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LA QUARESIMA: TEMPO DI CONVERSIONE (di Josemaría Escrivá de Balaguer)

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LA QUARESIMA: TEMPO DI CONVERSIONE

Le riflessioni del fondatore dell’Opus Dei

di Josemaría Escrivá de Balaguer

ROMA, domenica, 4 marzo 2012 (ZENIT.org).- Quale miglior modo di cominciare la Quaresima?
Il rinnovamento della fede, della speranza e della carità è la fonte dello spirito di penitenza, che è desiderio di purificazione. La Quaresima non è solo un’occasione per intensificare le nostre pratiche esteriori di mortificazione: se pensassimo che è solo questo, ci sfuggirebbe il suo significato più profondo per la vita cristiana, perché quegli atti esterni – vi ripeto – sono frutto della fede, della speranza, dell’amore.
E’ Gesù che passa, 57
Un momento unico
Non possiamo considerare la Quaresima come un periodo qualsiasi, una ripetizione ciclica dell’anno liturgico. È un momento unico; è un aiuto divino che bisogna accogliere. Gesù passa accanto a noi e attende da noi – oggi, ora – un rinnovamento profondo.
E’ Gesù che passa, 59
La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi?
E’ Gesù che passa, 58
Amore con amor si paga
L’appello del Buon Pastore giunge sino a noi: « Ego vocavi te nomine tuo », ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere – amore con amor si paga – dicendo: « Ecce ego, quia vocasti me » (I Reg III, 5), mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l’acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato.
E’ Gesù che passa, 59
Tempo di penitenza, quindi. Ma la penitenza, lo abbiamo già visto, non è un compito negativo. La Quaresima va vissuta in quello spirito di filiazione che Cristo ci ha comunicato e che palpita nella nostra anima. Il Signore ci chiama ad avvicinarci a Lui con il desiderio di essere come Lui: Fatevi imitatori di Dio quali figli suoi carissimi, collaborando umilmente ma con fervore al divino proposito di unire ciò che è diviso, di salvare ciò che è perduto, di ordinare ciò che il peccato dell’uomo ha sconvolto, di ricondurre al suo fine ciò che se ne è allontanato, di ristabilire la divina concordia di tutto il creato.
E’ Gesù che passa, 65
Ti stai risolvendo a formulare propositi sinceri?
Chiedi al Signore che ti aiuti a incomodarti per amor suo; a mettere in tutto, con naturalezza, il profumo della mortificazione che purifica; a spenderti al suo servizio senza spettacolo, silenziosamente, come si consuma la lampada che palpita accanto al Tabernacolo. E se per caso in questo momento non ti riesce di vedere come rispondere concretamente alle divine richieste che bussano al tuo cuore, ascoltami bene.
Amici di Dio, 138
Penitenza è…
Penitenza è osservare esattamente l’orario che ti sei prefisso, anche se il corpo oppone resistenza o la mente chiede di evadere in sogni chimerici. Penitenza è alzarsi all’ora giusta. E anche non rimandare, senza giustificato motivo, quella certa cosa che ti riesce più difficile o più pesante delle altre.
La penitenza è saper compaginare i tuoi doveri verso Dio, verso gli altri e verso te stesso, essendo esigente con te stesso per riuscire a trovare il tempo che occorre per ogni cosa. Sei penitente quando segui amorosamente il tuo piano di orazione, anche se sei stanco, svogliato o freddo.
Penitenza è trattare sempre con la massima carità il prossimo, a cominciare dai tuoi cari. È prendersi cura con la massima delicatezza di coloro che sono sofferenti, malati, afflitti. È rispondere pazientemente alle persone noiose e importune. È interrompere o modificare i nostri programmi quando le circostanze — gli interessi buoni e giusti degli altri, soprattutto — lo richiedono.
La penitenza consiste nel sopportare con buonumore le mille piccole contrarietà della giornata; nel non interrompere la tua occupazione anche se, in qualche momento, viene meno lo slancio con cui l’avevi incominciata; nel mangiare volentieri ciò che viene servito, senza importunare con capricci.
Penitenza, per i genitori e, in genere, per chi ha un compito di direzione o educativo, è correggere quando è necessario, secondo il tipo di errore e le condizioni di chi deve essere aiutato, passando sopra ai soggettivismi sciocchi e sentimentali.
Lo spirito di penitenza induce a non attaccarsi disordinatamente al monumentale abbozzo di progetti futuri, nel quale abbiamo già previsto quali saranno le nostre mosse e le nostre pennellate da maestro. Com’è contento il Signore quando sappiamo rinunciare ai nostri sgorbi e alle nostre macchie pseudomagistrali, e consentiamo a Lui di aggiungere i tratti e i colori che preferisce!
Amici di Dio, 138

PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO (PAPA PAOLO VI, 1975)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1975/documents/hf_p-vi_hom_19750212_it.html

PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

12 febbraio 1975  

Eccoci Fratelli, ancora una volta, ed in circostanze speciali, quali sono quelle dell’Anno Santo, che stiamo celebrando, al principio della quaresima; in capite jeiunii, come dicevano i nostri antichi maestri di spirito. Nulla di nuovo; ma procuriamo di capire, e poi anche di fare. La pedagogia della Chiesa attribuisce grande importanza a questo periodo dell’anno liturgico. Quaresima è, si può dire, sinonimo di penitenza. La prima questione, che sorge negli animi, anche in quelli fedeli alla Chiesa, al suo spirito, ai suoi riti, si domanda se sia oggi giustificata la penitenza. Non è castigo la penitenza? non è tristezza, non è mortificazione, non è rinuncia, non è frustrazione? perché la religione cristiana deve presentarsi con questo aspetto, punto simpatico? come predicare all’uomo moderno, ch’è tutto teso alla conquista e al godimento della vita, una prassi penitenziale, che esula da ogni sua concezione, da ogni sua aspirazione, e, possiamo aggiungere, dalla sua pratica possibilità? chi può oggi digiunare, come la Chiesa fino a ieri prescriveva severamente di fare, e come, parzialmente almeno, ancora adesso, prescrive? Ai giovani specialmente, perché non presentare, fin da principio, la vita cristiana come una pienezza, una gioia, una felicità? Il cristianesimo, nella sua essenza, non è felicità? Non ha forse detto Gesù, proprio Gesù: «Io sono venuto affinché (gli uomini) abbiano la vita, e l’abbiano più abbondantemente»? (Io. 10, 10)
Un missionario, venuto in questi giorni a visitarci, ci diceva dei felici risultati d’una sua iniziativa, intitolata «l’apostolato della gioia»; non è questa un’autentica e sapiente interpretazione del Vangelo, il messaggio della buona novella? Così pure, e con altra voce, un autorevole Uomo di Chiesa si domandava recentemente se non sia oggi un errore, almeno di metodo, quello della tradizione ecclesiale di presentare l’adesione alla fede, e allo stile di vita ch’essa comporta, sotto condizione di pratiche ascetiche restrittive, di osservanze di norme di pensiero e di costume molto esigenti: perché non rendere facile e gradevole l’appartenenza alla Chiesa, allargando e spianando la via, che ne qualifica il cammino e ne assicura la mèta? Non saremmo noi colpevoli di rendere difficile e complicato l’incontro degli uomini del nostro tempo con la religione? Non sarebbe venuta l’ora di rendere dunque «permissiva», come oggi si dice, l’alleanza del mondo con la professione cristiana? il Concilio non ci ha elargito questa nuova concezione del cristianesimo contemporaneo? un cristianesimo facile, senza precetti esigenti e molesti, un cristianesimo moderno? e se questo vuole sopravvivere alle condizioni della vita contemporanea, non deve forse abolire i freni della sua vecchia concezione penitenziale?
Ragionamenti che contengono certamente una parte di verità; ma isolati dal disegno organico e completo della concezione cristiana sono incompleti, sono capziosi, e possono generare gravi errori; possono deformare e vanificare il Vangelo; il più grande di tutti gli errori di questo genere sarebbe quello di togliere la croce dal centro della fede e della vita cristiana. Ricordate la parola di S. Paolo: «che non sia resa vana la Croce di Cristo»! (1 Cor. 1, 17) vana nel suo mistero redentore, e vana nel suo insegnamento morale; infatti ricordiamo sempre: non solo Gesù porta la croce, ma anche i suoi seguaci con lui devono portarla: «se qualcuno vuol venire dietro a me, Egli disse, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, e mi segua» (Matth. 16, 24). E questo, perché?
