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IL MISTERO DELL’AVVENTO

dal sito:

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IL MISTERO DELL’AVVENTO

ROMA, sabato, 27 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto, tratta dal volum “L’anno liturgico. Mistero Grazia e celebrazione” (Vita Trentina editrice 2001).

* * *
L’Avvento, mettendo la Chiesa in comunione con l’evento della lunga preparazione alla prima venuta del Salvatore, nel tempo che intercorse tra Adamo e Cristo e specialmente nella vicenda storica d’Israele, attualizza l’attesa del Messia,  ravvivando nei fedeli l’ardente desiderio della sua “triplice venuta”: egli, infatti, venne nell’umiltà della carne, viene misticamente nella celebrazione dei santi misteri, verrà alla fine dei tempi nella gloria.

“Al suo primo avvento
nell’umiltà della nostra natura umana
egli portò a compimento la promessa antica,
e ci aprì la via dell’eterna salvezza.
Verrà di nuovo nello splendore della gloria,
e ci chiamerà a possedere il regno promesso
che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa”. [1]
“Ora egli viene incontro a noi
in ogni luogo e in ogni tempo,
perché lo accogliamo nella fede
e testimoniamo nell’amore
la beata speranza del suo regno”.[2]

La liturgia dell’Avvento, tuttavia, pone l’attenzione in modo speciale al tempo che immediatamente precedette la venuta del Salvatore , quando la secolare attesa del Messia raggiunse la piena maturità e si espresse con la massima intensità: è il tempo dell’annunzio, della nascita, della predicazione e della testimonianza di Giovanni Battista, il Precursore, e della presenza di Maria SS., l’Immacolata Vergine Madre, che ricevendo l’annunzio dell’angelo accolse nel grembo il Verbo fatto carne. In questa cornice di riferimento, gli annunzi dei Profeti, soprattutto quelli del profeta Isaia, assumono una singolare eloquenza ed esprimono il loro senso definitivo.

“Egli fu annunziato da tutti i profeti,
la Vergine Madre l’attese
e lo portò in grembo con ineffabile amore,
Giovanni proclamò la sua venuta
e lo indicò presente nel mondo”.[3]

1. Il mistero globale della “venuta” del Signore:
- la venuta “nella carne”,
- la venuta “mistica” nei sacramenti,
- la venuta “nella gloria”.


“In Avvento celebriamo tutto il grande mistero della venuta del Signore: esso va dalla prima venuta a Betlemme, che ha risposto all’attesa del popolo antico, fino all’ultima venuta del Re della gloria, che colmerà l’attesa della Chiesa.
Entro questi due termini estremi si colloca un terzo avvento: quello che ha luogo nella Chiesa e nella vita cristiana, soprattutto per mezzo dei Sacramenti.
L’Avvento quindi è un tempo di attesa: attendiamo il Signore che viene. L’attesa non è mai colmata. Le anime lo aspettano, perchè non hanno ancora raggiunto la piena statura di Cristo; la Chiesa lo aspetta, perchè le realtà che essa possiede non sono ancora definitive; il mondo lo aspetta, perchè la missione della Chiesa non ha ancora portato fino ai suoi confini la testimonianza evangelica”.[4]
“Tre sono le venute del Signore: la prima nella carne, la seconda nell’anima, la terza per il giudizio. La prima avvenne sulla mezzanotte, la seconda al mattino, la terza a mezzogiorno… La prima venuta è già passata. Il Cristo fra gli uomini ‘è apparso e con gli uomini è vissuto’ (Bar 3, 38). Noi siamo nella sua seconda venuta, se però siamo tali che egli si degni di venire a noi; siamo sicuri che, se lo amiamo, verrà e dimorerà con noi. Questa venuta perciò è sottoposta a condizione… Quanto al terzo avvento è certissimo che accadrà, ma assolutamente incerto è il quando… Il primo avvento apre la via al secondo, il secondo prepara l’ultimo. Il primo fu nascosto e umile, il secondo è segreto e mirabile, il terzo sarà manifesto e terribile. Nel primo egli discese a noi per venire in noi nel secondo; nel secondo venne in noi per non venire nel terzo contro di noi. Nel primo operò con la sua misericordia, nel secondo dona la grazia, nel terzo darà la gloria, perché il Signore concede grazia e gloria (Sal 83, 12). Il Cristo Gesù, che abbiamo accolto come Salvatore e aspettiamo come Giudice, ci salvi non secondo le opere malvagie da noi compiute, ma secondo la sua grande misericordia!”. [5]
La venuta finale “nella gloria”, – che pure fa parte del mistero dell’Avvento ed è espressa sia nella Messa, come nel lungo responsorio dell’Ufficio di lettura della I domenica di Avvento “Guardo da lontano, e vedo arrivare la potenza del Signore, come una nube che copre la terra”[6]  e che colora molti altri elementi liturgici dall’inizio del tempo di Avvento fino al 16 dicembre, – è tuttavia anticipata e celebrata nelle ultime domeniche del Tempo Ordinario, e soprattutto nei giorni feriali dell’ultima settimana del Tempo Ordinario.
Così la dimensione escatologica della venuta del Signore tende ad essere considerata nella parte terminale dell’anno liturgico dominata dalla solennità di Nostro Signore Cristo Re dell’universo, che viene sulle nubi per il giudizio finale.[7]
In tal modo il forte carattere escatologico dell’Avvento antico viene temperato dalle domeniche che lo precedono e chiudono l’anno liturgico e l’attenzione si sposta più facilmente sulla prima venuta del Redentore.

La preparazione dell’Antico Testamento: mistero sempre attuale
“La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento di tale portata che Dio lo ha voluto preparare nel corso dei secoli. Riti e sacrifici, figure e simboli della “Prima Alleanza” (Eb 9, 15), li fa convergere tutti verso Cristo; lo annunzia per bocca dei profeti che si succedono in Israele; risveglia inoltre nel cuore dei pagani l’oscura attesa di tale venuta”.[8]
“Questo tempo che stiamo celebrando ci fa ricordare il Desiderato, cioè il desiderio dei santi padri che vissero prima della sua nascita. Molto giustamente la Chiesa ha disposto che in questo tempo si leggano le parole e si ricordino i desideri di coloro che precedettero il primo avvento del Signore. Noi non celebriamo questa attesa soltanto per un giorno, ma per un tempo piuttosto lungo; perché è un fatto di esperienza che le cose vivamente desiderate, se devono essere attese per un certo tempo, ci sono più dolci quando ciò che amiamo si fa presente. Sta a noi, perciò, fratelli carissimi, seguire gli esempi dei santi padri, coltivare in noi stessi i loro desideri, e così accendere nelle nostre anime l’amore e l’attesa di Cristo. La celebrazione di questo tempo fu istituita appunto per farci riflettere sulla fervente attesa dei nostri padri per la prima venuta del Signore, e perché impariamo dal loro esempio a desiderare grandemente la sua seconda venuta”.[9]
Ma perché Dio ha atteso tanti secoli per inviarci il Salvatore?

