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La tomba di Maria a Gerusalemme (Custordia Terra Santa)

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La tomba di Maria a Gerusalemme

G.Claudio Bottini, ofm

E’ proprio vero–come ripete la saggezza popolare–che ‘non tutti i mali vengono per nuocere’. Una violenta alluvione il 7 febbraio 1972 allagò completamente la chiesa che racchiude il sepolcro vuoto della Madonna presso il Getsemani, a pochi passi dal celebre Orto degli Ulivi. Fu un allagamento provvidenziale, perché costrinse i greci ortodossi e gli armeni ortodossi, attuali custodi del santuario, a smantellare le sovrastrutture, che nascondevano la tomba di Maria, e a intraprendere lavori di restauro.

Grazie all’ecumenismo fatto di gesti piccoli e silenziosi – a Gerusalemme è forse l’unico tipo di ecumenismo che non rischia di aggravare le divisioni già esistenti – l’abuna (= padre) greco Macarios e il sacrestano armeno Hagop invitarono padre Bellarmino Bagatti, il decano degli archeologi francescani in Terra Santa, a visitare e a studiare la tomba e il complesso sepolcrale e architettonico che la circondano. P. Bagatti, fedele al metodo, cui si è sempre ispirato, di accostare reperti archeologici e fonti letterarie, non si limitò ad esaminare il monumento, ma rilesse con attenzione la letteratura antica sulla morte e la sepoltura della Madonna.

Si sa che il Nuovo Testamento parla di Maria per l’ultima volta dopo l’Ascensione di Gesù presentandola circondata dagli apostoli e dalla primitiva comunità cristiana (Atti 1, 14). Nessun testo canonico ci dice come Maria trascorse gli ultimi anni e come lasciò la terra. Invece non pochi libri apocrifi, che vanno sotto il nome di ciclo sulla Dormizione della Madonna, molto diffusi nel mondo cristiano, tramandano tutta una serie di informazioni che, passate al vaglio della critica storica e teologica, si rivelano di primissima importanza. I diversi testi sugli ultimi giorni e sulla morte di Maria sembrano tutti riconducibili a un documento originario, ad un prototipo giudeocristiano redatto intorno al II secolo nell’ambito della Chiesa Madre di Gerusalemme, per la commemorazione liturgica annuale presso la tomba della Vergine. Nella redazione della Dormizione attribuita a Giovanni il teologo si legge:

‘…gli apostoli trasportarono la lettiga e deposero il suo corpo santo e prezioso in una tomba nuova del Getsemani’.

In un altro testo conservato in siriaco si trovano indicazioni topografiche ancora più precise:

‘Stamattina prendete la Signora Maria e andate fuori di Gerusalemme nella via che conduce al capo valle oltre il Monte degli Ulivi, ecco, vi sono tre grotte: una larga esterna, poi un’altra dentro e una piccola camera interna con un banco alzato di argilla nella parte di est. Andate e mettete la Benedetta su quel banco e mettetela lì e servitela finché io non ve lo dica’.

Con la verifica dei fatti Padre Bagatti ha dimostrato che l’accordo tra documento e monumento non poteva risultare maggiore.

Effettivamente la tomba di Maria al Getsemani è situata in una zona cimiteriale in uso nel I secolo. Essa corrisponde molto bene sia al tipo di tombe usate in Palestina in quel tempo, sia ai dati topografici indicati nelle differenti redazioni della Dormizione della Vergine, specialmente per ciò che riguarda la camera sepolcrale nuova e la sua posizione rispetto alle altre. Il fatto che si trovi accanto all’Orto degli Ulivi e alla Grotta dove Gesù era solito passare la notte (Giovanni 18, 2), fa pensare che l’anonimo discepolo proprietario della zona vi abbia accolto anche la sepoltura di Maria. La tomba, custodita e venerata dai giudeo-cristiani fin verso la fine del IV secolo, quando passò nelle mani dei gentilocristiani fu isolata dalle altre e racchiusa in una chiesa. La venerazione e il culto a Maria in questo luogo non sono venuti mai meno, nonostante tutte le trasformazioni, ed è intorno a questa tomba vuota che è nata e si è alimentata la fede del popolo cristiano nell’Assunzione di Maria al cielo. Per citare un esempio, così è espressa questa fede nel testo già ricordato di Giovanni il teologo: ‘Per tre giorni si udirono voci di Angeli invisibili che glorificavano Cristo, Dio nostro, nato da Lei. Dopo il terzo giorno le voci non si udirono più: tutti allora compresero che il puro e prezioso corpo di lei era stato trasportato in Paradiso’.

Oggi delle diverse chiese erette lungo i secoli sul luogo santo resta la cripta che attraverso un’ampia scala di quarantotto gradini conduce alla tomba per un dislivello di circa quindici metri rispetto alla strada. L’edicola che racchiude la cameretta funeraria con il banco roccioso ancora visibile è appena rischiarata dalla luce che filtra dall’esterno e dalle lampade ad olio. Nell’interno si respira l’atmosfera tipica delle chiese orientali caratterizzate dall’odore forte dell’incenso, dalle numerose immagini e dalle tante candele e lampade ad olio. Il pellegrino che vi entra con fede riesce a percepire anche l’eco delle preghiere incessanti che vi effondono cristiani di tutte le denominazioni, visitatori di ogni parte del mondo e persino i musulmani.

