Archive pour la catégorie 'LITURGIA STUDI'

Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica del Corpus Domini

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/details/ns_lit_doc_20100608_sac-corpus-domini_it.html
 
UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE  

Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica del Corpus Domini

La solennità del Corpo e del Sangue del Signore, nelle parole di Papa Benedetto XVI, «ci invita a contemplare il sommo Mistero della nostra fede: la Santissima Eucaristia, reale presenza del Signore Gesù Cristo nel Sacramento dell’altare. Ogni volta che il sacerdote rinnova il Sacrificio eucaristico, nella preghiera di consacrazione ripete: “Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Lo dice prestando la voce, le mani e il cuore a Cristo, che ha voluto restare con noi ed essere il cuore pulsante della Chiesa»[1].

1. Le origini della festa del Corpus Domini[2]
Le origini remote della festa del Corpus Domini si trovano nello sviluppo del culto dell’Eucaristia nel corso del Medioevo. Le dispute dottrinali fra Pascasio Radberto († 865) e Ratramno di Corbie († 868), e soprattutto fra Berengario di Tours († 1088) e Lanfranco di Pavia († 1089), portarono ad un chiarimento della dottrina sulla presenza reale di Cristo nel Sacramento e, di conseguenza, ad un più sentito e diffuso culto dell’Eucaristia.
Nel secolo XIII si manifesta un movimento più ampio di devozione eucaristica presso il popolo ed anche fra i teologi, con un forte contributo dato dal nuovo ordine francescano. Il Concilio Lateranense IV (1215), precisando la dottrina della Chiesa con la formula della transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, ha spinto ad un ulteriore sviluppo del culto eucaristico. Lo stesso Concilio prescrisse l’obbligo della comunione annuale a Pasqua e la custodia dell’Eucaristia in un luogo sicuro[3]. Nella liturgia si diffuse la prassi di elevare l’ostia ed il calice durante la Messa per il desiderio dei fedeli di vedere e di adorare le specie consacrate.
La solenne celebrazione del Corpus Domini, come la conosciamo anche oggi, è dovuta all’ispirazione della religiosa fiamminga Santa Giuliana di Cornillon (1191-1258). La festa, istituita nella diocesi di Liegi, nell’attuale Belgio, nel 1246, si diffuse rapidamente, grazie anche all’impegno del fiammingo Giacomo Pantaleone di Troyes, in seguito eletto papa col nome di Urbano IV (1261-1264). Egli incluse la festa nel calendario liturgico generale con la Bolla Transiturus de hoc mundo, dell’11 agosto 1264[4]. Tuttavia, a causa di diverse vicende, essa fu celebrata in tutta la Chiesa solo dopo il Concilio di Vienne (1311-1312).
Secondo la Vita di Santa Giuliana, Cristo stesso le disse il principale motivo per cui desiderava questa nuova festa, cioè per ricordare l’istituzione del Sacramento del suo Corpo e Sangue in maniera particolarmente solenne, il che non era possibile il Giovedì Santo, quando la liturgia è segnata dalla lavanda dei piedi e della Passione del Signore. Tale festa porterà ad un aumento di fede e grazia per i cristiani, che saranno indotti a partecipare con maggiore attenzione a ciò che invece vivono, nei giorni ordinari, con minore devozione o persino con negligenza.
La festa fu stabilita per il giovedì dopo l’Ottava di Pentecoste, il primo giovedì dopo il Tempo Pasquale, secondo il Calendario liturgico dell’usus antiquior. La festa è così chiaramente legata al Giovedì Santo, ed esprime il suo carattere essenziale: «Nella festa del Corpus Domini, la Chiesa rivive il mistero del Giovedì Santo alla luce della Risurrezione»[5].

2. La Messa
Nonostante qualche dubbio degli storici, è stato confermato dalla ricerca recente che la Messa e l’Ufficio del Corpus Domini sono stati composti da san Tommaso d’Aquino per ordine del papa Urbano IV. La Messa originale è rimasta la stessa nelle varie edizioni del Missale Romanum fino agli anni Cinquanta del secolo XX, con l’eccezione del Kyrie tropato[6] (preso da una fonte più antica), che era sparito nel Messale di San Pio V (1570).
Per l’epistola si è scelto il brano dell’apostolo Paolo sull’istituzione dell’Eucaristia (1Cor 11,23-29) in una versione più breve dello stesso testo, utilizzato durante la Messa in cena Domini il Giovedì Santo (1Cor 11,20-32). In questo quadro si inserisce anche il brano evangelico (Gv 6,56-59) dal grande «discorso eucaristico» di Gesù, che segue al miracolo della moltiplicazione dei pani.
Oltre le solite preghiere e antifone, la Messa contiene una lunga sequenza, della penna stessa dell’Aquinate, il Lauda Sion. Questa sequenza è un bell’esempio di come la lex credendi si esprima nella lex orandi, come accenna Benedetto XVI:
«Poco fa abbiamo cantato nella Sequenza: “Dogma datur christianis, / quod in carnem transit panis, / et vinum in sanguinem – È certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino”. Quest’oggi riaffermiamo con trasporto la nostra fede nell’Eucaristia, il Mistero che costituisce il cuore della Chiesa. […] Pertanto quella del Corpus Domini è una festa singolare e costituisce un importante appuntamento di fede e di lode per ogni comunità cristiana. È festa che ha avuto origine in un determinato contesto storico e culturale: è nata con lo scopo ben preciso di riaffermare apertamente la fede del Popolo di Dio in Gesù Cristo vivo e realmente presente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia. È festa istituita per adorare, lodare e ringraziare pubblicamente il Signore, che “nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue” (Sacramentum caritatis, 1)»[7].
San Tommaso d’Aquino ha assegnato alla Messa del Corpus Domini il Prefazio della Natività del Signore: «Nel mistero dei Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili»[8]. Questa scelta è significativa, in quanto stabilisce un’intima connessione fra il mistero dell’Incarnazione e quello della Transustanziazione: nel Sacramento è realmente e sostanzialmente presente il Cristo vivente, Corpo, Sangue, Anima e Divinità.
Nel Missale Romanum del 1962, attualmente normativo per la forma straordinaria del Rito Romano, il Prefazio della Natività è stato sostituito con quello Comune. Tuttavia, nel 1962, quattro nuovi prefazi sono stati approvati per alcune diocesi, tra cui un Prefazio del Santissimo Sacramento utilizzabile anche per il Corpus Domini.
Nel Missale Romanum del 1970 e nelle successive edizioni tipiche, i testi eucologici della festa sono rimasti essenzialmente gli stessi, mentre è stato assegnato il nuovo Prefazio della Santissima Eucaristia. La differenza principale è l’arricchimento delle letture secondo il ciclo dei tre anni (Anno A: Dt 8,2-3.14b-16a, 1Cor 10,16-17, Gv 6,51-58; Anno B: Es 24,3-8, Ebr 9,11-15, Mc 14,12-16.22-26; Anno C: Gen 14,18-20, 1Cor 11,23-26, Lc 9,11-17).

3. La Processione
In tutto il mondo, il Corpus Domini è segnato dalla solenne processione eucaristica che segue alla Messa. Anche a questo riguardo, la festa riprende la celebrazione del Giovedì Santo, che termina con la processione eucaristica all’altare della reposizione. Va rilevato, però, che la processione del Giovedì Santo ricorda l’esodo del Signore dal Cenacolo alla solitudine del Monte degli Ulivi, dove fu tradito da Giuda, e quindi ha in sé un aspetto oscuro e triste: è la notte che conduce alla Passione del Venerdì Santo. Invece, la processione eucaristica del Corpus Domini si svolge nella gioiosa luce della Risurrezione. Nel portare il Cristo Sacramentato attraverso città e villaggi, sui prati e sui laghi, la Chiesa opera «quasi in obbedienza all’invito di Gesù di “proclamare sui tetti” ciò che Egli ci ha trasmesso nel segreto (cf. Mt 10,27). Il dono dell’Eucaristia, gli apostoli lo ricevettero dal Signore nell’intimità dell’Ultima Cena, ma era destinato a tutti, al mondo intero»[9].
Nella solenne celebrazione del Corpus Domini in innumerevoli parrocchie e comunità cattoliche, si esprime la gioia nella fede, sulla quale Benedetto XVI, come teologo e come Papa, ha spesso riflettuto: la forza con la quale la verità della fede cristiana si fa strada deve essere la gioia con cui essa si manifesta. Questa gioia è una gioia pasquale, radicata nel fatto che Cristo è risorto dai morti. La Chiesa ha bisogno di sfruttare tutto lo splendore del bello, per esprimere questa gioia suprema.
Non bisogna stancarsi mai di insistere sulla priorità del culto divino, superando così una stretta interpretazione legalistica e moralistica del cristianesimo. Benedetto XVI dà l’esempio, perché è profondamente convinto che «il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione»[10]. L’adorazione, che si esprime in modo del tutto particolare nella Messa e nella Processione del Corpus Domini, è costitutiva del rapporto dell’uomo con Dio e della giusta esistenza umana nel mondo.
In questo Anno Sacerdotale, i ministri del Santissimo Sacramento hanno una ragione in più per tornare a meditare sull’incomparabile dignità, cui sono stati chiamati per divina vocazione. L’essere sacerdoti ordinati ha un riferimento primario ed insostituibile al potere di consacrare l’Eucaristia. Ai vari motivi teologici che fanno da sfondo alla gioia di ogni cristiano dinanzi al Dono eucaristico, il sacerdote aggiunge anche la sua conformazione – di certo umanamente immeritata – al Cristo Sacerdote, che si rende presente realmente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Auguriamo pertanto ai sacerdoti di tutto il mondo di vivere la processione del Corpus Domini come momento di adorazione, contemplazione e riflessione sul grande Mistero che si rende sempre di nuovo presente nel mondo attraverso le loro mani, unte un giorno con il sacro crisma per poter consacrare e toccare il Corpo sacramentale di Cristo.

