Archive pour la catégorie 'LITURGIA – EUCARESTIA'

GIOVANNI PAOLO II : L’EUCARISTIA SUPREMA CELEBRAZIONE TERRENA DELLA “GLORIA”

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2000/documents/hf_jp-ii_aud_20000927_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

MERCOLEDÌ, 27 SETTEMBRE 2000

L’EUCARISTIA SUPREMA CELEBRAZIONE TERRENA DELLA “GLORIA”

1. Secondo gli orientamenti delineati nella Tertio millennio adveniente, quest’anno giubilare, celebrazione solenne dell’Incarnazione, dev’essere un anno “intensamente eucaristico” (TMA 55). Per questo, dopo aver fissato lo sguardo sulla gloria della Trinità che risplende sul cammino dell’uomo, iniziamo una catechesi su quella grande e insieme umile celebrazione della gloria divina che è l’Eucaristia. Grande perché è l’espressione principale della presenza di Cristo in mezzo a noi “tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28,20); umile perché è affidata ai segni semplici e quotidiani del pane e del vino, cibo e bevanda ordinari della terra di Gesù e di molte altre regioni. In questa quotidianità degli alimenti, l’Eucaristia introduce non solo la promessa, ma il ‘pegno’ della gloria futura: “futurae gloriae nobis pignus datur” (San Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi). Per cogliere la grandezza del mistero eucaristico, vogliamo oggi considerare il tema della gloria divina e dell’azione di Dio nel mondo, ora manifestata in grandi eventi di salvezza, ora celata sotto umili segni, che solo l’occhio della fede può percepire.
2. Nell’Antico Testamento col vocabolo ebraico kabôd si indica lo svelarsi della gloria divina e la presenza di Dio nella storia e nel creato. La gloria del Signore rifulge sulla vetta del Sinai, luogo di rivelazione della Parola divina (cfr Es 24,16). È presente sulla tenda santa e nella liturgia del popolo di Dio pellegrino nel deserto (cfr Lv 9,23). Domina nel tempio, la dimora – come dice il Salmista – “dove abita la tua gloria” (Sal 26,8). Avvolge come un manto di luce (cfr Is 60,1) tutto il popolo eletto: lo stesso Paolo è consapevole che “gli Israeliti possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze…” (Rm 9,4).
3. Questa gloria divina che si manifesta in modo speciale a Israele è presente in tutto l’universo, come il profeta Isaia ha sentito proclamare dai serafini al momento della sua vocazione: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Anzi, a tutti i popoli il Signore rivela la sua gloria, come si legge nel Salterio: “Tutti i popoli contemplano la sua gloria” (Sal 97,6). L’accendersi della luce della gloria è, quindi, universale, per cui tutta l’umanità può scoprire la presenza divina nel cosmo.
Soprattutto in Cristo si compie questo svelamento perché egli è “irradiazione della gloria” divina (Eb 1,3). Lo è anche attraverso le sue opere, come testimonia l’evangelista Giovanni di fronte al segno di Cana: Cristo “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Egli irradia la gloria divina anche attraverso la sua parola che è parola divina: “Io ho dato loro la tua parola”, dice Gesù al Padre; “la gloria che tu hai dato a me,io l’ho data a loro” (Gv 17,14.22). Più radicalmente Cristo manifesta la gloria divina attraverso la sua umanità, assunta nell’incarnazione: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
4. La rivelazione terrena della gloria divina raggiunge il suo apice nella Pasqua che, soprattutto negli scritti giovannei e paolini, è tratteggiata come una glorificazione di Cristo alla destra del Padre (cfr Gv 12,23; 13,31; 17,1; Fil 2,6-11; Col 3,1; 1 Tim 3,16). Ora, il mistero pasquale, espressione della “perfetta glorificazione di Dio” (SC 7), si perpetua nel sacrificio eucaristico, memoriale della morte e risurrezione affidato da Cristo alla Chiesa sua amata sposa (cfr SC 47). Col comando “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) Gesù assicura la presenza della gloria pasquale attraverso tutte le celebrazioni eucaristiche che scandiranno il fluire della storia umana. “Attraverso la santa Eucaristia l’evento della Pasqua di Cristo si espande in tutta la Chiesa (…). Con la comunione al corpo e al sangue di Cristo, i fedeli crescono nella misteriosa divinizzazione che, grazie allo Spirito Santo, li fa abitare nel Figlio come figli del Padre” (Giovanni Paolo II e Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, Dichiarazione Comune 23.6.1984, n. 6: EV 9,842).
5. È indubbio che la celebrazione più alta della gloria divina si ha oggi nella liturgia. “Poiché la morte di Cristo in croce e la sua risurrezione costituiscono il contenuto della vita quotidiana della Chiesa e il pegno della sua Pasqua eterna, la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus, 6). Ora, questo compito si esercita anzitutto per mezzo della celebrazione eucaristica, la quale rende presente la Pasqua di Cristo e ne comunica il dinamismo ai fedeli. Così il culto cristiano è l’espressione più viva dell’incontro tra la gloria divina e la glorificazione che sale dalle labbra e dal cuore dell’uomo. Alla “gloria del Signore che riempie la dimora” del tempio con la sua presenza luminosa (cfr Es 40,34) deve corrispondere il nostro “glorificare il Signore con animo generoso” (Sir 35,7).
6. Come ci ricorda san Paolo, dobbiamo anche glorificare Dio nel nostro corpo, cioè nell’intera esistenza, perché il nostro corpo è tempio dello Spirito che è in noi (cfr 1 Cor 6,19.20). In questa luce si può anche parlare di una celebrazione cosmica della gloria divina. Il mondo creato, “spesso ancora sfigurato dall’egoismo e dall’ingordigia”, ha in sé “una potenzialità eucaristica”: “esso è destinato ad essere assunto nell’eucaristia del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio dell’altare” (Orientale Lumen 11). All’aleggiare della gloria del Signore che è “più alta dei cieli” (Sal 113,4) e si irradia sull’universo risponderà allora, in contrappunto di armonia, la lode corale del creato così che “in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1 Pt 4,11).

