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Il popolo del deserto….Pensieri durante un viaggio nel deserto dell’Esodo

dal sito:

http://www.hakeillah.com/2_09_14.htm

Israele

Il popolo del deserto

Pensieri durante un viaggio nel deserto dell’Esodo

 di Giovanna Fuschini

Nel Libro dei Numeri (Bemidbar ossia “nel deserto”) il deserto è lo scenario dove è ambientato il viaggio del popolo d’Israele, ma esso è anche il vero protagonista del libro e non solo sul piano metaforico.
È un deserto sconfinato, fatto di rocce modellate dal vento dei millenni; le pareti sono a strapiombo, le vallate aspre. Nelle diverse ore del giorno la luce mutevole disegna ombre misteriose sulle rupi, e vi mette in risalto inverosimili striature di colore nero, ocra, bianco, rosso; il cielo, sopra il deserto, di notte è così gravido di stelle da sgomentare, di giorno è vuoto, solo il calore vi sfolgora spietato. Nelle stentate oasi, gli alberi proiettano sui sassi un’ombra che non riesce a recare sollievo.
In questa difficile via fra monti infuocati e impervi, che percorre il sud della penisola del Sinai, è collocato dai più l’itinerario della moltitudine in fuga dall’Egitto e dalla schiavitù, di cui ci parlano le Scritture. Oggi una strada asfaltata percorre il deserto, passando accanto a luoghi che vengono fatti coincidere con le soste del popolo migrante narrate in Esodo: poco dopo l’attraversamento del canale di Suez, che oggi si effettua in tunnel, una piccola oasi, protetta da poche palme, reca il nome di Ain Musa e cioè sembra conservare il nome di Mosè, il ricordo antichissimo del suo passaggio. L’esistenza di due cisterne abbandonate ha fatto identificare la località vicina con la Mara biblica, dove gli Israeliti trovarono con gran delusione l’acqua salmastra.
In lontananza, navi in attesa di attraversare lo stretto, simili a miraggi nel deserto, sembrano solcare le dune.
Poi la strada sale verso le montagne. È una zona particolarmente brulla, dove il popolo di Mosè dovette giungere sfinito, assetato e affamato. Sappiamo che si alzarono proteste contro Mosè e Aronne: “… ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine?” Allora disse il Signore a Mosè: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo…”. Infatti la sera un grande stormo di quaglie migranti, portato dal vento del deserto, si abbatté sull’accampamento. Il mattino seguente il terreno era coperto di qualcosa di minuto e granuloso che gli Israeliti guardarono con stupore chiedendosi: che cos’è questo? Lo assaggiarono: aveva il sapore di focaccia col miele. Quel “cibo degli angeli” fu poi chiamato manna.
A Refidim Israele trovò un’oasi rigogliosa con abbondante acqua, appena in tempo perché Mosé non venisse lapidato dal popolo che cominciava a dubitare: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. E poco dopo i fuggiaschi dovettero affrontare anche un assalto di predoni del deserto, gli Amaleciti. E la strada continua a inerpicarsi sulle pendici di montagne sempre più selvagge, fra gole inquietanti, tanto che anche Mosè cadde in preda al timore: “Signore, se tu non camminerai con noi, non farci salire di qui…”. Ma il Signore passò accanto a lui come un alito di vento. Riconfortato, Mosè condusse il popolo fino al Sinai, dove lo fece accampare. Dopo tre giorni, era appena spuntato il mattino, la montagna cominciò a tremare, si udì un boato assordante come il suono di mille trombe e una nube nera si levò dalla cima del monte, fra folgori e baleni. Sul Sinai era sceso il Signore e parlava a Mosè con voce di tuono:… non ti farai idoli, non pronuncerai invano il nome del Signore, ricordati del giorno del sabato …
Molti pensano che il monte dove il Signore parlò a Mosè sia quello che oggi, presso il monastero di Santa Caterina, viene scalato di notte da turisti e pellegrini, ansiosi di giungere alla cima, per godere lo spettacolo del sole che spunta sul deserto. Certo questa desolata regione è una delle zone al mondo più soggette ai terremoti e in Esodo 19 abbiamo senza dubbio la descrizione più antica di un terrificante evento sismico. Ma Dio può parlare all’uomo anche attraverso eventi naturali, può terrorizzarlo con l’esplosione di un vulcano, può ridargli speranza tracciando nel cielo una luminosa scia di colori, oppure può fargli sentire la sua presenza con un leggerissimo fruscio di vento nel silenzio, come accadrà al profeta Elia alcuni secoli dopo, proprio in questo stesso deserto.
Però i profughi israeliti non erano ancora pronti a percepire una voce divina così fievole; e, mentre Mosè intraprendeva il suo dialogo con Dio in solitudine sul monte, essi pretesero un dio accessibile, meraviglioso, luccicante d’oro, come ne avevano visti in Egitto… Aronne comprese la loro esigenza di uomini limitati e concesse l’idolo. Tutti ricordano l’ira tremenda di Mosè al suo ritorno nell’accampamento, ma forse non si riflette abbastanza sull’atteggiamento che Mosè assunse davanti a Dio, il quale voleva distruggere tutto quel popolo irriconoscente e infedele: “Signore, perdona loro, se no cancellami dal tuo libro”. E Dio si convinse che valeva ancora la pena tentare, se a capo di Israele c’era un così strenuo intercessore.
Da qui l’itinerario dell’antico Israele, narrato in Esodo, si perde nel deserto. È il Libro dei Numeri, il Bemidbar,che si incarica di raccogliere e unificare alcune tradizioni confuse: il passaggio per l’attuale zona di Eilat, la permanenza nella valle di Kadesh Barnea, ricca di sorgenti, il deserto di Paran, il monte Seir… Dal Sinai verso est si scende per stretti canaloni che diventano poi vallate più ampie, veri e propri wadi. Si tratta di zone che ai tempi di Mosè erano battute da carovane provenienti da Canaan e dall’Arabia, dirette in Egitto e viceversa.
Oggi, presso qualche sorgente disseccata, si riconoscono antichi luoghi di sosta: sulle rocce spiccano ancora graffiti e iscrizioni o disegni di cammelli stilizzati che circoscrivono lettere di un alfabeto indecifrabile. Si tratta forse di segnali, di indicazioni che i carovanieri lasciavano per comunicarsi distanze, giorni di cammino, oppure quei graffiti sono segni di riconoscimento fra tribù migranti, quasi appuntamenti fra nomadi del deserto per ritrovarsi accanto a un pozzo, per raccontarsi nella notte, attorno a un fuoco, antiche storie, e tramandare così nomi, leggende, costumanze… .
Le rocce lavorate dall’acqua e dal vento assumono aspetti ingannevoli, sembrano strane fortezze. Fra queste antichissime strutture geologiche, cumuli di pietre (resti di primitivi luoghi di culto) si alternano a pozzi attorno ai quali oggi i beduini piantano le loro tende nere o si costruiscono semplici casette cubiche colore del deserto; qui le donne tutte vestite di nero vendono fossili e piante medicinali raccolte vicino alle sorgenti, gli uomini fanno pascolare asini e capre, abbeverano cammelli. Qua e là posti di blocco militari segnalano la presenza di confini malsicuri.
Attraverso questi luoghi si snoda il resto del viaggio dal Sinai al Giordano, descritto nel Bemidbar. Ormai Dio, nonostante continue mormorazioni e ribellioni, nonostante l’ostilità di popoli come Edomiti e Amorrei che si oppongono all’attraversamento delle loro terre, nonostante i morsi dei serpenti velenosi, conduce il suo popolo verso la terra promessa.
E molti cominciano a morire: Miriam spira presso le sorgenti di Kadesh, Aronne tra le rosse pareti rocciose di Petra, che già al tempo dell’Esodo accoglievano una primitiva necropoli. Nessuno di coloro che avevano vissuto con Mosé l’epopea della traversata del Mare delle Canne arriverà alla terra promessa. Neppure Mosè potrà entrare in Canaan. Egli muore sul monte Nebo, sulla cui vetta, che si affaccia sul fiume Giordano, oggi è stata costruita una balconata di legno ed è stato apposto un cartello recante le distanze dai più importanti luoghi santi, perché i pellegrini possano immedesimarsi meglio negli Israeliti di tremila anni fa, giunti quasi alla meta, ma qui fermati da un arcano divieto. Di qui lo sguardo spazia su tutta la valle del Giordano. Fra le nebbie compare l’agglomerato di Gerico, a volte si può indovinare perfino Gerusalemme. È una visione che ci parla del dolore di Mosè, per i tanti anni trascorsi nel deserto ubbidendo a una voce interiore, per la morte che sente arrivare senza aver portato a termine il suo compito.
È interessante conoscere le ricerche sul periodo storico in cui è collocato l’Esodo, ricerche che impegnano molti studiosi nella fase attuale dello studio biblico. Fra tali ricerche si inserisce l’indagine sulla vera etnogenesi di Israele, e sulla evoluzione della sua religione. Oggi alcuni storici tendono a superare l’idea, di diretta ispirazione biblica, della fuga dall’Egitto e della conquista militare di Canaan; prevale invece la teoria di una sedentarizza­zione di gruppi pastorali già presenti nell’area e di infiltrazioni di tribù nomadi dall’adiacente deserto, nell’ambito della grande crisi politica che si verificò nel passaggio dall’età del bronzo all’età del ferro.
Ancora più importante per l’autoidentificazione di Israele è, secondo altri storici, l’evoluzione religiosa dall’arcai­ca fede in El, divinità considerata da molti di origine cananea, al puro monoteismo verso il. Dio tetragrammato. Questa evoluzione è influenzata dall’apporto dei culti agricoli e pastorali dei popoli circostanti, ma anche accompagnata dalla spasmodica ricerca di una differenziazione dal contesto sociale in cui il popolo di Israele si inserisce.
In questa complessa analisi trova spazio anche una più recente teoria: sulla base di analogie tra Genesi e cosmogonia egizia, fra alfabeto ebraico e geroglifici, fra nomi di patriarchi e nomi di faraoni, alcuni hanno creduto di poter attribuire la formazione del nucleo originario del popolo eletto a profughi dell’antica capitale di Ekhnaton, il faraone monoteista.
Chi percorre oggi l’itinerario dell’Esodo rimane suggestionato dall’aspetto maestoso, religioso di quel deserto e non può fare a meno di pensare che proprio qui, nel paesaggio sconfinato e strabiliante del Sinai, fra queste vertiginose montagne, il popolo in fuga abbia sentito aleggiare lo spirito di Dio come nell’abisso primordiale. Abi­tuati agli angusti spazi delle loro casupole da schiavi, ai vicoli maleodoranti, ai fossi dove pestavano l’argilla e la paglia per i mattoni del faraone, i figli di Israele si trovano improvvisamente in spazi sconfinati, sconosciuti; sono liberi, ma sperduti, indifesi, cercano qualcosa a cui ancorarsi.
Ecco allora che le strane e maestose montagne di quel deserto suggeriscono un’astrazione della Divinità, l’idea di una inaudita trascendenza. Certe imponenti pareti rocciose possono far pensare alla potenza delle “spalle di Dio” che balena per un attimo nella mente di Mosè. Forse è questo che fa recuperare a Israele il primitivo nome divino di El S_addaj, (per alcuni: il Signore della montagna), nome già usato dai patriarchi. Ma questo Signore del de­serto è troppo impenetrabile per menti ancora legate all’idolatria, spesso è muto, a volte è ostile.
Una cosa che infonde maggior sicurezza a Israele nel deserto è dare una dimensione al tempo, in quell’immensità infìda dello spazio. È forse così che nasce l’idea della ciclicità dei giorni della settimana, col ritorno continuo del sabato sacro, a concludere e ricominciare il ciclo. E allo stesso modo vengono stabilite anche le date delle feste, delle radunanze, i giorni di riposo, l’inizio del nuovo anno con la celebrazione della Pasqua, cioè la liberazione dalla schiavitù; insomma è nel deserto che gli Israeliti assumono per patria il tempo piuttosto che lo spazio, come è stato detto.
E, dopo lunghe giornate di marcia, quando la sera si siedono attorno a un fuoco, reca loro conforto ascoltare i poeti e i cantori. Allora il silenzio è interrotto solo da voci che raccontano l’affascinante epopea dei padri.
Insomma, benché le teorie di certi studiosi moderni tendano a limitare,o addirittura a cancellare l’esperienza del deserto, essa non può essere impunemente eliminata dalla storia primitiva di Israele. Non si potrebbero spiegare, altrimenti, i segni indelebili lasciati su questo popolo dalla vita nel deserto, come il singolare culto dei morti con l’omaggio di sassi alle sepolture, la dimensione sacra del tempo, il senso rigoroso della trascendenza, il valore della memoria e, soprattutto, il potere del sogno, che nel tempo ha aiutato gli Ebrei a elevarsi al di sopra delle afflizioni della realtà e ad attendere sempre una superiore salvezza.

