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L’ARMATURA DI DIO (Ef 6, 13-17)

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L’ARMATURA DI DIO

esortazione rivolta ai cristiani, da uno studio biblico del Ministero Sabaoth

« Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere. State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio… » Efesini 6:13-17


L’Apostolo Paolo, guidato dallo Spirito Santo, in Efesini 6:14 ci consiglia cosa fare per resistere nei giorni di lotta. Egli dice che dobbiamo vestire l’armatura di Dio per poter far fronte ai giorni malvagi. Nel testo sono elencate le varie parti di cui è composta questa armatura. Ogni pezzo designa le forme di attacco del nemico contro di noi e la provvidenza di Dio verso ogni tipo di attacco.
L’armatura è di Dio, quindi è Lui che ci provvede ogni pezzo. Noi non sappiamo quando arriverà il giorno malvagio, perciò dobbiamo indossare sempre l’armatura di Dio. Tutti i pezzi dell’armatura rappresentano armi da difesa ad eccezione della spada dello Spirito che è arma di attacco.

LA VERITÀ COME CINTURA DEI FIANCHI (v.14)
Il primo attacco è quello contro la verità di Dio, contro ciò che Dio proclama. È dai tempi dell’Eden che Satana cerca di conquistare l’uomo con la menzogna, l’inganno e le mezze verità. « Voi siete figli del diavolo, che è vostro padre, e volete fare i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna. » Giovanni 8:44
Cosa significa avere cinti i fianchi della verità? Ai tempi biblici la tunica era un indumento usato sia dagli uomini che dalle donne, l’unica differenza era che gli uomini usavano una tunica fino alle caviglie e in genere di un solo colore, ricamata ai bordi e al collo: « Quando gli uomini dovevano lavorare o correre sollevavano il fondo della tunica e lo infilavano nella cintura per acquistare maggiore libertà di movimento. Si diceva « cingersi i fianchi », e tale espressione divenne una metafora per indicare l’essere pronti. Ad esempio, Pietro raccomanda di aver le idee chiare invitando i cristiani a « cingersi i fianchi » della mente (I Pietro 1:13, testo latino).
Anche le donne sollevavano l’orlo della tunica quando dovevano trasportare oggetti da un luogo all’altro. Le Scritture confermano: « Mangiatelo in questa maniera: con i vostri fianchi cinti, con i vostri calzari ai piedi e con il vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua del Signore. » Esodo 12:11
Quindi bisogna cingersi i fianchi con la verità ed essere pronti a proclamare la verità di Dio. Gesù afferma: « Santificali nella verità: la tua parola è verità ». Giovanni 17:17
Allora cingiamoci con la verità attraverso lo studio, la meditazione, la confessione e l’ubbidienza alla Parola di Dio.

LA CORAZZA DELLA GIUSTIZIA (v.14)
L’attacco in quest’area si manifesterà sottoforma di accusa, condanna e orgoglio, cercherà di colpire i nostri sentimenti. Satana cercherà di accusarci davanti a noi stessi e di accusare Dio e i fratelli, lanciando su di noi sentimenti di colpa anche per i peccati già confessati e quindi già perdonati.
La Parola di Dio in Romani 8:1 dichiara: « Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù… »
Egli cercherà anche di investirci con orgoglio spirituale, con « bontà personale », così da portarci a peccare contro Dio, contro i fratelli, la Chiesa, le nostre autorità, ecc. In genere quando accettiamo queste cose per noi è arrivato il giorno malvagio. Dobbiamo dunque essere custoditi dalla giustizia di Dio, credendo che tutto ciò che abbiamo è frutto della Sua bontà, non permettendo che il diavolo ci accusi o ci condanni, perché siamo già stati giustificati da ogni fallo e delitto.
« …vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono – infatti non c’è distinzione… » Romani 3:22
« essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen. Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l’uso naturale in quello che è contro natura… » Romani 1:25-26

LE CALZATURE AI PIEDI (lo zelo per annunciare il Vangelo) (v.15)
Qui l’attacco avviene in forma di persecuzione e disanimo per soffocarci e toglierci dal territorio di Dio, provocando passività, cadute in compromessi, ed ogni altra cosa, pur di portarci ad una posizione di comodità.
Il compromesso con il peccato o la semplice passività sono tattiche molto usate dal nemico. Molti credenti nelle Chiese sono passivi e accettano tutto ciò che succede loro senza reagire e combattere per ciò che posseggono.
Uno dei primi frutti che si manifestano nella nostra vita cristiana quando veniamo a Gesù, è lo zelo per la propagazione del Vangelo. Infatti desideriamo che i nostri famigliari, amici, colleghi e tutto il mondo conoscano come noi i benefici della salvezza e l’immensa gioia che questa porta, ma subdolamente Satana innalza qualcuno per diffamarci, per darci dei « pazzi », per scoraggiarci o ancora, per mettere persone ambigue sul nostro cammino, proponendoci anche ottime occasioni lavorative o qualsiasi altra attrattiva pur di distrarci e portarci via il nostro zelo. Questa forma di attacco purtroppo non si manifesta solo nella vita dei neofiti, ma in modo continuo nella vita di ogni singolo credente.
Il profeta Ezechiele menziona l’ozio e la vita facile tra i peccati di Sodoma (« Ecco, questa fu l’iniquità di Sodoma, tua sorella: lei e le sue figlie vivevano nell’orgoglio, nell’abbondanza del pane, e nell’ozio indolente; ma non sostenevano la mano dell’afflitto e del povero. » Ezechiele 16:49).
Certamente questa non è la volontà di Dio per noi, per questo dobbiamo difenderci mantenendo i nostri cuori pieni di zelo per la propagazione del Vangelo, non accettando nulla di meno nelle nostre vite di un cuore che bruci per Dio e per la salvezza delle anime.
Tutto ciò allontanerà da noi questo tipo di attacco. Ricordiamoci che le calzature dello zelo coprono i piedi e questo significa che senza zelo non possiamo correre bene. Se il diavolo riesce a rubarcelo saremo fermati.

LO SCUDO DELLA FEDE (v.16)
La Bibbia dichiara: « Or senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano ». Ebrei 11:6
« …poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, com’è scritto: ‘Il giusto per fede vivrà’. » Romani 1:17
« Poiché tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. » I Giovanni 5:4
È chiaro che Satana cercherà di minare la nostra fede in modo da non essere più graditi a Dio e non potere più adempiere alla sua volontà di vivere per fede e di vincere il mondo. L’attacco maligno in questo caso avverrà attraverso l’incredulità, il dubbio e le paure. Lo scudo è l’arma di difesa più importante perché se usato bene può proteggere anche tutto il corpo. Questo attacco alla nostra fede può avvenire in svariati modi: con l’incredulità, il dubbio e le paure. La Bibbia dice che la fede è certezza (Ebrei 1:1), perciò noi rimaniamo fermi su questa certezza acquisita attraverso la Parola di Dio per resistere agli attacchi maligni (« Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo. » I Pietro 5:9).