DALLE TENEBRE DELL’ERRORE, IL PECCATORE ASPIRA ALLA LUCE ETERNA – Prefazio Mozarabico

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm#

 DALLE TENEBRE DELL’ERRORE, IL PECCATORE ASPIRA ALLA LUCE ETERNA

 Prefazio Mozarabico *

Con il titolo di liturgia mozarabica, si designano i testi e i riti delle comunità cristiane spagnole precedenti l’instaurazione della liturgia romana, adottata in queste regioni sotto il papato di Gregario VII. Questa liturgia, pur rievocando nel nome /’invasione islamica della Spagna, è però anteriore ad essa. All’inizio del secolo XVI fu rimessa in uso in parecchie chiese di Toledo, dove è ancor oggi celebrata.
Questi prefazi, spesso più lunghi dei prefazi romani, sono anche più numerosi. Quello che ora leggeremo si usa il giorno stesso in cui vien letto il Vangelo del cieco-nato.

E’ cosa buona e giusta rendere grazie
a Te Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno,
per Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore.
Egli è colui che ha messo in fuga le tenebre
con la luce della fede;
ha trasformato gli schiavi della legge
in figli della grazia.
Egli è venuto nel mondo per il giudizio,
affinché i ciechi vedano
e quelli che vedono diventino ciechi.
Gli umili riconoscono di essere immersi nelle tenebre dell’errore,
e ricevono la luce eterna che li libera dall’oscurità.
I superbi hanno preteso di possedere in sé la luce della giustizia,
e sono giustamente immersi nelle tenebre;
nell’orgoglio erano sicuri della loro giustizia
e non hanno cercato il medico che li poteva guarire.
Avrebbero potuto andare al Padre,
per mezzo di Gesù che ha detto di essere la porta;
ma si sono valsi sfrontatamente dei loro meriti,
e restano nel loro accecamento.
Perciò noi, nell’umiltà, veniamo a Te, Padre santo,
e senza presumere dei nostri meriti,
dinanzi al tuo altare,
apriamo la nostra ferita,
riconosciamo le tenebre del nostro peccato,
sveliamo il male nascosto nella nostra coscienza.
Te ne preghiamo, fa che troviamo
alla ferita un rimedio,
nelle tenebre la luce eterna,
nell’anima il candore dell’innocenza.
Con tutto il nostro desiderio
vogliamo vedere il tuo Volto,
ma la nostra cecità celo impedisce.
Bramiamo vedere il cielo
e non possiamo, perché siamo nell’oscurità del nostro peccato…
Vieni dunque a noi, Gesù, mentre preghiamo nel tuo tempio
e aiutaci in questo giorno,
tu che non hai tenuto conto del sabato per operare prodigi.
Ecco, davanti alla gloria del tuo nome,
noi apriamo le nostre ferite:
metti un rimedio al nostro male.
Aiutaci, come hai promesso a coloro che ti pregano:
tu che ci hai tratti dal nulla.
Prepara l’unguento,
e applicalo sugli occhi del cuore e del corpo,
così non vacilleremo più come ciechi nelle tenebre.
Ecco, versiamo lacrime ai tuoi piedi,
non respingerei
poiché ci siamo umiliati.
Noi non ci allontaniamo dai tuoi passi,
Gesù buono, che, in umiltà, sei venuto sulla terra.
Ascolta la nostra preghiera,
sradica il peccato che ci rende ciechi:
potremo così contemplare la gloria del tuo volto
e lodarti nella pace della beatitudine eterna.