Giovanna Fuschini    

Faccia a faccia con l’impero (anche Pietro e Paolo) (O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/218q04b1.html

Faccia a faccia con l’impero (Romano)

(anche Pietro e Paolo)

(L’Osservatore Romano 22 settembre 2009)

di Timothy Verdon

Tra le sorprese che una visita, anche sbrigativa e superficiale, riserva al turista in Vaticano è la scoperta di un paradosso:  del fatto cioè che il cristianesimo è nato praticamente assieme all’antico impero romano. L’evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che « in quei giorni un decreto di Cesare Augusto – cioè del primo imperatore romano – ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra » (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d’origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce.
Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell’impero, e « ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani » (Atti, 11, 26).
La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41. Nel 49 Claudio espelle da Roma « i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo) », come racconta confusamente lo storico romano Svetonio:  Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto:  un certo Aquila, « arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei » (Atti, 18, 2).
Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati « una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa », come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all’anno 64:  Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.
Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l’attenzione dell’imperatore. Dalla frase di Svetonio, si capisce che i « tumulti » che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come « il Cristo », il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. Dire « comunità giudaica » non implica tuttavia un gruppo chiuso:  Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell’odierna Turchia. Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell’impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l’impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede.
Nonostante l’espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare – tra molti amici e conoscenti – anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). E quando, poco dopo, l’apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, « i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne » (Atti, 28, 15).
E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile. Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli « espulsi » sotto Claudio nel 49. Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas.
Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l’incendio del 64. La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l’antica capitale non erano ancora realizzati:  il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. Ma c’erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia:  san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana.
Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all’antico foro con l’aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi. Il gusto dello spettacolo risaliva all’era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell’era cristiana. Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell’area urbana antica:  il cosiddetto campus martius o « campo di Marte », che nell’epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte – l’Altare della Pace, l’Orologio solare e il Mausoleo di Augusto – costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue.
I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo – vicino all’attuale Campo dei Fiori – inaugurato nel 55 prima dell’era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell’era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell’era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori.
Più grandi ancora erano le strutture adibite ai corsi di cavalli e di bighe:  il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l’incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone. In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull’altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa:  appena 323 metri per 74! Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell’impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma. Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l’emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana.

Le montagne di Dio nella bibbia e nelle religioni non cristiane: Osanna nelle alture

dal sito:

http://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?azione=det&id=2632

Le montagne di Dio nella bibbia e nelle religioni non cristiane
 
Osanna nelle alture
 
In quasi tutte le religioni il monte, a motivo della sua altezza e mistero di cui è circondato, è ritenuto il punto in cui il cielo incontra la terra. Ogni paese ha il suo monte santo, dove abitano le divinità da cui viene la salvezza. La bibbia ha conservato tali credenze, ma le ha purificate.
T ra tutti i fenomeni della natura la montagna come luogo sacro e seducente ha sempre affascinato gli uomini. Essa è considerata in modo del tutto particolare luogo delle ierofanie, delle manifestazioni del sacro. Fin dai tempi più remoti, in quasi tutte le religioni e in tutte le civiltà si credeva che l’altitudine avesse una virtù consacrante, che le regioni superiori fossero sature di forze sacre.
Tutto quello che più si avvicinava al cielo, partecipava con intensità variabile alla trascendenza. L’altitudine (monti, cime, colline, alture) veniva assimilata al trascendente, al sovrumano, punto d’incontro del cielo e della terra, simbolo della presenza del sacro e dell’ascensione umana verso Dio.