L’ELMO DELLA SALVEZZA (v.17)
L’elmo della salvezza ci parla di un attacco nella mente. La mente è la sede dell’anima dove risiedono le nostre emozioni, i desideri, la volontà, ecc. ed è proprio nella nostra mente che Satana cercherà di intrufolarsi con i suoi pensieri per farci pensare in modo carnale, facendoci desiderare il mondo dei sensi invece del mondo dello Spirito.
Per difenderci da questi attacchi dovremo continuamente ricordarci che la salvezza è totale e che comprende anche l’anima. La nostra mente viene rinnovata di continuo e dal momento in cui accettiamo Gesù il destino della nostra anima è la salvezza, quindi non dobbiamo permettere a nessun tipo di pensiero che non sia in accordo con la Parola di Dio di occupare le nostre menti.
Così facendo saremo protetti dagli intenti maligni. « Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri. » Filippesi 4:8

LA SPADA DELLO SPIRITO, LA PAROLA DI DIO (v.17)
La spada rappresenta chiaramente un’arma di attacco ed è l’unica arma di attacco presente nell’armatura del credente. Dato che dunque dobbiamo attaccare, lasciamo ogni dubbio sulla Parola di Dio.
Il diavolo cercherà sempre di rubare la Parola di Dio dai nostri cuori, così che non produca frutto (Matteo 13:19), o ancora cercherà di accecare le nostre menti così da non farci riconoscere la verità (II Corinzi 4:4). Non solo, ma si intrufolerà in mezzo ai santi con « …dottrine di demoni… » (I Timoteo 4:1), con accuse sulle nostre vite, su chi siamo in Gesù, sui fratelli, ecc.
Come lo farà? Seminando nella mente dubbi, confusioni e incomprensioni che noi dovremo immediatamente confrontare con la Parola di Dio per respingerli. Ogni volta che veniamo attaccati dobbiamo chiederci se ciò che riceviamo nella nostra mente provenga dal diavolo oppure dalle persone che ci stanno intorno e se sia in accordo o in disaccordo con la Parola di Dio. È importante inoltre non dimenticare che il diavolo usa le persone che ci stanno intorno per colpirci, soprattutto quelle a noi più vicine o che abbiano maggior influenza affettiva su di noi, sempre che essi si lascino manipolare. « …il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. » Efesini 6:12

ALCUNE CARATTERISTICHE DELLE ARMI DA COMBATTIMENTO SPIRITUALI
« …infatti le armi della nostra guerra non sono carnali, ma hanno da Dio il potere di distruggere le fortezze, poiché demoliamo i ragionamenti e tutto ciò che si eleva orgogliosamente contro la conoscenza di Dio… » II Corinzi 10:4-5a
Sono armi date da Dio.

ARMI DI LUCE
« La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. » Romani 13:12
Se una persona inizia la battaglia spirituale e si trova nel peccato ne rimarrà ferita.

ARMI DI GIUSTIZIA
« …con le armi della giustizia a destra e a sinistra… » II Corinzi 6:7b
lett: le armi di destra, offensive (la spada), e di sinistra, difensive (lo scudo).
La giustizia di Dio è dunque la nostra arma di difesa e di attacco.

 

IN QUARESIMA CON SAN PAOLO – 1. LA LIBERTÀ SECONDO SAN PAOLO: DIVENTARE «NUOVA CREATURA»

http://www.toscanaoggi.it/Dossier/In-Quaresima-con-San-Paolo

IN QUARESIMA CON SAN PAOLO

Come ogni anno, Toscanaoggi propone ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima un itinerario di meditazione. In occasione dell’Anno Paolino, indetto dal Papa per il bimillenario della nascita di San Paolo, il percorso di quest’anno è incentrato intorno all’«Apostolo delle Genti». Ad illustrare, secondo alcune prospettive particolari, l’opera e la predicazione paolina è monsignor Benito Marconcini, noto biblista e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale
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di Benito Marconcini

1. LA LIBERTÀ SECONDO SAN PAOLO: DIVENTARE «NUOVA CREATURA»

Paolo sperimenta la libertà incontrando Cristo che gli «appare», lo «afferra», lo «ama e per lui si consegna». Da questa esperienza attinge le risposte per risolvere i problemi delle comunità di Tessalonica, Corinto, Galazia, Roma, Filippi e scopre verità capaci di liberare l’uomo dal male per farlo camminare in una vita nuova.
Il tema della liberazione è quasi un’esclusiva di Paolo, comparendo 24 volte nelle lettere autentiche, solo 2 volte in quelle di tradizione paolina e 12 negli altri scritti neotestamentari. I termini usati indicano sia il processo di liberazione, cioè il superamento di una situazione di schiavitù, sia il fine e la fine di questo sviluppo, cioè il godimento della libertà: il contesto aiuta a comprendere se prevale l’aspetto dinamico (liberazione) o finale (libertà).
Alla parola libertà/liberazione Paolo dà un senso diverso da quello comune che intende abbattimenti di dittature, superamento di discriminazioni, acquisizione di diritti. Queste libertà, anche se ottenute, spariscono facilmente, senza la libertà interiore, la quale attraverso Cristo rende l’uomo «nuova creatura» (2Cor 5,17). Drammatica è la situazione della persona senza Cristo, incapace di fare il bene, rappresentata nell’«io» di Rm 7. «Io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me». Il peccato rende schiavo l’uomo (Rm 6,17.20).

È possibile ritrovare tre livelli di peccato nei diversi elenchi dell’epistolario. In superficie appaiono i sintomi del peccato, radicato nel cuore dell’uomo. Tra un elenco breve di manifestazioni qualificanti le persone (1Cor 6,9b-10: ne conta 10) e uno lungo e ampiamente spiegato (Rm 1,24-32: oltre 20 termini) riportiamo quelli che la lettera ai Galati (5,19-20) chiama «desideri o opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere».
La spinta a queste azioni deriva da un duplice sentimento e cioè il desiderio interiore di agire egoisticamente, denominabile bramosia (o epithymia: Rm 1,24) e l’atto esterno che porta a compimento quanto desiderato, identificabile con cupidigia cattiva, la voglia di possedere di più, cose o persone che siano (Rm 1,29: pleonexia kakia). Bisogna scendere più in profondità, nel cuore per trovare la radice, l’origine di ogni male, il peccato nel senso più vero chiamato comunemente amartia: in Rm 7 il termine compare 14 volte e nell’intera lettera 45 volte. Amartia è capovolgimento dell’istinto religioso fino a servirsi di Dio, anziché servirlo e orientamento di fatti e persone a proprio vantaggio. È una situazione permanente che si contrappone alla giustizia (diakiosyne), dono di Cristo. È l’amore di sé fino al disprezzo di Dio: è un egoismo totale. Il peccato è come un tumore che sgretola l’organismo spirituale e porta all’incapacità di fare il bene. «È una forza personale, ma personificata, sopraindividuale e anteriore a ogni trasgressione, a cui l’uomo è tendenzialmente asservito» (R. Penna).
In presenza del peccato, anche la Legge (tôrah) osservata scrupolosamente non rende buono l’uomo. Essa certamente è «santa e santo, giusto e buono è il comandamento» (Rm 7,12). Dà la conoscenza del bene che, se non fatto, accresce la responsabilità dell’uomo. Anche quando le azioni appaiono buone non hanno da sé la capacità di salvare. Anzi, in presenza del peccato, possono condurre o all’esaltazione o alla depressione. La Legge comanda di fare il bene, ma non dà la forza per compierlo. In definitiva essa rende tutti colpevoli davanti a Dio: «quelli che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione» (Gal 3,10). La sua funzione di far conoscere il peccato contribuisce ad accrescerne la responsabilità: «la Legge sopravvenne, perché abbondasse la caduta» (Rm 5,20). La Legge è solo un pedagogo, conduce a Cristo che rende gli uomini figli di Dio mediante la fede (Gal 3,24). Anche attraverso la Legge il peccato conduce alla morte spirituale (thanatos), entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24). Essa ha regnato nella storia, finchè «per l’opera giusta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rm 5,18). Nasce così la vita secondo lo Spirito, oggetto del prossimo argomento.