Il “desiderio” di Dio e del Salvatore
Innanzitutto Dio ha voluto, con tanto tempo di attesa, suscitare nell’umanità il “desiderio” di Dio, affievolito a causa del peccato, ma non estinto nel cuore umano.
“Il desiderio di Dio è iscritto nel cuore dell’uomo, perchè l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa”.[10]
Il tempo di Avvento è il tempo della riscoperta dell’essere religioso dell’uomo, della ricerca di Dio nella considerazione delle sue opere e mediante la luce naturale della ragione.
E’ il tempo dei “praeambula fidei”, che consentono all’uomo di essere “capace” di Dio e a Dio di comunicare con l’uomo ed essere da lui compreso.
“L’uomo è per natura e per vocazione un essere religioso. Poiché viene da Dio e va a Dio, l’uomo non vive una vita pienamente umana, se non vive liberamente il suo rapporto con Dio”.[11]
“Quando ascolta il messaggio delle creature e la voce della propria coscienza, l’uomo può raggiungere la certezza dell’esistenza di Dio, causa e fine di tutto”.[12]
“La Chiesa insegna che il Dio unico e vero, nostro creatore e Signore, può essere conosciuto con certezza attraverso le sue opere, grazie alla luce naturale della ragione umana”.[13]
“Partendo dalle molteplici perfezioni delle creature, similitudini del Dio infinitamente perfetto, possiamo realmente parlare di Dio, anche se il nostro linguaggio limitato non ne esaurisce il Mistero”.[14]
“La creatura senza il Creatore svanisce”.[15]
Ma non appena l’uomo si mette alla ricerca sincera di Dio e della sua verità, s’accorge della fragilità della sua mente, che, con fatica e non senza errori, si inoltra nella maestà del mistero divino e con sofferenza prova la debolezza della sua volontà nel persistere nel bene, anzi la sua natura umana, ferita dal peccato, compie il male che non vorrebbe (Rm 7, 18-25).
Ecco allora insorgere nell’umanità il desiderio del Salvatore, che porti all’uomo quella liberazione che l’uomo non può procurarsi con le sole sue forze.
Il “Messia”, già promesso ai Progenitori nel paradiso terrestre, dopo il peccato originale (Gn 3, 15), doveva così essere intensamente invocato dall’umanità peccatrice, che sperimentava le tragiche conseguenze del peccato.
Infatti, la liturgia dell’Avvento invoca il “Messia” come “speranza e salvezza dei popoli”[16]  e “atteso da tutte le nazioni”,[17] perché “tutta la terra desidera il suo volto”.[18]
Così l’Eterno Padre, affinché il suo divin Figlio non venisse tra noi senza essere sufficientemente atteso, ha stabilito un lungo tempo di aspettativa, degno di così grande Dono. E così l’umanità provata dai gemiti secolari dell’attesa invoca la venuta del Re delle genti: “Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, Padre, la nostra redenzione…”[19]  finché nella gioia dell’incontro ormai vicino potrà esclamare: “Ecco, l’Atteso dalle nazioni è vicino, la casa del Signore sarà piena di gloria”[20] e “Rialzatevi, sollevate la testa: la vostra redenzione è vicina”.[21]
Il mistero dell’Avvento sta veramente alla radice della fede; infatti se l’uomo non sente il desiderio e il bisogno di Dio e se non sperimenta il suo essere insufficiente e peccatore, non potrà aprirsi né a Dio, né al dono del Salvatore. Si comprende l’attualità e l’urgenza del Tempo di Avvento nel contesto secolarizzato della cultura dominante nella quale sono obnubilati proprio i principi, che stanno alla base della religiosità in quanto tale, anzi è la stessa capacità razionale dell’uomo che viene messa in discussione per cui non è più ovvio che egli sia “capace” di Dio e in grado di cogliere oggettivamente il Vero e il Bene. La risoluzione di questa crisi esistenziale di identità dell’uomo nella sua dimensione razionale è fondamentale per il superamento dei problemi relativi alla stessa fede, che non può essere assolutamente accettata come un fideismo soggettivo.

La graduale manifestazione di Cristo nell’Antico Testamento
Un secondo motivo della millenaria attesa del Messia lo si deve riconoscere nella necessità di preparare l’umanità a comprendere e ad accogliere il Figlio di Dio.
“Dio che abita una luce inaccessibile” (1Tim 6, 16) vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farne figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso, Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da se stessi.
Il disegno divino della Rivelazione si realizza ad un tempo “con eventi e parole” che sono “intimamente connessi tra loro” e si chiariscono a vicenda. Esso comporta una “pedagogia divina” particolare: Dio si comunica gradualmente all’uomo, lo prepara per tappe a ricevere la Rivelazione soprannaturale che egli fa di se stesso e che culmina nella persona e nella missione del Verbo incarnato, Gesù Cristo”.[22]
Il Padre ha realizzato la preparazione nelle antiche Alleanze con Adamo e Noè. Poi con la vocazione di Abramo ha scelto un popolo, il popolo eletto, e lo ha educato con speciale cura attraverso quella che è la “storia della salvezza”, che noi troviamo testimoniata nella Bibbia.
L’Avvento è il tempo tipico per le catechesi sulla “Storia Sacra” e per le meditazioni delle pagine bibliche dell’Antico Testamento per scoprirvi la presenza e l’azione del Cristo venturo. È questo lo scopo della consegna della Bibbia nella prima domenica di Avvento e delle celebrazioni della Parola proposte per i mercoledì e i venerdì di Avvento.
I grandi personaggi biblici prefiguravano il Redentore che doveva venire, gli eventi storici d’Israele erano profezie della vita di Cristo, i salmi anticipavano la sua preghiera, i profeti ne annunziavano la sua opera di salvezza, i comandamenti preparavano la via alle beatitudini evangeliche, le grandi verità sull’Unico Dio, sulla creazione dal nulla, sulla trascendenza di Dio, sull’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, sul senso progressivo della storia, ecc., sono anticipate e acquisite nella cultura ebraica in vista di quella pienezza di verità che sarà rivelata in Cristo.


“Egli in Noè già governava la Chiesa,
in Abramo fu patriarca fedelissimo,
in Isacco si offrì in glorioso sacrificio al Padre,
in Giacobbe fu maestro di pazienza,
in Giuseppe prefigurò la sua passione e la sua gloria,
in Mosè fu guida mirabile del suo popolo,
in Davide fu insigne re d’Israele,
in Salomone fu fonte di abbondantissima sapienza,
in Isaia fu l’autore di tutte le profezie,
in Giovanni preannunziò il battesimo che ci avrebbe redenti”.[23]
In tal modo il Redentore “ha visitato il suo popolo” (Lc 1, 68) e si è fatto uomo dentro “un popolo ben disposto” (Lc 1, 17) a capirlo e ad accoglierlo.
———————-
1) MRI, Prefazio dell’Avvento I.
2) MRI, Prefazio dell’Avvento I/A.
3) MRI, Prefazio dell’Avvento II.
4) La preghiera del mattino e della sera, Conferenza episcopale italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1989, p. 2.
5) PIETRO DI BLOIS, sacerdote, Discorso III per l’Avvento, Lettura patristica dell’Ufficio di lettura del mercoledì della prima settimana di Avvento, in UNIONE MONASTICA ITALIANA PER LA LITURGIA, L’Ora dell’Ascolto, Torino, ed. Marietti, 1977, vol. I, p. 28.
6) LO, I dom. Avv., Uff. lett., 1° resp.; RIGHETTI, vol. II, p. 56.
7) Messale Romano riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Lezionario domenicale e festivo, Anno A, Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1983; TESTO BASE, p. 242.
8) CCC, n. 522.
9) S. ELREDO, abate, Discorso 1 per l’Avvento, Lettura patristica dell’Ufficio di lettura della prima domenica di Avvento, in UNIONE MONASTICA ITALIANA PER LA LITURGIA, L’Ora dell’Ascolto, Torino, ed. Marietti, 1977, vol. I, p. 10.
10) CCC, n. 27.
11) CCC, n. 44.
12) CCC, n. 46.
13) CCC, n. 47.
14) CCC, n. 48.
15) CCC, n. 49.
16) LO, ant. Magn., 23 dic.
17) LO, ant. Magn., 22 dic.
18) LO, Primi Vespri di Natale, ant. 1° Sal.
19) MRI, orazione del 18 dic.
20) LO, IV dom. di Avv., Primi Vespri, ant. 1° Sal.
21) LO, 24 dic., Lodi, ant. 2° Sal.
22) CCC, nn. 52 e 53.
23) PINELL JORDI, Preci Eucaristiche Occidentali, Testi delle Liturgie Ambrosiana, Gallicana e Ispanica – Sintesi di uno studio letterario-dottrinale, Pontificio Istituto Liturgico, Roma 1984, pp. 55-57; Anamnesis, vol. VI, p. 356.