Note
1) Benedetto XVI, Angelus (10 giugno 2007).
2) Cf. L. Pristas, «The Calendar and Corpus Christi: An Historical and Theological Consideration of the Church’s Sacred Year», in U. M. Lang (ed.), The Genius of the Roman Rite: Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, Hillenbrand Books, Chicago 2010, pp. 159-178.
3) Concilio Lateranense IV (1215), Constitutiones, 20. De chrismate et eucharistia sub sera conservanda: in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p. 244.
4) Cf. DS 846-847.
5) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (26 maggio 2005). Oggi, in molti paesi dove questo giovedì non è una festa pubblica, la festa del Corpus Domini si celebra la domenica seguente.
6) Con questa espressione si intende un’invocazione del «Kyrie, eleison» accompagnata da un versetto introduttivo chiamato «tropo», ad es.: «Signore, mandato dal Padre a salvare i contriti di cuore, abbi pietà di noi – Signore, pietà».
7) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (7 giugno 2007). 8) «Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae oculis lux caritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur».
9) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (7 giugno 2007).
10) J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 16.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 24 juin, 2011 |Pas de commentaires »

RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE (Matias Augé)

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2010/articolo6_893.asp

RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE
 
Matias Augé

Scopo di queste pagine è illustrare come si è arrivati alla riscoperta dell’antica «preghiera dei fedeli»[1], chiamata anche preghiera «comune» o meglio ancora «universale», il suo recente ripristino nella liturgia romana e gli ulteriori sviluppi che essa ha conosciuto nei diversi documenti della Chiesa.

1. La riscoperta della «preghiera universale»

C’è un certo consenso tra gli autori per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera di supplica per intenzioni varie, collocata dopo la proclamazione del vangelo (e l’omelia) e prima dell’offertorio o preparazione dei doni. Questa preghiera sarebbe scomparsa a metà del secolo VI. Gli studiosi però non coincidono nel modo di spiegare le vicissitudini storiche di questo importante elemento eucologico.
Il problema della natura, struttura e funzione della preghiera universale nell’antica liturgia romana è stato discusso nel corso del secolo XX. Se ne sono occupati diversi studiosi[2]. Ci soffermiamo brevemente su due teorie che hanno meritato un’attenzione particolare, quella di B. Capelle[3] e quella di P. De Clerck[4].
Nella ricerca storica di B. Capelle, il punto di partenza è l’Apologia I di san Giustino, dell’anno 150 circa: la preghiera dei fedeli si fa dopo il vangelo e l’omelia, prima dell’offertorio; si prega «sia per noi stessi, sia per colui che sta per essere illuminato, sia per tutti gli altri, ovunque siano, al fine di essere degni di conoscere la verità, di meritare di essere riconosciuti nei fatti buoni cittadini e custodi dei comandamenti, e di essere ammessi all’eterna salvezza»[5]. In seguito abbiamo la testimonianza della Tradizione apostolica, n. 21 e di altri documenti nel corso dei secoli IV e V, fino a papa Felice III (483-492). Il suo successore, papa Gelasio I (492-496), avrebbe soppresso la preghiera dei fedeli dopo il vangelo, introducendo al suo posto una litania che si ispirava ai modelli greci, collocata però all’inizio della messa e costituita dalla supplica Kyrie eleison cantata dopo ogni invocazione; si tratta della cosiddetta Deprecatio Gelasii. È stato notato che i testi della Deprecatio lasciano più spazio alla menzione delle situazioni umane e delle disposizioni personali degli oranti. Finalmente, Gregorio Magno (590-604) avrebbe eliminato le varie intenzioni e lasciato solo il ritornello Kyrie eleison, più Christe eleison, come semplice acclamazione. L’adozione della Deprecatio Gelasii potrebbe spiegare la presenza, in alcuni formulari di messe dei più antichi Sacramentari (la raccolta di Verona e il Gelasiano antico), di una seconda orazione prima della preghiera sulle offerte; poteva infatti trattarsi di un’oratio post precem, preghiera sacerdotale che concludeva la Deprecatio.
Capelle nota, inoltre, che la preghiera dei fedeli non era un rito specificamente romano, ma lo si trovava dappertutto, in Occidente e in Oriente. Il parallelismo più impressionante, secondo lo studioso, è la preghiera dei fedeli dei libri II e VIII delle Costituzioni apostoliche, dove troviamo l’articolazione: pro… oremus… ut, che ricorda la struttura delle Orationes sollemnes del venerdì santo della liturgia romana, unica testimonianza della preghiera dei fedeli che sarebbe rimasta nel libri romani.
Secondo De Clerck, che mette in discussione alcuni elementi della tesi di Capelle, nella liturgia romana esisteva certamente una preghiera, che egli chiama «universale», tra il vangelo e l’offertorio, rimasta fino al secolo VI, quando sarebbe sparita per la concorrenza della litania processionale che precedeva la messa. Il Kyrie, sorto però come pezzo autonomo, sarebbe divenuto l’acclamazione finale aggiuntiva della litania. Nei giorni nei quali non si celebrava la litania, tale acclamazione avrebbe conservato la sua naturale autonomia; scomparsa definitivamente la litania, il Kyrie avrebbe ricuperato stabilmente la sua indipendenza.
Sia la teoria di B. Capelle che quella di P. De Clerck, di cui abbiamo dato una brevissima sintesi, hanno dei punti deboli messi in rilievo da diversi autori e ripresi, recentemente, da V. Raffa, secondo cui la notizia sulla preghiera dei fedeli trovata nelle Apologie di Giustino e meno chiaramente nella Tradizione apostolica, ha una sua propria spiegazione. Al tempo di Giustino non esisteva ancora a Roma una preghiera eucaristica stabilizzata, capace di albergare anche le intercessioni. Il testo della Tradizione apostolica, a parte che ormai non è accettata da tutti la sua rappresentatività della tradizione romana, menziona una preghiera dei fedeli a proposito di una celebrazione che non si sa fino a che punto rifletta la prima parte della messa. Delle altre testimonianze citate non si può escludere che si riferiscano alle intercessioni del canone della messa[6]. Da parte sua, però, A. Nocent e altri autori affermano che la preghiera universale o dei fedeli e le intercessioni anaforiche sono due realtà molto differenti: la preghiera universale propone (enuncia) delle domande, mentre le intercessioni elencano le intenzioni per le quali si offre il sacrifico eucaristico. Le due preghiere quindi hanno potuto coesistere senza porre dei problemi particolari[7].
Per quanto riguarda la Deprecatio Gelasii, K. Gamber, che ne ha pubblicato i testi, A. Chavasse e altri hanno provato che essa non aveva come risposta il Kyrie, ma: Dicamus omnes: Domine exaudi et miserere, o anche: Praesta Domine praesta[8]. Ci sono altri elementi nella storia della preghiera universale sui quali gli autori divergono. Bastano però questi pochi segnalati per farsi carico della problematica.
Le prime manifestazioni in favore della restaurazione o ripristino della preghiera universale sono degli anni ’50 del secolo scorso[9], però è attorno al 1960 che gli studi di J.-B. Molin fanno delle proposte concrete al riguardo[10]. Le proposte del Molin poggiano sulla sopravvivenza della preghiera dei fedeli nelle cosiddette «prières du prône» medioevali. Agli inizi del secolo X, troviamo un invito rivolto al popolo, dopo il sermone delle domeniche e feste, a pregare per diverse intenzioni. Questo costume si è diffuso nel corso del Medioevo; lo troviamo attestato in parecchie diocesi di Francia, Inghilterra, Germania e anche d’Italia. Nei paesi di lingua francese, le suddette preghiere si chiamavano appunto «prières du prône» (prône: cancellata che separava il coro dalla nave). V. Raffa afferma però che nessuna prova esiste sul fatto che queste preghiere del sermone siano, almeno nell’ambito della messa, la continuazione presbiterale della preghiera universale antica della liturgia papale[11].
Come abbiamo visto, le opinioni degli studiosi sull’origine e gli sviluppi della preghiera dei fedeli non sempre combaciano. In ogni modo, c’è un certo consenso per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera per intenzioni varie. Il Concilio Vaticano II ha raccolto il desiderio espresso a più riprese da diversi studiosi ripristinando l’antica preghiera dei fedeli o preghiera universale. In un lungo e documentato studio, F. Dell’Oro afferma che in realtà il contesto nel quale è stato realizzato il ripristino di questa preghiera è fondamentalmente quello caratterizzato dallo sviluppo dell’Ordo missae romano in area franco-germanica e che pertanto corrisponde alla seconda fase dello sviluppo della preghiera dei fedeli, cioè quella che va dal secolo IX/X in poi[12].

2. Il ripristino della «preghiera universale»

La Costituzione conciliare sulla liturgia così determina:

«Sia ripristinata dopo il vangelo e l’omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, la “preghiera comune” o “dei fedeli”, in modo che, con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (SC 53).

La natura di questa orazione la si ricava dalla tradizione liturgica ed è fondata nel precetto paolino, a cui il testo conciliare rimanda:

«Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Tm 2,1-2).