2. La vera libertà viene dallo Spirito
Lo Spirito è il mistero nel mistero di Dio. Non ha volto ed è descritto nella Bibbia, per la sua capacità trasformante, attraverso immagini quali il vento, l’acqua, il fuoco, la potenza, la colomba.
Conosciuto dagli effetti, rende l’uomo suo tempio («naos»: 1Cor 6,19). La sua presenza nella persona rivela e qualifica la vita cristiana, distinguendola da ogni altra forma di vita religiosa o spirituale. La forte immagine secondo la quale l’uomo abitato dallo Spirito ne diventa tempio e casa, permette di individuare le quattro colonne di questa costruzione che è l’uomo nuovo.
La prima è la giustizia che senza obbligo per Dio trasforma il peccatore in amico. Essa è pura gratuità, misericordia (Rm 5,9), amore (5,5; 8,39), grazia (3,24; 5,2) ed è offerta a tutti gli uomini. Ciò comporta la figliolanza che secondo la concezione giuridica dell’adozione, costituisce figli (Rm 8,15) con tutti i diritti degli altri membri della famiglia e rende la persona abitazione divina, luogo sacro o tempio.
La seconda colonna dell’edificio spirituale, la speranza, considerata un tempo sorella minore della sacra triade, ha oltrepassato le altre. Essa «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Fondata su Dio già definito «speranza di Israele» (Ger 14,8), questa virtù teologale (cioè che riguarda Dio) rende certi del compimento delle promesse divine, anche se la realtà attorno sembra smentire l’avveramento. Questo implica nell’oggi la certezza del superamento delle limitazioni e della trasformazione della sofferenza in gioia sulla base della morte di Cristo cambiata in vita e nel futuro la partecipazione alla sua gloria e al suo regno nella fase definitiva: ha i suoi luoghi nella preghiera, nella sofferenza e nella fiducia del superamento del giudizio finale.
La speranza trova fondamento nella fede, in quello che Dio ha detto e fatto e si configura come «risposta integrale dell’uomo a Dio che si rivela come suo salvatore e include l’accettazione del messaggio salvifico e la fiduciosa sottomissione alla sua parola» (J. Alfaro). Questa fede quale coscienza dell’impossibilità di raggiungere la salvezza da soli e certezza di riceverla come dono è un atto libero e un voler fidarsi e affidarsi a Dio e trova compimento nell’amore/agape. Questo, brillantemente espresso nell’inno di 1Cor 13, è manifestazione dello Spirito, è vincolo di unione tra Dio e l’uomo e tra gli uomini, centro della rivelazione, segno efficace della presenza di Dio nel mondo: «chi ama l’altro ha adempiuto la legge» (Rm 13,8.10). Quest’amore divino permette a Paolo di delineare la vita diretta dallo Spirito in cinque momenti. «Quelli che da sempre Dio ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo [?] quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati, quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). L’azione dello Spirito che accompagna l’uomo dal momento in cui Dio lo pensa, nella fase terrena e nella gloria infonde una certezza: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28).
Le due considerazioni fatte donano alla persona un sentire profondo (phronema: Rm 8,6.7.27) che oltrepassa la razionalità, reso dalla Bibbia Cei prima come«desideri», ora come un «tendere», da altri «pensiero»: effetti sono la vita e la pace. Questo pensiero è presente attraverso la forma verbale (phronein) che introduce l’inno centrato su Cristo che «svuotò e umiliò se stesso, assumendo una condizione di servo [?] per cui Dio lo esaltò, perché ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore» (Fil 2,5-11). Lo Spirito fa sperimentare alla persona la realizzazione di sé attraverso il servizio, conducendola alla libertà (2Cor 3,17): risulta così capovolta una mentalità diffusa che spinge a dominare gli altri per riuscire nella vita.
La quarta colonna dell’edificio spirituale è la percezione interiore e sicura che tutti i doni dello Spirito costituiscono solo un pegno (arrabon: 2Cor 1,22), una primizia (aparche: Rm 8,23). La certezza che il meglio deve ancora venire assume quasi la forma di un diritto donato che troverà compimento nell’eternità. Unità e varietà dei doni trovano qui una sintesi: «il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). La persona così costruita ha raggiunto la libertà e vive di libertà.