S. Agostino, in un suo sermone circa l’utilità di fare penitenza, diceva: «quanto sia utile e necessaria la medicina della penitenza, assai facilmente lo comprendono gli uomini, che si ricordano d’essere uomini» (S. AUGUSTINI Serm. 351, 1; PL 39, 1535; et Serm. 352; ibid. 1539 ss). Ripetiamo: perché questo? perché l’uomo è un essere spiritualmente e moralmente malato; ha bisogno della medicina della penitenza, cioè ha bisogno di riparazione; lo sviluppo e il funzionamento delle sue facoltà naturali non sono regolari e ordinati; il suo comportamento, in seguito al peccato originale, è facilmente sbagliato; lasciato a se stesso, produce atti contrari al dovere e genera stati d’animo disordinati; occorrerà per l’uomo sano, per l’uomo «nuovo» secondo la concezione cristiana, una «conversione», cioè un cambiamento di spirito che chiamiamo penitenza, la quale predispone alla fede e alla grazia (Cfr. DENZ.-SCHÖN. 1525-1530), e esige da noi volontà, contrizione, sforzo, perseveranza; esige cioè una penitenza duplice, sacramentale e morale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 84.90).
Oggi la liturgia parla principalmente di quest’ultima, la penitenza morale, e la drammatizza con un rito assai espressivo, con la imposizione delle ceneri sul capo del cristiano, quasi per disilluderlo del valore unico e supremo della vita presente, in cui noi facilmente poniamo le nostre cure e le nostre speranze. È un errore fatale di calcolo il nostro, se noi poniamo la nostra fiducia nei beni propri dell’ordine temporale, la durata della nostra esistenza presente, il benessere economico e edonistico, la fiducia nella ricchezza più che nella virtù, il materialismo ideologico e pratico, che sembra comprendere e risolvere tutti i problemi personali, sociali e politici, verso i quali si vorrebbe da molti rivolgere con priorità prevalente la mentalità e l’attività dell’uomo finalmente edotto circa la vera, ma inesatta e incompleta, filosofia della vita. Non udiamo noi forse in questo momento la severa, ma sapiente parola di Cristo rivolta all’homo oeconomicus, che aveva posto tutti i suoi progetti e tutta la sua fortuna nell’«abbondanza dei beni posseduti», senza riflettere all’inanità dei suoi preventivi: «Stolto, questa notte stessa l’anima tua (cioè la tua esistenza temporale), ti sarà ridomandata (cioè dalla morte imprevista e improvvisa); e quanto hai preparato di chi sarà? così, aggiunge il Signore, è chi tesoreggia per sé, e non arricchisce presso Dio» (Luc. 12, 20-21).
Così che questa radicale svalutazione dei beni propri della concezione materialista della vita, propria della visione penitenziale della sapienza cristiana, non si risolve in un disperato pessimismo, ma in un orientamento finalistico superiore e migliore della nostra esistenza, il possesso finale, desiderato e meritato, della pienezza della nostra vita immortale nel Dio della suprema beatitudine. La mèta escatologica, cioè ultima ed ultra terrena, deve governare le mète temporali, nelle quali siamo impegnati; e ciò non solo a riguardo dei beni economici, ma d’ogni altro bene di questo nostro pellegrinaggio nel tempo. Siamo pellegrini, siamo di passaggio nella vicenda faticosa o fortunata che sia nel secolo del tempo; questa è la coscienza della penitenza, che non ci deprime nella ricerca della giustizia e dell’ordine del nostro mondo sperimentale, ma piuttosto ci stimola a compiervi la missione che gli è propria: «così conviene, dice il Signore, che noi adempiamo ogni giustizia» (Matth. 3, 15), ma con lo spirito libero e teso verso quel «regno di Dio», che solo vale la pena d’essere sopra ogni cosa desiderato e conquistato, e che i «Poveri di spirito» sanno a loro primi destinato. In quest’atmosfera di pensieri e di propositi c’introduce la quaresima, con la sua metánoia, cioè con la sua conversione. Accettiamola con fiducia e con coraggio; sappiamo dove ci guida: al mistero pasquale. Sia così, con la nostra Benedizione Apostolica.