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO (P. Matias Augé)

dal sito:

http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-l-omelia-e-la-spiritualita-dell-ascolto-59771685-comments.html#anchorComment

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO

di P. Matias Augé

Viviamo in una società che è stata definita società dell’immagine, una società che non favorisce l’ascolto. Molteplici immagini accompagnate da molteplici parole e in rapida successione si sovrappongono confusamente sugli schermi della TV e dei telefonini, sui giornali, nei siti internet, nelle sale cinematografiche, in migliaia di libri sfornati dalle case editrici, nei graffiti delle mura delle città. Non è possibile prestare vero ascolto, dare retta a tutti questi molteplici messaggi, che somigliano ad un torrente impetuoso le cui acque scivolano lungo in pendio dei nostri sensi e della nostra mente. Nella nostra società c’è la prevalenza del “vedere” e del “sentire” sull’“ascoltare”.

Nell’antica civiltà ebraica, invece, le cose stavano in un altro modo. La possibilità di accedere alla Parola di Dio mediante la sua lettura in un testo scritto era molto ridotta, data la rarità di quanti erano in grado di leggere e la scarsità di testi scritti. Per l’antico ebreo la possibilità pressoché unica era, quindi, quella di sentir proclamare la Parola di Dio. Questo fatto ha affinato nel popolo eletto la capacità di ascolto. La Bibbia ci trasmette il ricordo delle reazioni di volta in volta suscitate nei pii ebrei da questo “ascolto”. Così, ad esempio, dopo che Mosè, disceso dal monte Sinai, lesse al popolo il libro dell’alleanza, gli israeliti risposero entusiasticamente: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). La stessa preghiera ebraica è ritmata dallo Shema’ Jisra’el, “Ascolta, Israele” (cf Dt 6,4-9), un comando che, in varie forme, è ripetuto più volte nella Torah. Possiamo ben dire che nella società e religiosità bibliche c’è l’assoluta prevalenza dell’ “ascoltare” sul “sentire”.

Il “sentire” si esaurisce perlopiù in una semplice sensazione fisica o anche emotiva; “ascoltare” è invece qualcosa di più profondo. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf Gv 1,1; Gen 1,3.6), per l’uomo “in principio è l’ascolto”. Nella Bibbia si tratta di un ascolto del cuore. Il credente, come “deve amare il Signore con tutto il cuore”, deve anche tenere la Parola di Dio “fissa nel cuore” (cf Dt 6,5.6). La Parola deve superare le barriere dell’ascolto puramente fisico e della comprensione intellettuale per spingersi nelle profondità dell’uomo fino a raggiungere la sua più profonda interiorità, appunto il “cuore”. Il cuore assomiglia al “grembo materno” ove il germe seminato vive e cresce. Sono noti i testi di Luca in cui egli parla del cuore di Maria: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19) e ancora: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Le parole “custodire” e “meditare” traducono due parole greche che significano rispettivamente: “cutodire” e “mettere insieme” (symbállo), “raccogliere” e “ricordarsi” (diateréo). Così, secondo i due contesti, il senso è che Maria, ricordando le profezie delle Scritture, ne ha viste alcune realizzarsi sotto i suoi. E ora, nel profondo della sua coscienza, nel suo cuore, mette i fatti a confronto.

All’ascoltatore della Parola si richiede un’attenta cura delle disposizioni personali e interiori (generosità, fiducia, povertà, disponibilità, libertà interiore, apertura, sforzo di attenzione, impegno, obbedienza nella fede ecc.) e delle condizioni ambientali o esterne (clima di deserto, di silenzio, di solitudine, di fede, di speranza, di carità, di preghiera ecc.) che possono favorire quell’itinerario della Parola che va dall’orecchio (o dagli occhi) al cuore.

Ecco quindi che l’omileta dev’essere anzitutto ascoltatore assiduo della Parola, abitato dalla Parola (cf Gv 5,38), deve nutrire una spiritualità dell’ascolto, deve far sì che la Parola che  predica diventi anzitutto per lui stesso una parola ascoltata e accolta nel cuore. Soltanto così potrà poi essere ministro efficace della Parola. L’omelia infatti deve, a sua volta, aiutare l’assemblea ad ascoltare la Parola. L’omileta vive della Parola che esce dalla bocca di Dio (cf Mt 4,4; Dt 8,3), si fa servo di questa Parola e ne diventa annunciatore in mezzo all’assemblea; ciò però è possibile e fecondo soltanto se l’omileta è un uomo di preghiera. Preghiera che nasce nell’ascolto della Parola e prepara all’ascolto dell’assemblea. Preghiera e servizio della Parola vanno insieme (cf At 6,4)

L’Istruzione Liturgicae Instaurationes afferma: “Lo scopo dell’omelia è di rendere comprensibile ai fedeli la Parola di Dio che è stata loro annunziata e di adattarla alla sensibilità della nostra epoca”. Le parole dell’omelia sono mediatrici della Parola. La Proposizione 15 del Sinodo dei Vescovi sul tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, termina con questa affermazione: “… i Padri sinodali auspicano che si elabori un Direttorio sull’omelia, che dovrebbe esporre, insieme ai principi dell’omiletica e dell’arte della comunicazione, il contenuto dei testi biblici che ricorrono nel lezionario in uso nella liturgia”. L’omelia è quindi un atto di comunicazione, e ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione. Nel caso dell’omelia, l’aspetto contenutistico è decisamente quello preminente, e tuttavia l’aspetto relazionale ha un suo peso non trascurabile, anzi rilevante. L’omileta quindi oltre che nell’ascolto della Parola, il cui contenuto deve poi trasmettere, deve esercitarsi anche nell’ascolto dell’assemblea, destinataria dell’omelia, deve cioè stabilire con la sua comunità una vera relazione, una vera comunicazione. Parliamo perciò di una spiritualità dell’ascolto dell’assemblea.

Si può affermare che in linea di massima la disposizione relazionale dell’assemblea è corrispondente a quella che anima l’omileta. Se, cioè, egli nutre vera stima, attenzione, vicinanza e disponibilità ad essere utile, se ha un approccio sincero nei confronti degli ascoltatori, se le sue parole sono vere, nascono dal cuore, allora la comunicazione ha tutte le possibilità di riuscire. L’omileta deve vivere, poi, in sintonia intima con la comunità a cui si rivolge, immedesimarsi con essa, far sì, come dicono le prime battute della Gaudium et spes, che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, siano pure “ le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” sue. Non si deve dimenticare che il destinatario della Parola è l’uomo, tutto intero, con i suoi problemi esistenziali e concreti di ogni giorno e che la Parola di Dio è più Parola di Dio sull’uomo che parola di uomo su Dio. 

Il Profeta Isaia: l’incontro con la grandezza (per l’inizio del Tempo di Avvento)

per l’Avvento il Profeta Isaia, dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/profeti/ISAIA.htm

I PROFETI

ISAIA:  l’incontro con la grandezza

di LUIGI VARI, biblista 

Il profeta Isaia, certamente il più famoso tra i profeti, quello che abbiamo più occasione di ascoltare la domenica a Messa, è certamente difficile da presentare. Isaia è complesso, non si legge tutto d’un fiato, ha bisogno di tempo e di studio. Il libro che noi chiamiamo « Isaia » è specchio della complessa attività di questo personaggio e del grande movimento che da esso si è originato. Il libro di Isaia infatti è più una biblioteca che un libro, in quanto contiene tre libri almeno, che gli studiosi chiamano rispettivamente ISAIA, DEUTEROISAIA (secondo Isaia) e TRITOISAIA (terzo Isaia). Questo significa che nel nome di Isaia si è sviluppato un movimento che ha superato la sua vita.
Pensare che quest’uomo abbia influito tanto nell’esperienza del suo popolo da essere diventato uno a cui rifarsi, come un caposcuola, ci rende curiosi e ci spinge ad un incontro umile con un personaggio che deve essere stato straordinario.

