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Quelle tre o quattro cose forti che il sinodo sulla « Parola di Dio » ha lasciato in eredità
La prima è che il cristianesimo non è una « religione del libro » ma si identifica in una persona. La seconda è che la Bibbia non è solo passato ma è anche presente e futuro. La terza è che l’esegesi non può fare a meno della teologia, e viceversa… Il bilancio del sinodo nel taccuino di un osservatore speciale
di Sandro Magister
ROMA, 9 dicembre 2008 – A sette settimane dalla sua chiusura, il sinodo dei vescovi tenuto a Roma in ottobre su « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa » sembra quasi non aver lasciato traccia.
Le 55 proposizioni finali sono state consegnate al papa e provvederà lui a darvi corso, nell’esortazione postsinodale che egli promulgherà tra un anno o anche più.
Quanto al messaggio rivolto dal sinodo al « popolo di Dio » al termine dell’assise, è caduto subito nel dimenticatoio. A differenza dei messaggi finali dei precedenti sinodi, questo era scritto con stile più comunicativo. Tradiva la mano sapiente del suo principale estensore, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura e biblista di fama mondiale. Ma la sua lunghezza spropositata ne ha reso difficile il rilancio da parte dei media cattolici di tutto il mondo. E di conseguenza ha impedito che divenisse oggetto di lettura e di riflessione da parte di un consistente numero di vescovi, preti e fedeli.
Ciò non toglie, però, che il sinodo che si è tenuto lo scorso ottobre sulla Parola di Dio possa avere effetti importanti e di lunga durata sulla vita della Chiesa. A condizione che i circa 250 vescovi che vi hanno partecipato sappiano raccoglierne le indicazioni e parteciparle ai rispettivi episcopati e Chiese nazionali.
Ma, appunto, quali sono le indicazioni maggiori che il sinodo ha dato? Quali le linee maestre lungo le quali tradurlo in pratica?
Sul sinodo si è scritto molto. Ma rare sono state le valutazioni sintetiche. Qui di seguito ne è riportata una delle più interessanti e acute. È apparsa su « L’Osservatore Romano » del 27 novembre ed è stata scritta non da un padre sinodale ma da un osservatore esterno, un professore di teologia del Boston College, sacerdote della diocesi di New York, padre Robert Imbelli.
Per tutta la durata del sinodo padre Imbelli ha alloggiato, a Roma, al Collegio Capranica, avendo modo di incontrare quotidianamente vari padri sinodali, e di seguirne i lavori.
Il 14 ottobre egli ha avuto anche la possibilità di entrare nell’aula del sinodo e di assistere a una seduta. Per fortunata combinazione, quello fu il giorno in cui Benedetto XVI prese la parola, pronunciando un intervento di straordinaria importanza.
Ecco dunque che cosa il nostro osservatore ha ricavato dal suo soggiorno romano:
Riflessioni sul sinodo
di Robert Imbelli
Godendo di un anno sabbatico come docente di teologia al Boston College, ho voluto essere presente a Roma durante il sinodo dei vescovi dedicato a un più profondo apprezzamento e a una rinnovata affermazione della « Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ». Pochi altri argomenti, infatti, sono così fondamentali dal punto di vista teologico e pertinenti da quello pastorale. [...]
La mia prima forte impressione è che il sinodo sia stato una profonda esperienza ecclesiale, in primo luogo, com’è ovvio, per i partecipanti, ma sperabilmente, tramite loro e i resoconti dei media, per l’intera Chiesa cattolica. Vescovi e teologi, laici e preti, donne e uomini, come pure rappresentanti di altre comunità cristiane hanno condiviso tre intense settimane. Si sono reciprocamente arricchiti attraverso le loro esperienze, idee, opinioni e interessi. Lo hanno fatto formalmente con dichiarazioni e dibattiti svoltisi in gruppi linguistici più piccoli. Tuttavia lo hanno fatto anche in maniera informale durante le pause per il caffè o i pasti. La Parola di Dio si è riflessa nelle numerose parole della famiglia umana, mostrando la sua variegata ricchezza e forza trasformatrice: « suaviter et fortiter »
Una delle idee più cruciali emerse nel corso del sinodo è stata la necessità di comprendere le multiformi dimensioni della Parola di Dio. Nel linguaggio dei teologi questo è un concetto « analogo ». La Parola di Dio non si può semplicemente identificare con le Sacre Scritture. Queste sono le testimoni privilegiate della Parola di Dio, ma quest’ultima trascende persino la sua incarnazione biblica.