3. Dalla libertà alla «koinonia»
La liberazione realizzata dal dono di Gesù nel mistero pasquale e partecipata nel battesimo svuota il cuore da ogni negatività e lo riempie dello Spirito, facendo emergere una «nuova creatura» (2Cor 5,17). Questa non vive da sola la ricchezza ricevuta, è spinta ad allacciare legami, a interessarsi, a partecipare alla comunità. Essa vive la koinonia o comunione, considerata una definizione dinamica della vita cristiana. Più di altri termini, koinonia pone in evidenza l’unione verticale con Dio e orizzontale con i fratelli nelle 13 ricorrenze dell’epistolario autentico (compare 6 volte nel resto del NT). Essa indica l’unione di mente, volontà, cuore dell’uomo. Cinque sono i testi più importanti sul duplice orientamento dell’essere con, del dare e ricevere partecipazione. «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,9). La comunità di Corinto, nota per la dissolutezza dei costumi, la litigiosità e la presenza di partiti contrapposti, è rassicurata da Paolo che la fedeltà di Dio prevarrà alla fine su tutte le divisioni: Dio realizzerà la vocazione dei Corinti a restare uniti a Gesù, Messia (Cristo), salvatore (Gesù), risorto, Signore glorioso o Kyrios. Ancora ai Corinti Paolo, all’interno di una formula trinitaria, augura, o meglio, rende certi dell’unione allo Spirito. «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (sono) con tutti voi» (2Cor 13,13). La koinonia dello Spirito comporta sia l’unione realizzata dal frutto dello Spirito (cfr Gal 5,22), sia quella con la persona stessa dello Spirito. Koinonia è associata al Padre soltanto nella Prima Lettera di Giovanni (1,3), ma è equivalentemente presente quando la comunità è fonte per i credenti di ogni dono che unisce. «La chiesa è in Dio Padre» (1Ts 1,1), elargitore di «grazia e pace, misericordioso, fonte di ogni consolazione» (2Cor 1,2-3), desideroso di reciproca intimità e familiarità che autorizza i credenti a «gridare: ‘Abba! Padre!» (Rm 8,15), così come fece Gesù nel Getsemani (Mc 14,36) e per noi fa continuamente lo Spirito (Gal 4,6).
L’autentica unione al Padre, Figlio e Spirito si allarga ai fratelli. È quanto afferma il discepolo di Paolo, Luca, negli Atti degli Apostoli, specialmente nei tre sommari di vita comunitaria (At 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16), il primo dei quali contiene la parola koinonia. «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). Qui «comunione» è chiave interpretativa di tutti gli episodi seguenti, non solo della prima parte degli Atti, dove guida è Pietro, ma anche della seconda parte, che presenta Paolo intento a fondare nuove comunità. «Comunione» infatti, assieme all’esperienza del Risorto, include l’elemento interiore, l’essere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Questa espressione racchiude il massimo grado di unione attraverso la formula greca (essere una sola anima) e quella biblica, evocativa dello ?ema’ (Dt 6,4) dell’amore di Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, esteso da Gesù al prossimo (Mt 22,39): Luca qui ha «fuso totalmente l’eredità veterotestamentaria ricevuta dai LXX col patrimonio greco» (E. Haenchen).
Il passaggio dalla comunione con la Trinità all’unione con gli uomini e tra loro avviene per Paolo attraverso la presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo; tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17). La comunione reale con Gesù, efficacemente espressa come unione al sangue e al corpo di Cristo, si estende a tutti i credenti che formano il corpo totale di Cristo. Essi sono uniti non principalmente attraverso una solidarietà etnica, storica e culturale, ma per una necessaria estensione dell’unione a Gesù, presente e nascosto sotto le specie eucaristiche. È la chiesa che nasce dall’Eucarestia e vive dell’Eucarestia. «L’espressione ?un solo corpo? e ?un solo pane? non si riduce a una formula simbolica per tradurre in modo pregnante la comunanza di vita di quelli che condividono la commensalità? c’è una relazione strettissima tra il corpo di Cristo eucaristico e quello ecclesiale. Il primo non è solo segno, ma centro dinamico e vitale del secondo» (R. Fabris).
Quest’ultima affermazione pone una stretta relazione con 1Cor 11,23-30 che contiene il «vangelo dell’Eucarestia», ricco di due verità. I partecipati al banchetto eucaristico diventano un unico « corpo », sono la visibilità di quel « mistico » organismo di cui Gesù è il capo, gli uomini le membra (cfr 1Cor 12; Rm 12). Inoltre 1Cor 11,25 «questo calice è la nuova diatheke», cioè impegno solenne, nel mio sangue (cfr Lc 22,20; Ger 31,31-34) esprime la volontà irreversibile del Padre e di Gesù di essere sempre compagnia dell’uomo: è il trionfo della divina misericordia.

4. La morale paolina: l’amore come dono
La dimensione etica della vita cristiana scaturisce dalla persona, divenuta «nuova creatura». Per questo spesso Paolo unisce strettamente la narrazione dell’evento Cristo e l’esortazione a viverlo quotidianamente nella fedeltà alle norme, quali segni del cambiamento interiore. La complementarietà tra motivazioni e impegni pratici risalta anche dai modi dei verbi, che alternano indicativo e imperativo. Fondamento della nuova etica è il mistero pasquale partecipato all’uomo nel sacramento del battesimo che rende figli di Dio e il dono dello Spirito propulsore dell’agire morale fino al compimento della storia. «Tutti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo [?] tutti quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Gal 3,27-28; Rm 8,14). «Senza il legame con il kerigma, l’etica cristiana rischia di livellarsi a semplice moralismo situazionale e senza l’etica, il kerygma del vangelo corre il pericolo di essere mutato in una forma di gnosi disincarnata: tra lo Scilla del moralismo e il Cariddi del agnosticismo transita l’attualità dell’etica paolina» (A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, 494).
La parte pratica presente in elenchi di virtù da incrementare e vizi da sradicare, trova l’esempio più completo in Rm 12. Questo capitolo da una parte, attraverso l’espressione «vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio», conclude la densa dottrina centrata sulla «giustizia» riflessa nella vita di Abramo e sull’«agape» che osa sperare perfino nella conversione di Israele, e dall’altra inizia l’esposizione di un ampio progetto di vita (Rm 13,1-15,13).
Ottimo per un esame di coscienza, Rm 12 si snoda in tre parti, paragonabili a un albero che affonda le radici nella «misericordia» presentata come «giustizia» (capp. 1-4) e «agape» (capp. 5-11) e si sviluppa nel tronco e nei rami e giunge a dare i frutti. «Vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (12,1-2). Questa sintesi dei principi dell’agire morale o di morale generale è centrata su Dio, nominato due volte, come avveniva per il kerygma (1,16-17). Per esprimere il dono di sé a Dio, Paolo usa il linguaggio sacrificale e parla di offrire i «corpi», cioè la persona in quanto si manifesta, abolendo ogni sacrificio di animali non più gradito al Signore.
Questa novità cristiana di rivolgersi in alto ha una sua logica, acquista senso davanti a Dio. «Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia» (Rm 6,13). Paolo ritorna su un pensiero precedente, parlando dei credenti come tempio (1Cor 3,16; 6,19), riallacciandosi a Gesù presentato come agnello pasquale (1Cor 5,7) e strumento di espiazione (Rm 3,25). Il dono di sé al Signore si esplica in un retto comportamento che esige di rifiutare il male presente in questo mondo, nell’ambiente cioè non ancora permeato dal vangelo e rinnovare la propria mentalità che si concretizza nel «discernere» (dokimazein). Ogni situazione racchiude un volete divino: per scoprirlo necessita un’attività mentale, una valutazione, una scelta. Anche quando la scelta di Dio è definitiva e convalidata dal tempo, il credente è chiamato ogni giorno a scegliere quel dettaglio per far crescere in sé un Cristo inedito. Tre aggettivi aiutano a fare la scelta giusta. Preferire ciò che è buono per gli altri, ciò che piace a Dio specialmente quando crea armonia e non dare occasione al diavolo di danneggiare, come avviene nella discordia e infine quanto facilita il proprio cammino verso la perfezione.
Una seconda parte (12,3-8) invita ad avere un giusto concetto di sé (ripreso al v.16) e a svolgere il compito assegnato nella comunità con semplicità, diligenza, gioia, in modo che il cammino di perfezione diventi spedito nel tendere all’unità nella diversità.
La terza parte (12,9-21) costituisce una dettagliata analisi dell’agape (v.9), nelle manifestazioni interne (vv.9-13) ed esterne alla comunità (vv.14-20) conclusa con un forte invito: «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21): utile sarebbe un confronto con l’inno all’agape di 1Cor 13. Rm 12 presenta una morale obiettiva che trova il suo modello nel dire e fare di Cristo; dinamica sia per il richiamo all’attività del credente, sia per la necessità di lasciarsi guidare dallo Spirito, come detto ampiamente in Rm 8; concreta perché lascia intendere un esercizio quotidiano; comunitaria per la verifica quale emerge dalla risposta dei fratelli; missionaria, perché si configura per i non credenti come proposta senza imposizione. Una frase di S. Agostino fa emergere la diversità tra persone e comunità che si ispirano a questa morale e altre che si lasciano guidare dall’egoismo. «Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri».