Con gli occhi di Dio

Isaia inizia il suo ministero nel 740 e deve averlo esercitato per almeno 40 anni, quando erano re Acaz e poi Ezechia. Anche lui, come tutti, vive la storia del suo tempo e cerca di leggerla con gli occhi di Dio. Vuole che a guidare le scelte del popolo siano criteri profondi, quali quelli della fedeltà all’alleanza, ed inevitabilmente si trova di fronte ad altri modi di lettura che sembrano essere più intelligenti, ma che portano il popolo alla rovina.
Quello che colpisce in Isaia è l’intensità dell’esperienza di Dio, visto in tutta la sua grandezza: « io vidi il Signore seduto su un trono molto elevato, la sua gloria riempiva il tempio » (Is 6,1), la grandezza di Dio spaventa il profeta: « io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono ed in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito » (6,5). La grandezza, però, non è lontananza, Dio è il Santo, ma è il Santo che si preoccupa del suo popolo: « chi manderò e chi andrà per noi? » e che cerca qualcuno che abbia il coraggio di essere sua presenza fra la gente. La grandezza di Dio prima spaventa e poi coinvolge il profeta che accetta: « Eccomi, Signore, manda me ».
Ogni incontro con Dio è incontro con la grandezza: mai fine a se stessa, ma che ci raggiunge e si impegna con la nostra debolezza per sollevarci.
Il profeta è chiamato a lasciarsi coinvolgere da questa grandezza  e dunque a condividere con Dio l’amore per il suo popolo, a farsi carico delle difficoltà che il popolo vive e a difenderlo dalle minacce. Il profeta è grande della grandezza di Dio quando diventa presenza che solleva, capacità di farsi carico e di condividere, di essere presente quando Dio ha bisogno di entrare nella storia dell’uomo.

Liberarsi dalla paura

Isaia inizia il suo cammino di profeta e scopre che il popolo è segnato dallo scoraggiamento, paralizzato dalla paura. Cerca allora di dare coraggio e si rivolge al re Acaz: « Veglia e stà calmo, il tuo cuore non deve indebolirsi a causa di questi due resti di tizzoni fumanti » (7,4). L’immagine di « tizzone fumante » dice la morte, la debolezza mortale. Dio incoraggia il suo popolo, lo libera dalla paura, invitandolo a guardare con occhio attento il motivo della paura e a rendersi conto che è, per molti versi, ingiustificata. Non è facile, però, liberarsi dalla paura. Si tratta di fare scelte segnate dalla fede,si tratta di avere il coraggio di accantonare i calcoli che ci rendono sicuri. È il dramma di sempre: quanto ci si può fondare su Dio per le scelte che riguardano la nostra vita? Il re è invitato da Isaia a correggere la propria politica e a fidarsi di Dio. Che cosa deve fare un re? Capita spesso di dover notare una sorta di sorriso compassionevole di fronte alla parola di Dio, un sorriso di sufficienza che tende a relegare Dio nella schiera degli ingenui che non faranno mai storia;  capita quando si nega alla Parola di illuminare le nostre scelte, quando non si riconosce la possibilità che il punto di vista di Dio possa essere quello giusto anche se contrasta con il nostro giudizio spesso reso debole dalla paura. E quando questo capita, quando neghiamo a Dio la concretezza noi neghiamo la sua grandezza, per cui il profeta afferma: « se voi non vi terrete fermi (se non vi fidate del giudizio di Dio), voi non sarete tenuti fermi » (7,9: lettura della CEI: se voi non crederete non sussisterete), l’alternativa è fra l’essere fondati e l’essere sbattuti da ogni vento.
Acaz si trova davanti a questo dilemma, ma Dio non lo lascia solo; lo invita chiedere un segno: « Il Signore parlò ancora ad Acaz in questi termini: »Domanda un segno per te al Signore tuo Dio, domandalo negli abissi o sulla sommità del cielo » . Acaz rispose: « Io non lo domanderò e non metterò il Signore alla prova » (Is 7,10-12).
Il segno non è necessariamente un miracolo, è qualcosa di verificabile nel tempo. Acaz viene invitato a scegliere, ma senza rinunciare alla possibile verifica; qui scatta il dramma: il re non vuole nessun segno! La paura che rende il re incapace di decidere per il bene viene scelta come stato di vita, come situazione permanente.
A questo punto la storia sembrerebbe chiusa alla speranza, il rifiuto sembra condannare l’uomo alla paura perpetua; la paura, la paralisi diventano incapacità di fare il bene.

L’Emmanuele: il segno della fedeltà di Dio

Isaia, profeta, scopre allora che LA STORIA È DI DIO, che l’uomo è di Dio: « Ascoltami dunque, casa di Davide, è troppo poco per voi affaticare gli uomini, che voi volete affaticare anche il mio Dio? Il Signore vi darà lui stesso un segno, ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele » (7,10-14).
L’Emmanuele è, nella lettura dei Vangeli (Mt 1,23) e della tradizione cristiana, lo stesso Cristo che viene così ad essere il segno della fedeltà di Dio, della speranza, della liberazione dalla paura per l’uomo che cammina ogni giorno aggredito da tanti tipi di tenebra.
Cristo è la luce che orienta il cammino: »il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terre tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia (…) poiché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio (…) consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace ».
Isaia è molto più ricco di quanto non appaia da queste poche righe; ma io penso che in questa parte di profezia che abbiamo incontrato ci siano elementi di grande riflessione per l’attualità della nostra vita. Le domande del re e le sue paure sono spesso anche le nostre, come è nostra a volte la paura, una paura dalla quale ci lasciamo sedurre. Isaia indica la fedeltà di Dio, la speranza, la fiducia come strada di uscita dalla paura e ci invita a verificare vivendo la verità di Dio e delle sue parole; verità che per noi è Cristo.
C’è una poesia di Brecht che forse può dare un’idea non solo della tristezza di un cuore senza speranza, ma anche di come sia necessario e grande l’annuncio dell’Emmanuele e della gioia che lo accompagna.

« Non vi fate sedurre/ non esiste ritorno/ il giorno sta alle porte,/ già è qui vento di notte./Altro mattino non verrà.// Non vi lasciate illudere/ che è poco, la vita,/ bevetela a gran sorsi/ non vi sarà bastata/ quando dovrete perderla.// Non vi date conforto:/ vi resta poco tempo./ Chi è disfatto marcisca./ La vita è la più grande:/ nulla sarà più vostro.// Non vi fate sedurre/ da schiavitù e da piaghe:/ che cosa vi può ancora spaventare?/ Morire con tutte le bestie./ E non c’è niente dopo ».

(B. Brecht, Poesie e Canzoni, R. Leiser e F Fortini, 1961 Torino).

Con questa poesia concludiamo il nostro incontro con il profeta Isaia lasciando alle sue parole, soprattutto quelle sull’Emmanuele, il compito di dissipare l’angoscia o la tristezza che da questa lettura potrebbe nascere nel nostro cuore.

(da « Se vuoi »)

Il Tempo di Avvento – Attendere Cristo: svegliarsi

dal sito:

http://www.sanpietroapostolopirri.it/tempo_avvento_09.html

Il Tempo di Avvento
 
Attendere Cristo: svegliarsi

 La parola Avvento che indica le quattro settimane con cui la Chiesa si prepara al Natale, deriva dal verbo latino ad-venio, cioè venire, anzi, venire verso… È Dio che ci viene incontro e che si fa bambino per incontrarci sul nostro stesso terreno. È lui che ci viene a cercare nei nostri deserti, nelle nostre vite… Ma chiede a noi di incamminarci verso di Lui, di non lasciarci andare, di non lasciarci cadere le braccia.
Facciamo dunque memoria della venuta di Cristo nella storia, ma ricordiamo anche la sua venuta futura, che attendiamo nella speranza. Egli tornerà per regnare per sempre. La nostra attesa deve essere vigilante al pari della sposa che attende lo Sposo. Solo Dio può dare risposta ai desideri più profondi del cuore.
Tre grandi figure nelle quattro domeniche ci aiuteranno ad entrare nel clima di attesa luminosa e paziente: il profeta Isaia, che sette secoli prima previde la nascita del Salvatore, il profeta Giovanni il Battista, intrepido assertore della verità e della giustizia e la Madre di Gesù, Maria, che ci condurrà nel cuore dell’Avvento a riconoscere suo figlio nell’umiltà di Betlemme. Per vivere bene questo tempo dobbiamo meditare più attentamente la Parola di Dio. Più si conosce, più si ama.
Questo tempo dell’attesa inizia con un invito forte: «Risollevatevi e alzate il capo…». Cioè guarda in avanti, sii sveglio, la «liberazione è vicina». Dio viene. Troppo comodo vivere la vigilanza cristiana stando alla finestra e guardando la storia. Dobbiamo essere nei flutti del fiume. L’Avvento è tempo di risveglio e di scelta. L’umiltà dell’Incarnazione diventa perno della coscienza che si fa certa che Dio ha vinto il mondo. Risorge la speranza di un futuro migliore.