Infatti, in definitiva, la Parola di Dio è una Persona. È Gesù Cristo stesso l’incarnazione piena e definitiva della Parola di Dio. A questo proposito nessun verso biblico è più importante di questo del Vangelo di Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi » (1, 14). In Gesù Cristo, nella sua vita, morte e resurrezione, la Rivelazione di Dio trova la sua espressione perfetta e ottiene la riconciliazione del mondo.
Significativamente, questo riconoscimento nutrito di fede implica che il cristianesimo può essere definito solo impropriamente una « religione del libro ». Per quanto la testimonianza biblica di Gesù sia preziosa e indispensabile, il cristianesimo è più precisamente la « religione della persona »: la persona di Gesù Cristo che chiama tutti alla comunione personale col Padre, attraverso lui.
Un’ulteriore conseguenza, rilevata da numerosi vescovi, è che Gesù Cristo offre ai cristiani la « chiave ermeneutica » per comprendere le Scritture. La Bibbia non è una raccolta disparata di libri del mondo antico. Essa trova in Gesù il suo « principium »: il suo principio interpretativo perché, in quanto Parola di Dio, egli è anche la sua origine e il suo obiettivo.
Dalla « relatio » di apertura del cardinale Ouellet, passando per l’intervento del papa, fino alle proposizioni conclusive presentate al Santo Padre, questo riconoscimento ha portato a insistere sulla necessità di utilizzare vari metodi di interpretazione delle Scritture. Il metodo cosiddetto storico-critico è indispensabile, perché la Parola di Dio è veramente entrata nella storia umana: nata durante il regno di Cesare Augusto e crocifissa sotto Ponzio Pilato. Come ha affermato il Santo Padre: « La storia della salvezza non è mitologia, ma vera storia, ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica ».
Per lo stesso motivo un metodo esclusivamente storico-critico presenta forti limiti. La Parola di Dio, alla quale la Bibbia reca testimonianza, chiaramente trascende la dimensione storica per accogliere il piano di Dio per il mondo. La Bibbia non è solo relegata al passato, ma sfida il presente e apre a un compimento futuro.
Quindi l’approccio storico-critico deve essere accompagnato da un approccio teologico-spirituale che affermi l’unità delle Scritture e riconosca che, attraverso il mistero pasquale di Cristo, lo Spirito Santo si è effuso ed ha avuto inizio la nuova creazione.
Di conseguenza, il contesto proprio e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia della Chiesa, in special modo l’Eucaristia. In essa si compie l’unità dei Testamenti e si celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il significato delle Scritture. In essa diviene chiaro che è in seno alla comunità di fede e alla sua tradizione che la Parola di Dio continua a nutrire il popolo di Dio in ogni epoca fino al ritorno del Signore nella gloria.
Da questo punto di vista il sinodo ci ha lanciato due sfide urgenti. La prima è che tutti i membri della Chiesa sono chiamati ad appropriarsi in modo disciplinato della Parola di Dio nella loro vita quotidiana, facendosi da essa guidare e sostenere. Da qui sono derivate le frequenti esortazioni del sinodo allo sviluppo e alla diffusione di una lettura spirituale della Bibbia che vada oltre il nome generico di « lectio divina ». Sebbene siano necessari modalità e metodi differenti per soddisfare le esigenze dei diversi interlocutori e delle diverse situazioni culturali, un requisito permanente è la necessità per tutti, soprattutto per quanti sono immersi in culture occidentali spesso frenetiche, di acquisire familiarità con il silenzio. Solo con un silenzio vigile possiamo udire la Parola di Dio con rinnovato vigore.
La seconda sfida è il bisogno urgente di compiere sforzi creativi per ricreare i vincoli fra esegesi e teologia sistematica, oppure, più concretamente, fra esegeti e teologi. Questo è particolarmente difficile nel contesto attuale delle università, così protese a una ricerca specialistica che spesso separa invece di unire. Ciononostante, si tratta di un imperativo. Come afferma il Santo Padre nel suo intervento al sinodo: « Dove l’esegesi non è teologica, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento ».
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Un altro argomento che ha suscitato grande interesse al sinodo è stato quello della predicazione. I vescovi sanno bene che la Parola di Dio deve essere spezzata e condivisa con il popolo di Dio, proprio come il pane eucaristico. È evidente che ciò assume forme diverse secondo l’età e la formazione degli uditori, ma una caratteristica comune che scaturisce dalla meditazione sulla Parola di Dio nella sua realtà trascendente è che le omelie dovrebbero essere « mistagogiche », vale a dire condurre l’assemblea a un incontro vivificante con Gesù Cristo, vera Parola incarnata.