E commovente e istruttivo sostare accanto alla tomba di Maria rileggendo i deliziosi racconti popolari della Dormizione o contemplando l’icona che li traduce in immagini. La figura di Maria è quella stessa del Nuovo Testamento e della Tradizione divino-apostolica. Maria è insieme la Madre di Cristo Signore e la creatura che vive immersa nella realtà quotidiana, la Vergine-Sposa-Madre scelta da Dio e la donna partecipe del comune destino di lotta e di dolore che giunge alla piena glorificazione dopo le prove della vitaterrena e passando per il sonno della morte. Sul piano umano, moralee spirituale lei appare dopo e con Gesù modello e guida di autentica vita cristiana. Come l’Ascensione non èstata una partenza di Gesù, ma l’inizio di una presenza nuova nella sua Chiesa, così Maria nella sua Assunzione non si allontana dai nuovi figli che le sono donati dal Figlio primogenito. Il discepolo amato la chia-ma: ‘Sorella mia Maria, divenuta madre dei dodici rami’ e gli apostoli la salutano: ‘Maria, sorella nostra,madre di tutti i salvati’. Negli apocrifi della Dormizione Maria è proclamata anche ‘tempio di Dio e porta del cielo’, ‘signora e regina’ che esplica la sua mediazione e intercessione sia prima che dopo l’Assunzione. Tutto ciò immerso in un mondo carico di immagini e di simboli: dalla palma dell’immortalità che Gesù le consegna preannunciandole il passaggio alla vita eterna ai sette cieli che Maria attraversa per giungere presso il Figlio, dalle nubi sulle quali giungono gli apostoli dalle quattro parti del mondo, alla ‘bambina luminosa’ simbolo dell’anima di Maria che Gesù prende fra le sue braccia, fino all’albero della vita, ai profumi, ai canti e alle luci del paradiso. Allora la preghiera che spontaneamente dal cuore affiora sulle labbra si confonde con quella dell’autore estasiato o del devoto traduttore dei manoscritti della Dormizione: ‘Celebrando misticamente la festa della sua gloriosa dormizione, troveremo misericordia e grazia in questo secolo e nel futuro, in virtù della bene-volenza e benignità del Signore nostro Gesù Cristo, al quale sia gloria e dominazione con il suo Padre, che è senza principio, e il santissimo e vi-vificante Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen’.

qualche notizia di « Magnesia » la città alla quale Sant’ignazio rivolge la sua lettera

dal sito:

http://it.wikipedia.org/wiki/Magnesia_(Lidia)

Magnesia ad Sipylum

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

(Reindirizzamento da Magnesia (Lidia)

Magnesia ad Sipylum (greco Μαγνησία) è stata una città della Lidia, situata a circa 65 km a NE di Smirne (oggi İzmir) sul fiume Hermus (oggi Gediz) alle falde del monte Spil. Al giorno d’oggi qui sorge la città turca di Manisa.

Non si trova alcun riferimento alla città antica fino al 190 a.C., quando Antioco il Grande fu sconfitto nella battaglia di Magnesia dal console romano Lucio Cornelio Scipione Asiatico. Divenne città importante sotto il governo romano e, malgrado fosse stata pressoché distrutta da un terremoto nel corso del regno dell’Imperatore Tiberio, fu riedificata da questo Imperatore e fiorì in tutto il periodo imperiale romano. Fu una delle poche città di questa parte dell’Anatolia a rimanere prospera sotto il dominio turco-ottomano.

La più importante sopravvivenza artistica di quell’epoca è la Niobe di Sipylus (Suratlu Tash) sulle pendici più basse del monte, a circa 6 km a est della città. Essa è un’immagine colossale assisa intagliata in una nicchia scavata nella roccia, di origine ittita, e forse è quella descritta da Pausania come l’antichissima statua della « Madre degli Dèi », scolpita da Broteas, figlio di Tantalo e cantata da Omero.

Nelle sue vicinanze giace la città primitiva e a un chilometro circa a est si trova il sedile di roccia che Pausania indica come il Trono di Pelope. Vi sono anche sorgenti dio acqua calda e una grotta sacra al dio Febo.

Accanto a Paolo in attesa del risveglio, L’antica basilica sulla via Ostiense ospitava circa seimila sepolcri

dal sito:

http://www.made-inbet.net/news_services/or/or_quo/cultura/117q04a1.html

OSSERVATORE ROMANO DEL 22-23 MAGGIO 2009

L’antica basilica sulla via Ostiense ospitava circa seimila sepolcri

Accanto a Paolo in attesa del risveglio

Pubblichiamo quasi integralmente la relazione tenuta dal rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana alla giornata di studio organizzata per l’Anno paolino dalle Pontificie Accademie.