Nelle successive redazioni, che furono oggetto dello studio dei padri conciliari fino alla promulgazione del testo di SC 53 (nelle due prime redazioni, n. 40), ci sono state alcune varianti significative. Nelle due prime redazione si prescriveva questa preghiera «saltem diebus dominicis et festis de praecepto»; nelle due ultime redazioni, invece, si dice: «praesertim diebus dominicis e festis de praecepto». Non si esclude, quindi, che la nostra preghiera possa essere recitata in ogni celebrazione con la partecipazione del popolo. Le altre varianti riguardano una migliore e più ampia esplicitazione, nelle ultime due redazioni, del contenuto di questa preghiera[13].
A pochi giorni di distanza dalla creazione del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, è stato redatto un abbozzo di riforma generale della liturgia, che si ritrova sostanzialmente nella stesura definitiva del «Piano generale per la riforma liturgica», un fascicolo presentato a Paolo VI il 15 marzo 1964. Per quanto riguarda il Messale, vi troviamo la «Preghiera comune o dei fedeli». Questo era il titolo iniziale; poi, a evitare ambiguità (ogni preghiera liturgica «comune» è «dei fedeli»), fu cambiato in «universale», in riferimento alla natura di questa preghiera[14]. Notiamo però che, come vedremo più avanti, nei documenti posteriori la terminologia ha continuato a essere diversificata: preghiera comune, universale o dei fedeli[15].
Nove mesi dopo la promulgazione di SC, l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti Inter Oecumenici (26.09.1964), preparata per incarico di Paolo VI dal Consilium, contiene, al n. 56, alcune norme pratiche e provvisorie per l’applicazione di SC 53. Tre anni dopo, l’Istruzione Eucharisticum Mysterium (25.05.1967) della Sacra Congregazione dei Riti e del Consilium stabilisce, al n. 28, che nelle messe domenicali e festive anticipate alla sera del giorno precedente si celebri la messa indicata nel calendario per la domenica o per il giorno festivo, «senza affatto omettere l’omelia e l’orazione dei fedeli».
Il Consilium pubblicò alcune norme corredate di modelli per la preparazione della preghiera universale. Stampate prima «pro manuscripto», il 13 gennaio 1965, nel fascicolo: De oratione communi seu fidelium. Eius natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina ad experimentum Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, di pp. 32; in seguito nel volume: De oratione communi seu fidelium. Natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1966, pp. 102. Quest’ultima edizione si distingue da quella «pro manuscripto» soltanto per i 54 schemi disposti secondi i tempi liturgici. Scopo del sussidio era di educare le assemblee eucaristiche a questa nuova forma di preghiera introdotta nella liturgia della messa[16].
Da segnalare ancora che nel sussidio: Cantus, qui in Missali Romano desiderantur, iuxta instructionem ad exsecutionem Constitutionis de sacra liturgia recte ordinandam et iuxta ritum concelebrationis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1965, pubblicato dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal Consilium, ed entrato in vigore il 7 marzo 1965, sono proposti alcuni toni per il canto della preghiera dei fedeli[17].
Aggiungiamo ancora che il gruppo di esperti del Consilium, incaricato della revisione delle litanie dei santi, notava che l’ultima parte delle litanie dei santi corrispondeva alla preghiera universale. Si proponeva, quindi, che nelle messe in cui si dicono le litanie, l’ultima parte delle stesse tenga il posto della preghiera universale, presentando intenzioni che riguardino sia il bene della Chiesa e del mondo, sia le persone e le cose per le quali si compie il rito, cioè i battezzati nella veglia pasquale, gli ordinandi, la chiesa o l’altare che vengono dedicati, ecc.[18].
Nel primo schema della cosiddetta «messa normativa», si diceva che la preghiera dei fedeli era un elemento strutturale e stabile della celebrazione, da non omettersi «in nessuna celebrazione, neppure nei giorni feriali e, in forma opportunamente adattata, neppure nelle messe private»[19].
Come si sa, la messa normativa è stata presentata e celebrata «ad experimentum» nel corso del Sinodo dei vescovi del 1967. Dopo questa dimostrazione, sono stati rivolti ai padri sinodali alcuni quesiti su questa messa. Nelle risposte dei padri, troviamo la seguente osservazione un po’ particolare sull’argomento di cui ci occupiamo:

«2. Osservazioni sulla liturgia della parola:
e) La preghiera universale non sembra necessaria in tutte le messe; si potrebbe fare dopo la comunione»[20].

La proposta non ha avuto un seguito.
3. La «preghiera universale» nelle diverse edizioni del Missale Romanum promulgato da Paolo VI

Con la Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI (03.04.1969) viene promulgato il nuovo Messale, introdotto dall’IGMR, dove, sotto il nuovo titolo «La preghiera universale» (Oratio universalis), i nn. 45-47 ne determinano natura, struttura e caratteristiche. Anzitutto la natura teologica:
«Nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo, esercitando la sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini». Si afferma poi che «è conveniente che nelle messe, con partecipazione di popolo, vi sia normalmente questa preghiera». In seguito, viene indicata la successione delle intenzioni: per le necessità della Chiesa; per i governanti e la salvezza di tutto il mondo; per quelli che si trovano in difficoltà; per la comunità locale. Le tre prime intenzioni le abbiamo trovate indicate in SC 53; ad esse si associa ora l’intenzione per la comunità locale con l’aggiunta che, in determinate celebrazioni (confermazione, matrimonio, esequie…), la successione delle intenzioni può venire adattata alla circostanza[21]. Finalmente, riprendendo e completando quanto aveva deciso Inter Oecumenici, viene determinata la struttura celebrativa: il sacerdote che presiede la celebrazione guida la preghiera, invitando, con una breve e adeguata monizione, i fedeli a pregare, e la conclude con un’apposita orazione. Le varie intenzioni sono proposte da un diacono o da un cantore o da qualche altra persona. L’assemblea esprime la sua preghiera con un’invocazione comune o pure pregando in silenzio.
In Appendice, il Missale contiene alcuni schemi o formulari (specimina) per la preghiera universale: due formulari generali, otto per i diversi tempi dell’anno liturgico (dall’Avvento al tempo ordinario), e uno per le messe dei defunti.
Nella seconda edizione tipica del Missale Romanum, apparsa il 26 marzo 1975, i numeri dell’IGMR che a noi interessano non hanno subito dei cambiamenti. Non così nella terza edizione tipica del Missale Romanum del 2002/2008, in cui l’Institutio è stata notevolmente modificata: i nn. 69-71 dell’IGMR, corrispondenti ai nn. 45-47 delle due edizioni anteriori, sono stati arricchiti con alcuni significativi elementi. Sul piano teologico, si aggiunge che con questa preghiera, «il popolo risponde in certo modo (quodammodo respondet) alla parola di Dio accolta con fede». Sul contenuto delle intenzioni, si dice che «siano sobrie, formulate con una sapiente libertà e con poche parole, ed esprimano le intenzioni di tutta la comunità». Per quanto concerne la struttura celebrativa, si precisa che il sacerdote guida la preghiera «dalla sede» e che le intenzioni si leggono «dall’ambone o da altro luogo conveniente». Altra novità della terza edizione del Missale è che nell’Appendice I si offrono alcuni toni gregoriani da adoperare nel canto della preghiera dei fedeli, particolarmente per l’invito e per l’acclamazione.
Notiamo che l’OLM del 1981, nelle premesse, aveva già interpretato la preghiera universale come una sorta di «risposta» alla parola di Dio proclamata: «Nella preghiera universale l’assemblea dei fedeli, alla luce della parola di Dio, alla quale in un certo modo risponde (quodammodo respondet), prega…» (OLM 30). L’IGMR della terza edizione tipica del Missale non ha fatto altro che riproporre quanto scritto nel suddetto OLM.
Alla fine di questo percorso, la novità più significativa è che per la prima volta i documenti ufficiali, l’OLM del 1981 e l’ultima edizione dell’IGMR sopra citati, fanno riferimento alla preghiera universale interpretata come «risposta» alla parola di Dio proclamata. Negli studi del settore e nella prassi pastorale, tale tendenza era emersa da tempo. Già nel 1964, A. Nocent, dopo aver ricordato lo svolgimento dell’azione liturgica descritto da Giustino (ascolto della parola di Dio, risposta dei partecipanti, omelia, preghiera comune dell’assemblea), affermava che la preghiera comune è «il frutto e l’esito dell’attività dinamica della parola di Dio proclamata e accolta. Essa è un zampillio di vita, un effetto dell’attuale presenza del Signore che oggi ha parlato e a cui si risponde con la preghiera»[22]. Lo stesso autore, vent’anni circa dopo, indicherà come prima caratteristica della preghiera universale il «mantenere il legame con le letture»[23]. L’opinione del Nocent è stata accolta da altri autori e ha avuto un certo esito nella prassi pastorale nonché, come abbiamo detto sopra, nei documenti ufficiali.
Nel 1983, P. De Clerck, coerentemente con quanto aveva affermato nei suoi studi precedenti, prese una posizione critica al riguardo della tendenza a concepire la preghiera universale come «risposta» alla Parola proclamata[24]. Secondo lo studioso, il problema sta nel sapere se la preghiera universale è la chiusura o meno della liturgia della Parola. Le testimonianze di Giustino e della Tradizione apostolica la presentano, piuttosto, come inizio della liturgia eucaristica. Secondo questi documenti, dopo il lavacro battesimale, i neofiti sono condotti «nel luogo in cui ci riuniamo per pregare in comune con fervore» (Giustino) e sono ammessi a pregare «insieme con i fedeli» (Tradizione apostolica). Il De Clerck rileva che questo è il significato originario della «preghiera dei fedeli», almeno in Oriente: quando i catecumeni sono stati congedati, i fedeli (che qui significa: coloro che hanno ricevuto il battesimo) rivolgono al Signore la loro preghiera. Se la distinzione tra la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica è chiarificatrice, e quindi opportuna, non serve però farne due blocchi distinti. In questo modo si renderebbe più difficile il movimento d’insieme che deve caratterizzare la celebrazione eucaristica.
Più recentemente, V. Raffa, pur considerando la preghiera universale come conclusione naturale della liturgia della Parola, afferma che può essere considerata anche come «cerniera» fra le due parti della messa. Infatti, la parola di Dio ha sempre un carattere universalistico e quindi orienta a interessarsi della situazione dei bisogni dell’intera famiglia umana. L’Eucaristia, poi, è il sacrificio offerto dalla Chiesa per tutti gli uomini[25].

4. Conclusioni

Ci siamo limitati a illustrare in modo sintetico le origini, il ripristino e gli ulteriori sviluppi della preghiera universale o dei fedeli della messa. Abbiamo visto che le origini e primi sviluppi storici della nostra preghiera sono interpretati in modi alquanto diversi dagli autori. Il suo ripristino, auspicato da molti, è stato deciso dal Vaticano II. A. Bugnini ha scritto al riguardo:

«L’orazione comune è la “perla preziosa” che la restaurazione liturgica restituisce al “santo popolo di Dio”, secondo formulari già in uso, o stabiliti dalla competente autorità»[26].