La storia

Nel tempo in cui incomincia a determinarsi l’esigenza di un periodo di preparazione alle feste della manifestazione del Signore, la Chiesa aveva già fissato le modalità di preparazione alle feste pasquali. Nel IV secolo il tempo pasquale e quaresimale avevano già assunto una configurazione vicinissima a quella attuale.
L’origine del tempo di Avvento è più tardiva, infatti viene individuata tra il IV e il VI secolo. La prima celebrazione del Natale a Roma è del 336, ed è proprio verso la fine del IV secolo che si riscontra in Gallia e in Spagna un periodo di preparazione alla festa del Natale.
Per quanto la prima festa di Natale sia stata celebrata a Roma, qui si verifica un tempo di preparazione solo a partire dal VI secolo. Senz’altro non desta meraviglia il fatto che l’Avvento nasca con una configurazione simile alla quaresima, infatti la celebrazione del Natale fin dalle origini venne concepita come la celebrazione della risurrezione di Cristo nel giorno in cui si fa memoria della sua nascita. Nel 380 il concilio di Saragozza impose la partecipazione continua dei fedeli agli incontri comunitari compresi tra il 17 dicembre e il 6 gennaio.
In seguito verranno dedicate sei settimane di preparazione alle celebrazioni natalizie. In questo periodo, come in quaresima, alcuni giorni vengono caratterizzati dal digiuno. Tale arco di tempo fu chiamato « quaresima di s. Martino », poiché il digiuno iniziava l’11 novembre. Di ciò è testimone s. Gregorio di Tours, intorno al VI secolo.

Il significato teologico

La teologia dell’Avvento ruota attorno a due prospettive principali. Da una parte con il termine « adventus » (= venuta, arrivo) si è inteso indicare l’anniversario della prima venuta del Signore; d’altra parte designa la seconda venuta alla fine dei tempi.
Il Tempo di Avvento ha quindi una doppia caratteristica: è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

L’attuale celebrazione

Il Tempo di Avvento comincia dai primi Vespri della domenica che capita il 30 novembre o è la più vicina a questa data, e termina prima dei primi Vespri di Natale. E’ caratterizzato da un duplice itinerario – domenicale e feriale – scandito dalla proclamazione della parola di Dio.

1. Le domeniche

Le letture del Vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia. Le letture dell’Apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo.

2. Le ferie

Si ha una duplice serie di letture: una dall’inizio dell’Avvento fino al 16 dicembre, l’altra dal 17 al 24. Nella prima parte dell’Avvento si legge il libro di Isaia, secondo l’ordine del libro stesso, non esclusi i testi di maggior rilievo, che ricorrono anche in domenica. La scelta dei Vangeli di questi giorni è stata fatta in riferimento alla prima lettura. Dal giovedì della seconda settimana cominciano le letture del Vangelo su Giovanni Battista; la prima lettura è invece o continuazione del libro di Isaia, o un altro testo, scelto in riferimento al Vangelo. Nell’ultima settimana prima del Natale, si leggono brani del Vangelo di Matteo (cap. 1) e di Luca (cap. 1) che propongono il racconto degli eventi che precedettero immediatamente la nascita del Signore. Per la prima lettura sono stati scelti, in riferimento al Vangelo, testi vari dell’Antico Testamento, tra cui alcune profezie messianiche di notevole importanza.

La novena di Natale

Come si è appena visto, il tempo di Avvento guida il cristiano attraverso un duplice itinerario: « È tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi » (Norme per l’anno liturgico e il calendario, 39: Messale p. LVI). Nella liturgia delle prime tre domeniche e nelle ferie sino al 16 dicembre si può notare l’insistenza sul tema della seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi, mentre nei giorni compresi tra il 17 e il 24 tutta la liturgia è ormai tesa verso la celebrazione della nascita del Figlio di Dio. La novena di Natale cade pienamente nel secondo periodo dell’Avvento.
Le novene sono celebrazioni popolari che nell’arco dei secoli hanno affiancato le « liturgie ufficiali ». Esse sono annoverate nel grande elenco dei « pii esercizi ». « I pii esercizi – afferma J. Castellano – si sono sviluppati nella pietà occidentale del medioevo e dell’epoca moderna per coltivare il senso della fede e della devozione verso il Signore, la Vergine, i santi, in un momento in cui il popolo rimaneva lontano dalle sorgenti della bibbia e della liturgia o in cui, comunque, queste sorgenti rimanevano chiuse e non nutrivano la vita del popolo cristiano ».
La novena di Natale, pur non essendo « preghiera ufficiale » della Chiesa, costituisce un momento molto significativo nella vita delle nostre comunità cristiane. Proprio perché non è una preghiera ufficiale essa può essere realizzata secondo diverse usanze, ma un indiscusso « primato » spetta alla novena tradizionale, nella notissima melodia gregoriana nata sul testo latino ma diffusa anche nella versione italiana curata dai monaci benedettini di Subiaco.
La domanda che ogni operatore pastorale dovrebbe porsi di anno in anno è: « come posso valorizzare la novena di Natale per il cammino di fede della mia comunità? ».
Può infatti capitare che tale novena continui a conservare intatta la caratteristica di « popolarità » venendo però a mancare la dimensione ecclesiale, celebrativa e spirituale. Tali dimensioni vanno recuperate e valorizzate per non far scadere la novena in « fervorino pre-natalizio ».

1. Recupero della dimensione ecclesiale-assembleare

Pur non essendo – come si è detto – una preghiera ufficiale della Chiesa, la novena può costituire un momento ecclesiale molto significativo. Molti vi partecipano perché « attratti » dalla « novena in latino » (le chiese in cui la si canta in « lingua ufficiale » sono gremite!) e vi si recano per una forma di godimento personale che pone radici nella nostalgia dei tempi passati e non nel desiderio di condividere un momento di approfondimento della propria fede. È bene che i partecipanti prendano coscienza che sono radunati per una celebrazione che ha lo scopo di preparare il cuore del cristiano a vivere degnamente la celebrazione del Natale.

2. Recupero della dimensione celebrativa

La novena di Natale è molto vicina alla celebrazione dei vespri. Va pertanto realizzata attraverso una saggia utilizzazione dei simboli della preghiera serale: la luce e l’incenso. È bene che vi sia una proclamazione della parola e una breve riflessione. L’intervento in canto dell’assemblea va preparato e guidato. È utile ricordare che l’esposizione del SS. Sacramento col solo scopo di impartire la benedizione eucaristica – usanza frequente nelle novene di Natale – è vietata (Rito del culto eucaristico n. 97).

3. Recupero della dimensione spirituale

La novena di natale è una « antologia biblica » ricca di nutrimento per lo spirito. È quindi l’occasione per proporre non una spiritualità devozionale ma ispirata profondamente dalla Parola di Dio. Non è l’occasione per fare « bel canto » ma per lasciarsi coinvolgere esistenzialmente dalla Parola di Dio cantata.