NEL MONDO BIBLICO
Le montagne hanno un compito importante nelle vicende del popolo d’Israele. Non sono solo menzionate come luoghi geografici; hanno anche un valore simbolico. Sono pieni di sacralità, producono determinati effetti religiosi, diventano luoghi di culto dai quali si rende gloria a Dio. Per tutti questi motivi i monti sono l’abitazione di Dio: «Dio ha scelto a sua dimora il monte di Basan, il monte delle alte cime; il Signore lo abiterà per sempre» (Sal 67, 14-17).
Nella bibbia, specialmente là dove si narrano gli avvenimenti più antichi del popolo ebraico, moltissimi luoghi di culto si trovano sulle «alture», parola che traduce il plurale ebraico bamôt, luoghi normalmente situati sulla cima di una collina o di un monte, dove Dio abita e si rivela:  dal monte Ararat, sulla cui cima l’arca di Noé si arenò dopo il diluvio e dove Noé offrì olocausti al Signore (Gn 8, 1-22), al monte Sinai, il cuore dell’Esodo, la montagna «tutta fumante, perché su di essa era sceso il Signore nel fuoco» (Es 19,16-20).
Anche il Dio d’Israele, Jahvè, è sovente collegato strettamente alle montagne sacre. «Il loro Dio – dicevano gli aramei degli israeliti – è un Dio delle montagne, per questo ci sono stati superiori» (1Re 20,23).
I monti Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion erano per eccellenza di Jahvè, gli appartenevano. In Sion era la cittadella di Dio, che dava sicurezza al suo popolo; era il monte santo, la dimora di Dio, la città del grande Sovrano (Sal 47,2-4; 52,7; Is 62,5). Su di esso abitava la magnificenza di Dio e da esso veniva «il mio aiuto» (Sal 120,1-2). Lo salirà solo «chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna e non giura a danno del suo prossimo» (Sal 23,3-4).
Il monte Sinai rappresenta ed è veramente il cuore di tutta la vicenda del popolo ebraico. È il monte della rivelazione di Dio e dell’alleanza con il suo popolo, è il monte Oreb della tradizione elohista e deuteronomista. Prima della grande teofania sul monte Sinai, Mosé si tolse i sandali dai piedi, «perché il luogo sul quale tu sali è una terra santa» (Es 3,5). Da Jahvè ricevette l’ordine di fissare tutto intorno al monte un confine. Nessuno doveva salire sul monte e neppure toccarne le falde (Es 19,12). Dopo questi avvertimenti, Jahvè parlò al suo popolo da un fuoco in mezzo al cielo, senza vedere alcuna figura, ma solo una voce (Es 20,22; Dt 4,12-18).
Nel racconto del Sinai hanno un particolare valore simbolico le espressioni come fuoco, fulmine e tuono. Sono immagini che sottolineano la potenza della parola di Dio. Così pure, tenebre, oscurità, nuvole e pioggia indicano il nascondimento di Dio. Il suono dei corni e delle trombe rinviano alla liturgia che si celebrava a Gerusalemme, sul monte Sion, dove Jahvè voleva essere sempre presente.
I monti sono il luogo delle manifestazioni di Dio anche  nel Nuovo Testamento. È il caso dell’alto monte delle tentazioni di Gesù (Mt 4, 8-10; Lc 3, 5-8). Su un’altra montagna, rimasta senza una precisa connotazione geografica, ma non certo priva di un linguaggio simbolico, quello del Sinai, Gesù fece il discorso delle beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Sul monte Tabor avvenne la trasfigurazione, benché molti esegeti pensino a una diversa montagna, quella dell’Ermon.