Dall’insieme della documentazione liturgica si deduce una certa evoluzione terminologica che testimonia il desiderio di far sì che anche i termini contribuiscano a individuare meglio questo particolare tipo di preghiera. Senza arrivare a una terminologia unitaria, negli ultimi documenti – noi abbiamo citato solo i principali – prevale l’espressione «preghiera universale», da sola o anche abbinata a quella di «preghiera dei fedeli»[27].
Per quanto concerne la natura teologica della preghiera universale, bisogna attendere la pubblicazione del Missale Romanum del 1970 con l’Institutio che lo precede. Nelle sue diverse edizioni, l’IGMR, come anche le premesse all’OLM, hanno messo in rilievo due caratteristiche principali della preghiera universale: si tratta di una preghiera in cui il popolo esercita la sua funzione sacerdotale e, inoltre, risponde in certo modo alla parola di Dio accolta con fede. La preghiera universale è preghiera del popolo sacerdotale, cioè riservata a coloro che hanno ricevuto il Battesimo e l’unzione dello Spirito Santo e fanno parte perciò del popolo che in Cristo ha accesso al Padre e partecipa della sua mediazione. L’esercizio di questa funzione sacerdotale ha una manifestazione concreta, non unica naturalmente, in questo particolare momento della celebrazione. In una simile prospettiva acquisterebbe tutto il suo valore e significato la terminologia «preghiera dei fedeli»[28].
La preghiera universale è supplica a Dio, non quindi adorazione, rendimento di grazie, e meno ancora predica o catechesi. In essa si chiedono a Dio beni soprattutto universali, pur non essendo esclusa l’intercessione per l’assemblea celebrante. Perciò giustamente F. Dell’Oro afferma che una delle condizioni necessarie alla maturazione armoniosa della preghiera universale è oggi lo studio teologico della preghiera di domanda[29].
A. Catella, nel contesto di alcune linee storiche concernenti il sorgere e l’evolversi della celebrazione delle tempora nella liturgia romana (non escluso il Vaticano II), ha presentato la proposta dell’Orazionale edizione CEI confrontandola con la tradizione e facendo di questa innovazione postconciliare una lettura «moderna» alla quale dovrebbero essere opportunamente iniziati gli utenti dell’«Orazionale per la preghiera dei fedeli»[30].
Nei diversi Ordines, pubblicati dopo il Vaticano II, la preghiera dei fedeli non è un elemento eucologico esclusivo della messa, ma è prevista anche nella celebrazione dei sacramenti, nel rito della professione religiosa, nel rito delle esequie, nella celebrazione della Liturgia delle Ore, ecc.
Per quanto riguarda la Liturgia delle Ore, De Clerck, dopo aver notato che la storia esaustiva sulla tipologia della preghiera universale non può limitarsi solo alla messa, afferma che dovrebbe avere uguale attenzione per le preghiere litaniche dell’Ufficio divino. Lo studioso aggiunge che si tratta di una questione abbastanza «embrouillé»[31]. Le attuali preci delle lodi e dei vespri sono formulate in modo diverso della preghiera universale della messa: quelle delle lodi sono principalmente dirette a dedicare a Dio la giornata che inizia, invocando (da qui il nome di «invocazioni») il suo aiuto e la sua benedizione sulle occupazioni che la riempiranno e sulle persone che si incontreranno. Le preci dei vespri sono soprattutto «intercessioni» per le necessità di tutto il popolo di Dio; l’ultima intercessione è sempre per i defunti[32].
——————————————————————————–

[1] Le sigle più frequentemente ricorrenti sono: IGMR = Institutio generalis Missalis Romani (diverse edizioni); OLM = Ordo lectionum Missae, Editio typica altera (21.01.1981); SC = Sacrosanctum Concilium (4.12.1963); CEI = Conferenza episcopale italiana.
[2] Una bibliografia abbondante e una sintesi delle diverse opinioni si trova in V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2003, pp. 348-374 (nuova edizione ampiamente riveduta e aggiornata secondo l’editio typica tertia del Messale Romano).
[3] Cf. B. Capelle, Le Kyrie de la messe et le pape Gélase, in «Revue bénédictine» 46 (1934) 126-144; Id., Le pape Gélase et la messe romaine, in «Revue d’histoire ecclésiastique» 35 (1939) 22-34; Id., L’œuvre liturgique de S. Gélase, in «Journal of Theological Studies» 52 (1951) 129-144; Id., Innocent Ier et le canon de la messe, in «Recherches de Théologie ancienne et médiévale» 19 (1952) 5-16; Id., L’intercession dans la messe romaine, in «Revue bénédictine» 65 (1955) 181-191; tutti questi studi si possono trovare riuniti in Id., Travaux liturgiques de doctrine et d’histoire, vol. 2, Abbaye di Mont César, Louvain 1962.
[4] Cf. P. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies anciennes. Témoignages patristiques et textes liturgiques, Aschendorf, Münster Westf. 1977. Un’ampia sintesi di questa importante opera si trova in F. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine antiche, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 683-726. Si veda anche P. De Clerck, Prière universelle et appropriation de la Parole, in «La Maison-Dieu» 153 (1983) 113-131; Id., Les prières d’intercession. Les rapports entre Orient et Occident, in «La Maison-Dieu» 183/184 (1990) 171-189.
[5] Apologia I, 65,1, in Giustino, Apologie, a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, p. 167, cf. anche 67,5.
[6] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 352-368.
[7] Cf. A. Nocent, La prière commune des fidèles, in «Nouvelle Revue Théologique» 86 (1964) 948-964 (qui p. 963).
[8] Cf. A. Chavasse, A Rome, au tournant du Ve siècle, additions et remaniements dans l’Ordinaire de la Messe, in «Ecclesia Orans» 5 (1988) 25-44.
[9] Cf. B. Opfermann, Um die Erneuerung des Fürbittengebetes in der Messfeier, in «Bibel und Liturgie» 18 (1951) 243-248; P.-M. Gy, Signification pastorale des prières du prône, in «La Maison-Dieu» 30 (1952) 125-136.
[10] Cf. J.-B. Molin, L’«oratio fidelium», ses survivances, in «Ephemerides Liturgicae» 73 (1959) 310-317; Id., Comment redonner pleine valeur aux prières du prône, in «Paroisse et liturgie» 42 (1960) 285-300; Id., Enquêtes historiques, in J.-B. Molin – T. Maertens , Pour un renouveau des prières du prônes, Apostolat liturgique, Bruges 1961, pp. 11-44; Id., Les prières du prône en Italie, in «Ephemerides Liturgicae» 76 (1962) 39-42; Id., L’«oratio communis fidelium» au moyen âge en Occident du X au XV siècle, in Miscellanea liturgica in onore si S.E. il Cardinale Giacomo Lercaro, vol. 2, Desclée, Roma 1967, pp. 313-468.
[11] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., p. 367 in nota.
[12] Cf. F. Dell’Oro, La preghiera dei fedeli: tradizione o innovazione?, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 9-70.
[13] Cf. F. Gil Hellín (ed.), Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (Concilii Vaticani II Synopsis), LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 158-159.
[14] Cf. A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975). Nuova edizione riveduta e arricchita di note e di supplementi per una lettura analitica, CLV-Ed. Liturgiche 1997, p. 77.
[15] Raffa preferisce la denominazione «preghiera dei fedeli», più idonea a distinguere questo genere da quello della preghiera presidenziale, la quale potrebbe definirsi, a un titolo più particolare, preghiera universale e comune in quanto viene formulata dal presidente a nome di tutti e della comunità presente. Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 369-370.
[16] Cf. Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 126 e 253.
[17] Cf. ibid., p. 131.
[18] Cf. ibid., p. 326.
[19] Cf. ibid., p. 341.
[20] Cf. ibid., p. 351.
[21] La problematica che riguarda le messe per gruppi particolari è stata affrontata dal Consilium nel 1968. Tra le proposte vi troviamo la seguente: «c) Preghiera dei fedeli: può essere adattata, ma non manchino mai le intenzioni universali» (Bugnini, La riforma liturgica, cit., p. 427).
[22] Nocent, La prière commune des fidèles, cit., p. 950.
[23] A. Nocent, Storia della celebrazione dell’Eucaristia, in Anàmnesis 3/2, Marietti, Casale M. 1983, p. 222.
[24] Cf. De Clerck, Prière universelle et appropriation, cit., pp. 113-131.
[25] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 370-371.
[26] Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 805.
[27] Più documentazione la si può trovare nello studio di M. Sodi, La preghiera universale o dei fedeli nella normativa dei libri liturgici, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 82-102.
[28] Cf. P. Sorci, Significato teologico della preghiera dei fedeli, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 71-81.
[29] Cf. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine, cit., p. 726.
[30] Cf. A. Catella, Preghiera dei fedeli e le Quattro Tempora, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 114-123.
[31] Cf. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies, cit., p. 269.
[32] V. Raffa, Preghiera dei fedeli – Invocazioni – Intercessioni, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 124-141, dopo una concisa descrizione della natura, importanza e struttura della «preghiera dei fedeli» nella messa e delle «invocazioni» alle lodi e delle «intercessioni» ai vespri nella Liturgia delle Ore, sottolinea gli elementi che sono in comune e quelli che sono propri a ciascuno, sia nel contesto del libro liturgico in cui sono inseriti e sia – anzi principalmente – nella stessa azione liturgica. Conclude con alcune «osservazioni pratiche» degne di attenzione e di intelligente valutazione.

Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa “verso il popolo”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25346?l=italian

Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa “verso il popolo”

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di don Mauro Gagliardi*

ROMA, mercoledì, 26 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Sin da tempi remoti, la Chiesa ha stabilito segni sensibili, che aiutassero i fedeli ad elevare l’anima a Dio. Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, ha motivato questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un Sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).
Uno dei segni più antichi consiste nel volgersi verso oriente per pregare. L’oriente è simbolo di Cristo, il Sole di giustizia. «Erik Peterson ha dimostrato la stretta connessione fra la preghiera verso oriente e la croce, connessione evidente al più tardi per il periodo post costantiniano. [...] Presso i cristiani si diffuse l’uso di indicare la direzione della preghiera con una croce sulla parete orientale nell’abside delle basiliche, ma anche nelle camere private, ad esempio, di monaci ed eremiti» (U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, p. 32).
«Se ci si domanda verso dove guardassero il sacerdote ed i fedeli durante la preghiera, la risposta deve suonare: in alto, verso il catino absidale! La comunità orante durante la preghiera non guardava affatto davanti a sé all’altare o alla cattedra, bensì elevava in alto le mani e gli occhi. Così il catino absidale assurse all’elemento più importante della decorazione della chiesa, nel momento più intimo e santo dell’agire liturgico, la preghiera» (S. Heid, «Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit», Rivista di Archeologia Cristiana 82 [2006], p. 369 [mia trad.]). Quando dunque si trova rappresentato nell’abside Cristo tra gli apostoli e i martiri, non si tratta solo di una raffigurazione, bensì di una sua epifania dinanzi alla comunità orante. La comunità allora «elevava in alto le mani e gli occhi “al cielo”, guardava concretamente a Cristo nel mosaico absidale e parlava con lui, lo pregava. Evidentemente, Cristo così era direttamente presente nell’immagine. Giacché il catino absidale era il punto di convergenza dello sguardo orante, l’arte provvedeva a fornire quanto l’orante necessitava: il Cielo, dal quale il Figlio di Dio appariva alla comunità come da una tribuna» (ibid., p. 370).
Dunque, «pregare e guardare per i cristiani tardoantichi formano un tutt’uno. L’orante voleva non solo parlare, ma sperava anche di vedere. Se nell’abside si mostrava in modo meraviglioso una croce celeste o il Cristo nella sua gloria celeste, allora per ciò stesso l’orante che guardava verso l’alto poteva vedere esattamente questo: che il cielo si apriva per lui e Cristo gli si mostrava» (ibid., p. 374).

Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa «verso il popolo»
Dai precedenti cenni storici, si deduce che la liturgia non viene veramente compresa, se la si immagina principalmente come un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea. Non possiamo qui entrare nei dettagli: ci limitiamo a dire che la celebrazione della S. Messa «verso il popolo» è un concetto entrato a far parte della mentalità cristiana solo in epoca moderna, come dimostrato da studi seri e ribadito da Benedetto XVI: «L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nell’epoca moderna ed è completamente estranea alla cristianità antica. Infatti, sacerdote e popolo non rivolgono l’uno all’altro la loro preghiera, ma insieme la rivolgono all’unico Signore» (Teologia della Liturgia, Città del Vaticano 2010, pp. 7-8).
Nonostante il Vaticano II non avesse mai toccato questo aspetto, nel 1964 l’Istruzione Inter Oecumenici, emanata dal Consilium incaricato di attuare la riforma liturgica voluta dal Concilio, al n. 91 prescrisse: «È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare versus populum». Da quel momento, la posizione del sacerdote «verso il popolo», pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera «orientata» e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocifisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia (cf. M. Gagliardi, Introduzione al Mistero eucaristico, Roma 2007, p. 371).
La visibilità della croce d’altare è presupposta dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (n. 308). Non si precisa, però, se la croce debba stare necessariamente al centro. Qui intervengono pertanto motivazioni di ordine teologico e pastorale, che nel ristretto spazio a nostra disposizione non possiamo esporre. Ci limitiamo a concludere citando di nuovo Ratzinger: «Nella preghiera non è necessario, anzi, non è neppure conveniente guardarsi a vicenda; tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un’applicazione esagerata e fraintesa della “celebrazione verso il popolo”, infatti, sono state tolte come norma generale – persino nella basilica di San Pietro a Roma – le Croci dal centro degli altari, per non ostacolare la vista tra il celebrante e il popolo. Ma la Croce sull’altare non è impedimento alla visuale, bensì comune punto di riferimento. È un’“iconostasi” che rimane aperta, che non impedisce il reciproco mettersi in comunione, ma ne fa da mediatrice e tuttavia significa per tutti quell’immagine che concentra ed unifica i nostri sguardi. Oserei addirittura proporre la tesi che la Croce sull’altare non è ostacolo, ma condizione preliminare per la celebrazione versus populum. Con ciò diventerebbe anche nuovamente chiara la distinzione tra la liturgia della Parola e la preghiera eucaristica. Mentre nella prima si tratta di annuncio e quindi di un immediato rapporto reciproco, nella seconda si tratta di adorazione comunitaria in cui noi tutti continuiamo a stare sotto l’invito: Conversi ad Dominum – rivolgiamoci verso il Signore; convertiamoci al Signore!» (Teologia della Liturgia, p. 536).

[Il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 9 febbraio]
———-
*Don Mauro Gagliardi è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 14 mars, 2011 |Pas de commentaires »

IL SACRO SILENZIO NELLA CELEBRAZIONE LITURGICA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25869?l=italian

IL SACRO SILENZIO NELLA CELEBRAZIONE LITURGICA

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di don Nicola Bux*

ROMA, mercoledì, 9 marzo 2011 (ZENIT.org).- «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa… il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo» (cf. Sap 18,14-15). Così un’antifona nell’ottava del Natale ricorda, con straordinaria libertà, come nella notte dell’Esodo sia avvenuta la liberazione dell’uomo e l’affrancamento dal peccato. Per riconoscerlo presente nel mondo, anzi nell’opera pubblica che è la liturgia – sacra proprio a motivo della Presenza – è necessario «silere», cioè tacere. Bisogna tacere per ascoltare, come all’inizio di un concerto, altrimenti il culto, ossia la relazione coltivata, profonda con Dio, non può incominciare, non si può «celebrare» Lui.
Ciò è indispensabile per pregare: «Entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6). La camera è l’anima, ma anche il tempio, dicono i Padri. Quale segreto può essere mantenuto senza silenzio? Il segreto della coscienza in cui si può udire la voce di Dio, nella notte silenziosa come per Samuele. Ci vuole silenzio perché Dio possa parlare e noi ascoltarlo. Per questo andiamo in chiesa, per celebrare il culto divino, sacro perché scende dal silenzio eterno nel tempo così rumoroso, per placarlo e orientarlo all’Eterno. Non c’è dubbio che la posizione frontale del sacerdote all’altare verso il popolo induca alla distrazione lui e i fedeli, disorientando la direzione della preghiera: imitiamo il Santo Padre che guarda al Crocifisso.
Il silenzio va recuperato, limitando al minimo le parole da parte di chi deve dare indicazioni preparatorie alla celebrazione. I sacerdoti, le religiose addette al servizio, i ministri limitino parole e movimenti, perché sono alla presenza di Colui che è la Parola. Questo silenzio è chiesto all’inizio della Santa Messa per l’esame di coscienza, pur breve, onde riconoscere i nostri peccati «prima di celebrare i Santi Misteri».
Dopo l’invito a pregare con l’Oremus, il sacerdote si raccoglie in silenzio, per pregare e per dare il tempo ai fedeli di fare altrettanto e unire così la propria intenzione a quell’orazione che il sacerdote pronuncerà «raccogliendo» – perciò si chiama orazione «colletta» – e presentandola al Signore. Con questa orazione, comincia nella Messa la funzione sacerdotale di mediazione tra il popolo santo e il Signore.
Dalla preghiera a Dio si passa all’ascolto di Dio. Il Sinodo sulla Parola di Dio non ha trascurato di insistere sul silenzio come spazio privilegiato per riceverla. I misteri di Cristo – il Papa lo ricorda nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini – sono legati al silenzio, come dicono i Padri della Chiesa. Così, più che moltiplicare gli incontri biblici, bisogna aver «realmente a cuore l’incontro personale con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola» (n. 73). La liturgia della Parola è tale perché avviene nel silenzio sacro.
L’Ordo Missae suggerisce, a questo punto, che vi sia stata o no l’omelia, ancora silenzio. Sembra un esercizio «all’incontro spoglio, silenzioso, austero… al colloquio spontaneo, lieto, adorante con la divina Maestà, come trascinati nella scia della preghiera stessa di Cristo» (Paolo VI, Discorso agli Abati della Confederazione Benedettina, 30 Settembre 1970, n. 3). È un invito ai monaci: ma ogni cristiano deve essere in qualche misura monaco, cioè abitare da solo col Signore. La liturgia sacra abilita a questo. La Regola benedettina esorta il monaco a far sì che la sua mente sia in armonia con la voce (cf. 19,7): «Sembra una cosa semplicissima, diremmo naturale – sottolinea ancora Paolo VI – ma l’avere questa armonia interna tra la voce e la mente, è una delle cose più difficili» (Discorso agli Abati, cit.). Proprio la dinamica del rapporto tra Dio che parla e il fedele che ascolta e risponde con il salmo o la preghiera – secondo la classica tripartizione conservatasi nella settimana santa: lettura, responsorio, orazione – costituisce l’esercizio necessario, la ruminatio dei Padri, per assimilare e far sì che voce e mente si armonizzino. Questo è particolarmente utile in vista dell’offerta di sé, dei nostri corpi in sacrificio spirituale «come culto secondo la ragione», che per questo «rinnova la mente» al fine di distinguere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12,1-2). Il rinnovamento della mente è il giudizio secondo Dio e non secondo il mondo. La liturgia deve favorire la conversione dalla mentalità mondana e carnale, che tende sempre ad infeudare chierici e laici. Rinnovare la mente significa guardare la realtà e non inseguire le proprie idee – l’ideologia –, perché Egli fa nuove tutte le cose.
Il silenzio può riaffiorare all’offertorio, ove non è necessario né obbligatorio che le formule previste di offerta siano dette ad alta voce. Si potrebbe poi suggerire che, in futuro, la Preghiera Eucaristica, anche nella Messa di Paolo VI, possa essere recitata submissa voce, quasi in silenzio, per favorire il raccoglimento: come si faceva e si continua a fare nella celebrazione in «forma straordinaria». È sempre necessario sentire parole così arcane, in specie quelle della consacrazione? Se il sacerdote abbassasse il tono della voce, non reciterebbe, ma pregherebbe davvero lui e favorirebbe il raccoglimento e l’unione dei fedeli alla sua preghiera di mediazione sacerdotale. Analogo silenzio è raccomandato specialmente al ringraziamento dopo la Comunione.
Ma, al di là dei momenti specifici, è tutta la liturgia, anzi la chiesa stessa come spazio sacro, che necessita di recuperare il clima di silenzio. Tale esigenza portava a preordinare spazi di raccordo come narteci e atrii per passare dall’esterno all’interno, dalla dispersione al raccoglimento. Non servirebbe anche ai nostri giorni? «La capacità di interiorità, una maggiore apertura dello spirito, uno stile di vita che sappia sottrarsi a quanto è chiassoso e invadente, devono tornare ad apparirci mete da annoverare tra le nostre priorità. In Paolo troviamo l’esortazione a rafforzarsi nell’uomo interiore (Ef 3,16). Siamo onesti: oggi v’è una ipertrofia dell’uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 167).
Ci avvolga in questa Quaresima il sacro silenzio!