Grande Quaresima: 2. La preghiera quaresimale di san Efrem Siro

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GRANDE QUARESIMA

L’UFFICIO QUARESIMALE

A. Schmemann

2. La preghiera quaresimale di san Efrem Siro

         Di tutti gli inni e preghiere quaresimali una breve preghiera può essere definita tipica della Quaresima. La Tradizione l’attribuisce ad uno dei grandi maestri della vita spirituale, sant’Efrem Siro. Eccone il testo:

Signore e padrone della mia vita,
tieni lontano da me lo spirito della pigrizia, della fiacchezza,
la brama di dominio ed i discorsi futili. 

Ma concedi a me, tuo servo,
lo spirito della temperanza, dell’umiltà,
della sopportazione, dell’amore.

Sì, Signore e Re, fammi vedere i miei errori
e che non giudichi il mio fratello,
poiché sei benedetto nei secoli dei secoli. Amìn.

         Questa preghiera è letta due volte alla fine di ogni ufficiatura quaresimale dal lunedì sino al venerdì (non il sabato né la domenica, poiché, come vedremo, l’ufficiatura di questi due giorni non segue il modello quaresimale). Alla prima lettura una prostrazione segue ad ogni domanda. Poi tutti ci chiniamo dodici volte dicendo: “Dio, purifica me peccatore”. Infine l’intera preghiera è ripetuta con una prostrazione finale. Perché questa breve e semplice preghiera occupa un posto così importante nell’intera ufficiatura quaresimale? La ragione è dovuta al fatto che essa enumera in un’unica maniera tutti gli elementi negativi e positivi della penitenza e costituisce, per così dire, una lista di controllo di tutto il nostro sforzo quaresimale. Esso ha per fine in primo luogo la nostra liberazione da alcuni fondamentali difetti spirituali che costituiscono la nostra vita e rendono praticamente impossibile per noi il ritornare a Dio. Il difetto fondamentale è la pigrizia. È quella strana pigrizia e passività del nostro io che sempre ci spinge in giù anziché all’insù, che costantemente ci convince che nessun mutamento è possibile e di conseguenza desiderabile. In realtà è una forma di cinismo che ha profonde radici, per cui ad ogni sollecitazione spirituale rispondiamo: “Che cosa?”. Esso rende la nostra vita spirituale un tremendo deserto ed è la radice di ogni peccato, poiché avvelena l’energia spirituale alla sua prima sorgente. Il risultato della pigrizia è la fiacchezza. Si tratta di uno stato di abbattimento che tutti i padri spirituali considerano il più grave pericolo per l’anima. L’abbattimento consiste nel non vedere alcunché di buono o di positivo: è la riduzione di tutto alla negazione ed al pessimismo. È veramente un potere demoniaco che è in noi, poiché il diavolo è fondamentalmente un mentitore. Egli mente all’uomo sia riguardo a Dio che al mondo; egli riempie la vita di tenebre e di negazioni. L’abbattimento è il suicidio dell’anima poiché, quando si è in suo possesso, si è del tutto incapaci di vedere la luce e di desiderarla.
La brama di dominio! Può sembrare strano, ma sono proprio la pigrizia e l’abbattimento che riempiono la nostra vita della brama di dominio. Viziando interamente il nostro atteggiamento nei confronti della vita e rendendola priva di significato e vuota, la pigrizia e l’abbattimento ci costringono a cercare un compenso in un atteggiamento radicalmente negativo nei riguardi delle altre persone. Se la mia vita non è orientata verso Dio né ha per fine i valori eterni, essa diventerà inevitabilmente egoistica e centrata su se stessa e ciò significa che tutti gli altri esseri si trasformeranno in mezzi della mia soddisfazione personale. Se Dio non è il Signore ed il Padrone della mia vita, ne consegue che sono io il signore ed il padrone, il centro assoluto del mio proprio mondo e comincio a valutare ogni cosa in termini dei miei bisogni, delle mie idee, dei miei desideri, dei miei giudizi. La brama di dominio è così una fondamentale depravazione nei miei rapporti con gli altri esseri, la ricerca di subordinarli a me. Essa non si esprime necessariamente nel reale impulso di comandare e di dominare sugli “altri”. Essa può pure esprimersi nell’indifferenza, nel disprezzo, nella mancanza di interesse, di considerazione e di rispetto. In realtà è la pigrizia e l’abbattimento che sono diretti verso gli altri. Essi completano il suicidio spirituale con l’assassinio spirituale.
Infine, i futili desideri. Di tutti gli esseri creati l’uomo solo è stato dotato del dono della parola. Tutti i Padri vedono in esso il vero “sigillo” dell’immagine divina nell’uomo, poiché Dio spesso s’è rivelato come Parola (Giovanni 1,1). Ma, pur essendo il dono supremo, esso è il simbolo del più grave pericolo. Pur essendo la vera espressione dell’uomo, il mezzo con cui perfeziona se stesso, per questa stessa ragione è lo strumento della sua caduta e della sua autodistruzione, del tradimento e del peccato. La parola salva ed uccide; la parola ispira ed avvelena. Essa è lo strumento della Verità e della Menzogna demoniaca. In quanto ha un definitivo potere positivo, essa ha per questa ragione un tremendo potere negativo. Essa realmente opera positivamente o negativamente. Se devia dalla sua divina origine e finalità, la parola diventa futile. Essa impone la pigrizia, la disperazione e la brama del potere e trasforma la vita in inferno. Diventa così l’autentico dominio del peccato.