di Vincenzo Fiocchi Nicolai

Tra l’età costantiniana e la metà del V secolo, furono costruite a Roma, nel suburbio, una quindicina di chiese, dedicate agli apostoli Pietro e Paolo e ai principali martiri della città. Alle prime basiliche – realizzate grazie alla generosità dell’imperatore Costantino – fecero seguito quelle edificate per iniziativa diretta dei Pontefici (Marco, Giulio, Felice II, Damaso, Bonifacio e Leone Magno). Alla fine del IV secolo, i tre imperatori Valentiniano ii, Teodosio e Arcadio promossero la costruzione di una nuova chiesa sulla tomba dell’apostolo Paolo sulla via Ostiense, in sostituzione di quella, piuttosto modesta, fatta erigere da Costantino. La nuova fabbrica aveva più o meno le stesse grandiose dimensioni di San Pietro in Vaticano e tendeva così a riequilibrare, sul piano monumentale, l’onore attribuito dalla Chiesa di Roma agli apostoli suoi fondatori.
La diretta committenza imperiale faceva dell’iniziativa un chiaro manifesto della politica dei sovrani in favore del cristianesimo e della Chiesa della capitale, contro le ultime resistenze pagane dell’aristocrazia.
Queste chiese suburbane oltre che luoghi adibiti alle celebrazioni commemorative dei santi cui erano dedicate, costituivano spazi funerari imponenti, capaci di accogliere a migliaia le sepolture dei fedeli, attratti nelle costruzioni dalla presenza dei sepolcri dei martiri.
La funzione funeraria della basilica di San Paolo sulla via Ostiense, costruita proprio quando nelle catacombe declinava l’uso di seppellire, è stata scarsamente evidenziata negli studi che hanno riguardato il santuario, per lo più interessati agli aspetti architettonici della straordinaria costruzione, alle sue decorazioni e soprattutto alle vicende monumentali del sepolcro dell’apostolo.
Sulla tomba di Paolo, come si sa, nuova luce è stata gettata dai recenti scavi condotti dai Musei Vaticani. Questi hanno permesso di recuperare l’abside della prima basilica costantiniana (e il livello del suo piano), già scoperta nel 1838, e soprattutto di riportare alla luce – sotto l’altare papale – il sarcofago nel quale erano stati collocati quelli che si ritenevano alla fine del IV secolo i resti mortali di Paolo.
La cassa, che è stata ritrovata nelle recenti indagini in una sistemazione che risale alla fine degli anni Trenta del XIX secolo – anche se certamente corrispondente a quella antica – fu poggiata sul pavimento della costruzione dei tre imperatori sopra un’enorme massicciata che obliterò la prima basilica costantiniana, situata circa un metro e sessanta centimetri più in basso.
Gli architetti della fine del IV secolo decisero cioè di alzare di molto il livello della nuova chiesa, evidentemente per preservarla dalle inondazioni del Tevere.
Nei lavori di ricostruzione della basilica che fecero seguito al disastroso incendio della notte tra il 15 e il 16 luglio 1823 si perse l’occasione di indagare i piani pavimentali della chiesa. Solo di recente, alcune esplorazioni condotte dai Musei Vaticani all’interno di vani sottostanti il pavimento, realizzati nell’Ottocento o in epoca più recente, hanno rivelato che l’edificio era intensissimamente occupato da tombe, alla maniera delle altre basiliche martiriali dell’epoca.
Le sepolture, come di consueto, consistevano in fosse delimitate da muretti, coperte con tegole o mattoni posti a doppio spiovente, sistemate su file parallele e disposte quasi sistematicamente sull’asse longitudinale della basilica. Alcune sepolture risultano del tipo « a pozzetto », cioè a più avelli sovrapposti, con un vano di immissione dei corpi dei defunti situato all’estremità della tomba. I piani superiori di queste tombe, ma anche quelle costituite da un solo piano, coincidevano con il pavimento della chiesa, che si presentava formato dagli stessi epitaffi marmorei di copertura che segnalavano le tombe sottostanti.
La maggior parte delle oltre 1.100 iscrizioni funerarie restituite dal complesso di San Paolo – oggi in gran parte conservate nel chiostro e nei locali dell’attiguo monastero – doveva avere questa originaria collocazione.
Considerando le dimensioni complessive della chiesa, e quanto sappiamo sulla densità dei sepolcri nelle altre basiliche funerarie coeve, si può ipotizzare che nella basilica di San Paolo fossero presenti – solo sotto i piani pavimentali – all’incirca 6.000 sepolcri.
La zona circostante la tomba di Paolo, come è ovvio, dovette essere di gran lunga quella più ambita per le sepolture dei fedeli, desiderosi di riposare presso le spoglie dell’apostolo. Di lì, in effetti, proviene un buon numero di sarcofagi, anche di notevolissima qualità, evidentemente riferibili a personaggi di particolare rango.
In quella zona privilegiata della chiesa, come sappiamo dalla documentazione epigrafica, erano sepolti la moglie e i figli del diacono Felice, il futuro Papa Felice III (483-492); anche il sepolcro del Pontefice – l’unico vescovo di Roma dell’antichità a essere sepolto a San Paolo – doveva probabilmente trovarsi nella zona. Pure il quadriportico antistante la chiesa e i terreni circostanti dovevano essere occupati, come di consueto, da sepolture.
Il numero veramente cospicuo delle epigrafi funerarie di San Paolo testimonia che il sepolcreto incentrato sulla basilica dell’apostolo fu di gran lunga il più utilizzato nella Roma del v e della prima metà del VI secolo.
Le epigrafi ci danno pure informazioni importanti sulla composizione sociale degli inumati. A San Paolo erano sepolti numerosi membri della gerarchia ecclesiastica:  oltre a Papa Felice II, un probabile vescovo di Costantinopoli, diciassette presbiteri, quattro diaconi, un arcidiacono, un accolito, un lector, un esorcista. Prepositi della basilica sono ricordati in diverse epigrafi. Queste registrano la presenza di una abbatissa, di vergini consacrate, di ancillae Dei. L’élite dell’aristocrazia romana scelse San Paolo per la sua sepoltura:  vari clarissimi appartenenti alle famiglie senatorie, viri spectabiles, honesti viri e honestae feminae, funzionari dell’amministrazione pubblica, personaggi che ricoprivano importanti cariche civili e militari o impegnati nei diversi mestieri e professioni.
Stupisce non ritrovare addossati alla basilica i mausolei che facevano abitualmente corona alle basiliche martiriali. Ma forse la stagione più fortunata di queste costruzioni, di norma commissionate dalle famiglie aristocratiche, si esaurì con il IV secolo. Un edificio, comunque, fino a oggi poco considerato nella restituzione degli assetti del complesso paleocristiano, potrebbe costituire un elemento di interesse in questo senso. Si tratta della costruzione a croce greca, preceduta da un vestibolo con prospetto a cinque arcate rette da colonne, addossato al lato sud del transetto, che dal 1930, fino a poco tempo fa, fungeva da battistero. L’edificio è stato riconosciuto come tardoantico dal Krautheimer e da altri studiosi che di esso si sono occupato fugacemente.
La pianta a croce greca orienta decisamente per il carattere funerario dell’edificio. La posizione della costruzione richiama in modo suggestivo quella dei due mausolei agganciati al lato sud del transetto della basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano.
Se la costruzione a croce greca fu effettivamente un mausoleo, lo si dovrà ritenere, per posizione e monumentalità, certamente utilizzato da una famiglia (o personaggio) di rango particolarmente elevato. Qualora fosse stato effettivamente realizzato insieme alla chiesa – come in altri casi – potrebbe anche essere riferito ai fondatori. L’imperatore Onorio aveva portato a compimento i lavori della chiesa di San Paolo iniziati dal padre Teodosio, come ricorda l’iscrizione dell’arco trionfale relativa a un restauro dell’epoca di Galla Placidia e Leone Magno (Theodosius coepit, perfecit Honorius). Arcadio, fratello di Onorio, e altri membri del ramo orientale della dinastia teodosiana, erano stati sepolti nell’Apostolèion di Costantinopoli, a quanto pare in un edificio, come il nostro, di pianta cruciforme. Onorio e il ramo occidentale della famiglia teodosiana vennero sepolti a San Pietro nel mausoleo occidentale dei due collegati al transetto della chiesa. Lì nel XVI secolo furono ritrovate le spoglie della moglie Maria; lì vennero sepolti Teodosio III, figlio di Galla Placidia, probabilmente la stessa Galla Placidia e Valentiniano III. Fu, come si pensa, proprio Onorio a fondare il mausoleo dinastico a San Pietro tra il 404 e il 405.
L’ipotesi che il nostro edificio cruciforme di San Paolo fosse stato ideato in origine per ospitare le spoglie di uno dei membri della famiglia imperiale coinvolti nella costruzione della basilica (Onorio, Galla Placidia, lo stesso Teodosio?) resta una pura suggestione. I fondatori, particolarmente legati alla chiesa di San Paolo, lì avrebbero immaginato la loro tomba dinastica, secondo una prassi ben documentata nella corte imperiale. Per motivi che sfuggono, Onorio avrebbe poi modificato il progetto. Tutte ipotesi che solo un’analisi archeologica accurata dell’importante edificio cruciforme potrebbe eventualmente
confermare o smentire.