* Praefatio – Dom. II in Quadragesima – P.L. 85, 322 B – 323 A.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - EUCARESTIA |on 26 février, 2013 |Pas de commentaires »

UNA PAROLA CHE FA VIVERE (sulla lettura di San Paolo in Chiesa, bello!)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25405?l=italian

UNA PAROLA CHE FA VIVERE

di padre Renato Zilio*

ROMA, lunedì, 31 gennaio 2011 (ZENIT.org).-

La osservo avanzare lentamente, fare un lieve inchino, presentarsi all’ambone. “Lettera di san Paolo…”. Maria, emigrata già dagli anni ’60, inizia a leggere, ma solo dopo un lunghissimo respiro. Non legge, proclama. Lentissimamente. Pronuncia una parola dopo l’altra, articolandola come se dovesse raccontare qualcosa a un bambino con un’inflessione, un respiro e un ritmo senza tempo, sospesi nell’aria. Non c’è assolutamente fretta o voglia di concludere. Ogni parola per un bambino è come una finestra che illumina un avvenimento, un sentimento o un’emozione dentro. Sarà importante, allora, prendersi il tempo di affacciarsi.
Per san Paolo ogni parola è un messaggio, come un frutto gonfio di vita rivolto a una comunità riunita. Maria si ferma ogni tanto con un silenzio interminabile. Benefico. “Ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita”. Pare quasi di capire che ogni parola dell’apostolo è scavata nell’abisso della sua anima, nell’esperienza di lotta di un essere itinerante, migrante come lei. Come lui. Ma c’è anche l’amore alla nostra lingua. Nel mare di un’altra che all’estero ti circonda, la lingua materna è una terra di salvezza. Un incontro con quello che eri una volta, la tua origine stessa.
Pare di ascoltare da lei la lettera di un figlio che scrive dal fronte. Ogni parola viene pesata, sollevata, guardata e riguardata, gustata fino in fondo. È Paolo di Tarso dal fronte delle prime comunità e dello Spirito che le anima. Comunità raccolte da lui, ma fatte di mille pezzi diversi che Paolo amava come colei che le genera, come una madre. E assomigliano tanto alla nostra comunità di oggi, fatta di calabresi e di friulani, di gente del sud e del nord messi insieme, con qualcuno del posto. Guardo con stupore questa assemblea composita di emigranti della nostra terra, che proprio qui assaporano la parola “unità” e “comunione” in nome di Dio.
E così penso al disagio che provo, a volte, nel rientrare al paese, alla mia parrocchia, e vivere precisamente l’inverso. La Parola di Dio in una celebrazione sembra qualcosa di letto velocemente, come una vecchia poesia che si impara a scuola e si ripete meccanicamente. Sembra quasi una parola che scivola via senza sapore, senza amore. Non vi avverti la fibra dell’apostolo. Il fuoco dello Spirito. Non vedi l’ansia o i mille volti di un popolo di Dio finalmente riunito. Sono i nostri, semplicemente. E per di più con lo stesso pastore da tantissimi anni.
Penso, allora, alla Parola di Dio vissuta qualche tempo fa in terra africana. Dopo il canto, i tamburi, le voci, le mani, il loro ritmo con due colpi e due pause, un lunghissimo grido corale si alzava al punto più alto e tutto, infine, si spegneva d’incanto. Si piombava subito in un silenzio perfetto, immobile. Una miriade di volti neri ti fissava, allora, dall’assemblea con gli occhi ben aperti. Lunghi momenti di attesa, mentre una vera emozione ti prende. Poi, la parola esce dal lettore. Viene offerta con gesto lento come gustandola prima, ruotandola nel palato, assaporandola. Parola calma, sonora e solenne. Vedi subito dagli occhi e dal silenzio come ognuno la riceve: la attende, la gusta, gli risuona nelle tempie, gli fa brillare lo sguardo, scende nell’anima, in profondità. Comprendi allora concretamente che cosa vuol dire una “civiltà della parola” come questa, africana. La parola qui è sacra. E sintesi di cuore, di corpo e di mente. E ancor più dell’amore di Dio, fattosi Parola lui stesso. Essa si posa nella vita di ognuno dopo l’ascolto e la penetra per darne forza, bellezza e coraggio.
E ciò mi fa pensare ancora a un missionario conosciuto all’estero e i gruppi biblici che organizzava di sera tra gli emigrati di Ciociaria. Ed era leggere, commentare e lasciare emergere ciò che essi stessi stavano scrivendo con la loro vita: il loro esodo e la loro resistenza, il coraggio e la fede vissuti in terra straniera, come gli ebrei sui fiumi di Babilonia. Era per il missionario stimolare l’un l’altro con un “sì, ma questo sei tu, Salvatore, raccontaci…”, oppure: “E quella volta cosa è capitato invece a te, Concetta, racconta…”. Faceva risorgere la Parola in tante storie vissute. In avvenimenti concreti e preziosi di malattie, di sorprese o imprevisti, alla maniera semplice e popolare dei nostri emigranti. Vedevi quanto straordinario era per loro prenderne coscienza. Comprendere, finalmente, la dignità della loro esistenza, “una storia sacra” scritta ai nostri giorni. Nelle lacrime, nelle gioie o nelle conquiste di gente che un giorno si era messa in cammino, essi avevano incontrato Dio. Senza saperlo.
———
*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista « Presenza italiana ». Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - EUCARESTIA |on 16 août, 2011 |Pas de commentaires »