Questi quattro sono gli “oggetti” negativi della penitenza. Sono gli ostacoli che debbono essere allontanati. Ma Dio solo può allontanarli. Da ciò deriva la prima parte della preghiera quaresimale, questo grido dal fondo della disperazione umana. A questo punto la preghiera passa ai fini positivi della penitenza, che pure sono quattro.
La castità! Se uno non riduce questo termine, come spesso ed erroneamente accade, solo alle caratteristiche sessuali, esso è inteso come la controparte positiva della pigrizia. La traduzione esatta e completa del termine greco “sofrosyne” e del russo “tzelomudrije” dovrebbe essere “piena disposizione”. La pigrizia è, in primo luogo, dissipazione, interruzione della nostra visione ed energia, incapacità di vedere il tutto. Ad essa si oppone precisamente la “pienezza”. Se noi di solito intendiamo per castità la virtù opposta alla depravazione sessuale, ciò avviene perché il carattere frantumato della nostra esistenza non si manifesta meglio in alcun caso che nel piacere sessuale, la alienazione del corpo dalla vita e dal controllo dello spirito. Il Cristo ristabilisce la pienezza in noi restaurando in noi l’autentico criterio dei valori riconducendoci a Dio.
Il primo e meraviglioso frutto di questa pienezza è l’umiltà. Ne abbiamo già parlato. Essa consiste, al di sopra di ogni altra cosa, nella verità in noi, nell’eliminazione di ogni menzogna in cui di solito viviamo. L’umiltà sola è capace di generare la verità, di vedere ed accettare le cose come esse sono, di vedere la maestà di Dio, la sua divinità ed il suo amore in ogni cosa. Per questa ragione diciamo che Dio concede la grazia a chi è umile e resiste al superbo.
La castità e l’umiltà sono naturalmente seguite dalla sopportazione. L’uomo “naturale” o “caduto” è impaziente e, poiché è cieco nei propri confronti, è pronto a giudicare ed a condannare gli altri. Siccome ha una conoscenza incompleta e distorta di ogni cosa, egli misura tutto con i suoi gusti e con le sue idee. E poiché è indifferente a tutto tranne che a se stesso, desidera aver successo subito, qui ed ora. La sopportazione, tuttavia, è veramente una virtù divina. Dio è paziente, non perché egli è “indulgente”, ma perché vede nell’intimo di tutto ciò che esiste, poiché la realtà interiore delle cose, che la nostra cecità non vede, è aperta a lui. Quanto più ci avviciniamo a lui, diventiamo più pazienti e maggiormente riflettiamo l’infinito rispetto per tutti gli esseri il che è una qualità peculiare di Dio.
Finalmente, la corona ed il frutto di tutte le virtù, d’ogni crescita e sforzo è l’amore, quell’amore che, come s’è già detto, può essere dato solo da Dio, il dono che è l’obiettivo di ogni preparazione e pratica spirituale.
Tutto questo è sintetizzato nella domanda conclusiva della preghiera quaresimale, in cui chiediamo di farci vedere i nostri errori e di non giudicare il nostro fratello. Infatti sostanzialmente c’è un solo pericolo: la superbia. Essa è la fonte del male ed ogni male è superbia. Tuttavia non è sufficiente per me vedere i miei errori, poiché anche questa apparente virtù può trasformarsi in superbia. Gli scritti di carattere spirituale abbondano di moniti contro le forme sottili di pseudo-pietà, le quali, in realtà, sotto l’aspetto di umiltà e di auto-accusa, possono portare ad una autentica superbia demoniaca. Ma quando vediamo “i nostri propri errori” e “non giudichiamo i nostri fratelli”, quando, in altre parole, castità, umiltà, sopportazione ed amore costituiscono in noi un’unità, allora e solo allora sarà distrutto in noi il peggior nemico, la superbia.
Al termine di ogni domanda di questa preghiera ci prostriamo. Le prostrazioni non si limitano alla preghiera di san Efrem, ma costituiscono una caratteristica distintiva di tutta l’ufficiatura quaresimale. In questo caso, tuttavia, il loro significato è evidente. Nel lungo e difficile corso di recupero spirituale, la Chiesa non separa l’anima dal corpo. L’uomo intero è decaduto da Dio, per cui tutto l’uomo deve essere reintegrato in Dio, tutto l’uomo deve ritornare a lui. La catastrofe del peccato consiste precisamente nella vittoria della carne, dell’animale, dell’irrazionale, del piacere su ciò che è spirituale e divino. Ma il corpo è glorioso, esso è santo, tanto che Dio stesso “s’è fatto carne”. La salvezza e la penitenza quindi non sono disprezzate per il corpo o trascurate per esso, ma sono la reintegrazione del corpo nella sua funzione reale in quanto espressione e vita dello spirito, in quanto tempio dell’anima che non ha prezzo. L’ascesi cristiana è una lotta non contro, ma per il corpo. Per questo motivo tutto l’uomo – anima e corpo – si pente. Il corpo partecipa alla preghiera dell’anima proprio come l’anima prega attraverso e nel corpo. Le prostrazioni, il segno “psicosomatico” della penitenza e dell’umiltà, dell’adorazione e dell’obbedienza, sono in tal modo il rito quaresimale per eccellenza.

