro intima relazione con il Creatore. Per questo, nei nostri vecchi libri liturgici, per tanto tempo noi abbiamo letto a proposito del Gesù dell’Ultima Cena: « Prese il pane, lo benedisse … prese il calice, lo benedisse … ».

È merito della riforma conciliare biblico-liturgica se torniamo giustamente a dire: « Prese il pane, pronunciò la preghiera di benedizione » e « prese il calice, pronunciò la preghiera di benedizione… » recuperando finalmente l‘ intimo sentire dell’ebreo Gesù nell’ “Ora Sua », quando il patire, il morire, il risorgere, il donarsi, il tempo e l’eterno confluiscono nel Pane e nel Vino del rito, nella celebrazione dell’amore che benedice il Padre e – consegnandosi – ci fa a nostra volta capaci di benedizione.
______________

[*] Pubblicato sul periodico « In Dialogo » della Fraternità Ecumenica Santi Nicola e Sergio. Abbazia di san Giovanni in Argentella – 00018 Palombara Sabina (Roma).

Publié dans:EBRAISMO - STUDI, LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 27 février, 2010 |Pas de commentaires »

La liturgia per S. Paolo: mettersi al servizio del progetto di Dio

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15744?l=italian

La liturgia per S. Paolo: mettersi al servizio del progetto di Dio

Afferma padre Carlos Gustavo Haas

di Alexandre Ribeiro

SAN PAOLO, lunedì, 13 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Per San Paolo, “la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio”, ha spiegato il responsabile per la liturgia della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB).

In una conferenza durante la Settimana Teologica dell’Istituto di Teologia e Filosofia Santa Teresina della Diocesi di São José dos Campos (Brasile), due settimane fa, padre Carlos Gustavo Haas ha parlato dell’influenza della teologia paolina nella liturgia.

All’inizio del suo intervento, il sacerdote ha ricordato l’epistemologia del termine liturgia, derivante dal greco “leitourgía”, che può essere inteso come “servizio pubblico”, citando poi la definizione della costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium, che afferma che la liturgia è considerata “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo”.

“Paolo usa la parola ‘liturgia’ per parlare di prestazione di servizio. Per questo, per lui, la parola liturgia implica impegno sociale, impegno con la vita, con la carità. In Gesù Cristo, ciò che vale è la fede che agisce per amore”, ha spiegato il sacerdote.

Paolo afferma che Dio gli ha dato la grazia di essere “liturgo” o “ministro di Gesù Cristo presso i pagani”, prestando un servizio sacerdotale al Vangelo di Dio.

Secondo padre Haas, oltre alle considerazioni sul significato della liturgia come servizio, San Paolo apporta un grande contributo a ciò che si intende per culto spirituale.

In Romani 12, egli afferma: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale”.

“Per Paolo, la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio”, sottolinea.

“E’ molto facile vivere una liturgia del tempio, una liturgia della Chiesa solo come tempio. Ma è molto difficile fare della nostra vita un’ostia viva, santa, gradita a Dio”, ha ammesso.

Il responsabile della CNBB ha spiegato che il termine “culto” ha una radice latina che significa “coltivare”. “Cosa significa dare culto a Dio?”, ha chiesto. Significa “coltivare quotidianamente, nella celebrazione e nella vita, ciò che Dio è Il culto spirituale come impegno, su esempio di Gesù”.

“Molte Messe, battesimi e matrimoni sono stati e ancora sono opportunità più per giustificare gli schemi di questo mondo che per coltivare la volontà di Dio”.

“A volte si coltiva ciò che vogliamo, ciò che desideriamo, ciò che pensiamo, e non coltiviamo, non prestiamo il culto a Dio. Anziché servire Dio, ci serviamo di Dio. E’ questo l’avvertimento che San Paolo ci può lasciare”, ha osservato.

Per padre Haas, la liturgia deve “portarci a fare proprio ciò che Paolo ha detto in Galati 4: far sì che Cristo si formi in noi, in me, in te, in noi”.

L’Anno Liturgico è questo, “un modo fantastico perché la gente coltivi i sentimenti di Gesù Cristo che vengono celebrati” durante questo periodo.

“La Chiesa non ha un calendario liturgico, ha l’Anno Liturgico, che è un itinerario che la gente segue domenica dopo domenica, settimana dopo settimana coltivando quella Parola, e questa penetra, trasforma la vita della gente”.

“Non è devozione; è coltivare, perché possiamo diventare ostie vive, sante, gradite a Dio; questo è la liturgia, non è ritualismo. C’è bisogno di rito, di una ritualità, ma non di ritualismo. Non è devozione, è celebrazione”, ha sottolineato.

Nel contesto del Sinodo sulla Parola di Dio, padre Haas ha affermato che è necessario ascoltare la Parola con il cuore.

Per questo, sostiene, “abbiamo bisogno di silenzio. Non solo il silenzio della bocca, ma il silenzio degli occhi, delle orecchie, del cuore, del nostro corpo. Viviamo in un mondo molto rumoroso. Abbiamo Messe così rumorose…”.

“Questa esperienza umana di accogliere, ascoltare, comprendere, obbedire alla Parola è fondamentale per tutti noi”.

Padre Haas ha quindi sottolineato che la Parola non è un semplice messaggio. “Ho sentito tante persone dire: ‘il messaggio del Vangelo di oggi…’. La Parola non è un messaggio, è la verità, è la vita, è Cristo. La Parola è un avvenimento”.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 24 février, 2010 |Pas de commentaires »
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