Enrico Beraudo

La nobile semplicità delle vesti liturgiche

dal sito:

http://www.zenit.org/article-24576?l=italian

La nobile semplicità delle vesti liturgiche

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Uwe Michael Lang, C.O.*

ROMA, mercoledì, 17 novembre 2010 (ZENIT.org).- La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica come ausiliaria, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria teologica.
Questo insegnamento risuona nell’omelia del Santo Padre Benedetto XVI durante la Santa Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia a Barcellona (7 novembre 2010): «La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo». La bellezza divina si manifesta in modo del tutto particolare nella sacra liturgia, anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le vesti, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse.
Va riletto in merito il quinto capitolo sul «Decoro della celebrazione liturgica» nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove egli afferma che Cristo stesso ha voluto un ambiente degno e decoroso per l’ultima cena, chiedendo ai discepoli di prepararla nella casa di un amico che aveva una «sala grande e addobbata» (Lc 22,12; cf. Mc 14,15). L’enciclica ricorda anche l’unctio di Betania, un evento significativo che precorse l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26; Mc 14; Gv 12). Di fronte alla protesta di Giuda che l’unzione con olio prezioso costituisse uno «spreco» inaccettabile, viste le necessità dei poveri, Gesù, senza diminuire l’obbligo della carità concreta verso i bisognosi, dichiara il suo grande apprezzamento per l’atto della donna, perché la sua unzione anticipa «quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua Persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47). Giovanni Paolo II conclude che la Chiesa, come la donna di Betania, «non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (ivi, n. 48). La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.
In fondo, la cura attenta per le chiese e per la liturgia deve essere un’espressione dell’amore per il Signore. Anche in un luogo dove la Chiesa non ha grandi risorse materiali, non si può tralasciare questo compito. Già un papa importante del Settecento, Benedetto XIV (1740-1758) nella sua enciclica Annus qui (19 febbraio 1749), dedicata soprattutto alla musica sacra, ha esortato il suo clero affinché le chiese fossero ben tenute e dotate di tutte gli oggetti sacri necessari per la degna celebrazione della liturgia: «Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà».
La Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si è pronunciata in modo simile: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri» (Sacrosanctum Concilium, n. 124). Questo passo si riferisce al concetto della «nobile semplicità», introdotto dalla stessa Costituzione al n. 34. Questo concetto pare originare dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), secondo il quale la scultura classica greca era caratterizzata da «nobile semplicità e quieta grandezza». All’inizio del Novecento il noto liturgista inglese Edmund Bishop (1846-1917) descriveva il «genio del Rito Romano» come contrassegnato da semplicità, sobrietà e dignità (cf. E. Bishop, Liturgica Historica, Clarendon Press, Oxford 1918, pp. 1-19). Questa descrizione non è priva di merito, ma bisogna essere attenti alla sua interpretazione: il Rito Romano è «semplice» in confronto agli altri riti storici, come quelli orientali che sono distinti da grande complessità e sontuosità. Però, la «nobile semplicità» del Rito Romano non si deve confondere con una fraintesa «povertà liturgica» ed un intellettualismo che possono condurre alla rovina della solennità, fondamento del Culto divino (cf. il contributo essenziale di san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 64, a. 2; q. 66, a 10; q. 83, a. 4).
Da tali considerazioni risulta evidente che i paramenti sacri debbono contribuire «al decoro dell’azione sacra» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 335), soprattutto «nella forma e nella materia usata», ma anche, pur in modo misurato, negli ornamenti (ivi, n. 344). L’uso delle vesti liturgiche esprime l’ermeneutica della continuità, senza escludere un particolare stile storico. Benedetto XVI fornisce un modello nelle sue celebrazioni, quando indossa sia le casule di stile moderno che, in qualche occasione solenne, le pianete “classiche”, usate anche dai suoi predecessori. Così si segue l’esempio dello scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, paragonato da Gesù ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13,52).

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*Padre Uwe Michael Lang è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 17 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

L’incenso (alcuni elementi del rito della dedicazione)

dal sito:

http://www.spiox.org/elementi_rito.html

ALCUNI ELEMENTI DEL RITO DELLA DEDICAZIONE

Come incenso…

“Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera”. Così il salmo 140 (141) descrive poeticamente la preghiera serale del pio israelita.
L’incenso è un segno liturgico carico di significato. La parola incenso deriva dal latino incendere che significa bruciare. È composto da resine pregiate ridotte in polvere che, versate su carboni ardenti, creano una cortina di fumo profumata. L’uso dell’incenso è assai antico. Nelle culture pagane si attribuivano ad esso delle proprietà particolari come la purificazione dell’aria ammorbata e l’allontanamento degli spiriti cattivi. Nei testi dell’Antico testamento si accenna frequentemente all’uso dell’incenso. Nel tempio di Gerusalemme era stato edificato un altare apposito (l’altare dell’incenso o dei profumi) nel quale si bruciavano gli aromi (Cfr. Es 30 e Lc 1,8). Nonostante l’uso dell’incenso fosse frequente nel culto israelitico, nella liturgia cristiana stenta ad entrarvi poiché esso ricordava il culto pagano verso gli idoli e l’imperatore. Solo dopo il IV secolo, svanendo tale concezione pagana, esso fu introdotto anche nella liturgia cristiana. Inizialmente l’incenso precedeva le processioni pontificie, in seguito si attribuì questo onore all’altare e alla croce dopo la processione di ingresso della messa.
L’incenso è da porre in relazione con il senso della vista che con quello dell’olfatto. La cortina di fumo che sale è il simbolo del sacrificio dell’uomo che lentamente si erge verso Dio. La consumazione della vittima sacrificale attraverso il fuoco aveva come fine quello di far raggiungere a Dio, nei cieli, attraverso il fumo, lo stesso sacrificio. Questo il senso dell’olocausto (= consumazione completa della vittima nel fuoco
sacrificale; cfr. Es 29,18). L’incenso, invece, vuole rendere visibile l’intenzione di elevare a Dio dei “sacrifici spirituali” come ad esempio la preghiera (Sl 140,2). Il buon profumo dell’incenso vuole significare la bontà stessa del sacrificio dell’uomo al cospetto di Dio. Inoltre La “colonna di fumo” è segno della presenza di Dio (Es 19,18; Is 4,5; 6,4).
Nella liturgia attuale l’incenso può essere usato con una certa frequenza anche se facoltativamente. Nella messa si usa: durante la processione di ingresso davanti alla croce; per incensare l’altare prima dei riti iniziali; alla processione e alla proclamazione del vangelo; durante l’offertorio (si incensano le offerte, l’altare, la croce, il sacerdote e l’intera assemblea); all’ostensione post-consacratoria dell’ostia e del calice (circa le modalità da seguire per l’incensazione si può leggere PNMR 235-236). Durante l’adorazione eucaristica si usa l’incenso all’inizio dell’esposizione e prima della benedizione. L’incenso è usato in abbondanza nel rito di dedicazione della chiesa e dell’altare. Un uso particolare è quello destinato alla salma, nel rito delle esequie, come segno di rispetto verso il corpo destinato alla risurrezione. Il
Significato dell’incenso come segno della preghiera che sale verso Dio sarebbe da recuperare e valorizzare nella celebrazione comunitaria dei vespri, soprattutto la Domenica sera. Nel vespro solenne l’incenso viene usato durante il canto del Magnificat.
Lo strumento liturgico utilizzato per l’accensione dell’incenso si chiama turibolo. Esso generalmente è realizzato da un piccolo braciere sorretto da tre catenelle e dotato un coperchio forato reso mobile da un’altra catenella scorrevole. Il ministro incaricato di portare il turibolo si chiama turiferario. Il contenitore nel quale si ripone la scorta dell’incenso non ancora bruciato si chiama navicella. La navicella può essere portata dallo stesso turiferario o da un altro ministro.
Forse l’uso dell’incenso in molte comunità ecclesiali è ormai scomparso, in altre invece può essere eccessivo. È importante riscoprire la portata simbolica di questo gesto liturgico purificandolo dalle inutili incrostazioni esclusivamente scenografiche o baroccheggianti.