Grande Quaresima : 1 Tristezza luminosa (Ortodossia)

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GRANDE QUARESIMA

L’UFFICIO QUARESIMALE

A. Schmemann

1. “Tristezza luminosa”

         Per molti, se non addirittura per la maggioranza dei Cristiani Ortodossi, la Quaresima consiste in un limitato numero di regole e prescrizioni formali, in modo predominante negative: astensione da determinati cibi, dalle danze e forse dagli spettacoli cinematografici. Tale è il grado della nostra alienazione dallo spirito reale della Chiesa, che è quasi impossibile per noi comprendere che c’è “qualcosa di diverso” nella Quaresima, senza cui tutte queste prescrizioni perdono gran parte del loro significato. Questo “qualcosa di diverso” può benissimo essere descritto come “un’atmosfera”, un “clima” in cui uno entra, in primo luogo uno stato della mente, dell’anima e dello spirito che per sette settimane permea tutta la nostra vita. Insistiamo ancora una volta che il fine della Quaresima non consiste nell’imporci alcuni obblighi formali, ma, per così dire, “nell’ammorbidire” il nostro cuore affinché esso possa aprirsi alle realtà dello spirito e fare l’esperienza della “sete e della fame”, in noi nascoste, della comunione con Dio.
         Questa “atmosfera” quaresimale, questo “stato della mente” unico nel suo genere si realizza principalmente per mezzo dell’Ufficio Divino, grazie ai vari cambiamenti introdotti nella vita liturgica di questo periodo. Considerati a parte, questi cambiamenti possono apparire come “rubriche” incomprensibili, come prescrizioni formali da seguire strettamente. Ma, intesi nel loro insieme, essi rivelano e comunicano lo spirito della Quaresima, ci fanno vedere, sentire e provare la “luminosa tristezza”, in cui consiste il vero messaggio e il vero dono della Quaresima. Si potrebbe dire senza esagerazione che i Padri e gli scrittori sacri, i quali hanno composto gli inni del “Triodion” Quaresimale e che poco a poco hanno costituito le strutture generali dell’ufficiatura quaresimale ed hanno adornato la Liturgia dei Presantificati con quella bellezza che le è propria, ebbero una particolare conoscenza dell’anima umana. Essi veramente conobbero l’arte della penitenza ed ogni anno durante la Quaresima la rendono accessibile a chiunque abbia orecchi per sentire ed occhi per vedere.
         L’impressione generale è, come ho detto, quella di una “tristezza luminosa”. Anche una persona che abbia una limitata conoscenza dell’ufficio divino e che entri in una chiesa durante una cerimonia quaresimale, potrebbe comprendere immediatamente, non ne dubito, quello che significa questa espressione alquanto contraddittoria. Da una parte, una quieta tristezza permea l’ufficio divino: gli abiti liturgici sono neri, l’ufficiatura è più lunga del solito e più monotona, non c’è quasi movimento. Letture e canti si alternano e tuttavia sembra che nulla “accada”. Ad intervalli regolari il celebrante esce dal santuario e legge sempre la stessa breve preghiera e tutti i presenti sottolineano ogni domanda di questa preghiera con prostrazioni. Così, a lungo, stiamo in questa monotonia, in questa quieta tristezza.
         Ma ci rendiamo conto che proprio questa lunghezza e monotonia sono necessarie se vogliamo fare l’esperienza di questa “azione” segreta ed a prima vista impercettibile che l’ufficio esercita in noi. Poco a poco cominciamo a comprendere o, meglio, a sentire che questa tristezza è in realtà “luminosa” e che una misteriosa trasformazione si realizza in noi. È come se raggiungessimo un luogo in cui i rumori e la confusione della vita, della strada, di tutto ciò che di solito riempie i nostri giorni ed anche le notti, non possono arrivare, un luogo dove essi non hanno alcun potere. Tutto ciò che a noi sembra assai importante al punto di riempire la nostra mente, lo stato di ansietà che virtualmente è divenuto la nostra seconda natura, scompare qua e là e noi cominciamo a sentirci liberi, leggeri e felici. Non c’è più la felicità rumorosa e superficiale che viene e va venti volte al giorno ed è così fragile e fuggitiva. È una felicità profonda che non deriva da una causa singola e particolare, ma dalla nostra anima che, secondo le parole di Dostojevskij, ha toccato “un altro mondo”. E ciò che ha toccato è fatto di luce, pace e gioia, di una fiducia inesprimibile. Allora comprendiamo perché l’ufficiatura deve essere lunga ed apparentemente monotona. Comprendiamo che è semplicemente impossibile passare dalla condizione normale della nostra mente, che è costituita quasi interamente di rumori, corse precipitose e preoccupazioni, in questa nuova senza prima “acquietarci”, senza ristabilire in noi un minimo di stabilità interiore. È questa la ragione per cui quanti concepiscono le ufficiature della Chiesa in termini di “obblighi” e sempre chiedono quanto sia il minimo richiesto (“Quanto spesso dobbiamo andare in Chiesa?”, “Quante volte dobbiamo pregare?”), non possono mai comprendere la vera natura dell’ufficiatura, che ha per scopo di trasportarci in un altro mondo, quello della presenza di Dio, ma di trasportarci lentamente  a causa della nostra natura decaduta, che ha perduto la facoltà di accedervi naturalmente.
         Così, quando noi facciamo l’esperienza di questa meravigliosa liberazione e diveniamo “leggeri e sereni”, la monotonia e la tristezza dell’ufficio divino acquistano un nuovo significato, sono trasfigurate. Una bellezza interiore le illumina come il primo raggio del sole che, mentre ancora la valle è oscura, comincia ad illuminare la cima della montagna. Questa luce e questa segreta gioia vengono dai lunghi “Alliluja”, dall’intera “tonalità” dell’ufficiatura quaresimale. Ciò che in un primo momento appare monotono, ora si rivela come pace, ciò che risuonava come tristezza si manifesta come i primi momenti dell’anima che ricupera la profondità perduta. Questo è ciò che il primo versetto degli “Alliluja” quaresimali proclama ogni mattina: “La mia anima ha desiderato te nella notte, o Dio, prima dell’aurora, poiché i tuoi giudizi sono una luce sulla terra”.
         “Triste splendore” = la tristezza del mio esilio, del deserto che io ho fatto della mia vita. Lo splendore della presenza di Dio ed il perdono, la gioia per il recuperato desiderio di Dio, la pace per la casa recuperata. Questo è il clima dell’ufficiatura quaresimale: questo è il primo suo impatto sulla mia anima.

per Mercoledì delle ceneri: Quaresima. Alla ricerca della verità del proprio essere (Enzo Bianchi)

https://www.monasterodibose.it/index.php/content/view/182..