L’eucaristia, una Pentecoste perpetua

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27287?l=italian

L’eucaristia, una Pentecoste perpetua

di Federica Rosy Romersa*

ROMA, sabato, 2 luglio 2011 (ZENIT.org).-San Serafino di Sarov (1759-1833), il santo più amato e più venerato dal popolo russo, è stato definito “il cuore fiammeggiante”, l’ideale della santità russa, ma anche una delle figure più luminose in tutta la storia del cristianesimo. Nel famoso colloquio con il suo diletto discepolo Nicola Motovilov, san Serafino gli spiega qual è il vero fine della vita cristiana, dicendo: «Quanto a me, povero Serafino, ti spiegherò adesso in cosa consista realmente questo fine. La preghiera, il digiuno, le veglie e le altre pratiche cristiane, per quanto buone possano sembrare di per se stesse, non costituiscono il fine della vita cristiana, anche se aiutano a pervenirvi.Il vero fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio! Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta in nome di Cristo, sono solo dei mezzi per acquisire lo Spirito Santo. Tieni presente che unicamente una buona azione fatta in nome di Cristo ci procura i frutti dello Spirito. Il bene compiuto nel nome di Gesù non solo procura una corona di gloria nel mondo futuro, ma fin da quaggiù riempie l’uomo della grazia dello Spirito Santo, come leggiamo nel Vangelo: “Dio dà lo Spirito senza misura. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Gv 3,34-35). Nella parabola delle dieci vergini, l’olio che è venuto a mancare a cinque di esse è il simbolo dello Spirito Santo. Sono chiamate perciò “stolte”, perché non si preoccupavano del frutto indispensabile della virtù che è la grazia dello Spirito Santo, senza la quale nessuno può essere salvato. Antonio il Grande scriveva ai suoi monaci che la volontà di Dio è perfetta, dona la salvezza e agisce sugli uomini insegnando loro a fare il bene unicamente con il solo scopo di acquisire lo Spirito Santo, il tesoro eterno, inesauribile, che nulla al mondo è degno di eguagliare. Oh, come vorrei, amico di Dio, che in questa vita tu fossi sempre ripieno di Spirito Santo! Come vorrei, amico di Dio, che tu trovassi questa sorgente inesauribile di grazia e che ti domandassi incessantemente: “Lo Spirito Santo è con me?”»[1].
«Vieni, o Spirito, dal Cuore trafitto di Cristo!»
L’unica vera ricerca della vita è dunque scoprire “come ravvivare il dono dello Spirito Santo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quando e Chi ci aiuta ad accrescerLo”!
Nell’Antico Testamento si implorava: «Vieni, o Spirito, dai quattro venti» (cf. Ez 37,9), ma ora, dopo il totale sacrificio di Cristo al Padre per la nostra salvezza, possiamo pregare con assoluta certezza: «Vieni, o Spirito, dal Cuore trafitto di Cristo!».
L’Acqua che sgorgò dal Costato di Cristo, insieme con il Sangue: “… uno dei soldati con la lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34), era il simbolo dello Spirito Santo. È da quella “roccia spirituale”, da cui quest’acqua viva si riversa sulla Chiesa per dissetare i credenti. Come la pioggia, nella sua stagione, discende abbondantemente dal cielo e si raccoglie nei penetrali rocciosi di una montagna, finché non trova un varco verso l’esterno e si trasforma in fontana che sgorga in continuazione notte e giorno, estate e inverno, così lo Spirito Santo, che scese e si raccolse tutto quanto in Gesù durante la sua vita terrena, sulla Croce trovò un varco, una ferita, e divenne fontana che zampilla per la vita eterna nella Chiesa.
Il momento in cui Gesù, sulla Croce, “spirò” (Gv 19,30), è anche, per l’evangelista, il momento in cui “effuse lo Spirito”; la stessa espressione greca deve essere intesa, secondo l’uso proprio di Giovanni, nell’uno e nell’altro senso: nel senso letterale di “spirare” e in quello mistico di “dare lo Spirito”; nella nuova versione della CEI (2009) si traduce: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito”. L’episodio dell’Acqua e del Sangue, che segue immediatamente, accentua questo significato mistico. Di lì a poco, questo mistero è come rappresentato plasticamente, quando, nel Cenacolo, Gesù risorto “alitò”/“soffiò” sui discepoli e disse: «Ricevete lo Spirito Santo!» (Gv 20,22). Parafrasando un’espressione di Gesù: «La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro»(Gv 17,22), san Gregorio Nisseno fa dire allo stesso Gesù: «Lo Spirito Santo che hai dato a me, Io l’ho dato a loro!». E ancora i Padri della Chiesa paragonano l’umanità del Salvatore ad un vaso di alabastro, pieno del profumo dello Spirito Santo. Sulla Croce “il vaso di alabastro” fu infranto (cioè il Corpo crocifisso fu spezzato dalla morte), come nell’unzione di Betania, e lo Spirito si effuse, riempiendo di profumo “tutta la casa”, cioè tutta la Chiesa, ma anche tutta l’umanità.
Dunque, proprio perchè Gesù Cristo è per eccellenza pieno di Spirito Santo, con grandissima gioia possiamo affermare che la sua missione principale è quella di donarci il suo Spirito, anzi di “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”, secondo l’espressione cara a Giovanni Battista: «Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali; Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11). «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”»(Gv 1,32-33). Per Gesù lo Spirito è l’Amore che lo unisce al Padre e quindi ce lo dona per due ragioni: la prima perché si deve compiere la promessa del Padre, che, attraverso il Figlio, dona lo Spirito con infinita abbondanza: «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio e senza misura egli dá lo Spirito. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa»(Gv 3,34-35). «Quando verrà il Paraclito, che Io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, Egli darà testimonianza di me» (Gv 15,26).