Penso che il Papa stesso offra una guida preziosa all’arte di questa predicazione mistagogica. Le sue omelie, così attente alla situazione concreta e alle sensibilità di coloro a cui si rivolgono, cercano sempre di promuovere un rinnovato apprezzamento dell’altezza, dell’ampiezza, della lunghezza e della profondità dell’amore di Cristo per il suo corpo, la Chiesa, e, attraverso di essa, per il mondo intero. Benedetto XVI, nelle sue omelie, mira a introdurre quanti lo ascoltano nel mistero pasquale di Cristo, in cui essi non sono meri osservatori, ma partecipanti.
Questa predicazione mistagogica è in sé potenziata e rafforzata dalla qualità estetica del luogo in cui si compie. Questo tema è emerso spesso al sinodo, ma ha avuto un’importanza particolare nello storico discorso del patriarca ecumenico Bartolomeo I. Nella fede incarnazionale della Chiesa, la Parola di Dio non solo viene udita, ma anche vista. È mediata da icone e immagini. Bartolomeo ha detto delle icone: « Ci incoraggiano a cercare lo straordinario dell’ordinario ».
È stato quindi provvidenziale che, svolgendosi il sinodo in Vaticano, si sia organizzata a Roma, nello splendido spazio espositivo delle Scuderie del Quirinale, una magnifica mostra dell’artista veneziano del primo Rinascimento Giovanni Bellini (1435-1516). Nelle sue meravigliose raffigurazioni della Madonna col Bambino, della crocifissione e della risurrezione di Cristo, lo straordinario e l’ordinario si integrano in modo affascinante, l’uno gettando luce sull’altro. O meglio, la luce di Cristo trasfigura tutto, rivelando l’autentica dignità e il vero destino dell’ordinario.
I dipinti del Bellini, fortemente influenzati dalla tradizione iconica orientale, fanno da splendido commento alla Parola incarnata di Dio, unendo indissolubilmente la lettera e lo spirito. Di fronte a molti suoi dipinti ciascuno può sostare e praticare la « lectio divina », attingendo dalla loro grazia e bellezza acqua per anime assetate.
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Alla fine del sinodo, un vescovo mio amico ha osservato che, a suo parere, esso ha rappresentato da parte della Chiesa una « ricezione » nuova e più profonda della costituzione del Vaticano II sulla divina rivelazione, « Dei Verbum ». Se quel vescovo ha ragione, e penso di sì, questo è un momento di grande significato. Infatti, delle quattro costituzioni, vale a dire dei più importanti documenti del Concilio, la « Dei Verbum » è forse la meno apprezzata e studiata, sebbene sia assolutamente fondamentale.
Nella sua « relatio » di apertura del sinodo, il cardinale Ouellet ha detto molto. Ha parlato della rinnovata comprensione, nella « Dei Verbum », della rivelazione divina come « dinamica e dialogica ». Tuttavia ha ammesso che il documento non è stato « recepito a sufficienza » e non ha ancora dato i frutti sperati.
Quando ci si chiede come questo sia potuto accadere, un possibile indizio è offerto più avanti proprio dal cardinale Ouellet nella sua « relatio », là dove afferma, in modo un po’ provocatorio, che « l’ecclesiocentrismo è estraneo alla riforma del Concilio ». In effetti, è possibile che troppi dibattiti e contrasti conciliari siano stati eccessivamente ecclesiocentrici. Non abbiamo forse avuto la tendenza a dimenticare che Cristo, non la Chiesa, è la luce del mondo (« Lumen gentium »)? Nel sottolineare la necessità della « partecipatio actuosa » alla liturgia, non ci siamo forse accontentati di leggerla solo in termini di funzioni liturgiche da compiere invece che come chiamata a penetrare più in profondità nel mistero pasquale di Cristo? A volte, la legittima insistenza sul ruolo dell’assemblea nell’azione liturgica non ha forse messo in ombra il soggetto primario che è Cristo che si offre al Padre e abilita il popolo di Dio a condividere il suo unico perfetto sacrificio?
La riforma del Concilio è cristocentrica, non ecclesiocentrica. Solo attraverso Cristo la Chiesa è introdotta nella comunione della santissima Trinità che è vita eterna. È questo il cuore del messaggio della « Dei Verbum » e il sinodo da poco conclusosi ci offre la possibilità provvidenziale di ricevere nuovamente questo Vangelo salvifico.
Molto spesso, dopo il Concilio, ci siamo sentiti dire che dovevamo « appropriarci » della Tradizione della Chiesa, che dovevamo farla nostra. Tuttavia, a un livello più profondo ed esigente sarebbe meglio dire: dobbiamo noi far sì che la Tradizione si appropri di noi e consenta alla Parola di Dio di trasformarci. Questo farsi possedere quotidianamente dalla Parola è la vita della Chiesa ed è l’unica base credibile per la sua missione.