Quaresima. Alla ricerca della verità del proprio essere

di Enzo Bianchi

Mercoledì delle ceneri

Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la Chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo “altro”, un tempo forte in cui far convergere nello sforzo di conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la Chiesa chiede che questo sia vissuto simultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede. Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui “fare” qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere. Gesù afferma che anche gli ipocriti digiunano, anche gli ipocriti fanno la carità (cf. Mt 6,1-6.16-18): proprio per questo occorre unificare la vita davanti a Dio e ordinare il fine e i mezzi della vita cristiana, senza confonderli.
La quaresima vuole riattualizzare i quarant’anni di Israele nel deserto, guidando il credente alla conoscenza di sé, cioè alla conoscenza di ciò che il Signore del credente stesso già conosce: conoscenza che non è fatta di introspezione psicologica ma che trova luce e orientamento nella Parola di Dio. Come Cristo per quaranta giorni nel deserto ha combattuto e vinto il tentatore grazie alla forza della Parola di Dio (cf. Mt 4,1-11), così il cristiano è chiamato ad ascoltare, leggere, pregare più intensamente e più assiduamente – nella solitudine come nella liturgia – la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. La lotta di Cristo nel deserto diventa allora veramente esemplare e, lottando contro gli idoli, il cristiano smette di fare il male che è abituato a fare e comincia a fare il bene che non fa! Emerge così la “differenza cristiana”, ciò che costituisce il cristiano e lo rende eloquente nella compagnia degli uomini, lo abilita a mostrare l’Evangelo vissuto, fatto carne e vita.
Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima ed è caratterizzato, come dice il nome, dall’imposizione delle ceneri sul capo di ogni cristiano. Un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità. La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla resurrezione.
Simbolica ricca, quella della cenere, già conosciuta nell’Antico Testamento e nella preghiera degli ebrei: cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza, di volontà di cambiamento attraverso la prova, il crogiolo, il fuoco purificatore. Certo è solo un segno, che chiede di significare un evento spirituale autentico vissuto nel quotidiano del cristiano: la conversione e il pentimento del cuore contrito. Ma proprio questa sua qualità di segno, di gesto può, se vissuto con convinzione e nell’invocazione dello Spirito, imprimersi nel corpo, nel cuore e nello spirito del cristiano, favorendo così l’evento della conversione.
Un tempo nel rito dell’imposizione delle ceneri si ricordava al cristiano innanzitutto la sua condizione di uomo tratto dalla terra e che alla terra ritorna, secondo la parola del Signore detta ad Adamo peccatore (cf. Gen 3,19). Oggi il rito si è arricchito di significato, infatti la parola che accompagna il gesto può anche essere l’invito fatto dal Battista e da Gesù stesso all’inizio della loro predicazione: “Convertitevi e credete all’Evangelo”… Sì, ricevere le ceneri significa prendere coscienza che il fuoco dell’amore di Dio consuma il nostro peccato; accogliere le ceneri nelle nostre mani significa percepire che il peso dei nostri peccati, consumati dalla misericordia di Dio, è “poco peso”; guardare quelle ceneri significa riconfermare la nostra fede pasquale: saremo cenere, ma destinata alla resurrezione. Sì, nella nostra Pasqua la nostra carne risorgerà e la misericordia di Dio come fuoco consumerà nella morte i nostri peccati.
Nel vivere il mercoledì delle ceneri i cristiani non fanno altro che riaffermare la loro fede di essere riconciliati con Dio in Cristo, la loro speranza di essere un giorno risuscitati con Cristo per la vita eterna, la loro vocazione alla carità che non avrà mai fine. Il giorno delle ceneri è annuncio della Pasqua di ciascuno di noi.