Come olio profumato…

La Bibbia riscontra una ricorrenza notevole dei termini olio e unguento: nell’Antico Testamento sono presenti più di duecento volte, circa trenta nel Nuovo Testamento. L’olio è un elemento fra i più comuni nella vita dell’uomo, perciò esso assume, anche a livello simbolico, innumerevoli significati. L’uso cultuale dell’olio pone le sue radici nell’ambito dei diversi valori simbolici che in esso è possibile individuare. I testi biblici rivelano svariate sottolineature che è opportuno tenere presenti.
La capacità dell’olio di penetrare in profondità. L’olio si presenta come una materia particolarmente assorbibile dai corpi. Pensiamo alle pitture ad olio in cui il pigmento si fissa in un’altra materia grazia alla capacità dell’olio di farsi assorbire da essa. La Bibbia coglie questa proprietà e nel salmo 109 leggiamo: «Si è avvolto di maledizione come di un mantello: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue ossa». L’olio entra ancor più in profondità dell’acqua.
La proprietà terapeutica. Ancora oggi siamo soliti usare dei farmaci a base di olio, si pensi alle pomate, alle lozioni o a qualsiasi unguento medicinale. L’olio restituisce forza, lenisce i dolori, tonifica i muscoli, sana le ferite (Sl 92,11; Is 1,6; Mc 6,13; Lc 10,34).
Segno di prosperità. La benedizione di Dio nei riguardi del suo popolo trova la sua concretizzazione nel dono della terra e di tutto ciò che in essa o tramite essa si produce. L’olio è menzionato più volte come segno della provvidenza di Dio e della conseguente prosperità dell’uomo Il libro del Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito» (Sir 39,26). E in Geremia l’olio è indicato come dono speciale da parte di Dio: «Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion, affluiranno verso i beni del Signore, verso il grano, il mosto e l’olio, verso i nati dei greggi e degli armenti. Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più» (Ger 31,12).
Segno di bellezza e di gioia. Ancora oggi la cosmesi fa largo uso di prodotti a base di olio. Gli unguenti profumati sono citati con frequenza nell’Antico Testamento e il loro uso è un modo per prepararsi ad incontri significativi, mettendo in evidenza la bellezza dei lineamenti (Est 2,12; Is 57,9; Ez 16,18). L’olio è anche segno della bellezza e della gioia di stare insieme, come canta il salmo 133: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste». È inoltre compito dell’Unto per eccellenza, del Messia, restituire la gioia di cui è segno l’olio, egli infatti è inviato per «allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore
mesto» (Is 61,3).
Segno di consacrazione di persone. L’unzione è il segno del passaggio dei poteri e dell’invio a missione. La Bibbia presenta tre personaggi tipici ai quali era riservato tale gesto: i sacerdoti, i re e i profeti (1Sam 16,13: consacrazione del re Davide; Es 29,4ss: consacrazione di Aronne come sommo sacerdote; 1Re 19,16: consacrazione del profeta Eliseo). È nell’ambito di tale prassi che sorge l’immagine dell’unto per eccellenza che assume in sé le caratteristiche di tutti coloro ai quali era destinata l’unzione. Si tratta della figura del Messia, l’Unto di Dio, il Cristo.
Segno di consacrazione di oggetti o luoghi. Non solo le persone, ma anche le cose e i luoghi possono essere oggetto di consacrazione tramite unzione: «Poi Mosè prese l’olio dell’unzione, unse la dimora e tutte le cose che vi si trovavano e così le consacrò» (Lev 8,10).
In ciascuna di queste caratteristiche scopriamo qualche elemento dell’attuale significato liturgico dell’olio e dell’unzione. Vedremo in seguito come a tale ricchezza di significato, corrisponde anche una ricchezza sacramentale e celebrativa.

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Festa della dedicazione della Chiesa (di dom Prosper Guéranger)

stralcio, dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-dedicazione.htm

L’anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

FESTA DELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA

Santità delle nostre Chiese.

Domum Dei decet sanctitudo: Sponsum eius Christum adoremus in ea (invitatorio di Mattutino). Il pensiero liturgico del giorno è precisato in questa formula invitatoriale. « Deve essere santa la casa di Dio: in essa adoriamo il Cristo, suo Sposo ». Che mistero è questo di una casa, che nello stesso tempo è sposa?
Sono sante le nostre Chiese per l’appartenenza a Dio, per la celebrazione del Sacrificio, per le preghiere e le lodi che vi si offrono all’ospite divino. Per un titolo più valido di quello che potevano vantare l’antico tabernacolo e il tempio, la dedicazione le ha separate da tutte le case degli uomini e esaltate sopra tutti i palazzi della terra. Tuttavia, nonostante i riti che le riempiono di magnificenza, nel giorno della consacrazione che le riserva a Dio, esse sono sempre senza sentimento e senza vita. Che dobbiamo dire allora, se non che la sublime funzione della dedicazione delle chiese come pure la festa che ne perpetua il ricordo, non si arrestano al santuario costruito con le nostre mani, ma si elevano a realtà viventi e più auguste? La gloria principale del nobile edificio è simboleggiarne la grandezza. L’umanità sotto l’ombra delle sue volte si inizierà a ineffabili segreti, il mistero dei quali si compirà oltre l’esistenza del mondo, nel meriggio del cielo. Vediamo la dottrina relativa a questo punto.

Il mistero della dedicazione.

Dio ha un solo santuario degno di lui: la sua vita divina, il tabernacolo di cui è detto che egli si circonda (Sal 17,12) quando curva i cieli (ivi 10) rende fitte le tenebre (ivi 12) agli occhi mortali, luce inaccessibile (1Tm 6,16) in cui abita nella sua gloria la tranquilla Trinità. Nondimeno, o Dio altissimo, ti degni comunicare alle anime nostre questa vita divina, che i cieli non possono contenere (3Re 8,27) e meno ancora la terra, e fai gli uomini partecipi della tua natura (2Pt 1,4). Nulla allora impedisce che in lui risieda la Santa Trinità. Tu fin dal principio (Pr 8,22) come legge del mondo in formazione (ivi 27) all’abisso, alla terra e al cielo potevi dichiarare che le tue delizie sarebbero nello stare con i figli degli uomini (ivi 31).
Venuta la pienezza dei tempi, Dio mandò il Figlio suo (Gal 4,4) facendolo figlio di Adamo, perché nell’uomo abitasse corporalmente la pienezza della divinità (Col 2,9). Da quel giorno la terra vinse il cielo e ogni cristiano fu partecipe di Cristo e, fatto dimora dello Spirito Santo (1Cor 3,16), portò Dio nel suo corpo (ivi 6,20). Il tempio di Dio è santo, diceva l’Apostolo, e il tempio siete voi, tempio è il cristiano, tempio è l’assemblea cristiana.
Poiché Gesù Cristo chiama tutta l’umanità a partecipare della sua pienezza (Gv 1,16; Col 2,10), l’umanità a sua volta completa Cristo (Ef 1,23). Essa fu ossa delle sue ossa, carne della sua carne (Gen 11,23), un corpo solo (Ef 6,30), formando con lui l’ostia, che deve eternamente bruciare sull’altare dei cieli nel fuoco dell’amore; in quanto poi è la pietra d’angolo, su essa sono poste altre pietre viventi (1Pt 2,4-7): l’assemblea dei predestinati, che sotto la cura degli architetti apostolici (1Cor 3,10) sorse tempio santo del Signore (Ef 2,20-22). Così la Chiesa è la Sposa e per Cristo e con Cristo è casa di Dio.
Lo è in questo misero mondo in cui si tagliano, nella fatica e nella sofferenza, le pietre elette, che saranno poi poste nel luogo previsto dal disegno di Dio (Inno di Vespro). Lo è nella felicità del cielo, dove il tempio eterno si accresce di ogni anima partita di quaggiù, in attesa che, compiuto con l’arrivo del nostro corpo immortale, sia dedicato dal nostro grande Pontefice, nel giorno della inimitabile dedicazione che chiuderà i tempi (1Cor 15,24): consegna solenne del mondo riscattato e santificato al Padre che gli diede il proprio Figlio (Gv 3,16), a Dio divenuto tutto in tutti (1Cor 15,28).
Sarà allora evidente che la Chiesa fu l’archetipo mostrato in anticipo sulla montagna (Es 26,30) e che ogni tempio fatto da mano d’uomo non poteva essere che sua figura e ombra (Ebr 8,5; 9,24). Allora la profezia di san Giovanni, il prediletto, sarà realizzata: Ho veduto la città santa, la nuova Gerusalemme, che discendeva dai cieli, ornata come una sposa per lo sposo e ho udito una gran voce che veniva dal trono e diceva: Qui è il tempio di Dio (Ap 21,2.3).
Era anche conveniente che questa festa illuminasse con i primi raggi dell’eternità l’anno liturgico al suo declino. È uno degli Angeli che portano le coppe piene dell’ira di Dio che additò all’Evangelista profeta la Sposa dell’Agnello nello splendore dei suoi ricchi ornamenti (ivi 9) e la speranza di contemplarla nella sua gloria sia il nostro conforto nei giorni tristi. L’attesa della sua prossima apparizione animerà i giusti nell’ora degli ultimi combattimenti.
Ma già ora, figli della Sposa, applaudiamo alla nostra Madre (Sequenza Ierusalem et Sion filiae) e questo giorno, carissimo al suo cuore, sia pari per noi alle solennità più grandi (Ct 3,11), perché ricorda e la sua nascita al fianco dall’Adamo celeste e la sua consacrazione beata che le dà diritto alle compiacenze del Padre, all’amore del Figlio, alle generosità del divino Spirito.
Quando, all’inizio del secolo XIX, furono rese al culto le chiese di Francia, la Santa Sede dispose che la festa della dedicazione, celebrata prima singolarmente nell’anniversario della dedicazione di ogni chiesa, fosse celebrata da tutte le chiese nello stesso giorno con unica festa, cui fu conservato l’onore del rito doppio di prima classe. La Santa Sede mostrava così che ai suoi occhi la festa della dedicazione conservava tutta la sua importanza.
Fissando la festa in domenica la Chiesa assicurava ai fedeli la possibilità di avere ogni anno gli insegnamenti sublimi che da essa derivano e dei quali si compiacevano i nostri padri.