TRA GLI ANTICHI POPOLI MEDIORIENTALI
Molte forme del culto delle alture furono mutuate, specialmente durante l’epoca dei re, dalle popolazioni con cui gli ebrei nel loro peregrinare vennero a contatto, dalla Mesopotamia all’Egitto, dai sumeri agli ittiti, soprattutto dai cananei, che esercitarono una notevole influenza sulle tradizioni religiose ebraiche.
Il dio Baal di Ugarit, città sulla costa della Siria, che costituisce per noi la migliore testimonianza della civiltà cananea più antica, viene menzionato molte volte nella bibbia. Era il dio della tempesta, del tuono, dei fulmini, della pioggia, della fertilità e della fecondità, e come tale fu protagonista di un grande ciclo mitologico. Sua dimora era il Monte Lapanu, visibile da Ugarit con la sua cima avvolta dalle nubi.
Assai popolare in Canaan, il dio Baal costituì una tentazione permanente per Israele e Israele ne subì il fascino, così come accadde di fronte alle tradizioni religiose della civiltà egizia, babilonese e altre ancora.
La cosmogonia egizia esordisce con l’affiorare di un’altura dalle Acque primordiali. L’apparizione di questo «primo luogo» al di sopra dell’immensità delle acque significa l’emergere della terra, ma anche della luce e della vita. A Heliopolis la località chiamata «Collina della Sabbia» era identificata con la «Collina primordiale». Di fatto ogni città, ogni santuario, era considerato un «Centro del mondo», luogo in cui aveva avuto principio la creazione. L’altura primordiale talvolta diveniva la Montagna Cosmica, sulla quale il faraone saliva per incontrare il dio sole.
Per i cananei gli oggetti più comuni che rappresentavano simbolicamente la divinità erano le massebe (massebôth) e le ascere (asherim). Le massebe erano stele o cippi o pilastri, ritti, alti, stretti, rozzamente levigati, spesso con qualche emblema raffigurante la mascolinità, quando si trattava di pietre dedicate a un dio, o la femminilità, quando il cippo doveva raffigurare una dea. Non vi era, si può dire, «altura» (bamôth) in terra di Canaan senza una o più massebe.
Nell’area indoiranica
Il tema della montagna come luogo abitato dalla divinità è evocato anche nella religione dell’antico Iran. I persiani usavano salire sulle più alte vette dei monti per offrire i sacrifici al loro dio. Questo fatto indica come nell’ideologia religiosa iranica le montagne avessero un posto molto importante. Ai monti si elevavano lodi e nel calendario zoroastriano il ventesimo giorno del mese era consacrato alla Terra, alle montagne e allo Khvarenah. Dietro questa concezione stava l’idea di una montagna cosmica come Axis Mundi, comune a tutta l’area indoiranica.
Al centro del mondo gli iranici collocavano il picco della grande catena montuosa dell’alta Hara, così come gli indiani dell’India ponevano il monte Meru, la vetta più alta della catena Lokaloka. La cima della Hara e il monte Meru (sameru nella cosmografia buddista) erano collocati «al centro di un continente o di una regione, Khavaniratha in Iran o Jambudvipa in India, a sua volta circondato da altri sei continenti o regioni, come sei grandi porzioni circolari in cui si suddivideva la terra».
In India la natura nel suo complesso è concepita come vibrante di vita: alberi, rocce, montagne, acque e cascate sono centri di forza per il sacro, e diventano santuari dove i fedeli trovano e danno senso alla loro esistenza. Le montagne e le foreste parlano agli indiani delle potenze divine che contrastano gli sforzi umani, e richiamano così alla loro mente la lotta che si svolge tra il bene e il male, tra le potenze divine e quelle demoniache.
Il mito di una montagna, di un albero, di una scala o di una corda, che collega la Terra al Cielo come Axis Mundi, lo si ritrova anche nelle religioni dell’Asia centrale e settentrionale. Antichissima è l’idea che il monte meriti venerazione come centro di forza della terra e che la terra viva là dove si solleva. Il «monte del mondo» che emerse dalle acque del caos primordiale, e sulla cui sommità troneggia En-lil, è il simbolo della terra per i babilonesi e ha la sua immagine nelle ziqqurat, torri a gradoni che s’innalzavano verso il cielo, come la torre di Babele (Gen 11,1-9). Si credeva infatti che la ziqqurat poggiasse la sua base sull’ombelico della terra e toccasse il cielo con la sommità e che come tale fosse un monte cosmico, un’immagine simbolica e viva del cosmo.
tra i popoli africani
Abitate dagli dei o venerate come divinità sono soprattutto le montagne vulcaniche e quelle coperte di nevi perenni, come il monte Kenya e il Kilimangiaro in Africa o l’Aconcagua e i picchi più elevati della Cordigliera delle Ande nell’America meridionale. «Gli uomini abitano nella valle, sui monti dimorano gli dei», dicono le popolazioni che vi abitano. Presso i popoli antichi esisteva la credenza che la terra vivesse là dove si sollevava.
La montagna, associata alla divinità e al simbolismo ascensionale celeste come evocazione della presenza di Dio, è tipico soprattutto dei popoli pastori, per esempio i masai, ma anche degli agricoltori, come i kikuyu del Kenya e gli yoruba della Nigeria. La montagna domina infatti il paesaggio. Da qualsiasi punto della pianura, della steppa o della savana, si vede la sua sommità. Essa emerge nella luce quando la terra è nell’ombra ed evoca l’elevazione dell’anima a Dio. Il culto a Dio può svolgersi sulla montagna oppure rivolto a essa. Su di essa si formano i temporali: il tuono che è voce del cielo e le piogge che distruggono o vivificano. Si deve però sottolineare che la montagna di per sé non raffigura Dio; essa non fa che evocare l’esperienza di una presenza trascendente il mondo e l’uomo.
Nell’Africa del sud alcune colline sono note come luoghi dove vive la divinità. Su di esse non pascola il bestiame e la gente raramente vi sale. «Solo quando imploriamo la pioggia saliamo su questa altura. Saliamo in silenzio, pieni di timore, tenendo gli occhi abbassati e camminando con umiltà. Non parliamo, perché colui alla cui presenza ci troviamo è terribile».
in america latina
Le popolazioni montane delle Ande vedono in Pachamama, la Terra Madre, la fonte e la protettrice della vita. Sulle cime alte innevate vivono gli spiriti Apu, «signori», che controllano ogni cosa. Gli spiriti delle cime più basse sono detti Anki e non sono potenti come gli Apu. Sia gli Apu che gli Anki portano il nome della montagna o collina su cui vivono. Essi sono gli dei principali della popolazione delle Ande.
Gli aztechi del Messico veneravano la grande montagna Iztacihmath (donna bianca) e il suo compagno Popocatepetl (montagna fumante); i tlascaltechi la montagna Matlalcueye (veste azzurra), ora chiamata Malinche.
Nel mese decimoterzo del loro calendario celebravano la festa dei numi delle montagne, rappresentati da quattro donne e un uomo; ognuno di essi, durante la festa e prima di essere sacrificato, portava il nome della sua divinità, ossia Tepechoch, Matlalquac, Xuchitecatl, Mayahuel e Minohuatl.
in asia centro-orientale
I monti più sacri sono, a seconda della tradizione religiosa del luogo, l’Olimpo in Grecia, il Fuji in Giappone, il Kailaš in India, i Monti Altai (mongolico: Ultain Ula, montagna d’oro) e i Monti celesti (Tängri Dag Tien Cian) nell’Asia centrale.
A Tängri, un nome che indicava sia il dio dei mongoli sia il cielo azzurro, venivano indirizzate preghiere di oranti solitari che s’inchinavano al suo cospetto sulle cime delle montagne, mentre in suo onore si bruciava incenso di ginepro. L’antica religione del Tibet si chiama bön. A somiglianza di molte religioni ritiene che le montagne, come il Kangchenjunga, siano la dimora degli dei.
Anche in Giappone lo shintoismo ha considerato oggetto privilegiato di venerazione le montagne, ritenute abitazione delle divinità o kami. Dallo shintoismo deriva l’amore che i giapponesi hanno per la natura, per la bellezza del paesaggio e la maestosità delle montagne, fonte di riconoscenza verso i kami e di godimento estetico.
Molte sono le montagne che ospitano santuari sulla loro cima. Famosissimo è il monte Fuji, una sorta di simbolo religioso della nazione. Secondo un’antica tradizione, Amaterasu, la dea solare, l’augusta dea che illumina il cielo, mandò suo figlio a governare le isole giapponesi. Egli sposò la figlia del Monte Fuji e un nipote divenne il primo imperatore del Giappone. Una delle principali correnti religiose scintoiste, la Jikko, rivolgendosi al Monte Fuji, prega per il bene e la continuità della famiglia imperiale, l’esistenza della nazione e l’assistenza divina nell’adempimento del proprio dovere.
Il culto delle montagne incoraggiò anche uno dei movimenti sincretistici più affascinanti della storia della religione, il movimento shugendo, che fuse insieme buddismo e shintoismo.
Proveniente dalla Corea e dalla Cina, il buddismo in Giappone è datato dall’inizio del VI secolo d.C. Nell’805 circa, sul Monte Hiei, vicino alla nuova capitale Kyoto, sorse uno dei più importanti insediamenti buddisti, che s’ispirava alla scuola cinese t’ien t’ai. Quasi subito dopo sul Monte Koya, a sud di Kyoto, fu fondato un altro insediamento che si ispirava al buddismo shingon, la scuola istituita dal monaco Kukai (744-835), venerato come un santo.
Gli esempi segnalati non esauriscono il tema della montagna come abitazione della divinità. Sono comunque sufficienti per dimostrare una certa omogeneità d’ispirazione religiosa, un comune linguaggio sacrale, portatore di una comune nozione circolante fra i popoli del vicino Oriente nel II-I millennio prima di Cristo e diffusa in molte altre civiltà, anche se formulata in modo diverso a seconda delle tradizioni religiose. Questo fatto ci introduce in una comparazione storico-culturale e apre una prospettiva larghissima su orizzonti di gran lunga più vasti di quello del mondo ebraico, sui quali ci siamo soffermati brevemente.
Ci si potrebbe per esempio chiedere se il Dio che abita le alture sottintenda il classico «monoteismo biblico» o semplicemente la nozione di un «essere supremo», quale si riscontra sulla maggior parte delle religioni tradizionali. La pura e semplice affermazione dell’esistenza di un rigido monoteismo del Dio delle alture va certo almeno in parte ridimensionata, sia perché non vanno dimenticate le influenze della civiltà egizia, mesopotamica e specialmente cananea sulla religione ebraica, sia perché non si possono trasferire in blocco nell’idea di Dio propria della nostra civiltà occidentale, elaborata nell’Antico Testamento, passata nel Nuovo e poi definita chiaramente in seno al cristianesimo.
Così pure ci si potrebbe interrogare sugli attributi del Dio delle «alture», come l’onniscenza nella sua forma divina o magica. Le due forme sembrano talvolta coesistere nella stessa figura del Dio delle alture, all’interno di concezioni diverse a seconda dei gradi di civiltà dei popoli della terra: nomadi, pastori, cacciatori, agricoltori. 

Di Giampiero Casiraghi

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=4602

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case
 
di Andrea Lonardo

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano.
Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo:
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano.
Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo.
Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella dei Sechenon (termine greco di non univoca interpretazione).
Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere.
Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano).
Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi.
Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’Urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa.
Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la chiesa di Santa Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni.
Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri.
È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis.
Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35).
Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi.
Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

20 marzo 2009

I sotterranei di Santa Maria Maggiore a Roma: catacombe moderne e misteri antichi

dal sito:

http://www.archeorivista.it/003184_i-sotterranei-di-santa-maria-maggiore-a-roma-catacombe-moderne-e-misteri-antichi/

I sotterranei di Santa Maria Maggiore a Roma: catacombe moderne e misteri antichi

Autore: Romano Maria Levante

Immagini sul sito:

La visita agli scavi sotto la prima Basilica cristiana dà inizio ai “venerdì di Archeorivista”, un appuntamento settimanale ai lettori con i ritrovamenti e i misteri dei reperti dell’antichità, che in Santa Maria Maggiore vede riassunti tanti motivi di particolare interesse e di indicibile fascino.

Nulla di catacombale si preannuncia nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore a Roma nel centralissimo rione Esquilino, nelle vicinanze della Stazione Termini in una zona con altre preesistenze e basiliche di grande pregio storico e artistico, da Santa Prassede a San Martino ai Monti. Si erge maestosa nella sua bellezza monumentale, con la deliziosa loggia delle benedizioni all’esterno affrescata in alto, le imponenti scalinate semicircolari di accesso dai due lati in basso.