VARIAZIONI CLIMATICHE DEL PERIODO ROMANO, PDF

VARIAZIONI CLIMATICHE DEL PERIODO ROMANO

http://www.meteogiornale.it/news/read.php?id=16887&action=pdf

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna : L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/105q04d1.html

DA L’OSSERVATOPRE ROMANO DELL’8 MAGGIO 2009

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna

L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

Il Centro Culturale di Milano ha ospitato il 6 maggio una conferenza intitolata:  « Dalla terra alle Genti:  san Paolo fondatore del cristianesimo o apostolo di Gesù? ». Ne pubblichiamo un estratto.

di Rainer Riesner
Università di Dortmund (Germania)

Il Nuovo Testamento è caratterizzato dalla presenza di due grandi teologi, Giovanni e Paolo. Il pensiero teologico di Giovanni è meditativo, e ha influenzato profondamente fino a oggi le Chiese orientali. Paolo ha posto al servizio della fede anche un acuto conflitto di natura logica, ispirando lo stesso Agostino, in qualità di uno dei maggiori pensatori dell’antichità cristiana.
Paolo ricevette la propria formazione teologica presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele il Vecchio (Atti, 22, 3). Nel i secolo i letterati ebrei prendevano parte apertamente ai dibattiti intellettuali del loro tempo. All’epoca del figlio di Gamaliele si dissertava non solo dell’Antico Testamento ma anche della « saggezza greca » (Talmud babilonese, Sota 49b; Baba Kama 83a).
Paolo, nella sua veste di cristiano, non dimenticò quanto aveva appreso da Gamaliele. Nelle sue lettere, l’apostolo si serviva delle tecniche logiche e retoriche all’epoca riconosciute e comunemente utilizzate.
I grandi teologi corrono sempre il rischio di soccombere al fascino del proprio pensiero o di un sistema di pensiero altrui. Il più grande studioso della Bibbia nell’ambito della chiesa antica, al contempo eminente filosofo, era Origene. Anche egli era soggetto al rischio, e in alcuni punti è effettivamente caduto in questa trappola, di privilegiare il proprio pensiero teologico rispetto alla tradizione della fede generalmente riconosciuta. Anche Paolo è stato spesso dipinto come un pensatore solitario, isolato dal cristianesimo originario, anche se il giudizio a tal proposito non è stato affatto unanime. Per alcuni, egli è il precursore dell’indipendenza del pensiero teologico nei confronti della tradizione ecclesiastica. Secondo l’opinione di altri, con la sua complicata teologia Paolo avrebbe invece deturpato il semplice insegnamento di Gesù, trasformandolo in un cristianesimo dogmatico. Anche oggi Gesù e Paolo vengono spesso contrapposti. Ma Paolo non credette solo a Gesù crocifisso e risorto. L’apostolo sapeva anche molte cose sulla predicazione di Gesù, e le espone in vari punti delle proprie lettere. E ciò lo si nota solo sapendo come gli scribi ebrei solitamente citano i testi sacri. Li conoscono perfettamente a memoria, e spesso è loro sufficiente una sola parola chiave per ricordarli. Quando Paolo parlava di « fede » che « muove le montagne » (1 Corinzi, 13, 2), si riferiva naturalmente alle parole pronunciate da Gesù (Matteo, 17, 20).
Ma per Paolo era anche estremamente importante essere in accordo con la tradizione di fede tramandata dalla comunità originaria di Gerusalemme. Quando alcuni nella comunità di Corinto palesarono pensieri errati in merito alla risurrezione dei morti, l’apostolo ricordò la formula di professione della fede che aveva insegnato loro. Questa formula non era frutto del suo pensiero, bensì della tradizione (1 Corinzi, 15, 1-5).
Risale con molta probabilità alla comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme (cfr. 1 Corinzi, 15, 5-11). Da quando, sulla via per Damasco, Gesù risorto era apparso a Paolo nella sua magnificenza divina, all’apostolo parve chiaro che non si poteva più parlare di Gesù come di un semplice essere umano (2 Corinzi, 4, 1-6). Ma anche in questo caso, per Paolo era essenziale non propugnare da solo questa sostanziale convinzione cristologica. Nella lettera ai Filippesi citò un brano (Filippesi, 2, 6-11) la cui forma linguistica indica che originariamente era formulato in una lingua semitica. In questo punto si parla chiaramente della divinità di Gesù (Filippesi, 2, 6). Secondo fonti affidabili del patriarca Girolamo, i genitori di Paolo erano originari di Giscala (De viris illustribus, 5), una roccaforte degli zeloti nell’Alta Galilea (Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, ii, 585 e seguenti). Se un fariseo come Paolo e altri devoti ebrei palestinesi riconobbero in Gesù il vero Dio, questo fatto non può essere spiegato con l’antico sincretismo, ma solo con la realtà della risurrezione di Gesù.
Ai cristiani di Corinto, fin troppo affascinati dai doni carismatici, Paolo dovette ricordare il fondamento della tradizione di fede e l’importanza della ragione (1 Corinzi, 14, 19). Ma Paolo non riduce la fede cristiana alla ragione e alla tradizione. Proprio nei confronti dei Corinzi, Paolo lascia intravedere la propria esperienza spirituale, nella quale non mancavano né la preghiera in lingue straniere infusa dallo Spirito Santo (1 Corinzi, 14, 18), né le visioni celestiali (2 Corinzi, 12, 1-4). Paolo ha anche parlato apertamente del suo miracoloso dono apostolico (2 Corinzi, 12, 12). La storia intellettuale europea degli ultimi due secoli è caratterizzata da grandi mutazioni. In alcuni momenti le tradizioni erano prive di valore, mentre in altri rappresentavano tutto. A epoche caratterizzate dal razionalismo hanno fatto seguito epoche dominate da una grande irrazionalità. Il nostro tempo è segnato dal fatto che viviamo tutto contemporaneamente, e anche i cristiani e le Chiese non ne sono immuni. Paolo può insegnarci il giusto equilibrio fra tradizione di fede, pensiero razionale ed esperienza spirituale personale.