La cerimonia della dedicazione.

Il nome di chiesa dato al tempio cristiano viene dall’assemblea dei battezzati, che si raduna in esso. La dedicazione dell’edificio sacro nell’ispirazione e nella trama che ne fanno una delle più auguste funzioni liturgiche, si ispira alle fasi successive della santificazione del popolo eletto. Da principio il tempio con le pareti nude e le porte chiuse non ci rappresenta altro che l’umanità fatta per Dio, ma vuota di lui a causa del peccato originale. Ma gli eredi della promessa non hanno disperato; anzi, hanno digiunato e pregato nella notte. Il mattino li ha trovati intenti a supplicare con i salmi penitenziali, ispirati a Davide dal suo castigo e dal suo pentimento.
All’alba, sotto la tenda in cui risuonava la preghiera dell’esilio (sub tentorio ante fores Ecclesiae consecrandae parato, Pontificale Romano), è apparso il Verbo Salvatore. E la persona del Pontefice, vestito delle insegne del suo ministero, ci rappresenta il Salvatore vestito della nostra natura. Dio fatto uomo si unisce alla preghiera degli altri uomini suoi fratelli portandoli davanti al tempio sempre chiuso, con essi si prostra e raddoppia le suppliche.
Attorno al tempio, inconscio dei suoi destini, si delinea allora la paziente strategia che Dio vuole seguano la sua grazia e i ministri di essa, stringendo di assedio le anime smarrite. Tre volte il Vescovo fa il giro dei muri esterni e tre volte tenta di forzare le porte, ostinatamente chiuse; ma è un investimento fatto esclusivamente di preghiere che salgono al cielo, la forza consiste in una persuasione misericordiosa, sospettosa dell’umana libertà: Apritevi, o porte, ed entrerà il Re della gloria. Finalmente l’infedele cede e anche la porta del tempio è conquistata. Pace eterna a questa casa in nome dell’Eterno. Ma non è tutto fatto, anzi ora si incomincia: dell’edificio, ancora profano, bisogna fare una dimora degna di Dio. Introdotto nella chiesa, il Vescovo continua a pregare. L’umanità, di cui la futura chiesa sarà simbolo, assorbe il suo pensiero. Sa che, caduta da tanto tempo, il suo male peggiore è l’ignoranza. Levandosi allora, con il pastorale traccia, su due linee di cenere, che si dirigono trasversalmente da una estremità all’altra del tempio e s’incrociano al mezzo della grande nave, l’alfabeto greco e l’alfabeto latino, elementi primi delle due lingue principali nelle quali si conservano a nostro vantaggio la Tradizione e la Scrittura. Le lettere sono tracciate con l’aiuto del bastone pastorale sulla cenere e sulla croce, perché la scienza ci viene dall’autorità dottrinale, che è compresa solo dagli umili e si riassume in Gesù crocifisso.
Illuminata ora come il catecumeno, l’umanità chiede di essere purificata col tempio e il Pontefice, per preparare gli elementi per tale purificazione, che gli sta a cuore, si ispira ai dati migliori del simbolismo cristiano. Mescola l’acqua e il vino, la cenere e il sale, che figurano l’umanità e la divinità del Salvatore, la sua morte e la Risurrezione. Come Cristo ci precedette nell’acqua del Giordano, le aspersioni cominciano dall’altare, che appunto rappresenta Cristo e proseguono poi nell’intero edificio. Una volta a questo punto non solo l’interno, ma l’esterno dei muri, il pavimento e in qualche luogo anche il tetto erano inondati della pioggia santificante, che caccia il demonio, prepara la casa a Dio e la prepara ai favori che poi seguiranno.
Nell’ordine delle operazioni di salvezza l’acqua chiama l’olio, che col secondo sacramento conferisce al cristiano la perfezione del suo essere soprannaturale, che fa i re, i sacerdoti e i pontefici. Per questo l’olio santo cola adesso a fiotti sull’altare che è Cristo capo, Pontefice e Re, e poi dall’altare, come l’acqua, corre ai muri e alla chiesa intera. Davvero ormai il tempio è degno di questo nome, chiesa, perché le pietre, così battezzate, così consacrate con l’Uomo-Dio, nell’acqua e nello Spirito Santo, rappresentano l’assemblea degli eletti, legati tra loro e con la pietra divina dal cemento indistruttibile dell’amore.
Gerusalemme, loda il Signore, loda il tuo Dio, o Sion! (Sal 147). I canti, che dall’inizio della funzione furono continui e rilevarono della funzione stessa i mirabili sviluppi, raddoppiano adesso di entusiasmo, raggiungono la sommità del mistero e nella Chiesa, intimamente associata all’altare, salutano la Sposa dell’Agnello. Dall’altare l’incenso si eleva a volute e sale fino alle volte percorrendo le navate e impregnando tutto il tempio del profumo dello Sposo. Ecco ora che si avanzano i suddiaconi della Santa Chiesa e presentano al Vescovo i doni fatti in questo grande giorno alla Sposa, le vesti preziose che essa ha preparato per sé e per il Signore. Nei primi secoli del Medioevo, aveva luogo a questo punto la trionfale traslazione delle Reliquie destinate ad essere poste nell’altare, che fino a quel momento erano rimaste sotto la tenda dell’esilio. In Oriente anche oggi la consacrazione della Chiesa si corona così. Vado a prepararvi un posto, disse l’Uomo-Dio, e quando l’avrò preparato, ritornerò a voi, per prendervi con me, affinché dove io sono siate anche voi. Nell’uso dei Greci, il Pontefice depone le Sante Reliquie sulla patena e le porta, elevate sopra la sua testa, onorando, come i venerandi Misteri, i resti preziosi, perché l’Apostolo disse ai fedeli: Voi siete il Corpo di Cristo e sue membra. In Occidente, fino al secolo XIII e oltre veniva sigillato nell’altare, insieme con le Sante Reliquie, il Signore stesso nel suo corpo eucaristico, realizzando così, dice san Pier Damiani, la Chiesa unita al Redentore, la Sposa allo Sposo. Era la consumazione finale, il passaggio dal tempo all’eternità

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 8 novembre, 2010 |Pas de commentaires »
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