La leggenda e il mistero della Basilica Liberiana

Ma entrando nella sua storia leggenda e mistero formano una miscela intrigante, c’è anche una nevicata il 5 agosto a Roma e una basilica costruita per celebrare l’evento su disposizione del papa Liberio con la liberalità del patrizio Giovanni; ad entrambi la Madonna avrebbe annunciato in sogno il prodigio della neve d’agosto sull’Esquilino dove si incontrarono tra la folla accorsa e il papa disegnò sulla coltre bianca i confini della chiesa. Si era tra il 352 e il 358, la basilica divenne realtà e ogni anno si celebra l’evento leggendario in Santa Maria Maggiore il 5 agosto con una pioggia di petali bianchi nella Cappella Paolina. Dalla leggenda al mistero il passo è breve, perché la Basilica Liberiana non corrisponde a quella attuale costruita tra il 432 e il 440 da papa Sisto III, iniziando l’anno dopo il dogma della maternità divina della Madonna proclamato nel Concilio di Efeso del 431.

“Liberio fecit basilicam nomine suo iuxta Macellum Liviae” la fonte ne indica così l’ubicazione, ma non sono state trovate tracce nella zona, di qui il mistero della sua “scomparsa”. E’ la prima grande basilica cristiana di Roma, dopo l’editto di Costantino del 313, in precedenza i luoghi di culto erano messi a disposizione dai membri della comunità per radunarsi, non essendovi esigenze di carattere rituale né architettonico, bastava riunirsi per trasmettersi il messaggio in sedi private. La basilica paleocristiana di papa Sisto fu fondata un secolo dopo sulla sommità nord dell’Esquilino.

I motivi di interesse di questo primo “venerdì di Archeorivista”

Per questa sua primazia, alla quale si unisce l’attrazione della leggenda e del mistero, abbiamo voluto iniziare i nostri “venerdì di Archeorivista” da Santa Maria Maggiore. Nei suoi sotterranei possiamo trovare i principali motivi di interesse e il fascino tutto particolare della fruizione di beni culturali e memorie del passato che regala l’archeologia allorché si visitano i siti e l’arte antica.

Abbiamo detto venerdì scorso, nel commentare l’indagine dell’Associazione Civita sul pubblico dell’archeologia, che mentre dinanzi alle opere d’arte si è presi soprattutto dalla bellezza e dall’emozione al cospetto di rappresentazioni suggestive dove c’è da decifrare soprattutto lo stile e la peculiarità dell’artista, nel sito archeologico il fascino è dato da quello che non si vede ma si intuisce perché ad esso fanno risalire gli indizi visibili in quanto supportati da fonti storiche, induzioni e anche supposizioni aperte a tutti.

Ci si trova a investigare e fare ipotesi ad alta voce e, quando la visita, come di solito, avviene in gruppo diventa un gioco coinvolgente, animato e partecipato. Tutto questo abbiamo riscontrato nella visita ai sotterranei di Santa Maria Maggiore, dove gli scavi con i reperti archeologici penetrano tra le fondamenta della maestosa cattedrale. Ci siamo aggregati al gruppo dell’Associazione culturale Info.roma.it, che organizza di continuo visite guidate nei siti archeologici e nelle chiese, nei palazzi e negli altri infiniti luoghi d’arte romani, con la dottoressa Adelaide Sicuro, archeologa accompagnatrice del gruppo, che dosa certezze e ipotesi riuscendo ad acuire l’interesse e a superare le eventuali delusioni iniziali rispetto ad attese non corrisposte.

La prima è stata lo scoprire che l’assetto catacombale del sito non dipende da vere e proprie catacombe, anche se siamo nella zona dove si trovava la necropoli dell’Esquilino, in un bosco sacro nel punto più alto della città, e se ne sentiva la presenza nell’aria, per così dire. La zona era inclusa solo parzialmente nelle Mura Serviane, in particolare per le Ville di Mecenate, vi erano parecchi luoghi di culto pagano, in particolare per Giunone Lucina che presiedeva alle nascite: per la fertilità e per prepararsi al parto ci si rivolgeva alla dea invocandola a mezzo di riti popolari con corse di giovani sotto i colpi della sferza. La zona, degradante verso la Suburra, continuò ad avere grandi orti e in parte fu urbanizzata. E’ attraversata dall’attuale Via Urbana, asse stradale di allora. Secondo alcune ipotesi la basilica nel nome della Madonna avrebbe potuto contrastare, con la sua immagine di Madre e con la natività divina, l’antico culto pagano legato a fecondità e maternità.

Abbiamo chiamato i sotterranei catacombe moderne perché in qualche modo le richiamano, trattandosi di cunicoli che si aprono in anditi e girano lungo il perimetro della Basilica creando dei sostegni. Nella loro modernità c’è il merito di essere stati il frutto di scavi decisi per un motivo funzionale: consolidare il sottosuolo per l’assetto statico e creare un’intercapedine intorno in modo da ridurre l’eccessiva umidità proveniente dal terreno essendo le fondazioni e le mura dell’edificio addossate alla collina; umidità tale da minacciare il prezioso pavimento cosmatesco della Basilica.

E’ vero che sin dal ‘700 si parlava di resti romani sotto la costruzione, ma non si era andati oltre queste sensazioni fino alle indagini e ai primi lavori del 1930-31 allorché si ebbero delle conferme; soltanto i lavori compiuti tra il 1964 e il 1971 per volontà di Paolo VI hanno portato a bonificare 1500 metri quadri di sotterraneo, i due terzi della superficie, di cui 500 per il Museo della Basilica.

Quindi un vasto scavo perimetrale senza che si sia andati sotto al corpo centrale. E sono stati proprio questi lavori a far venire alla luce reperti di notevole interesse che risalgono ad epoca anteriore alla realizzazione della Basilica cristiana, oltre a resti umani trovati nel sottosuolo.

Spiegato il senso delle catacombe moderne restano i misteri antichi del nostro titolo, ma questi non li possiamo conoscere all’inizio della visita, si dipaneranno nel corso della stessa con le notizie che l’archeologa Adelaide Sicuro dispensa dosandole con accortezza per creare un clima che presto va oltre l’interesse culturale. Il “corpus “completo di notizie lo dobbiamo alla cortesia del Prefetto del Museo della Basilica Papale, monsignor Michal Jagosz, a lui dobbiamo anche le immagini.

(I reperti visibili – immagini sul sito)

Innanzitutto i reperti visibili, due muri di “opus reticulatum” di un grande edificio romano. risalente al I secolo avanti Cristo fino all’età di Cesare, resti di un ambiente con delle nicchie e apparati di riscaldamento con parti di muro recanti dipinti e tracce di pavimento con mosaici.

Si è constatata la caratteristica tipica dei siti, l’evoluzione nel tempo con la costruzione di nuove strutture su quelle precedenti: qui sembra si tratti di due stanze aggiunte tra il II e il III secolo che furono prima decorate con marmi alle pareti, poi con affreschi: si tratta di un calendario agricolo diviso in due semestri la cui collocazione potrebbe essere o sulla stessa parete o su due pareti, una magari nella parte opposta del periplo dei sotterranei. Del calendario, in gran parte svanito, si apprezzano i resti di affreschi finemente decorati e le iscrizioni sulle operazioni stagionali. E’ il più antico pervenuto e l’unico nel luogo in cui fu affrescato; Filippo Magi, a cui va la scoperta, lo ritiene di poco successivo al 332 dopo Cristo perché sono menzionati i Ludi sarmatici celebrati dal 25 novembre al 1° dicembre dopo la vittoria in tale anno di Costantino sui Sarmati.

L’interesse della visita si è acuito, e si cerca di acuire anche la vista per distinguere i reperti visibili di un’opera di così grandi dimensioni: apprendiamo che nei 17 metri di lunghezza per ogni semestre erano scritti a caratteri bianchi su sfondo rosso i fatti da ricordare; i pannelli relativi ai singoli mesi intervallati per quasi tre metri tra l’uno e l’altro da dipinti di scene relative ai lavori del singolo mese. Il più visibile è il mese di settembre restaurato nel 2000 a cura dei Musei Vaticani con una veduta agreste finemente dipinta, una costruzione al centro, scene bucoliche intorno. Si avverte la delicatezza delle figure dipinte, alte meno di dieci centimetri, e si intravedono le scritte sui ludi circensi in corrispondenza della prima decade di ottobre e sui ludi sarmatici alla fine di novembre.

Ci fu una successiva fase di affreschi forse per il deterioramento di quelli preesistenti e il calendario venne ricoperto da pitture di scarso valore di tipo geometrico con decorazioni colorate a scacchiera. Una chicca, per così dire, è il palindromo latino che si intravede: tre parole che suonano nello stesso modo sia se sono lette da destra sia da sinistra, è la scritta in graffito Roma summus amor.