Quando Paolo giunse ad Atene si arrabbiò per l’antico sincretismo, dominato da un mondo di idoli imperscrutabili (Atti, 17, 16). Ma non inneggiò all’assalto dei templi pagani e nemmeno invitò a boicottarli. Piuttosto, propugnò la fede nell’unico Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, servendosi esclusivamente della forza di convincimento delle parole, nella sinagoga, nelle discussioni con i filosofi e durante l’interrogatorio del consigliere ateniese Areopago (Atti, 17, 17). Si auspicherebbe che i cristiani seguissero sempre questo esempio dell’apostolo, invece di cedere alla tentazione di sostituire il convincimento con la coercizione. È anche evidente l’elevato valore attribuito da Paolo alla coscienza umana, pur se debole e ingannevole (Romani, 14; 1 Corinzi, 8-10).
Del resto, anche prima dell’illuminismo, singoli cristiani avevano fatto proprio l’impulso alla libertà di fede e di coscienza proclamata da Paolo. Nel 1610 il cristiano evangelico Thomas Helwys pubblicò uno scritto che non solo si faceva paladino della tolleranza nei confronti dei protestanti, ma che sostanzialmente richiedeva quanto segue:  « Il re non deve ergersi a giudice fra Dio e l’uomo. Che si tratti di eretici, turchi, ebrei o altro, non spetta al potere temporale comminare seppur minime pene per tale ragione » (A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, ristampa 1998). Pensieri di questo genere vennero portati in America dai profughi religiosi, contribuendo a far sì che la Costituzione degli Stati Uniti del 1787, quindi ancora prima della rivoluzione francese, proclamasse la libertà di fede e di coscienza. Uno dei nostri scopi precipui nell’Europa moderna consiste proprio nel difendere entrambi questi ideali, e nel far ciò dovremo tenere presente sempre più che la libertà di fede e di coscienza vale anche per i cristiani.
La nostra epoca presenta delle similitudini con quella dell’apostolo Paolo, nel senso che non è più considerato ovvio essere un cristiano. La fede cristiana viene percepita come una delle tante offerte proposte nel mercato delle religioni. Inoltre, notiamo una sempre maggiore ostilità nei confronti del cristianesimo. La rivendicazione della verità religiosa viene considerata arrogante e molti precetti etici sono ritenuti oppressivi. Tuttavia, il fatto che essere cristiani non sia più scontato, presenta anche dei vantaggi. I cristiani devono nuovamente concentrarsi sulla particolarità e unicità della loro fede. Pertanto, fra i cristiani appartenenti a Chiese molto diverse, che non vogliono semplicemente adeguarsi allo spirito del tempo, cresce la consapevolezza di condividere elementi in comune. Una tale comunanza di intenti, che fortunatamente viene continuamente sottolineata anche da Papa Benedetto, si fonda sulla consapevolezza che l’Europa necessita di una nuova evangelizzazione! L’apostolo Paolo può fungere da esempio in tal senso? Paolo è riuscito a ispirarci con la sua fede e il suo coraggio. La sfida che ha affrontato era estremamente più grande di quella che sta di fronte a noi. Cos’era una manciata di cristiani in confronto al potente impero romano e all’affascinante cultura pagana dell’ellenismo? Dal punto di vista umano, niente! Ma Paolo ha contrapposto a tale punto di vista la propria convinzione:  « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Filippesi, 4, 13). Questa frase non è stata scritta da Paolo in un momento qualsiasi, ma durante la sua prigionia. L’apostolo sperimentò allora la stessa situazione condivisa oggi dai cristiani in molti Paesi del mondo:  si può imprigionare chi annuncia il Vangelo, ma non il Vangelo (Filippesi, 1, 12-14).
Paolo si è affidato alla potenza di Dio e dello Spirito Santo, ma questo non gli ha impedito di operare nella sua missione in modo strategico e metodico. Solo due indicazioni a tale proposito. Paolo si è concentrato sulle città di provincia come Salonicco, Corinto ed Efeso. Credeva, a ragione, che in seguito alla costituzione di comunità in questi punti nevralgici per le comunicazioni il Vangelo potesse diffondersi nelle regioni limitrofe. Tuttavia, queste regioni erano molto distanti dal punto di vista geografico, cosicché sussisteva il rischio di uno sviluppo non omogeneo. L’apostolo lo scongiurò recandosi in visita in questi luoghi, inviando lettere e collaboratori. L’organizzazione di un collegamento fra così tanti collaboratori e gruppi era per l’epoca un enorme impegno dal punto di vista logistico. Uno studioso inglese definisce questo fenomeno come The Holy Internet (M. A. Thompson, in:  R. Bauckham, The Gospels for All Christians, 1998, 49-70). Questo ci fornisce un’importante indicazione. Non si tratta solo di emulare i metodi missionari di Paolo. Grazie alla radio, alla televisione e in particolare a internet, abbiamo a disposizione delle opportunità di comunicazione con le quali possiamo raggiungere anche le persone che vivono nei paesi più remoti. Paolo si complimenterebbe di cuore con noi per questa modernità, se concordiamo con lui su di un punto:  esiste solo « un Vangelo di Gesù Cristo » (Galati, 1, 8) ed « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo e poi del Greco » (Romani, 1, 16). Anche oggi non sussiste alcun motivo per vergognarsi di questo Vangelo.  