La seconda ragione perché è il dono più alto di Dio all’uomo, quindi la testimonianza suprema del suo Amore per noi: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). A ragione quindi il papa Benedetto XVI conclude dichiarando: «Portiamo dentro di noi quel sigillo dell’Amore del Padre in Gesù Cristo che è lo Spirito Santo»[2].
Gesù pieno di Spirito Santo
Con Maria SS.ma e san Giuseppe è bello contemplare Gesù pieno di Spirito Santo, così come ce lo presentano i Vangeli. I genitori di Gesù sono infatti i primi testimoni di questa sovrabbondanza d’Amore sia per rivelazione, sia per irradiazione iniziata su questa terra e prolungata eternamente nel Regno della Gloria in Paradiso.
«Lo Spirito Santo scenderà su di te, – annunciò l’angelo a Maria – e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). «Giuseppe, figlio di Davide, – gli disse l’angelo in sogno – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).
Nel racconto del Battesimo di Gesù, leggiamo: «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”» (Lc 3,21-22).
Quando si recò nella sinagoga di Nazaret, Gesù attribuì a se stesso quanto si legge nel rotolo del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione» (Lc 4,18).
Durante la Trasfigurazione, venne una nube (simbolo dello Spirito Santo), che coprì Gesù ed i presenti con la sua ombra. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo» (Lc 9,34-35).
Al termine della missione dei settantadue discepoli, Gesù “esultò di gioia nello Spirito Santo” (Lc 10,21) e sempre il Figlio del Padre parla ed agisce nello Spirito. Dice infatti Benedetto XVI: «Il Paraclito, primo dono ai credenti, già operante nella creazione (cfr. Gn 1,2), è pienamente presente in tutta l’esistenza del Verbo incarnato» (Sacramentum caritatis, 12).
Gesù è venuto per battezzarci in Spirito Santo e fuoco
Si può dunque comprendere che la pienezza dello Spirito in Gesù non è tanto fine a se stessa, quanto si identifica con il cuore della sua missione: “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”! Grazie ai Sinottici e in particolare al vangelo di Giovanni possiamo essere illuminati su questa verità ancora troppo poco approfondita. Quando infatti Gesù annuncia il Vangelo, non si limita ad una semplice dichiarazione di una nuova realtà di vita e di pensiero, ma vuole concretamente diventare “bella notizia per i poveri, liberazione per i prigionieri, vista ai ciechi, consolazione per tutti gli affitti, grazia permanente del Signore….”.
È pertanto fortissimo in Gesù il desiderio di portare lo Spirito Santo, o meglio di “battezzare in Spirito Sano e fuoco”. Si tratta un desiderio che aumenta man mano che leggiamo i diversi episodi della sua vita apostolica: dagli incontri personali nelle case o lungo la via agli insegnamenti privati agli apostoli, dalle discussioni con gli scribi ed i farisei alle predicazioni alle folle che Lo seguono numerose… Particolarmente significativi sono i colloqui con Nicodemo e la Samaritana. Ai dubbi di Nicodemo sulla rinascita dall’alto, Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,5-8). Alle perplessità della Samaritana, Gesù replicò: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere! ”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10).
Tuttavia la dichiarazione più decisiva circa la sua volontà di accendere il tutto il mondo il fuoco dello Spirito, è quando proclama: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50).
Il “battesimo” è riferito alla sua Morte, perché, come abbiamo già accennato, sarà proprio sulla Croce che si completa e contemporaneamente inizia una nuova incessante “consegna del Suo Spirito”. Così l’aveva annunciato nel grande giorno della festa delle Capanne: «“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7,37-39).
Nell’Eucaristia Gesù ravviva ed accresce in noi il dono del suo Spirito
Sono due i più grandi desideri espressi da Gesù prima di morire. Il primo viene da Lui manifestato ai suoi discepoli, quando dice loro: «Ho tanto desiderato (è molto intensa l’espressione latina: “desiderium desideravi”) mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15). Con un supremo atto d’amore, Gesù fa capire la necessità della consumazione totale del sacrificio del suo Corpo come aveva già affermato: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15). Ed è ancora nello Spirito che offre se stesso: “con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). Infine nei discorsi di addio, Gesù mette in chiara relazione il dono della sua vita nel mistero pasquale con il dono del suo Spirito ai suoi (cf. Gv 16,7).
Il secondo grande desiderio dapprima è un’assicurazione: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre»(Gv 14,16). In seguito assume la forma dell’accorata invocazione che innalza al Padre al termine della “preghiera sacerdotale”, quando esclama: «Padre giusto… io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’Amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro». (Gv 17,26).
Gesù ha liberamente affrontato la Passione e la Morte certamente per vincere il maligno e il peccato, ma soprattutto per risorgere con un nuovo Corpo Glorioso che Gli permettesse di rimanere per sempre con l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi e per effondere su ciascuna creatura il suo Spirito d’Amore: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La sua Presenza è dunque permanente e, sotto i segni del pane e del vino, è visibile nell’Eucaristia, che è per eccellenza il sacramento dell’Amore e quindi il segno tangibile dello Spirito Santo e della sua incessante effusione dentro di noi!