5.L’Attesa dei tempi ultimi
L’escatologia o eventi ultimi è l’orizzonte nel quale Paolo considera la vita umana dell’individuo, della comunità e del cosmo; è la dimensione del futuro in tutti gli aspetti del credere e del riflettere; colta nella speranza è il compimento di una storia che è un fine più che una fine: essa ha trovato il vertice e un senso nuovo in Cristo Risorto. La risurrezione di Gesù Cristo, fondata su molteplici testimoni che lo hanno «visto» (cfr 1Cor 15,3-8) e riflessa in titoli, quali Cristo Signore (cfr Fil 2,11; 1Cor 16,22), Figlio di Dio (Rm 1,9) è partecipata ai credenti nel battesimo. Attraverso questo «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinchè, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova [?] anche voi consideratevi viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,4.11).
L’essere in Cristo e con Cristo è già esperienza di risurrezione e garanzia di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,10-11). Per convincere i Corinti, che la ritengono impossibile (cfr At 17,32), Paolo dà qualche spiegazione su «come risorgono i morti» e «con quale corpo verranno» (1Cor 15,35). Intanto con il termine sôma, «corpo», diverso da sárx «carne», legata alla debolezza e alla peccaminosità (cfr 1Cor 15,50), Paolo indica l’uomo intero nel suo manifestarsi. Tra il corpo terreno e quello glorificato c’è diversità e continuità, da conservare in una tensione equilibrata. Si contrappongono (cfr 1Cor 15,42-44) corruzione e incorruttibilità, umiliazione e gloria, debolezza e potenza. Con forza è affermata l’identità della persona nella trasformazione del corpo, illustrata mediante l’immagine del seme (cfr 1Cor 15,43) e fondata sulla potenza divina. L’intervento di questa dà luogo a un evento ultimo, che pone fine al tempo presente e cioè la venuta gloriosa di Gesù Cristo: il ritorno sarà diverso dalla prima comparsa nel mondo.
Il termine parousía compare 14 volte nell’epistolario paolino su un totale di 24 ricorrenze neotestamentarie. Nel primo scritto Paolo considera i tessalonicesi sua speranza, gioia, corona di gloria «davanti al Signore nostro Gesù Cristo alla sua parusia» (1Ts 2,19) e auspica che essi siano conservati irreprensibili davanti a Dio «nella venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,13). La speranza di incontrare Cristo rende i tessalonicesi sicuri dinanzi al giudizio finale (cfr 1Ts 1,10), riservato invece agli uccisori di Cristo (cfr 1Ts 2,16): i credenti saranno «irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23). Questa certezza risolve il problema di quei fedeli che si preoccupavano per coloro che erano già morti. Alla parusia – si chiedevano – i morti potranno godere dell’incontro con il Signore? I viventi – risponde Paolo – non avranno alcun vantaggio in quel giorno rispetto ai già defunti (cfr 1Ts 4,15). Alla venuta finale ci sarà la risurrezione di quelli che sono di Cristo (cfr 1Cor 15,23). Ambedue gli eventi, parusia e risurrezione, costituiranno il compimento (télos) della storia. Questo comporterà anche l’annientamento di ogni negatività (principato, potestà, potenza, morte) e la consegna del regno al Padre (cfr 1Cor 15,24). La parusia pertanto può essere descritta come lo svelamento definitivo di una storia salvifica del singolo, dei popoli e del mondo al momento della venuta gloriosa di Gesù Cristo. Allora avrà compimento l’intero sviluppo della storia.
È corretto allora parlare di «escatologia realizzata»? L’escatologia non è solo quella finale, ma inizia con la venuta sulla terra del Figlio di Dio che dà «pienezza» al tempo (Gal 4,4) e inaugura il regno definito «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). È possibile già oggi vivere la koinonia (comunione) che caratterizza l’autentica vita cristiana. Il credente partecipe «della potenza della risurrezione» (Fil 3,10) diviene «nuova creatura» (2Cor 5,17; cfr Rm 6,4; 7,6) vivendo ogni giorno in Cristo (Fil 1,21), finchè «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). È questa la «caparra» (2Cor 1,22; 5,5) e la primizia (1Cor 15,23) ricevuta dal cristiano nel tempo dell’«escatologia che si realizza» o del «già e non ancora». Questa certezza rende spedito e gioioso il cammino verso il futuro. «Niente e nessuno può togliermi l’amore di Cristo. È certezza di Paolo. Noi possiamo perderlo. Lui non ci perde mai. È questo il Patto sottoscritto con il Sangue della Croce. Un patto per sempre. Il che vuol dire che se lo perdiamo lo possiamo ritrovare. Egli viene sempre all’appuntamento. Per questo la fede diventa ogni giorno, dovunque e in ogni circostanza, speranza. Poter ricominciare senza aver mai finito di incontrarlo» (G. Pattaro).

MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2012 (non è anno A) PAPA BENEDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120222_ceneri_it.html

STATIO E PROCESSIONE PENITENZIALE DALLA CHIESA DI SANT’ANSELMO
ALLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO
SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di Santa SabinDE
Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012 – non è anno A (B credo)

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.
Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).
Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.
Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).
E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).
Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).
I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.