[Il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 23 marzo]

———
*Don Nicola Bux è professore di Liturgia orientale a Bari e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 10 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Il mistero della Quaresima (liturgia)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25834?l=italian

Il mistero della Quaresima

ROMA, lunedì, 7 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti – parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) – tratta dal volume “L’anno liturgico. Mistero Grazia e celebrazione” (Vita Trentina Editrice, 2000).

* * *

La Quaresima è la celebrazione del mistero di quel “viaggio”, che il Signore intraprese “con decisione” verso Gerusalemme, salendo il “santo monte della sua Pasqua”.
“Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9, 51).
Tale viaggio è sottolineato dalla liturgia nell’antifona al cantico dei Secondi Vespri della prima domenica di Quaresima:
“Ora saliamo a Gerusalemme:
si compiranno nel Figlio dell’uomo

le parole dei profeti”.
Questo mistero è contenuto e celebrato nel tempo dei “quaranta giorni”, prefigurati nell’Antico Testamento,[1]  e che già il Signore stesso visse nel deserto all’inizio della sua vita pubblica, dove anticipò quella lotta e quella vittoria, che, nell’“ora” imminente della sua gloriosa passione, saranno piene e definitive. Ecco perché “l’annuale cammino di penitenza della Quaresima è il tempo di grazia, durante il quale si sale al monte santo della Pasqua”.[2]
Tre sono le realtà che dominano lo scenario quaresimale:
il Battesimo, la Croce, la Penitenza.
Il lezionario festivo della Quaresima esprime queste tre tematiche rispettivamente negli anni A. B. C.

1. Il Battesimo
La Quaresima è il tempo privilegiato dell’ascolto “della voce del Padre” mediante “il suo Figlio prediletto” in un annunzio intenso della Parola di Dio, per una rinnovata riscoperta e adesione al Battesimo, ossia al nostro “essere cristiani”.
* Cristo in ascolto del Padre
Il Signore nel deserto si ritira in un prolungato ascolto e in una totale obbedienza alla volontà del Padre, ascolto e obbedienza che ora porta al pieno compimento, in modo determinato, nel cammino verso la sua Pasqua.
* I discepoli in ascolto del Padre
Anche i discepoli, ormai lontani dalle folle osannanti della Galilea, sono condotti dal Maestro a contemplare la volontà del Padre in tutta la sua verità, sia nei tre annunzi della Passione, sia, soprattutto, sul “santo monte” sul quale il Padre proclama con maestà l’invito ad ascoltare il suo “diletto Figlio” e a seguirlo nel suo mistero di morte e di risurrezione, confermato da scelti testimoni “Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria”.
Il Vangelo della “trasfigurazione” è sempre proclamato, secondo l’antica tradizione, nella seconda domenica di Quaresima, illuminando di gloria il mistero della Croce e facendo balenare nell’austerità quaresimale un anticipo della luce pasquale della risurrezione.
* La Chiesa in ascolto di Dio che parla
Nella prospettiva di così grandi eventi la Chiesa, nel tempo sacro della Quaresima, apre ai suoi figli le pagine della Sacra Scrittura con abbondanza e li invita ad ascoltare la Parola di Dio con grande impegno, sia per sostenere i catecumeni nel tempo forte delle ultime importanti catechesi prima dei Sacramenti pasquali, sia per preparare tutto il popolo a rinnovare con viva coscienza le promesse battesimali nella notte di Pasqua, meta del cammino quaresimale.
La Quaresima è quindi il grande tempo della catechesi in un clima liturgico-sacramentale, è la scuola annuale della fede. Infatti, la composizione del lezionario della Messa, festivo e feriale, è quanto mai accurata e ricca per offrire alla comunità cristiana un programma abbondante e mirato di catechesi, che si esplica in primo luogo nell’omelia domenicale e feriale, e che trova ulteriore estensione e complemento nella celebrazione “stazionale” settimanale.
Inoltre è nella Quaresima che il “catecumenato” trova l’espressione più intensa e tipica con i riti dell’“elezione”, con gli “scrutini”, le “consegne” e la proclamazione delle grandi pagine riguardanti l’iniziazione ai Sacramenti.
“Tutta l’iniziazione cristiana ha un’indole pasquale, essendo la prima partecipazione sacramentale alla morte e risurrezione di Cristo. Per questo la Quaresima deve raggiungere il suo pieno vigore come tempo di purificazione e di illuminazione, specie attraverso gli ‘scrutini’ e le ‘consegne’…”.[3]
Anche il rito catecumenale dell’“Effatà”cioè: “Apriti” (Mc 7, 34b) invoca per tutta la Chiesa la grazia dell’ascolto che suscita nel cuore dei fedeli l’invocazione biblica del profeta Samuele: “Parla, Signore, perchè il tuo servo ti ascolta” (1Sam, 3, 9) e fonda l’augurio che, come per l’antico profeta, anche per noi la Parola di Dio raggiunga la massima accoglienza e fecondità:
“Samuele non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3, 19).

2. La Croce
La Quaresima è il tempo della sequela di Cristo sulla “via crucis”, portando la nostra croce “per Lui, con Lui e in Lui”.
* Cristo si orienta verso il mistero della sua croce
Nel cammino “deciso” di Cristo verso la Città Santa, vi è l’orientamento cosciente e fermo a quella croce, che nel deserto, dopo la dura lotta contro il Maligno, accolse dal cuore del Padre.
Infatti “imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 9).
Ancora: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24).
La croce è così forte nell’anima del Signore da suscitare in Lui un desiderio ardente di compierne il mistero: “C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finchè non sia compiuto!” (Lc 12, 50).
* I discepoli sono introdotti al mistero della croce
Anche i discepoli, meno distratti dal fervore dell’attività pubblica del Signore e più intimi a Lui, ricevono ora l’annunzio della Passione: “Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo si compirà. Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flegellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà”. Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18, 31-34).
L’incomprensione degli Apostoli e soprattutto la reazione di Pietro (Mc 8, 32-33) rappresenta il rigurgito di quella tentazione che già il Signore subì e vinse nel deserto. La stessa “gloria”, anticipata nella trasfigurazione non è che un viatico “per preparare i suoi discepoli a sostenere lo scandalo della croce”.[4]
* La Chiesa segue Cristo sulla via della croce
Così la Chiesa, in questo tempo sacro, medita le antiche profezie riguardanti la Passione del Signore e in particolare quegli annunzi stessi che il Cristo ci dà nel Vangelo, contemplazione che raggiunge il suo culmine nella proclamazione della “Passione del Signore”.
La Chiesa memore delle parole del Maestro divino:
“Chi non porta la propria croce non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27) lo segue sulla via dolorosa, perché:
“Certa è questa parola:
Se moriamo con lui, vivremo anche con Lui;
se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tim 2, 11).
“Deposto quindi tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 1b).
“Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13, 12-13).
Come nel deserto il popolo eletto, ferito a morte dai serpenti velenosi, guardando il serpente di rame eretto sull’asta in mezzo all’accampamento, otteneva la guarigione in vista di Cristo, “maledetto per noi” (Dt 21, 23; Gal 3, 13), così il popolo cristiano, ferito dal peccato, fissando lo sguardo a Cristo crocifisso “nel deserto quaresimale”, ottiene la vita e la salvezza eterna.
Infatti: “La croce di Cristo è nostra gloria, salvezza e risurrezione”.[5]
e “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14).
La croce quindi domina l’assemblea liturgica nel tempo quaresimale, riceve il quotidiano omaggio della fede, precede il “popolo in cammino” nelle processioni penitenziali e nell’itinerario della “via crucis”. Infine, quale vessillo di vittoria, è presentata nel Venerdì Santo al bacio adorante dei fedeli, che si riconoscono salvati dal sangue di Cristo.
“Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1Pt 1, 18-19).

3. La Penitenza
La Quaresima è il tempo della riconciliazione con Dio, mediante la conversione del cuore, la confessione delle proprie colpe e la penitenza.
La liturgia del Mercoledì delle Ceneri richiama alla riconciliazione con le parole dell’Apostolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”… “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso.
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2Cor 5, 20. 6, 2).
* La penitenza nella testimonianza del Signore
Il Signore “consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato”[6] con le armi della penitenza, della preghiera e del digiuno.
Egli in tutta la sua vita non ebbe dove posare il capo “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20).
Nel suo viaggio verso Gerusalemme dovette accettare l’abbandono delle folle che protestavano: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Gv 6, 60). L’incomprensione ripetuta dei suoi discepoli giunge al punto che Gesù dovette interpellarli “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6, 60). Per rimanere fedele alla volontà del Padre e per la nostra redenzione Gesù accettò il tradimento, le umiliazioni fino alle sofferenze della Passione e alla Morte di Croce.
“Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio; e tu pretendi per te riposo e gaudio?”.[7]
* I discepoli sono invitati alla penitenza
Anche ai discepoli il Signore raccomanda: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione” (Mt 7, 13) e ancora“ se non vi convertite perirete tutti” (Lc 13, 3).
Il ”grido” del Signore alla conversione e alla penitenza assume un carattere drammatico quando, ormai in vista di Gerusalemme, piange su di essa esclamando:
“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco la vostra casa vi viene lasciata deserta! (Lc 13, 34-35).
Infine, dopo aver compiuto tutto quello che era necessario per la nostra salvezza mediante la sua “sofferenza vicaria”, con voce agonizzante sulla croce invoca: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34) offrendo ai penitenti di tutti i secoli l’assoluzione dei loro peccati.
* La Chiesa fa penitenza
Nella luce di così grandi misteri la Chiesa, imponendo l’austero simbolo delle ceneri sul capo dei fedeli, li invita a riconoscersi peccatori e a convertirsi:“Ricordati che sei polvere e – a causa del peccato – in polvere tornerai”; quindi, se vuoi avere la vita, “convertiti e credi al Vangelo”.[8]
Così la madre Chiesa fa eco alle parole del Signore e conduce i suoi figli ad intraprendere un cammino di penitenza, di lotta spirituale, di ascesi per abbandonare il peccato e vivere “nella libertà dei figli di Dio”, perché “Non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole” (2Tm 2, 5).
La Quaresima è, per così dire, il cammino a ritroso del “figliol prodigo” verso la casa paterna, viaggio che esprime tutti gli elementi essenziali per la celebrazione sacramentale della riconciliazione:

- esame di coscienza: “Allora rientrò in se stesso…”
- contrizione: “Mi leverò e andrò da mio padre…”
- penitenza: “Partì e si incamminò verso suo padre…”
- confessione: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te…”
- assoluzione: “Presto portate qui il vestito più bello…”

(Lc 15, 11-32).
“Si raccomandi ai fedeli una più intensa e fruttuosa partecipazione alla liturgia quaresimale e alle celebrazioni penitenziali. Si raccomandi loro soprattutto di accostarsi in questo tempo al Sacramento della Penitenza secondo la legge e le tradizioni della Chiesa, per poter partecipare con animo purificato ai misteri pasquali”.[9]
L’impegno penitenziale della Chiesa oltre che essere delineato nel Lezionario festivo dell’anno C e in tanti testi biblici, patristici ed eucologici della Messa e dell’Ufficio divino, si esprime in concrete celebrazioni: nel rito della imposizione delle ceneri, nell’atto penitenziale della Messa che in questo tempo assume una singolare importanza, nelle eventuali processioni penitenziali nei mercoledì di Quaresima. Raggiunge il vertice nella solenne celebrazione penitenziale al termine della Quaresima che, mentre riassume l’itinerario penitenziale, predispone alla celebrazione sacramentale della Riconciliazione.
“E’ opportuno che il tempo quaresimale venga concluso, sia per i singoli fedeli che per tutta la comunità cristiana, con una celebrazione penitenziale per prepararsi a una più intensa partecipazione del mistero pasquale”.[10]
La Chiesa ripetutamente grida con forza a se stessa:
“Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al Signore tuo Dio”.
Che questa conversione sia effettiva e ponga sulle nostre labbra l’espressione del pentimento che uscì dalla bocca agonizzante del buon ladrone: “Ricordati di me, Signore, quando entrerai nel tuo regno!” (Lc 23, 42) e il nostro cuore si sciolga nella gioia del perdono ritrovato e dica con Pietro “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene” (Gv 21, 17).

————
1) I quaranta giorni del diluvio (Gn 7, 12); i quaranta giorni che Mosè trascorse sul monte Sinai (Es 34, 27-28); i quarant’anni del popolo eletto nel deserto (Nm 14, 33); il tempo della prova che Israele deve subire dal gigante Golia fino a che Davide lo vince ( 1. Sam 17, 16); i quaranta giorni del cammino che il profeta Elia dovette compiere per arrivare al monte Horeb e incontrare Dio (1 Re 19, 8); i quaranta giorni della conversione di Ninive (Gio 3, 4) …
2) Paschalis sollemnitatis, n. 6.
3) Paschalis sollemnitatis, n. 7.
4) MRI, Prefazio della festa della Trasfigurazione.
5) COMMISSIONE LITURGICA TRIVENETA, Libro della preghiera per le diocesi della regione triveneta, Torino, ed. LDC, 1977, n. 306.
6) MRI, I domenica di Quaresima., Prefazio.
7) Adorazione eucaristica, preghiere e celebrazioni della Parola per tutto l’anno liturgico, a cura di P. Fausto Casa, Collana “Celebrazione della Parola”, n. 7, Padova, ed. Messaggero, 1978, p. 127.
8) MRI, Mercol. delle ceneri, Rito della imposizione delle ceneri; Anamnesis, vol. VI, p. 160.
9) Paschalis sollemnitatis, n. 15.
10) Paschalis sollemnitatis, n. 37.

Publié dans:LITURGIA STUDI |on 9 mars, 2011 |Pas de commentaires »

L’ASCOLTO APRE LE PORTE AL RE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25760?l=italian

L’ASCOLTO APRE LE PORTE AL RE

di Aurelio Porfiri*

ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org).- Non molti giorni fa, mi sono trovato in un meeting per discutere sull’organizzazione di una certa celebrazione liturgica per un’importante ricorrenza di un’istituzione religiosa. I partecipanti, tutti ben intenzionati me incluso, cercavano di trovare un accordo sul come rendere questa celebrazione più “partecipata”. Ad un certo punto, ascoltate alcune opinioni, è cominciata a risuonare in me come una sirena d’allarme e mi sono improvvisamente irrigidito, come credo gli altri avranno notato.
Qual era il problema che aveva provocato questo stato? La solita vulgata sulla “partecipazione attiva”. Intendiamoci bene: la partecipazione attiva è principio sacrosanto, ma la versione della vulgata più o meno corrente, no. Per molti, inebriati dallo spirito del Concilio, partecipazione attiva significa che tutti devono fare tutto. Se tu non parli, canti o ti muovi più o meno dall’inizio alla fine, questo significa che tu non stai partecipando. Io credo sia così evidente che questa visione è veramente ristretta ma, si creda o no, essa domina tutti gli ultimi decenni dell’era (in) volgare. Naturalmente, non proprio tutti la pensano così ma sembra che questo atteggiamento sia così diffuso che è veramente difficile poterlo buttare giù. E’ ovvio che l’atteggiamento in questione è quello che ha decimato il canto del coro, laddove ancora esiste (il coro, intendo). Già, se il coro canta la “gente” non partecipa, il popolo non si sente parte della liturgia, l’assemblea mugugna…sarà vero? Innanzitutto vorrei rivelare qualcosa che malgrado la sua ovvietà si tende a non considerare propriamente: il coro non è solitamente composto da marziani o da esseri unicellulari ma è anch’esso composto di “gente, popolo, assemblea”. Diremmo che è una parte più qualificata dell’assemblea che svolge una funzione a nome di tutti. Questa funzione è articolata in varie responsabilità, dal guidare il canto dell’assemblea al proporre antifone e melodie varie fino all’arricchire la nostra comprensione dei testi sacri con composizioni piu’ elaborate. In tutte queste funzioni l’assemblea partecipa, in quanto anche ascoltare è partecipare.
Se io leggo un libro, mi sento coinvolto nel contenuto anche se non l’ho scritto io (se il contenuto è interessante, ovviamente). Perché quando ascolto un’omelia implicitamente sto partecipando mentre se ascolto un coro eseguire un brano pertinente alla celebrazione questo mi esclude? Sappiamo come i codici emozionali (quelli che la musica sa sollecitare così bene) abbiano una potenza più profonda di quelli puramente verbali. Ma non bisogna dimenticare che qualche tentativo di “partecipazionismo”, è stato fatto anche per l’omelia. Chi non ricorda l’omelia partecipata? Ora, già questo nome la dice lunga, in quanto significa che tutte le altre in cui la gente non parla, non sono partecipate. Nell’omelia partecipata il sacerdote solitamente comincia a fare domande all’assemblea o a sollecitare “risonanze”. Io capisco le buone intenzioni implicite in questo tentativo, ma non si può evitare che l’omelia in questo modo scada nell’interrogazione scolastica.
Io credo che dovremmo un poco rivedere i fondamenti dell’idea di partecipazione, di cui l’ascolto è parte integrante. Il padre Achille Triacca, in un saggio contenuto nel volume “Actuosa Participatio” edito dalla Libreria Editrice Vaticana, dice che per comprendere meglio l’aggettivo “Actuosa Partecipatio” dovremmo oggettivare la realtà “Liturgia”. Penso che questo sia profondamente vero. Finché continueremo a pensare che siamo noi a fare la Liturgia, non ne comprenderemo l’alterità. Dovremmo riscoprire l’importanza dell’ascolto. Già, se ne parla tanto, lo si tira fuori spesso (soprattutto quando significa che ad ascoltare debbano essere gli altri) ma non lo si prende seriamente, veramente sul serio. Eppure, ascoltare è una funzione primaria anche per la fede; ma tutt’oggi si riduce l’ascolto semplicemente al codice verbale, come già abbiamo detto, senza considerare l’importanza ed il peso dei codici emozionali. Eppure ascoltare, è aprire il cuore all’invasione dell’altro, una invasione che ci cambia, sconvolge anche violentemente, una invasione che uccide alcune delle cose che abitano in noi da tempo immemorabile per fare posto a nuove fioriture, a primavere che si fanno strada in campi inariditi, a parti memori di sofferenze ma preludio di nuove gioie. L’ascolto, quando interpella l’uomo intero, non l’uomo solo logico, l’uomo vero, l’uomo integrale, è spalancamento di nuovi mondi.
Nel Salmo 44, al versetto 11, c’è una frase significativa: “Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al re piacerà la tua bellezza”. In questo verso la figlia, la Chiesa, è invitata ad ascoltare come funzione primaria. Molto interessante è che il verbo guardare è posto tra due parti che sono pertinenti alla funzione dell’ascoltare, come se il salmista ci volesse far intendere che uno sguardo puro deriva da un ascolto attento. Se sappiamo ascoltare, vediamo meglio. Per metterci in ascolto dobbiamo fare vuoto in noi, dobbiamo fare posto a ciò di cui tanto necessitiamo. Ecco perché dobbiamo dimenticare il nostro popolo e la casa di nostro padre; questo è un invito che va compreso nel suo contesto: per accedere alla presenza regale dobbiamo purificare noi stessi, anche da tutto ciò che ci trattiene nel mondo. Tutto questo succede quando si ascolta. Se questo ascolto è puro, il re sarà conquistato dalla bellezza della figlia. Il re si diletta di sguardi puri, il re cerca nella Chiesa la bellezza, lo splendore nella forma. Non dice che il re si innamorerà della sua efficienza, del suo attivismo, del suo partecipazionismo; dice che si innamorerà della sua bellezza. L’ascolto apre le porte al re; non abbiamo paura della bellezza. Fa molto più paura chi crede che la bellezza e lo splendore della gloria siano qualcosa da relegare in un angolo come cosa di cui vergognarsi.
————
*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA STUDI |on 1 mars, 2011 |Pas de commentaires »

LA CELEBRAZIONE DELLA CREAZIONE NELL’ANNO LITURGICO (ANTONIO DONGHI)

dal sito:

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=31&sezione=dossier&articolo=la_celebrazione_della_creazione_nellanno_liturgico&id_a=875
 
LA CELEBRAZIONE DELLA CREAZIONE NELL’ANNO LITURGICO

 Maggio 2008

ANTONIO DONGHI 

Mons. Antonio Donghi, liturgista, è docente presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano e Assistente nazionale dell’Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, Milano.