Pertanto, dall’Eucaristia, Gesù continua fino alla fine dei tempi la sua missione di “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”. È attraverso l’Eucaristia che perennemente il Padre risponde alla preghiera che il suo Figlio amato gli ha innalzato nel Cenacolo: «Padre …. l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro»(Gv 17,26). Infine è attraverso l’Eucaristia che Gesù Risorto ravviva continuamente il dono del suo Spirito in tutti i credenti, come fece la sera di Pasqua: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi! ”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20,19-23).
“L’Eucaristia una Pentecoste perpetua: ogni volta che celebriamo la Santa Messa riceviamo lo Spirito Santo”
Fin dal 1972 Paolo VI, durante un’Udienza Generale domandava: «Quale bisogno avvertiamo, primo e ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta? Lo dobbiamo dire, quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero, e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste: ha bisogno di fuoco nel cuore, di Parola sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo» (Paolo VI, Udienza generale, 29 novembre 1972). Benché le ricchezze del mistero di Cristo siano imperscrutabili, tuttavia alla luce di quanto affermava Paolo VI e di quanto abbiamo considerato, siamo ora in grado di rispondere alla domanda iniziale:«Come ravvivare in noi il dono dello Spirito Santo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quando e Chi ci aiuta ad accrescerlo?».
È nostra convinzione che finora la risposta più conforme alla grandezza di questo Dono ci è stata offerta dal nostro papa Benedetto XVI, quando nel Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008 (cf. nn. 5-6), affermò:«È con i sacramenti dell’iniziazione cristiana (che sono complementari ed inscindibili): il Battesimo, la Confermazione e, in modo continuativo, l’Eucaristia, che lo Spirito Santo ci rende figli del Padre, fratelli di Gesù, membri della sua Chiesa, capaci di una vera testimonianza al Vangelo, fruitori della gioia della fede.
Per crescere nella vita cristiana, è necessario nutrirsi del Corpo e del Sangue di Cristo: infatti, siamo battezzati e confermati in vista dell’Eucaristia (cf. CCC 1322; Sacramentum caritatis, 17). “Fonte e culmine”della vita ecclesiale, l’Eucaristia è una “Pentecoste perpetua”, poiché ogni volta che celebriamo la Santa Messa riceviamo lo Spirito Santo, che ci unisce più profondamente a Cristo e in Lui ci trasforma».
Similmente anche Giovanni Paolo II aveva dichiarato: «Attraverso la comunione al Suo Corpo e al Suo Sangue, Cristo ci comunica anche il Suo Spirito. Scrive sant’Efrem: “Chiamò il pane suo corpo vivente, lo riempì di se stesso e del suo Spirito. E colui che lo mangia con fede, mangia Fuoco e Spirito. Prendete, mangiatene tutti, e mangiate con esso lo Spirito Santo. Infatti è veramente il mio Corpo e colui che lo mangia vivrà eternamente”. La Chiesa chiede questo dono divino, radice di ogni altro dono, nella epiclesi eucaristica. Si legge, ad esempio, nella Divina Liturgia di san Giovanni Grisostomo: “T’invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo: manda il tuo Santo Spirito sopra di noi tutti e su questi doni affinché a coloro che ne partecipano siano purificazione dell’anima, remissione dei peccati, comunicazione dello Spirito Santo”. E nel Messale Romano il celebrante implora: “A noi che ci nutriamo del Corpo e del Sangue del tuo Figlio dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Così, con il dono del suo Corpo e del suo Sangue, Cristo accresce in noi il dono del suo Spirito, effuso già nel Battesimo e dato come “sigillo” nel sacramento della Confermazione» (Ecclesia de Eucaristia 17).
Benedetto XVI osserva ancora: «È in forza dell’azione dello Spirito Santo che Cristo stesso rimane presente ed operante nella sua Chiesa, a partire dal suo centro vitale che è l’Eucaristia. La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale, come una sorta di “fissione nucleare” (per usare un’immagine a noi ben nota) portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28). Ciò che lo Spirito Santo tocca, conclude san Cirillo di Gerusalemme, è santificato e trasformato totalmente» (cf. Sacramentum caritatis, 11-13). Pertanto lo Spirito Santo – afferma il papa – illumina, rivelando Cristo crocifisso e risorto, e ci indica la via per diventare più simili a Lui, per essere cioè “espressione e strumento dell’amore che da Lui promana”. La presenza dello Spirito in noi attesta, costituisce e costruisce la nostra persona sulla Persona stessa di Gesù crocifisso e risorto. Rendiamoci dunque familiari dello Spirito Santo, ci invita il papa, per esserlo di Gesù. In tal modo la nostra vita sarà sempre più un riflesso del grande Mistero eucaristico! L’incoraggiamento di Benedetto XVI ai giovani (cf. Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008, 4-5) vale per tutti: «Lo Spirito Santo è sorgente di vita che ci santifica: ci introduce nel mistero trinitario, permettendoci di vivere in pienezza la fede e accendendo in noi il fuoco dell’amore. Ci rende così missionari della carità di Dio!… Lo Spirito del Signore si ricorda sempre di ciascuno e vuole, mediante voi giovani in particolare, suscitare nel mondo il vento e il fuoco della Pentecoste!». Concludiamo con un Inno di sant’Efrem il Siro, chiamato “la cetra dello Spirito Santo”, proclamato dal papa Benedetto XVI durante l’Udienza generale del 28 novembre 2007:

«Nel tuo pane si nasconde lo Spirito che non può essere consumato;
nel tuo vino c’è il fuoco che non si può bere.
Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino:
ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra.
Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace,
che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia;
né le dita l’hanno presa,
né le labbra l’hanno inghiottita;
ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue le cose.
Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori,
ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane.
Invece del fuoco che distrusse l’uomo,
abbiamo mangiato il fuoco nel pane e siamo stati vivificati» (Sant’efrem il Siro, Inno sulla fede 10,8-10).
————————————

1) IRINA GORAINOFF, Serafino di Sarov. Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, Gribaudi, Milano 1981, 155-164.
2) Benedetto XVI, Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008, n. 4.
——
*Federica Rosy Romersa è una teologa pastoralista impegnata da anni nell’evangelizzazione.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - EUCARESTIA |on 4 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

dalla messa del 14 febbraio 2011 : La preghiera dei Fedeli

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20110214.shtml

PREGHIERA DEI FEDELI

Santi Cirillo e Metodio sono stati mirabili messaggeri di pace, di bene e di salvezza presso i popoli slavi. Con la loro intercessione, preghiamo Dio Padre perchè aiuti la Chiesa a farsi tutta a tutti. Diciamo insieme:
Riunisci il tuo popolo, Signore.
Per la santa Chiesa: santifichi il mondo con l’efficacia della tua grazia. Preghiamo:
Per le nazioni dell’Europa: trovino nella fede in Dio e nei valori umani il sostegno all’unità e alla concordia. Preghiamo:
Per gli operatori della cultura: diffondiamo con forza e convinzione il bene presente in ogni popolo. Preghiamo:
Per i cristiani: si impegnino attivamente per cancellare le divisioni tra le Chiese. Preghiamo:
Per i popoli slavi: il loro profondo senso religioso li aiuti a sopportare le attuali difficoltà. Preghiamo:
Per i governanti: impegnino la loro opera per la libertà, la giustizia e la pace. Preghiamo:
Per noi che partecipiamo a questa eucaristia: il Cristo centro dell’universo ci liberi da ogni divisione e discordia. Preghiamo:
O Padre, in Cirillo e Metodio ci doni un modello e un invito alla missione; degnati ora di ascoltare queste nostre preghiere, perchè la Chiesa sappia sempre servirsi delle parole degli uomini per diffondere la tua Parola. Per Cristo nostro Signore. Amen.

EPIFANIA DEL SIGNORE: ANNUNZIO DEL GIORNO DELLA PASQUA (Sequenza)

EPIFANIA DEL SIGNORE

Sequenza
(dopo la seconda lettura)

ANNUNZIO DEL GIORNO DELLA PASQUA
Dopo la proclamazione del Vangelo, il diacono o il sacerdote o un altro ministro idoneo può dare l’annunzio del giorno della Pasqua.

Fratelli carissimi, la gloria del Signore si è manifestata e sempre si manifesterà in mezzo a noi fino al suo ritorno.
Nei ritmi e nelle vicende del tempo ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza.
Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto, che culminerà nella domenica di Pasqua il 24 aprile.
In ogni domenica, Pasqua della settimana, la santa Chiesa rende presente questo grande evento nel quale Cristo ha vinto il peccato e la morte.
Dalla Pasqua scaturiscono tutti i giorni santi:
Le Ceneri, inizio della Quaresima, il 9 marzo.
L’Ascensione del Signore, il 5 giugno.
La Pentecoste, il 12 giugno.
La prima domenica di Avvento, il 27 novembre.
Anche nelle feste della santa Madre di Dio, degli apostoli, dei santi e nella commemorazione dei fedeli defunti, la Chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del suo Signore.