Grazie al laser è apparso l’inatteso (la scoperta nella catacomba di Santa Tecla)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

Grazie al laser è apparso l’inatteso

di Barbara Mazzei

Alcuni giorni fa, sotto una spessa concrezione calcarea che nascondeva la decorazione della volta del cubicolo della catacomba di Santa Tecla, si è rivelato il volto emaciato dell’apostolo Paolo. La caratteristica fisionomia assegnata all’apostolo delle genti dall’arte paleocristiana, che gli ha attribuito le fattezze ideali del pensatore, con grandi occhi dallo sguardo lontano perso nel vuoto, guance scavate, incipiente calvizie e lunga barba incolta terminante a punta, non lasciava alcun dubbio sull’identificazione.  La  sua presenza ha suscitato profonda  emozione, entusiasmando i restauratori e imponendo una repentina accelerazione al restauro.
Benché si lavorasse da oltre un anno nel cubicolo, raggiungendo soltanto nell’ultimo periodo risultati insperati grazie alla tecnica laser – qui applicata per la prima volta in ambiente ipogeo – le condizioni deplorevoli del soffitto dell’ambiente rendevano i restauratori restii ad affrontarle. Dalla spessa patina calcarea affioravano vaghe forme geometriche, un clipeo centrale e almeno due tondi angolari. Lo schema della decorazione non è inusitata per le volte delle camere catacombali, che spesso accolgono la figura del Buon Pastore circondato dalle personificazioni delle stagioni, a rappresentare il volgere del tempo governato da Cristo.
Questo ci si aspettava anche in tale cubicolo, ma il rinvenimento del volto di Paolo proprio in uno dei tondi angolari della volta ha stravolto tutte le aspettative. Ci si è così dedicati al disvelamento degli altri tre clipei, dove in successione si sono rivelati i volti di due altri apostoli, uno particolarmente giovanile e l’altro dai tratti marcati (forse Giovanni e Giacomo), per scoprire nel terzo il canuto volto di Pietro. Per la prima volta nell’arte paleocristiana agli apostoli, e fra essi, primi fra tutti, i due principi degli apostoli, viene assegnata una postazione di così grande rilevanza; non accompagnatori di defunti, come in molti sarcofagi del IV secolo, né partecipanti al collegio liturgico presieduto dal Cristo, ma singole personalità che sovrintendono l’intero creato.
L’inatteso rinvenimento si situa nel corso di una lunga campagna di restauro intrapresa dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nell’unico cubicolo decorato della catacomba di Santa Tecla sulla via Ostiense. Lo stato di conservazione della decorazione risultava particolarmente compromesso fin dal primo rinvenimento, avvenuto in un’epoca anteriore al 1720. Fu opera di Marco Antonio Boldetti il quale, nelle Osservazioni sopra i cimiterj de’ santi martiri, ed antichi cristiani di Roma, riporta:  « Si osservarono diverse pitture, ma talmente guaste dal tempo, che non si può ravvisare cosa mai rappresentassero ».
Il cubicolo, rimasto interrato per secoli, era ampiamente ricoperto, soprattutto lungo la fascia inferiore delle pareti e lungo l’imboccatura del lucernario, da uno spesso strato di fango argilloso, che con il tempo si era indurito sino ad assumere un vero stato concrezionale; nella parte alta delle pareti e soprattutto sulla superficie piana del soffitto si concentravano gli spessi strati concrezionali che, come detto, offuscavano totalmente l’originale partito decorativo.
L’intervento ha preso avvio secondo le consolidate tecniche di pulitura tipiche degli ambienti ipogei, limitandosi a delicate e difficoltose operazioni meccaniche, tali da produrre soltanto un assottigliamento degli strati concrezionali. Con il procedere della pulitura, una prima difficoltà. Al di sotto delle incrostazioni calcaree è stata rinvenuta infatti una sottile patina nera confusa con un secondo strato scuro che traspariva al livello della pellicola pittorica:  inaspettatamente le raffigurazioni non erano state collocate sul consueto colore bianco dell’intonaco, secondo il più canonico repertorio catacombale, ma su uno sfondo scuro con qualche sfumatura verdastra richiamante i più antichi esempi pompeiani.
Il parziale svelamento delle superfici faceva intanto affiorare un ventaglio cromatico altrettanto insolito, mostrando una pittura corposa e ricca di velature e di sfumati che suggeriva un elevato livello qualitativo degli antichi artifices.
A un certo punto, però, i tradizionali sistemi di pulitura meccanica dovevano arrendersi davanti alla tenacia di alcune incrostazioni; e al pericolo di apportare danni alla pittura; in particolare il soffitto dell’ambiente, da cui iniziava a trasparire un complesso intreccio geometrico, era attanagliato da uno strato talmente aderente di materiale estraneo da rendere impossibile una pur parziale asportazione. Si era consapevoli ormai delle eccezionali qualità tecniche del complesso decorativo e i risultati raggiunti fino a quel momento non potevano ritenersi soddisfacenti. Si è pensato quindi di sperimentare l’innovativa tecnica dell’ablazione laser. Una scelta rivelatasi quanto mai proficua. La tecnica laser, che si distingue per limitata invasività e maggiore controllo, dimostra una risposta ottimale nel trattamento delle superfici decorate di ambiente ipogeo, grazie anche alle peculiarità tecnico-esecutive della pittura paleocristiana e alle particolari condizioni microclimatiche degli ambienti. Il perenne velo di condensa acquosa che attanaglia gli affreschi catacombali sembrerebbe infatti esercitare una funzione protettiva nei confronti del potente raggio luminoso, conferendo inalterabilità ai colori ed esercitando un’azione coadiuvante nella procedura di distacco delle sostanze sovrammesse alla pittura.
I risultati raggiunti, come i volti degli apostoli dimostrano, sono di qualità insperata, e l’impiego di questa rivoluzionaria tecnica di restauro nelle catacombe di Roma promette nuove sorprese.