L’effetto catacombale non è dato soltanto dall’occasionale conformazione degli scavi, ma dai reperti di pregio che punteggiano il percorso, ben isolati e valorizzati nella loro consistenza, che rimandano di continuo alla Basilica soprastante, perché ne sono la base, non solo architettonica e costruttiva dato che la Basilica sorge su queste vestigia, ma anche e soprattutto storica nel senso che aiutano nella lettura delle vicende che hanno interessato quel sito nei primi secoli.

(Il mistero del Calendario e del Macello – immagine sul sito)

E qui scatta il mistero, che dà un sapore del tutto particolare alla visita, il gruppo di appassionati dell’antichità si comporta come una squadra di investigatori: fa ipotesi, le confronta con i reperti, ne discute, seguendo i percorsi logici oltre che storici della sapiente archeologa. Perché lo chiamiamo il mistero del calendario? Ne abbiamo descritto i resti e la presumibile conformazione originaria, ma c’è un altro enigma: come mai un calendario agricolo che descrive le operazioni campestri nelle varie date in una zona centrale non agricola, nelle vicinanze della quale c’era il Macello di Livia?

L’archeologa snocciola una serie di fonti, prima tra tutte il “Liber Pontificalis”, con le vite dei Pontefici a partire da Pietro, dove si parla della Basilica di Liberio presso (letteralmente “iuxta”) il Macello di Livia, all’inizio abbiamo riportato la citazione completa. Questo edificio doveva essere del I secolo dopo Cristo , nel II secolo c’erano altri ambienti. Ma se era un ambiente collegato al Macello, cioè al mercato, come si spiega il calendario delle lavorazioni agricole? E’ difficile trovarvi un nesso, né è stata accettata l’ipotesi avanzata dallo scopritore Filippo Magi, che i resti sotto la basilica fossero proprio del Macello intitolato nell’anno 7 a Livia, la celebre moglie di Augusto; non corrisponde la struttura, dai resti murari e da altri reperti sembra indubbio si trattasse di un cortile con portico, forma inusitata nei mercati.

E se fosse la domus di un grande proprietario terriero? E’ l’ipotesi prospettata dall’archeologa dopo una serie di supposizioni, con la quale ora il gruppo si trova a confrontare le rispettive opinioni.

La destinazione al culto cristiano è ancora lontana, nel periodo pre-costantiniano, lo abbiamo premesso, le “ecclesie” nel senso di assemblee si svolgevano in siti privati messi a disposizione dei proprietari, tra le pareti domestiche; ovviamente i più facoltosi avevano residenze adatte ad ospitare un certo numero di adepti, senza che vi fossero problemi di clandestinità, a parte le persecuzioni di Giuliano l’Apostata e di Diocleziano contro chi non ne riconosceva l’autorità imperiale.

Ma le ipotesi e l’enigma non impediscono di ammirare l’“opus reticulatum” del muro di contenimento del colle e di notare le irregolarità naturali e i dislivelli dei terrazzamenti originari. Diverse le opere murarie a sinistra e a destra, interrogativo di più facile risposta, e comunque meno intrigante dell’enigma vero e proprio: Macellum o Domus romana? C’è da guardare il pavimento con il mosaico, la parte dove spuntano resti di colonne che dovevano sostenere il porticato intorno al cortile. L’archeologa Adelaide Sicuro fa un excursus storico delle trasformazioni cittadine, serve a capire come le destinazioni mutano nel tempo fino a quando si arriva alla costruzione della grande basilica dedicata alla Madonna, “iuxta Macellum Liviae”, quella Liberiana “sparita” non quella attuale che realizzerà Sisto III dopo il Concilio di Efeso del 431, in posizione sopraelevata di sei metri sul piano stradale di allora, costruendola sopra l’edificio preesistente che risultò così interrato.

(Con le tegole d’epoca romana la fine della visita – Immagine sul sito)

Colpiscono le pareti dove sono collocate in bella vista le tegole d’epoca romana reperite nei lavori di restauro di fine 1800: laterizi datati con un bollo, sulla cui data come indizio del periodo dei lavori non si può fare troppo affidamento per la consuetudine di riutilizzare materiale da edifici dismessi o giacenze di magazzino. Ci sono bolli del periodo classico, bolli pagani e bolli cristiani con in mezzo il monogramma di Cristo, 66 di queste tegole hanno il bollo di Cassio, il suo nome in greco e le sigle degli angeli. Si distinguono anche i bolli di Teodorico del VI secolo , uno con la scritta  “in nomine Dei”, un altro con “Maria Madre di Cristo”; alla fine dell’VIII secolo il monogramma di papa Adriano I. Vi è collocata una serie di tegole da Caligola Nerone ad Eugenio IV, un excursus di 1400 anni a datare il percorso temporale di un’istituzione millenaria come la Chiesa di Cristo.

Dopo la parentesi molto significativa dell’archeologia delle tegole si torna a guardare i muri, l’alternanza di tufi a mattoni ben diversa dall’ “opus reticulatun” e dall’“opus sestile” di cui vi sono tracce, qualifica la diversità delle epoche attestate dai reperti murari: si scende in basso, un grande masso al centro e una costruzione rettangolare, la scena si anima, si intravede un affresco su uno zoccolo, e del marmo, rivestimenti preziosi che qualificano il censo dell’antico proprietario.

Resta l’incognita del calendario, anche se non ci si pensava più; il tormentone torna quando si giunge al lato opposto dove potrebbe esserci stato il secondo semestre. La visita è finita, ma in uscita ci regala un nuovo piccolo enigma: gli antichi mosaici ai bordi in alto nella navata centrale della grande Basilica sono molto piccoli, troppo per essere posti a quell’altezza. E allora? Erano destinati ad altro e perché sono lì? Quando, come? Si potrebbe continuare a discuterne ancora.

Ma per oggi può bastare, e dobbiamo essere grati all’Associazione culturale Info.roma.it per averci accolto nel suo gruppo. I misteri invogliano ad approfondire, lo abbiamo fatto anche con le notizie gentilmente forniteci dal cortese Prefetto del Museo della Basilica. Naturalmente né alla sapiente archeologa Adelaide Sicuro, né tanto meno all’autorevole Prefetto monsignor Michal Jagosz possono essere addebitate le lacune e le inesattezze nel racconto della visita. E’ la formula di stile dei ringraziamenti nelle pubblicazioni anglosassoni. Qui non è rituale, il cronista è l’unico responsabile di ciò che ha raccontato, di come lo ha metabolizzato e delle possibili mancanze; essendo Basilica Papale, viene in mente il “mi corrigerete” di Giovanni Paolo II dal balcone della loggia di San Pietro subito dopo l’ascesa al soglio pontificio, e ci fermiamo, “intelligenti pauca”.

Tornando sulla terra, diciamo che la suspence creata dal mistero del calendario ha dato luogo a un tipo di attenzione molto particolare. Speriamo di averne riprodotto il clima, l’atmosfera che si è creata, ed è quello che conta nella visita archeologica. Che fa captare echi e messaggi lontani, regala sorprese da cogliere in diretta. L’approfondimento verrà dopo, stimolato da queste sensazioni.

province romane: la Galatia

dal sito:

http://www.instoria.it/home/province_romane_galatia.htm

province romane:

LA GALATIA

di Antonio Montesanti

La regione che occupa il centro quasi in maniera precisa della Penisola Anatolica, anticamente portava il nome di Frigia Orientale (Frigia Majus) e aveva come capitale Gordio.

La storia della regione della Galazia, col nome con il quale la conosciamo, inizia alla fine del IV sec. a.C., quando le migrazioni dei popoli celtici mitteleuropei portano gli stessi a spingersi verso il Sud del Continente.

Un primo contatto, con testimonianza diretta della loro presenza a sud del Danubio, ci viene fornito durante le campagne di Alessandro Magno nell’area Traco-illirica nel 335 a.C., quando, sotto giuramento le popolazioni migratorie celtiche giunte nell’area balcanica, si alleano con i Macedoni contro gli Illiri. In realtà si trattava solo di avvisaglie di migrazioni più sostenute che si stavano appropinquando fino a raggiungere il loro culmine in epoca ellenistica. Non potendo penetrare in Italia, per la forte presenza della nascente Roma, i Galli si riversarono dapprima nei Balcani e quindi in Grecia, in un periodo in cui la nazione ellenica era estremamente soggetta ad una persistente disomogeneità ed instabilità politica.