Enzo Bianchi
Dare senso al tempo

MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2012 – UFFICIO DELLE LETTURE

MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2012

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro del profeta Isaia 58, 1-12

Il digiuno che è gradito a Dio
Grida a squarciagola, non aver riguardo;
come una tromba alza la voce;
dichiara al mio popolo i suoi delitti,
alla casa di Giacobbe i suoi peccati.
Mi ricercano ogni giorno,
bramano di conoscere le mie vie,
come un popolo che pratichi la giustizia
e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio;
mi chiedono giudizi giusti,
bramano la vicinanza di Dio:
«Perché digiunare, se tu non lo vedi,
mortificarci, se tu non lo sai?».
Ecco, nel giorno del vostro digiuno
curate i vostri affari,
angariate tutti i vostri operai.
Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi
e colpendo con pugni iniqui.
Non digiunate più come fate oggi,
così da fare udire in alto il vostro chiasso.
E’ forse come questo il digiuno che bramo,
il giorno in cui l’uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere
il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire chi è nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua gente?
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà;
implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se offrirai il pane all’affamato,
se sazierai chi è digiuno,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua oscurità sarà come il meriggio.
Ti guiderà sempre il Signore,
ti sazierà in terreni aridi,
rinvigorirà le tue ossa;
sarai come un giardino irrigato
e come una sorgente
le cui acque non inaridiscono.
La tua gente riedificherà le antiche rovine,
ricostruirai le fondamenta di epoche lontane.
Ti chiameranno riparatore di brecce,
restauratore di case in rovina per abitarvi.

Responsorio   Cfr. Is 58, 6. 7. 9; Mt 25, 31. 34. 35
R. Questo è il digiuno che voglio, dice il Signore: Dividi il tuo pane con l’affamato, accogli chi è povero e senza tetto. * Allora invocherai il Signore ed egli ti risponderà: Eccomi!
V. Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare.
R. Allora invocherai il Signore ed egli ti risponderà:
Eccomi!

Seconda Lettura
Dalla Lettera ai Corinzi di san Clemente I, papa
(Cap. 7, 4-8, 3; 8, 5-9, 1; 13, 1-4; 19, 2; Funk 1, 71-73. 77-78, 87)

Fate penitenza
Teniamo fissi gli occhi sul sangue di Cristo, per comprendere quanto sia prezioso davanti a Dio suo Padre: fu versato per la nostra salvezza e portò al mondo intero la grazia della penitenza.
Passiamo in rassegna tutte le epoche del mondo e constateremo come in ogni generazione il Signore abbia concesso modo e tempo di pentirsi a tutti coloro che furono disposti a ritornare a lui.
Noè fu l’araldo della penitenza e coloro che lo ascoltarono furono salvi.
Giona predicò la rovina ai Niniviti e questi, espiando i loro peccati, placarono Dio con le preghiere e conseguirono la salvezza. Eppure non appartenevano al popolo di Dio.
Non mancarono mai ministri della grazia divina che, ispirati dallo Spirito Santo, predicassero la penitenza. Lo stesso Signore di tutte le cose parlò della penitenza impegnandosi con giuramento: Com’è vero ch’io vivo — oracolo del Signore — non godo della morte del peccatore, ma piuttosto della sua penitenza.
Aggiunse ancora parole piene di bontà: Allontànati, o casa di Israele, dai tuoi peccati. Dì ai figli del mio popolo: Anche se i vostri peccati dalla terra arrivassero a toccare il cielo, fossero più rossi dello scarlatto e più neri del silicio, basta che vi convertiate di tutto cuore e mi chiamate «Padre», ed io vi tratterò come un popolo santo ed esaudirò la vostra preghiera.
Volendo far godere i beni della conversione a quelli che ama, pose la sua volontà onnipotente a sigillo della sua parola.
Obbediamo perciò alla sua magnifica e gloriosa volontà. Prostriamoci davanti al Signore supplicando di essere misericordioso e benigno. Convertiamoci sinceramente al suo amore. Ripudiamo ogni opera di male, ogni specie di discordia e gelosia, causa di morte. Siamo dunque umili di spirito, o fratelli. Rigettiamo ogni sciocca vanteria, la superbia, il folle orgoglio e la collera. Mettiamo in pratica ciò che sta scritto. Dice, infatti, lo Spirito Santo: Non si vanti il saggio della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco delle sue ricchezze, ma chi vuol gloriarsi si vanti nel Signore, ricercandolo e praticando il diritto e la giustizia (cfr. Ger 9, 23-24; 1 Cor 1, 31, ecc.).
Ricordiamo soprattutto le parole del Signore Gesù quando esortava alla mitezza e alla pazienza: Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate, perché anche a voi sia perdonato; come trattate gli altri, così sarete trattati anche voi; donate e sarete ricambiati; non giudicate, e non sarete giudicati; siate benevoli, e sperimenterete la benevolenza; con la medesima misura con cui avrete misurato gli altri, sarete misurati anche voi (cfr. Mt 5, 7; 6, 14; 7, 1. 2. 12 ecc.).
Stiamo saldi in questa linea e aderiamo a questi comandamenti. Camminiamo sempre con tutta umiltà nell’obbedienza alle sante parole. Dice infatti un testo sacro: Su chi si posa il mio sguardo se non su chi è umile e pacifico e teme le mie parole? (cfr. Is 66, 2).
Perciò avendo vissuto grandi e illustri eventi corriamo verso la meta della pace, preparata per noi fin da principio. Fissiamo fermamente lo sguardo sul Padre e Creatore di tutto il mondo, e aspiriamo vivamente ai suoi doni meravigliosi e ai suoi benefici incomparabili.

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