A Cristo che era, che è e che viene, Signore del tempo e della storia, lode perenne nei secoli dei secoli.
Amen.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - EUCARESTIA |on 4 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Ultima cena e sacrificio: L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento (nella Lettera agli Ebrei)

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2009/07/24/ultima-cena-e-sacrificio.html

Ultima cena e sacrificio

(nella Lettera agli Ebrei))

L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento

di Robert Abeynaike

Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena. Quest’affermazione potrebbe, a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento, almeno direttamente, all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di « sacerdote » – o piuttosto, « sommo sacerdote » – e di « mediatore della Nuova Alleanza ». L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato:  l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione. Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali. Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole « Ecco il sangue dell’alleanza… » (cfr. Esodo, 24, 8; Lettera agli Ebrei, 9, 18-22). Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il « Santo dei Santi » dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (cfr. Levitico, 16; Lettera agli Ebrei, 9, 6-10). Ma secondo quanto dice il nostro autore:  « è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri » (Lettera agli Ebrei, 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 6-10).

L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di:  un nuovo sacerdote – « Il Signore ha giurato e non si pente:  « Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek »" (Salmi, 110, 4); un nuovo sacrificio – « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto:  « Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà »" (Salmi 40, 7-9 ; una nuova alleanza – « Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri… Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati » (Geremia, 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza. Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice:  « Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri (…) non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario (del cielo), procurandoci così una redenzione eterna… il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza… » (Lettera agli Ebrei, 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda. Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole:  « Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » (Matteo, 26, 28). Dicendo infatti le parole « Questo è il mio sangue dell’alleanza », Cristo, si manifestava come il Mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi, contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole:  « Ecco il sangue dell’alleanza » (Esodo, 24, 8). Aggiungendo le parole « versato per molti in remissione dei peccati », egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata:  « Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati » (31, 34). Inoltre, le parole:  « il mio sangue… versato per molti in remissione dei peccati », dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima, non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno d’Espiazione. Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – « Entrò una volta per sempre nel santuario », (Lettera agli Ebrei, 9, 12) – il parallelo con l’azione del sommo sacerdote  levitico – il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui il nostro autore avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza. Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo. Le parole, invece, sul pane – « Questo è il mio corpo » – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei Salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza – « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà » (40, 7-9). Il nostro autore infatti commenta al riguardo:  « Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre » (Lettera agli Ebrei, 10, 10). Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni di Melchisedek (cfr. Genesi, 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena fosse appunto – in adempimento del vaticinio del Salmo 110, 4 – il sacerdote « al modo di Melchisedek ».
In conclusione, possiamo dire che quando il nostro autore in Lettera agli Ebrei, 9, 11-15 – il cuore della sua epistola – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena. I versetti immediatamente seguenti lo confermano:  « Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa. Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive. Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue » (Lettera agli Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca diathéke, che era usata nella Settanta per tradurre la parola ebraica berith – alleanza – mentre nel greco contemporaneo significava testamento. Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno. Come una diathéke – testamento – diventa valida solo alla morte del testatore,  così pure, la diathéke – alleanza – proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca – diathéke – un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune:  il concetto di un’eredità. L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan. L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio. Quindi, noi troviamo Cristo all’ultima cena non solo manifestandosi nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio:  « Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo, 26, 29; cfr. Luca, 22, 29-30). Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione:  « Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di  modo che, quando la sua morte fosse intervenuta… coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Lettera agli Ebrei, 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu:  un sacrificio in cui Cristo « offrì se stesso a Dio » (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 14) per la remissione dei peccati; la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in « eredità eterna » (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (cfr. Matteo, 26, 29; Luca, 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce adesso doveva seguire ineluttabilmente. Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale, non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma, la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice. Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione era entrato nel santuario celeste « per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore » (Lettera agli Ebrei, 9, 24); « procurandoci così una redenzione eterna » (Lettera agli Ebrei, 9, 12). Appunto perché Cristo « offrì se stesso con uno Spirito eterno » (Lettera agli Ebrei, 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane « sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek » (Lettera agli Ebrei, 6, 20). Abbiamo dunque, potremmo dire, un « Giorno di Espiazione » che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice:  « Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente » (Lettera agli Ebrei, 9, 14). E ancora:  « Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario (celeste) per mezzo del sangue di Gesù… e un sacerdote grande sopra la casa di Dio accostiamoci… (Lettera agli Ebrei, 10, 19-22). In un altra occasione egli parla di cristiani come di un popolo che si è accostato « al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione… » (Lettera agli Ebrei, 12, 22-24). Il « sangue di Gesù » è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella ben nota preghiera liturgica, dove si afferma che ogni volta che la messa è celebrata « si effettua l’opera della nostra redenzione » (cfr. Presbyterorum ordinis, 13). Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo, effettivamente:  « Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare » (cfr. Lettera agli Ebrei, 13, 10). San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella Prima Lettera ai Corinzi, 10, 14-22 paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (cfr. Levitico, 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto. Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo:  « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me » (6, 56-57). Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra. Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende. Giustamente i padri orientali l’avevano chiamato il sacrificium tremendum. È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – l’ars celebrandi – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti. È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale appena indetto, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano ii:  « (I presbiteri) esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico » (Lumen gentium, 28).

(L’Osservatore Romano – 24 luglio 2009)

123

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01