LA GRANDE QUARESIMA (ORTODOSSIA)

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/grandequaresima.htm

LA GRANDE QUARESIMA (ORTODOSSIA)

Definizione, contenuto e senso
Il desiderio principale, fondamentale e permanente di ogni cristiano è il desiderio di Dio, e comporta quanto i Padri denominano con il termine metanoia, ossia un’unione e un ritorno del nostro intelletto e del nostro cuore – con i quali cerchiamo di andare verso Dio –, verso le cose di lassù, verso la Luce Divina che illumina ogni uomo che viene nel mondo (Gv 1, 9), rigettando le opere delle tenebre, il Diavolo e il peccato.
Le prime parole di Cristo, all’inizio della sua vita pubblica, sono un’esortazione alla conversione: Pentitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino (Mt 4, 17). Questo pentimento e conversione devono accompagnare la vita cristiana dal momento in cui essa nasce per opera dello Spirito Santo nel battesimo, fino all’ultimo respiro, poiché, senza pentimento, noi ritorniamo verso le tenebre, il nulla e la morte. Il significato è suggerito dal senso stesso del termine metanoia, parola greca formata da due radici : meta, che significa “al di là, cambiamento, trasformazione” e noûs, “spirito, intelletto”. Il termine italiano “pentimento” è a volte utilizzato per tradurre metanoia, ma l’espressione “conversione dello spirito” indica più profondamente il senso spirituale che è supposto dai Padri quando parlano di metanoia.
Per non essere equivocati, è di capitale importanza distinguere il pentimento dalla colpevolezza. Se il vero pentimento è il rivolgimento dello spirito verso Dio, dal momento che Dio è il misericordioso che perdona le cadute umane, la colpevolezza è una chiusura dello spirito su se stesso, sulle sue machevolezze e sui suoi peccati. La colpevolezza dubita della misericordia e del perdono divino; essa porta allo scoraggiamento e alla disperazione. La colpevolezza è una falsa umiltà, essendo un orgoglio mascherato dal Nemico: la vera umiltà significa riconoscere le proprie mancanze e accettare il perdono divino. Il cristiano nel suo cammino esistenziale, conserva il ricordo delle sue mancanze, ossia della sua responsabilità, non della sua colpevolezza. La prima è salutare, la seconda è diabolica.
È, dunque, in un costante spirito di conversione che il cristiano cammina verso Dio. La grazia della conversione è quella del battesimo che ci trasforma in “uomini nuovi”, essendo stati purificati nel Cristo attraverso lo Spirito Santo. Tuttavia in questa via siamo sempre dei pellegrini, siamo sempre in cammino. Fino al termine del nostro viaggio, gli ostacoli, le distrazioni e i turbamenti al di fuori del Cammino che è Cristo (Gv 14, 6), ci assalgono da ogni lato. Prendiamo facilmente strade sbagliate che ci allontanano da Dio; ci perdiamo su vie tortuose che ci portano alla morte, in dispetto delle loro apparenze a volte attraenti; morte non solo del corpo ma pure dell’anima. Infatti l’anima senza Dio è già “morta” poiché è privata della sua Sorgente e Nutrimento.
La Santa Chiesa ci propone in ogni istante, lungo tutto l’anno, dei mezzi per ricordarci il cammino da seguire. Essi consistono nella partecipazione alla vita sacramentale, in particolar modo all’Eucaristia e nella celebrazione della Divina Liturgia in occasione delle domeniche e delle grandi feste. Esiste, tuttavia, un periodo dell’anno liturgico nel quale la Chiesa ci invita in modo speciale a lottare contro le tenebre e il peccato e a purificare l’uomo interiore con una lunga preparazione che ci permette di entrare pienamente nei misteri della Grande Settimana nella quale si vive la Passione di Nostro Signore, si muore con Lui per potere, al mattino di Pasqua, risuscitare con Lui e far parte del Regno preparato per noi prima della creazione del mondo.
Questo periodo è la Grande Quaresima che precede la Pasqua. La Quaresima è caratterizzata da due attitudini fondamentali che trovano una significativa sintesi nell’espressione “radiosa tristezza”. Siamo tristi perché siamo coscienti delle nostre mancanze, della nostra distanza dal percorso che ci conduce a Dio; siamo tristi perché siamo coscienti d’essere lontani dalla perfezione di Cristo, dalla santità alla quale siamo chiamati (Mt 5,48). Ma, allo stesso tempo, la nostra tristezza è illuminata dalla coscienza dell’amore di Dio, “unico amico degli uomini”, dalla misericordia divina nella quale possiamo porre tutta la nostra confidenza. Come il Figlio prodigo, sappiamo che il nostro Dio ci attende per recarci una veste nuova e un anello al dito, appena cercheremo di fare il minimo sforzo per tornare verso Lui e entrare nel pentimento e nella metanoia (cfr. Lc 15, 20-24). La nostra tristezza è radiosa perché è illuminata dalla luce della Resurrezione di Cristo che è segno della nostra futura entrata con Lui nel Regno del Padre.
Questi due moti dell’animo, apparentemente contradditori, devono animare il cristiano lungo tutto l’anno, specialmente in vista della sua partecipazione all’opera della Grande Quaresima, opera contemporaneamente personale e collettiva. Poiché se la metanoia è un gesto profondamente personale, trova la sua espressione nei riti e nei consigli della Chiesa, nella comunità cristiana della quale noi facciamo parte. Nonostante dobbiamo lavorare da soli, portiamo ugualmente la nostra “dolorosa gioia” – altra espressione cara all’Ortodossia – con i nostri fratelli e sorelle che camminano assieme a noi. Possiamo così trarre ispirazione, coraggio e forza da questa condivisione, in particolare dalla condivisione delle ricchezze dei mezzi che la Chiesa ci mette a disposizione durante la Quaresima.
Questi mezzi possono riassumersi in due principali pratiche: la preghiera e il digiuno (Questo genere di demoni non possono essere vinti se non con la preghiera e il digiuno – Mt 17, 21). La preghiera è sia personale, sia comune. La Chiesa ci propone dei periodi di preghiera, delle ufficiature speciali, che ci parlano con una grande eloquenza di parole e gesti simbolici e che ci invitano a entrare nell’esperienza di questa conversione dell’anima, essenziale alla vita cristiana (confronta a tal proposito la Preghiera di Sant’Efrem). Il digiuno che essa ci invita a compiere è allo stesso tempo dagli alimenti e dello spirito, poiché il “digiuno” al quale siamo chiamati è un digiuno dell’anima, una purificazione attraverso l’ascesi dalle passioni, abitudini che ci impediscono d’avanzare verso Dio. È un digiuno contemporaneamente personale e comunitario: la Chiesa tutta intera vive il tempo di Quaresima come un periodo di digiuno. La Grande Quaresima è la Chiesa fintanto che si prepara nell’attesa che l’opera di salvezza si compia.
Per la sua fertile prospettiva, questo periodo è detto la “primavera dell’anima”. Non è per caso che cada proprio nella stagione primaverile, momento in cui la natura si rinnova ed esplode la nuova vita, dopo l’oscurità invernale.

Estensione della Grande Quaresima
La Grande Quaresima dura quaranta giorni. Tuttavia, non è possibile passare da un regime spirituale e alimentare normale ad un regime austero qual’è quello che contraddistingue il periodo quaresimale. Per questo la Chiesa in Occidente e in Oriente ha collocato un periodo intermedio tra il tempo liturgico ordinario e quello quaresimale. È un tempo nel quale si comincia ad abituare dolcemente il corpo e lo spirito ad un regime più esigente. Tale tempo intermedio in Occidente era denominato “Tempo di Settuagesima” e si estendeva nelle tre settimane precedenti la Quaresima. La sua apparizione avvenne a partire dal IV-V secolo in concomitanza con il fiorire del monachesimo. Con il tempo, allentandosi la tensione penitenziale, tale periodo si è sempre più svuotato di significato fino a quando, con la riforma liturgica della Chiesa cattolica-romana (1967), è stato abolito.
L’Ortodossia conserva l’antico ordinamento che contraddistingueva la Cristianità indivisa e fa dunque precedere la Grande Quaresima con alcune domeniche introduttive. Nello schema che segue è visibile in parallelo l’antico ordinamento liturgico latino e quello antico e attuale dell’Ortodossia.

RADIOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII AI FEDELI DI TUTTO IL MONDO IN OCCASIONE DELL’INIZIO DELLA QUARESIMA – 1963

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/messages/pont_messages/1963/documents/hf_j-xxiii_mes_19630227_inizio-quaresima_it.html

RADIOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII AI FEDELI DI TUTTO IL MONDO IN OCCASIONE DELL’INIZIO DELLA QUARESIMA

Mercoledì delle Ceneri, 27 febbraio 1963

Venerabili Fratelli, diletti figli.

La circostanza singolare del Concilio Ecumenico aperto rende ogni momento dell’anno liturgico opportuno per invitare clero e fedeli a fervore di vita e di impegno cristiano.
Il primo luglio dello scorso anno, nel giorno dedicato al culto del Sangue Preziosissimo di Gesù, con l’Enciclica Poenitentiam agere rivolgemmo un solenne invito alla penitenza: cioè a un mutamento in meglio del modo di pensare e di agire, secondo l’insegnamento evangelico, che è splendore di verità, purezza di costume e — in conseguenza — ricerca e conquista di ogni altra virtù per mezzo della preghiera, dei sacramenti, e della mortificazione.

ESERCIZIO DI CARITÀ E DI OGNI VIRTÙ
Eccoci ora alla quaresima. La prima quaresima dopo l’inizio del Concilio. È il periodo più indicato per progredire nell’acquisto della virtù, e specialmente nell’esercizio della carità verso Dio e verso gli uomini.
« Ecco dunque il tempo accettevole — scriveva S. Paolo ai Corinti — ecco il giorno della salute » (2 Cor. 6, 2) per condurre a più immediata attuazione la legge dell’amore: di un amore, che ha come principio e fine ultimo il Creatore e Legislatore dell’universo, « Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione » (2 Cor. 1, 3); di un amore, che per edificare gli uomini vuol dare ad essi la conoscenza di quelle verità che rischiarano il cammino, dissipano i dubbi, vincono ogni debolezza; di un amore, che si offre in esempio di austerità di costume, di gaudio sereno, di armoniosa convivenza domestica e sociale.
Questo vuol essere la quaresima per i fedeli di tutti i riti, di quelli che discendono direttamente dalle venerande tradizioni apostoliche e patristiche, e di tutti gli altri delle più recenti e autorizzate forme di vita ascetica e delle nuove applicazioni liturgiche, che tengono in debito conto le esigenze dell’anima popolare, ricca, in ogni gruppo etnico, di autentici e molteplici valori.
E questo vuol essere altresì il punto più alto, cui si volge l’attenzione di ogni uomo, sul quale batte il raggio della prima e massima verità rivelata, e al tempo stesso accessibile alla ragione umana; la verità che attraversa i secoli, e tutto illumina ed accende: Deus est: Dio è: Ego sum qui sum (Exod. 3, 14). A lui la gloria e l’amore.
Le sublimi armonie della Rivelazione prendono più vivido rilievo in tempo di Concilio, che ne è come il libro aperto: dal Credo in unum Deum, fino al: et vitam venturi saeculi. Sopra la verità palpita la perfetta adesione della Chiesa e si raccoglie il sospiro di tante anime, che intravvedono la nuova stagione di grazia preannunciarsi dalle deliberazioni dei Padri radunati attorno al successore di S. Pietro, e con Lui unanimi nell’accogliere le mozioni dello Spirito Santo e nella prontezza al ministero apostolico.
È dunque il Concilio che dà il tono alla quaresima di quest’anno, battendo specialmente l’accento sull’impegno di ogni buon cristiano a vivere il precetto della carità, più che a soffermarsi a contemplare la novella fioritura di cui tutti vorranno allietarsi. È impegno di artefici, quindi, non di spettatori.

ISTRUZIONE RELIGIOSA E PENITENZA CONSAPEVOLE
Voi comprendete, diletti figli, che la Nostra parola, oggi, non vi richiama particolarmente a pratiche esterne, che pure hanno il loro pieno valore; la Nostra parola non rinnova subito e solo l’angoscioso appello a provvedere ai nostri simili più sventurati, immedesimandoci delle loro necessità. Questo appello è permanente nella Chiesa.
Ma vogliamo anzitutto esortarvi ad approfittare della quaresima con applicarvi al gravissimo dovere della istruzione religiosa, e per dare alla penitenza vera ed efficace il posto che le compete, secondo la vocazione e le condizioni di ciascuno.
Studio e meditazione delle verità eterne, che Dio ha voluto comunicare all’uomo nobilitandone l’intelligenza, ed aprendone allo sguardo l’orizzonte infinito del suo disegno di salvezza e di amore. Solo così, in questa luce, l’uomo scopre se stesso, viene a conoscere i suoi ardui, improrogabili doveri, e si determina alla pratica generosa della penitenza, intesa come amore alla croce. È di qui che si riconosce il cristiano sincero e volitivo : soltanto da una condotta austera, che vive e applica la povertà e la rinuncia insegnate da Nostro Signore Gesù Cristo, l’ordine domestico e sociale può ricevere decisivo impulso per un rinnovamento nella verità, nella libertà dei figli di Dio, nella giustizia più vera e profonda, perchè capace di togliere a sé, e dare ai poveri e ai diseredati.
Ecco come, con la istituzione della quaresima, la Chiesa non conduce i suoi figli a semplice esercizio di pratiche esteriori, ma ad impegno serio di amore e di generosità per il bene dei fratelli, alla luce dell’antico insegnamento dei profeti :
Non è piuttosto questo il digiuno che io amo? Sciogli i legami dell’empietà, — ammonisce Isaia —: manda liberi gli oppressi, rompi ogni gravame. Spezza il tuo pane all’affamato e apri la tua casa ai poveri e ai raminghi; se vedi un ignudo, ricoprilo, non disprezzare la tua propria carne. Allora la tua luce spunterà come il mattino, e la tua salvezza germoglierà presto, la tua giustizia camminerà innanzi a te, e la gloria del Signore ti accoglierà » (Is. 58, 6-8).
Questa è la quaresima, questo l’esercizio della vera penitenza, ed è quanto il Signore attende da tutti, nel « tempo accettevole » di grazia e di perdono.