Intorno alla metà del III sec. a.C., le prime a capitolare furono le stesse popolazioni dei Traci, al confine settentrionale con la Grecia, nell’odierna Bulgaria. A Tylys, (odierna Tulowo, Bulgaria), i Celti dopo aver pesantemente sconfitto le tribù dell’area balcano-danubiana, s’insediarono fino a costituire un proprio regno che crollerà definitivamente solo nel 212 a.C., per la rivolta degli stessi Traci dopo cinquant’anni di sottomissione al potere celtico.

Tuttavia alla stessa ondata bisogna attribuire l’urto solo in parte assorbito da Greci e Macedoni. Un “Nuovo Brenno” (dopo quello del sacco di Roma del 390 a.C.) scendeva nella penisola ellenica e, dopo una serie di scontri, a cadere sul campo era l’epigono di Macedonia, Tolemeo Cerauno, soccombendo in battaglia contro di loro nel 281 a.C. Dopo quella sconfitta, i Celti si riversarono in massa sulla Grecia continentale: diversi santuari vennero depredati tra cui fece scalpore quello di Delfi il cui immane bottino venne poi ritrovato a Tolosa dai Romani nel 106 a.C.

Dalla Grecia furono comunque “deviati”, ad opera di Antigono Gonata, verso oriente il che consentiva alle due ondate, quella ellenica e quella tracia, con a capo Leonnorio e Lutario, di portarsi in Asia Minore nel 278 a.C. su richiesta di Nicomede I di Bitinia, che decideva di ricorrere a loro per porre fine alla disputa col fratello per la successione dinastica. Le tribù dei Trocmi, dei Tolistobogii e dei Volci Tectosagi, si spostarono per essere affrontati in seguito da Antioco I. nella c.d. battaglia degli elefanti: affatto intimoriti, sconfiggevano il sovrano seleucide, in un epico scontro in cui i Galli vedevano per la prima volta gli elefanti. Il loro dominio sulla Galazia veniva così definitivamente e ufficialmente riconosciuto dalle città ellenistiche dell’Asia Minore: i Tectosageti si stabilirono nei pressi di Ancyra (l’odierna Ankara), i Tolistobogii presso Pessinus (att. Bellihisar), luogo sacro a Cibele e i Trocmi presso Tavio.

Da questo momento si stanziavano definitivamente nella regione centrale che prenderà da loro il nome combattendo in qualità di mercenari durante le varie lotte tra i diversi sovrani ellenistici. Quando il Regno di Pergamo si distaccò definitivamente dall’immenso impero Seleucide di Siria, i Celti, ormai Galati, obbligarono i giovani regnanti della piccola provincia d’Asia a sottostare al loro potere delle armi tramite tributo. Questo fino al 235 a.C., quando Attalo I si rifiutò di pagare il fio annuale, riunendo tutte le altre città ellenistiche dell’Asia Minore soggette a tributo, contro i Celti. La guerra che ne scaturì vide vincitore il giovane regno pergameno in seguito al quale, il vincitore, fondatore ufficiale della dinastia attalide, dedicò ad Atena Nikephoria il così detto « Grande donario », un gruppo scultoreo in bronzo le cui copie in marmo di età romana sono conservate nei Musei Capitolini e a Palazzo Altemps a Roma.

Da questo momento i due regni vivranno in una pace basata su reciproco rispetto, con una certa predominanza del regno pergameno, comunque sempre in una forma di pace forzata e di reciproca “sfiducia”. Questa si rifletterà nella guerra che Roma condurrà contro Antioco III di Siria, l’ultimo tra i Seleucidi a tentare la riconquista dell’Asia Minore, in cui i Galati risultano alleati del Seleucide e con lui sconfitti presso Magnesia al Sipilo nel 189 a.C. da Gaio Manlio Vulsone.

Con i predominio definitivo di Pergamo, appoggiato da Roma, da questo momento i Galati entrano ufficialmente nell’orbita di Roma, in qualità di alleati, definitivamente dopo l’occupazione della Galazia ad opera dei sovrani del Ponto, durante le Guerre Mitridatiche. Nel 64 a.C. la Galazia divenne uno stato associato alla Res Publica, mantenendo la propria indipendenza e la suddivisione interna in tre tribù (ciascuna delle quali con a capo un tetrarca). Al tempo di Cesare, uno dei tre tetrarchi, Deiotaro, prese il sopravvento sugli altri due e venne riconosciuto dai Romani quale “re” della Galazia. Nel 48 a.C. Deiotaro combattè al fianco di Pompeo contro Cesare, il quale, una volta sconfitto il triunviro, tolse loro dei territori ed utilizzò nella guerra contro Farnace re del Ponto gli stessi Galati, che per vendicarsi ordirono una congiura contro il condottiero romano.

Fu lo stesso Cicerone a difendere il re Celta nell’invettiva Pro Deiotaro, salvandolo dall’esecuzione; tuttavia nella battaglia di Filippi del 42 a.C. il principe galata si schierò ovviamente con i cesaricidi, questo provocò, nonostante un chiaro pentimento, dopo la morte di Cassio, e passaggio dalla parte di Augusto, la clienterizzazione del suo regno, fino a quando la sua dinastia si estinse. Con la morte del re Aminta, nel 25 a.C., la Galazia divenne definitivamente provincia romana, retta da un governatore e dal un legato di rango pretorio. Tuttavia il settore religioso venne lasciato indipendente: Pilamene, erede dell’ultimo re galata, ricostruì un tempio presso Ancyra dedicandolo ad Augusto in segno di lealtà all’impero. Nei secoli successivi, del resto, la Galazia si dimostrerà una delle province più fedeli a Roma.

La provincia romana di Galazia, a cui vennero incorporati territori a sud dell’Asia Minore: Pisidia, Isauria e parti della Licaonia e della Frigia, si trovava nella parte centrale dell’Anatolia e confinava a nord con la provincia di Bythinia et Ponto, ad est con la provincia di Cappadocia, a sud con la Lycia et Pamphilia e ad ovest con la provincia d’Asia. La capitale, destinata a divenire capitale dell’odierno stato turco era l’antica Ancyra (Ankara). Nel tempo tuttavia la situazione mutò diverse volte: pochi anni dopo la creazione, in epoca giulio-claudia, le vennero aggiunte la Paflagonia, parte del Ponto (Galaticus e Ptolemaiucus) e l’Armenia Minor. Vespasiano la riunì nella provincia della Cappadocia affidandola ad un legato consolare. Traiano ricostituì la Cappadocia e fece dei due subregni pontici uno stato autonomo; Adriano ne distaccò l’Isauria e parte della Licaonia, annettendole alla Cilicia.

I Galati formalmente dipendenti da Roma ma al loro interno “liberi”, vedevano il loro territorio suddiviso in nelle tre tribù ognuna delle quali era divisa in “cantoni”, ciascuna delle quali governata da un « tetrarca », con poteri assoluto. Fino all’avvento di Roma, gli originari abitanti della Frigia orientale, mantennero il controllo delle loro città e delle loro terre, ma erano tenuti a pagare dei tributi ai galli, che formavano così una sorta di aristocrazia militare separata dagli autoctoni in fattorie fortificate.

La loro religione era basata su una sorta di politeismo celto-romano, finché la loro terra fu visitata, durante il suo terzo viaggio, da Paolo di Tarso, accompagnato da Sila e Timoteo, dove fu ricevuto con entusiasmo. Girolamo (347-420 d.C.) riferisce che, al suo tempo, i Galati parlavano ancora il gallico, la loro antica lingua affine a quella dei Galli di Treviri, oggi in Germania.

Con la riforma di Diocleziano, la parte meridionale e quella settentrionale vennero distaccate divenendo parte rispettivamente delle provincie di Paphlagonia e quella di Lycaonia sotto la Diocesis Pontica, la Pisidia fece parte della Diocesi Asiatica e l’Isauria, con la costa cilicia della Diocesis Orientalis. In 398 d.C., circa un secolo dopo, sotto Onorio la neo ricostituita provincia fu divisa nuovamente in due provincie, la Galatia Prima and Galatia Secunda or Salutaris. La Galatia Prima costituiva la parte nordorientale della vecchia provincia, laddove rimaneva Ancyra come capitale e governata da un consularis, mentre la Salutaris comprendeva la parte rimanente ed includeva la Phrygia ed governata da un praeses che risiedeva a Pessinus.