Ogni lettura della vita, e di tutto ciò che la qualifica in chiave autenticamente cristiana, parte dalla celebrazione dei Divini Misteri, poiché è l’evento pasquale celebrato nella liturgia che dà senso a tutte le realtà create. Infatti la luce che avvolge l’assemblea liturgica e la identifica progressivamente al mistero di Cristo morto e risorto rigenera tutti i celebranti e permette loro di vedere e di leggere le realtà create nella prospettiva evangelica. L’evento liturgico, in conformità alle affermazioni della Costituzione Sacrosanctum Concilium, ci offre la centralità di Cristo poiché è dalla liturgia che scaturisce la salvezza pasquale e in essa la Chiesa vive e si costruisce secondo le prospettive evangeliche.

Liturgia e realtà create
Leggere la presenza delle realtà create nella liturgia vuol dire riportare il discorso su Cristo. In lui gli uomini trovano la pienezza della vita, poiché in lui il Padre ha riconciliato tutte le cose perché diventassero un inno al suo amore. Nel progetto storico-salvifico la liturgia si coniuga armoniosamente con la vita del credente, poiché egli è posto nel cosmo come l’intelligenza del cosmo stesso. La celebrazione eucaristica in particolare rende la comunità cristiana alunna di Cristo e nella docilità allo Spirito le permette di cogliere il significato del creato in tutte le sue componenti spazio-temporali.
Di conseguenza l’uomo porta nella liturgia tutto il suo lavoro e le sue primizie, suscitando nei celebranti l’atteggiamento della lode, dell’adorazione, del ringraziamento e della supplica. Le realtà create in forza della potenza dello Spirito Santo sono rese partecipi della fecondità divina e della comunione fraterna con il Datore di ogni dono. Nel momento in cui esse sono lo strumento della glorificazione divina acquistano in tale movimento il loro vero significato, entrano a contatto con la Bellezza increata e partecipano della sua luminosità nella lode. Le realtà create vengono introdotte nella dinamica sacramentale e contribuiscono a liberare il mondo dalla schiavitù del contingente, perché la presenza cultuale di Cristo è liberazione in atto dell’uomo e purificazione del suo rapporto con tutto ciò che esiste. La componente celebrativa permette alla comunità di orientare su Dio la propria attenzione e di operare un’incessante ricreazione del cosmo riducendolo alla fonte della sua storia e del suo essere.
La liturgia, che è essenzialmente celebrazione della fede nella lode e nella supplica, colloca l’uomo in un clima totalmente diverso rispetto al consumismo contemporaneo. Dio non è solo l’inizio della vocazione all’impegno temporale di trasformare il mondo in un inno cosmico, ma anche l’anima e la speranza in vista del portare a compimento il mirabile disegno della creazione redenta. Il sentimento che anima la liturgia è caratterizzato dallo stupore di fronte alla meraviglie divine e introduce i fedeli in un orientamento escatologico. Questo atteggiamento aiuta a leggere il presente in chiave di « provvisorietà sacramentale », impedisce di ‘idolatrare’ il creato, stimola a vivere nella pazienza il travaglio della storia in attesa del compiersi della pienezza dei tempi. La liturgia rappresenta perciò la scuola quotidiana per fare proprio il progetto divino sulla storia.

L’anno liturgico
Questa dinamica che qualifica il valore della liturgia in rapporto alle realtà create ha la sua espressione rituale privilegiata nel movimento sacramentale proprio dell’anno liturgico, che è il mistero della liturgia vissuto nella temporalità. Infatti l’assenza di sensibilità alla temporalità concreta data dallo spazio-tempo, con tutta la sua variegata simbologia cosmica, ci impedirebbe d’interpretare l’anno liturgico nella sua verità teologica, teologale e antropologica. Nello scorrere dell’anno liturgico, Cristo ci chiede di assumere radicalmente la temporalità e la corporalità della nostra esistenza per vivere in esse questo darsi della Trinità all’umanità che nello Spirito Santo e attraverso il rito credente si lascia trasformare. Il tempo e la ritualità nel loro reciproco intersecarsi costituiscono la struttura essenziale dell’anno liturgico, sono orientati a richiamarsi reciprocamente.
Questa ritualità nel caso concreto dell’anno liturgico vive della simbologia della temporalità, del flusso delle stagioni e del divenire del ritmo notte-giorno/oscurità-luce, della dinamica dei colori che il creato offre in modo continuo. Lo scorrere delle bellezze del creato nell’arco dell’anno naturale permette ai fedeli d’innestarsi nell’Origine della loro esistenza e li guida a cogliere le meraviglie dell’incessante e affascinante progetto pasquale del Padre che illumina il creato, rendendolo partecipe delle sue ricchezze e costituendolo suo sacramento per la comunità umana in cammino nel tempo. Questa è l’espressione caratteristica della ritualità dell’anno liturgico. È nella lettura simbolica del succedersi delle diverse stagioni che comprendiamo il darsi di tutto il Mistero nella celebrazione dei diversi misteri. I testi liturgici, a loro volta, apportano il loro contributo per leggere e vivere in chiave pasquale le diverse celebrazioni dell’anno. Le celebrazioni dell’Avvento, del Natale, della Quaresima, della Pasqua, del tempo pasquale, della Pentecoste e della solennità di Cristo Re si collocano nei ritmi propri della natura e ci aiutano a leggere l’accadere dell’evento pasquale della salvezza come concreta e « visibile » presenza del Cristo che salva l’umanità che cammina nella storia verso la pienezza della gloria.
Il movimento rituale che è segnato dagli avvenimenti cosmico-naturalistici dà verità al momento propriamente sacramentale e permette di superare qualsiasi forma soggettivistica e di illusione religiosa. La natura offre il linguaggio sacramentale per la verità antropologica dell’anno liturgico. La Chiesa s’inserisce nella vita della natura che viene letta in chiave simbolica e assume il ruolo del segno nella comunicazione della salvezza, in modo che i fedeli possano spaziare sull’infinito della Trinità. Il segno cosmico celebrato nel tempo attraverso l’atteggiamento contemplativo, fisso sul Crocefisso glorioso presente e attivo nella celebrazione nella comunità ecclesiale, permette ai fedeli di inoltrarsi negli spazi senza confini della vita divina.
Tuttavia occorre rimarcare che l’anno liturgico non celebra la natura, ma nel segno cosmico il mistero di Cristo, la sua presenza salvante, la sua potenza di unificare il mondo e l’intera umanità nella sua morte e risurrezione in modo di convogliare tutto il mondo in una grande dossologia liberante verso il Padre.

La celebrazione eucaristica
Quello che l’anno liturgico ci offre si ritraduce nella celebrazione eucaristica, nel giorno del Signore e nella liturgia delle Ore che rappresentano i tre « linguaggi » che fanno vivere sacramentalmente l’anno liturgico. Sullo sfondo del rituale delle primizie dell’antico testamento e del Talmud delle benedizioni, e alla luce delle intuizioni di S. Ireneo, vescovo di Lione, appare chiaro come la celebrazione eucaristica sia l’offerta a Dio che nasce dai frutti della terra perché divengano luogo della sempre attuale fecondità divina e dell’attualità-contemporaneità con la morte-risurrezione di Gesù.
Attraverso la celebrazione eucaristica, la creazione, unificata nel mistero pasquale di Cristo e nella potenza dello Spirito Santo, ritorna nella lode al Padre. Nella preghiera eucaristica contempliamo l’unità di tutta la creazione che ascende nell’esultanza verso il Padre. Le realtà create diventano il mezzo attraverso il quale l’uomo contempla lo splendore divino e rende grazie al Padre.

Il giorno del Signore
A sua volta, il giorno del Signore, che costituisce il centro dell’anno liturgico, ci offre la presenza sacramentale del Risorto che aiuta la comunità cristiana ad illuminare il rapporto tra l’evento pasquale e l’intero creato. Nella celebrazione domenicale il cristiano è chiamato a recuperare il significato della propria vita e della propria attività, a ritrovare l’animazione cristologica del proprio lavoro e a riscoprire la propria funzione sacerdotale nei confronti del cosmo. La componente del riposo assume a tale scopo un grande valore, poiché stimola la comunità cristiana a riscoprire la propria vocazione cosmica. La creatura infatti viene aiutata a ritrovare il proprio posto nel creato e a rinverdire la propria vocazione a concreare il mondo in Dio e con Dio a lode della Trinità.

La liturgia delle Ore
La liturgia delle Ore costituisce il terzo luogo per comprendere come l’anno liturgico dia vitalità al cosmo. Specie negli inni, avvertiamo questa sensibilità, oltre che a ciò che la celebrazione dei salmi ci presenta nei vari momenti della giornata. Se scorriamo i diversi inni che il testo della liturgia delle Ore secondo il rito romano ci offre, troviamo la presenza e il ricordo del mondo naturale con tutte le sue componenti (il mare, la terra, gli astri), le situazioni specifiche dell’ »orarietà », quali le tematiche della luce e delle tenebre nel simbolismo legato alle diverse parti della giornata. Infatti il mattino e la sera, il meriggio e la notte sono lette in chiave cristologica e storico-salvifica attraverso la ricca simbologia della natura. Nella liturgia delle Ore riscopriamo un intenso progetto sinergetico tra l’opera della Trinità, la vocazione celebrativa della Chiesa e la presenza simbolica della natura. In questa mirabile sintesi avviene la santificazione della Chiesa nell’itinerario della glorificazione divina.

Conclusione
Attraverso l’itinerario dell’anno liturgico riscopriamo il valore delle realtà create come luoghi per la glorificazione di Dio e la santificazione dell’intera umanità. La liturgia ci invita ad entrare nel tempio del tempo e delle realtà create perché in Cristo e nello Spirito, e in comunione con tutti i fratelli, facciamo prorompere, da tutti gli esseri e con il loro aiuto e le loro caratteristiche simboliche, l’inno al tre volte Santo che abita una luce inaccessibile.
La liturgia nella sua dimensione celebrativa ha la chiara vocazione a sviluppare la promozione dell’uomo in tutte le sue caratteristiche per concreare il mondo a lui affidato nell’obbedienza al Creatore. A contatto con l’evento pasquale, le creature riscoprono la vocazione ad essere come il progetto divino le abbia poste in essere perché glorifichino il Datore di ogni dono e crescano nella vera libertà.

12345...8

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01