(L’Osservatore Romano – 28 giugno 2009)

È la più antica icona di san Paolo (catacombe di Santa Tecla)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

L’affresco è stato scoperto il 19 giugno durante i restauri nelle catacombe romane di Santa Tecla coordinati dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

È la più antica icona di san Paolo

Tra i dipinti della fine del IV secolo nelle ultime ore è emersa anche la figura di san Pietro
di Fabrizio Bisconti

Venerdì 19 giugno. Mentre si procede a un lento e accurato restauro della decorazione pittorica di un cubicolo delle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, una sensazionale scoperta impressiona gli archeologi che seguono il lavoro da più di un anno. Nella mattinata il laser mette in luce il volto severo e ben riconoscibile di san Paolo, tra i più antichi e i più definiti che ci abbia consegnato la civiltà figurativa dell’antichità cristiana. Anzi, per le sue caratteristiche può essere considerato la più antica icona dell’apostolo finora conosciuta.
Il volto, circondato da uno sfavillante clipeo giallo oro su rosso vivo, emoziona per il suo graffiante espressionismo e appare come un’icona forte ed eloquente dell’Apostolo delle genti, un volto d’epoca, che ci accompagna verso quella missione che la Chiesa di Roma, tra il IV e il V secolo, affida alla figura di Paolo nella conversione al cristianesimo degli ultimi pagani.
 Altre immagini di san Paolo erano note nelle catacombe e nei sarcofagi romani, ma il busto appena scoperto meraviglia per la sua suggestiva espressione e ha lasciato senza fiato i restauratori, che hanno interrotto subito il loro lavoro, come intimiditi da quello sguardo antichissimo, da quella fisionomia che spuntando dall’oscurità della catacomba emoziona e folgora chi la contempla. Il giorno della scoperta, nonostante l’avvicinarsi del fine settimana, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra sono accorsi immediatamente presso il sito archeologico e hanno potuto verificare la straordinaria importanza della scoperta. Per questo, anche se il restauro è in corso, hanno deciso di anticipare la notizia del rinvenimento.
In questi giorni i restauratori hanno continuato il loro lavoro e hanno meglio evidenziato i tratti del busto dell’apostolo, ma hanno anche effettuato altre importantissime scoperte. E altre se ne prevedono per le prossime ore e per i mesi a venire. Il tondo di Paolo, infatti, si colloca nella volta del cubicolo, dove attorno al clipeo campito del Cristo Buon Pastore sono sistemati quattro altri tondi che accolgono, a loro volta, i busti di quattro personaggi. Tra questi sono ben riconoscibili quelli relativi a Paolo, appena scoperto, e a Pietro, riapparso proprio in queste ultime ore, mentre gli altri due, pur caratterizzati nell’età e nella fisionomia, potrebbero riferirsi ad altrettanti apostoli, ovvero a due santi intercessori o, infine, a due defunti.
Il volto più espressivo ed emozionante è sicuramente quello di Paolo, situato nel tondo posto a sinistra, rispetto all’ingresso. Dal momento che l’imago clipeata rappresenta una raffigurazione devozionale scelta dalla famiglia dei defunti per proteggere il loro cubicolo, il busto di Paolo può essere considerato la più antica icona dell’apostolo finora rinvenuta, nel senso che dal livello evocativo si passa a quello del culto.
L’immagine e gli altri clipei sono incastonati in un complesso e variopinto cassettonato, come se si volesse emulare il soffitto di un prestigioso edificio di culto.
Non dimentichiamo che a poche centinaia di metri si innalzava la celebre basilica dedicata nello scorcio del IV secolo all’Apostolo delle genti dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio, costruita sulla memoria apostolica, già monumentalizzata nel 324 da Papa Silvestro e voluta da Costantino. La basilica dei tre imperatori – come si diceva – mostrava forme più ampie, decorazioni più sontuose e fu portata a termine dal figlio di Teodosio, Onorio (395-423), come suggerisce il distico inserito nell’arco trionfale (Teodosius coepit, perfecit Honorius aulam + doctoris mundi sacratam corpore Pauli). Lungo la curva del medesimo arco correva, poi, un’altra iscrizione, che dava conto dei lavori intrapresi da Papa Leone Magno (440-461) al tempo di Galla Placidia, in seguito ai danneggiamenti dovuti a dei fulmini o a un terremoto avvenuto tra il 442 e il 443 (Placidiae pia mens operis decus homne paterni / gaudet pontificis studio splendere Leonis).
Ai lavori commissionati da Leone Magno dobbiamo riferire il programma decorativo che interessava l’intero edificio di culto che, come è noto, fu distrutto dal terribile incendio scoppiato nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823. Le riproduzioni dei disegnatori del passato – primi fra tutti quelli fatti eseguire dal cardinale Francesco Barberini nel 1635 e quelli preparati, alla fine del Settecento, da Seroux d’Agincourt – assieme ad alcuni esigui lacerti musivi relativi all’arco trionfale e alla serie dei ritratti dei Pontefici realizzati in pittura, ci permettono di ricostruire il programma decorativo della basilica monumentale sorta sulla tomba dell’Apostolo delle genti.
Ebbene, tornando al nostro cubicolo e alle scoperte di questi giorni, possiamo constatare alcune suggestive assonanze tra il progetto iconografico dell’ambiente funerario di Santa Tecla e quello, ovviamente più complesso e raffinato, della basilica di San Paolo. La serie di busti campiti nella volta del nostro cubicolo ricorda, infatti, quella che si snodava lungo le navate dell’edificio di culto della via Ostiense; il cassettonato dipinto nel soffitto può emulare quello che doveva decorare la navata centrale della basilica; i temi biblici e apocrifi che decorano le pareti e gli arcosoli dell’ambiente catacombale, già noti dalle scoperte degli ultimi mesi, possono rammentare, nell’impostazione e nella dislocazione, i quadri dipinti lungo le navate di San Paolo fuori le mura; il maestoso collegio apostolico o il Cristo in cattedra, dipinti nel vestibolo del cubicolo, possono alludere al tema teofanico che poteva svilupparsi nell’abside perduta della basilica, come pare suggerire l’atmosfera apocalittica e sospesa dell’arco trionfale, dove erano sistemati i quattro viventi, i vegliardi dell’Apocalisse, il volto nimbato e radiato del Cristo tra angeli  e, ancora, i principi degli apostoli.