Malta: al crocevia delle fedi e della confessioni cristiane

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22064?l=italian

Malta: al crocevia delle fedi e della confessioni cristiane

La storia dell’arcipelago si confronta oggi con l’immigrazione

ROMA, giovedì, 15 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’articolo di don Hector Scerri, presidente della Commissione Ecumenica e professore di Teologia dogmatica dell’Università di Malta, apparso sul mensile « Paulus » in formato online (Anno II n. 19 – Aprile 2010).

* * *

L’isola di Malta, al centro del Mediterraneo e dunque al crocevia delle culture e delle religioni, abbraccia una vocazione ecumenica molto antica. Questa chiamata è intimamente intrecciata con la sua storia plurimillenaria. Gli antichi templi megalitici risalgono al terzo millennio a.C. Allora, Malta era già un’isola dove mercanti e marinai provenienti dalla Fenicia e da altre zone lontane del bacino mediterraneo sostavano non soltanto per ragioni di commercio o di riparo, ma anche per motivi spirituali.

I dominatori dell’arcipelago

Il cristianesimo a Malta risale al periodo apostolico con la predicazione di san Paolo, naufrago nell’isola nell’anno 60. Nei secoli successivi, il cristianesimo ha lasciato un’impronta determinante sulla storia di Malta e sul carattere del suo popolo, pur dovendo fronteggiare vicende alterne, mentre subentravano al dominio dell’arcipelago i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Svevi, gli Aragonesi, fino al Sacro Imperatore Carlo V. Dopo la lunga e importante fase dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni (1530-1798), vi fu un breve periodo Francese (1798-1800), seguito dall’impero coloniale britannico (1800-1964).

Malta divenne Nazione indipendente il 21 settembre 1964, Repubblica parlamentare il 13 dicembre 1974 e membro dell’Unione Europea il 1° maggio 2004. Oggi la Chiesa Cattolica, in questo paese, è strutturata in due circoscrizioni: l’Arcidiocesi di Malta con 390.000 abitanti (380.000 cattolici) e la Diocesi di Gozo con 30.000 abitanti (29.500 cattolici).

Il cristianesimo a Malta

Le fonti storiche sono frammentarie nell’illuminare la vita della Chiesa dagli inizi al 1530, quando giunsero da Rodi i Cavalieri di San Giovanni (Ordine di Malta). Nei secoli IV-VI le isole gravitavano nell’orbita di Costantinopoli. Accertati sono i secolari legami con la Chiesa in Sicilia: la diocesi di Malta fu suffraganea di Palermo dal 1156 al 1831. Non esiste una documentazione certa circa il primo Vescovo residente a Malta. Secondo la tradizione, il primo pastore fu San Publio, il protos (governatore) dell’Isola che accolse l’Apostolo Paolo (Atti degli Apostoli 28,7). Nelle fonti, il nome di un vescovo di Malta appare per la prima volta nel maggio 553: Iulianus episcopus Melitensis che firmò il Constitutum de Tribus Capitulis nel contesto del Secondo Concilio di Costantinopoli.

È provato che in periodi antichi (secoli V e VI) Malta sia stata benedetta dalla presenza di monaci e poi, dal tardo Medioevo, dalle congregazioni mendicanti: i Francescani dal 1347, gli Agostiniani intorno al 1370, i Carmelitani dal 1441 e i Domenicani dal 1450. Vi si aggiunsero ben presto i Gesuiti attraverso la vicina Sicilia; si stabilirono regolarmente a Malta nel 1592 fondando il Collegium Melitense, contemporaneo al Collegio Romano e con le stesse finalità.

Il periodo dell’Ordine di San Giovanni (1530-1798) vide una particolare fioritura della Chiesa a Malta, con l’erezione di numerose parrocchie e con la feconda promozione dell’arte barocca nelle chiese. In questo periodo troviamo, nel fecondo archivio dell’Inquisizione a Malta, riferimenti a contatti della gente locale con luterani e altri protestanti, e sporadici tentavi a far circolare a Malta pubblicazioni appartenenti a queste confessioni. Naturalmente, l’Inquisizione faceva il suo dovere.

L’immigrazione di oggi, il colonialismo di ieri

Venendo ad oggi, un grave problema è costituito dalla immigrazione irregolare. Si calcola che dal 2002 siano giunti a Malta su imbarcazioni di fortuna oltre 13.000 africani, in maggioranza di fede islamica, che avevano per destinazione l’Italia.

Malgrado la tradizionale ospitalità del popolo maltese, le questioni suscitate da tale crescente presenza sono molteplici: sociali, politiche, religiose. Atteggiamenti di razzismo s’intrecciano con esemplari casi di accoglienza, mentre i Vescovi maltesi lanciano la sfida si testimoniare e di annunciare il Vangelo ai migranti. I rapporti della Chiesa cattolica con le altre Chiese e confessioni cristiane (anglicani, protestanti, ortodossi) sono buone. Durante il periodo coloniale britannico furono costruiti alcune chiese per le confessioni alle quali appartenevano le forze militari e navali britanniche. Sono stati registrati soltanto pochi tentativi – e senza successo – di proselitismo a Malta da parte di missionari o predicatori britannici. Intanto, il governo coloniale adottava, con grande saggezza, una politica di grande prudenza verso la chiesa cattolica a Malta e, dunque, verso i sentimenti religiosi cattolici della popolazione delle isole. Infatti i rapporti tra cattolici e le altre confessioni cristiane, a Malta, sono stati e rimangono ottimi.

Forte presenza ortodossa

Negli ultimi anni è cresciuto il numero di cristiani di confessione ortodossa (delle chiese chiamate calcedonesi). La maggioranza viene da Paesi dell’Est europeo, specialmente come risultato di una maggiore mobilità tra i Paesi dell’Unione Europea. C’è una comunità di ortodossi greci e ciprioti che fa parte della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta, con sede a Venezia. Esiste una folta comunità di ortodossi russi, ucraini e bielorussi in crescita, anche come risultato dei matrimoni con maltesi. Ci sono poi anche gli ortodossi serbi e montenegrini che insieme formano una parrocchia che fa parte della Diocesi Ortodossa Serba di Gran Bretagna, Scandinavia e Malta. C’è una comunità di ortossi bulgari, parte del Vicariato di Italia, San Marino e Malta, ma sempre sotto la giurisdizione del Patriarca di Bulgaria, e una piccola comunità di ortodossi rumeni. Vi sono infine alcune comunità di ortodossi non-calcedonesi: alcune dei copti ortodossi, altre del Patriarcato ortodosso dell’Etiopia e del Patriarcato dell’Eritrea.

I cattolici maltesi, che sono la stragrande maggioranza della popolazione dell’isola – nonostante essa sia sempre stata, come abbiamo visto, un crogiuolo di culture e di religioni -, mantegono ottimi rapporti con le tutte le altre confessioni cristiane. Fin dagli anni Settanta è stata costituita, infatti, un’attiva Commissione Ecumenica Diocesana che lavora affinché la comunità cattolica sia più informata e consapevole del crescente numero delle altre tradizioni cristiane nel Paese. Su questa realtà ecumenica si cerca di sensibilizzare i sacerdoti e gli operatori pastorali. Questa Commissione collabora tanto con un altro gruppo, il Malta Ecumenical Council, che dalla metà degli anni Novanta raccoglie insieme una rappresentanza di ogni confessione cristiana, con lo scopo di organizzare incontri ecumenici di preghiera e altre attività.

Crescita islamica

Desta qualche apprensione la crescente presenza di musulmani. Essi dispongono a Malta di due imam, di una moschea e di un grande complesso scolastico. È in programma la costruzione di una seconda moschea e di un secondo centro educativo.

Così, da una parte, la comunità cattolica maltese affronta le sfide della secolarizzazione, del relativismo, dell’individualismo, e della presenza di migranti di fede islamica, mentre la percentuale dei praticanti domenicali è scesa al 50% (75% nel 1982). Allo stesso tempo, oggi esiste una maggiore apertura verso i membri di altre confessioni cristiane e di altre religioni. Probabilmente, l’apostolo Paolo, naufrago a Malta 1950 anni fa, oggi avrebbe cercato di dialogare con queste comunità. Avrebbe forse ripetuto la sua esperienza dell’Areopago di Atene.

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