A questo punto, si potrebbe pensare che il nucleo del programma decorativo della basilica ostiense, così come si definisce al tempo di Leone Magno, poteva essere già, in parte, realizzato nella basilica dei tre imperatori e che il cubicolo di Santa Tecla, commissionato da una personalità importante della società romana della fine del IV secolo – forse un nobile aristocratico, forse un ecclesiastico – riproponga, in scala minore, il progetto figurativo pensato per l’edificio di culto della via Ostiense.
Il volto di Paolo – che tanto ha emozionato i primi visitatori – presenta i caratteri fisionomici tipici del filosofo di plotiniana memoria, con un ovale asciutto, desinente nella scura barba a punta, il naso pronunciato, gli occhi maggiorati e fortemente espressivi, le tempie interessate da un’importante calvizie; la fronte attraversata da profonde rughe di atteggiamento. Tutte queste caratteristiche rimandano, in maniera più o meno puntuale, alle scarse notizie relative all’aspetto fisico di san Paolo. Se un veloce passaggio degli Acta Pauli et Theclae definisce l’apostolo piccolo di statura, con la testa calva, le gambe curve, un bel corpo, le sopracciglia congiunte e il naso un po’ sporgente, altri cenni di Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica, VII, 8-4), di Basilio Magno (Epistolae, 360) e Giovanni Crisostomo (Oratio in principes apostolorum, 1) riferiscono solo della bassa statura e del tipo filosofico, mentre Agostino lascia prima intendere che i ritratti di Paolo in circolazione erano pura invenzione iconografica (De Trinitate, 5-8), ma poi riferisce che una certa Marcellina carpocraziana, possedeva, per adorarle, le immagini di Gesù, di Paolo di Omero e di Pitagora (De haeresibus ad Quodvultdeus, 7).
Nelle nuove pitture scoperte nel cubicolo di Santa Tecla, come si diceva, appaiono ambedue i volti dei principi degli apostoli, definiti in tutte le peculiarità fisionomiche, che li caratterizzeranno nella civiltà figurativa tardoantica, bizantina e medievale e che giungeranno sino ai nostri giorni. Se, infatti, il volto di Pietro – purtroppo molto rovinato dal punto di vista conservativo – si impronta a una solidità fisionomica e a una potenza espressiva dai tratti marcati e decisi, anche se adesso poco giudicabili, con capigliatura ricca, candida, aderente al capo, l’ovale ampio, stereometrico, la barba corta e mossa, quello di Paolo sembra ricavato da un contrappunto e si propone con le sembianze di un pensoso e ispirato filosofo, dall’espressione esangue, sospesa tra inquietudine e serenità.
La compresenza di Pietro e Paolo nel soffitto del nostro cubicolo, seppure arricchita dalle altre due immagini per ora ingiudicabili, ci accompagna verso quello slogan della concordia apostolorum, ideato quale elemento determinante dell’ambizioso progetto politico-religioso della renovatio Urbis, pensato simultaneamente dalla propaganda imperiale e da quella pontificia, nell’ultimo scorcio del IV secolo e nei primi decenni del seguente, in perfetta sintonia con la cronologia dei nostri affreschi.
 Qui, come si diceva, la vecchia tematica paleocristiana si affianca a un nuovo repertorio, che si apre, ad esempio, ad accogliere la storia del miraculum fontis, che ha come protagonista l’apostolo Pietro, mentre disseta, con un miracolo, i suoi carcerieri, secondo quanto raccontano gli scritti apocrifi. La scena, dipinta nella parete d’ingresso, proprio in corrispondenza con il busto di Paolo, mostra Pietro dal volto ben definito e simile a quello ripetuto nella volta, mentre con un gesto solenne, fa scaturire l’acqua dalla roccia per dissetare un carceriere, dal copricapo e dalla tunichetta tipica dei soldati, che si inchina verso la piccola sorgente.
La compresenza dei principi degli apostoli nel medesimo complesso pittorico vuole ribadire la doppia apostolicità della Chiesa romana, che si affianca e forse vuole sostituire il concetto del primatus Petri, basato sul Vangelo di Matteo (16, 18):  Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam.
Il primato petrino viene attutito dalla nuova ideologia della concordia apostolorum a cui si è fatto cenno e che viene teorizzata proprio a fine secolo, in concomitanza con l’esecuzione delle nostre pitture. In questo periodo, sulla scia dell’epigramma damasiano dedicato agli apostoli, che tende a riequilibrare la memoria paolina, congiungendola a quella petrina e in concomitanza con la creazione del manifesto figurativo dell’abbraccio solidale tra Pietro e Paolo, si pronunciano anche i più autorevoli Padri della Chiesa. Primus Petrus apostolus, nec Paulus impar gratia est afferma un inno attribuito ad Ambrogio (De Sancti Petro et Paulo apostolis, PL, 17, 12-53); hic regnant duo apostolorum principes, alter vocatur gentium alter cathedram possidens primam sentenzia Prudenzio (Peristephanon, II, 459); nec Paulus inferior Petro dichiara Ambrogio in maniera più secca e persuasiva (De Spiritu Sancto 2, 156).
In questo motto del De Spiritu Sancto possiamo intravedere tutte le ragioni della riabilitazione e della tematizzazione della figura di Paolo, che assurge a immagine-simbolo di un cristianesimo che voleva farsi largo e penetrare tra gli intellettuali. In questa delicata e ardua conversione degli ultimi pagani, arroccati nelle grandi famiglie e negli ambienti senatoriali romani, la sofisticata figura dell’apostolo dei gentili, il doctor gentium, il vas electionis, il sapiens architectus, il magister scientiae diventa un elemento determinante, tanto che Peter Brown ebbe a definire i cristiani vissuti durante gli ultimi anni del IV secolo e gli inizi del seguente come la « generazione di Paolo ».
Il programma decorativo del cubicolo di Santa Tecla, con la presenza simultanea dei principi degli apostoli, si cala perfettamente in questa atmosfera politico-religiosa, che vede la lotta contro gli ultimi baluardi della resistenza pagana e assurge a traduzione figurata della doppia apostolicità di Roma, una sorta di manifesto, ma anche « un invito alla conversione dei pagani – come osservava Richard Krautheimer – un segnale che i tempi erano maturi per unirsi in una fede, che era stata fondata da Pietro, il pescatore, ma anche da Paolo, l’apostolo dai più alti compiti intellettuali ».

(L’Osservatore Romano – 28 giugno 2009)

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