ARDENTE PREGHIERA AL DIVIN REDENTORE
La Nostra voce si diffonde questa sera nelle vostre case, ed è paterno invito a corrispondere generosamente. Nelle famiglie cristiane le solide e antiche tradizioni dell’ecclesiastica disciplina trovano anime sensibili e pronte, che raduniamo idealmente attorno a Noi, perchè il palpito dei cuori salga in preghiera al Divino Redentore.
O Signore Gesù! che sul limitare della vostra vita pubblica vi ritiraste nel deserto, vogliate attrarre tutti gli uomini al raccoglimento che è inizio di conversione e di salute; staccatovi dalla casa di Nazareth e dalla dolcissima Madre vostra, voi voleste provare la solitudine, il sonno, la fame; e al tentatore che vi proponeva la prova dei miracoli, voi rispondeste con la fermezza della eterna parola, che è prodigio di grazia celeste.

Tempo di Quaresima.
O Signore! non permettete che accorriamo alle fontane dissipate (Ier. 2, 13), né che imitiamo il servo infedele, la vergine stolta; non permettete che il godimento dei beni della terra renda insensibile il nostro cuore al lamento dei poveri, degli ammalati, dei bimbi orfani, e degli innumerevoli fratelli nostri, che tuttora mancano del minimo necessario per mangiare, per ricoprire le ignude membra, per radunare la famiglia sotto un solo tetto.
Le acque del Giordano scesero anche su di voi, o Gesù, sotto lo sguardo della folla, ma ben pochi allora poterono riconoscervi: e questo mistero di ritardata fede, o di indifferenza, prolungatosi nei secoli, resta motivo di dolore per quanti vi amano ed hanno ricevuto la missione di farvi conoscere al mondo.
Deh, concedete ai successori degli apostoli e dei discepoli, e a quanti prendono nome da voi e dalla vostra croce, di portare innanzi l’opera della evangelizzazione, di sostenerla con la preghiera, con la sofferenza, con l’intima fedeltà al vostro volere.
E come voi, agnello di innocenza, vi presentaste a Giovanni in atteggiamento di peccatore, attraete anche noi, Gesù, alle acque del Giordano.
Là vogliamo accorrere per confessare i peccati nostri, e purificare le nostre anime. E come i cieli aperti annunziarono la voce del Padre vostro, che di voi, o Gesù, si compiaceva, così, superata vittoriosamente la prova, vissuto austeramente il periodo quadragesimale, su gli albori della vostra resurrezione, possiamo riudire nelle intimità nostre la stessa voce del Padre celeste, che in noi riconosce i figli suoi. O santa Quaresima dell’anno misterioso del Concilio Ecumenico!
Salga questa preghiera, in questa sera di sereno raccoglimento, dalle singole case ove si lavora, si ama e si soffre. Gli Angeli del cielo raccolgano il sospiro da tante anime, di piccoli innocenti, di giovani generosi, di genitori operosi e sacrificai i, e di quanti soffrono nel corpo e nello spirito, e lo presentino a Dio. Di là scenderanno copiosi i doni delle celesti consolazioni, di cui vuol essere pegno e riflesso la Nostra Benedizione Apostolica.

In Quaresima con San Paolo (25/02/2009)

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In Quaresima con San Paolo (25/02/2009)

Come ogni anno, Toscanaoggi propone ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima un itinerario di meditazione. In occasione dell’Anno Paolino, indetto dal Papa per il bimillenario della nascita di San Paolo, il percorso di quest’anno è incentrato intorno all’«Apostolo delle Genti». Ad illustrare, secondo alcune prospettive particolari, l’opera e la predicazione paolina è monsignor Benito Marconcini, noto biblista e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

DI BENITO MARCONCINI

1. La libertà secondo San Paolo: diventare «nuova creatura»
Paolo sperimenta la libertà incontrando Cristo che gli «appare», lo «afferra», lo «ama e per lui si consegna». Da questa esperienza attinge le risposte per risolvere i problemi delle comunità di Tessalonica, Corinto, Galazia, Roma, Filippi e scopre verità capaci di liberare l’uomo dal male per farlo  camminare in una vita nuova.
Il tema della liberazione è quasi un’esclusiva di Paolo, comparendo 24 volte nelle lettere autentiche, solo 2 volte in quelle di tradizione paolina e 12 negli altri scritti neotestamentari. I termini usati indicano sia il processo di liberazione, cioè il superamento di una situazione di schiavitù, sia il fine e la fine di questo sviluppo, cioè il godimento della libertà: il contesto aiuta a comprendere se prevale l’aspetto dinamico (liberazione) o finale (libertà).
Alla parola libertà/liberazione Paolo dà un senso diverso da quello comune che intende abbattimenti di dittature, superamento di discriminazioni, acquisizione di diritti. Queste libertà, anche se ottenute, spariscono facilmente, senza la libertà interiore, la quale attraverso Cristo rende l’uomo «nuova creatura» (2Cor 5,17). Drammatica è la situazione della persona senza Cristo, incapace di fare il bene, rappresentata nell’«io» di Rm 7. «Io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me». Il peccato rende schiavo l’uomo (Rm 6,17.20).
È possibile ritrovare tre livelli di peccato nei diversi elenchi dell’epistolario. In superficie appaiono i sintomi del peccato, radicato nel cuore dell’uomo. Tra un elenco breve di manifestazioni qualificanti le persone (1Cor 6,9b-10: ne conta 10) e uno lungo e ampiamente spiegato (Rm 1,24-32: oltre 20 termini) riportiamo quelli che la lettera ai Galati (5,19-20) chiama «desideri o opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere».
La spinta a queste azioni deriva da un duplice sentimento e cioè il desiderio interiore di agire egoisticamente, denominabile bramosia (o epithymia: Rm 1,24) e l’atto esterno che porta a compimento quanto desiderato, identificabile con cupidigia cattiva, la voglia di possedere di più, cose o persone che siano (Rm 1,29: pleonexia kakia). Bisogna scendere più in profondità, nel cuore per trovare la radice, l’origine di ogni male, il peccato nel senso più vero chiamato comunemente amartia: in Rm 7 il termine compare 14 volte e nell’intera lettera 45 volte. Amartia è capovolgimento dell’istinto religioso fino a servirsi di Dio, anziché servirlo e orientamento di fatti e persone a proprio vantaggio. È una situazione permanente che si contrappone alla giustizia (diakiosyne), dono di Cristo. È l’amore di sé fino al disprezzo di Dio: è un egoismo totale. Il peccato è come un tumore che sgretola l’organismo spirituale e porta all’incapacità di fare il bene. «È una forza personale, ma personificata, sopraindividuale e anteriore a ogni trasgressione, a cui l’uomo è tendenzialmente asservito» (R. Penna).
In presenza del peccato, anche la Legge (tôrah) osservata scrupolosamente non rende buono l’uomo. Essa certamente è «santa e santo, giusto e buono è il comandamento» (Rm 7,12). Dà la conoscenza del bene che, se non fatto, accresce la responsabilità dell’uomo. Anche quando le azioni appaiono buone non hanno da sé la capacità di salvare. Anzi, in presenza del peccato, possono condurre o all’esaltazione o alla depressione. La Legge comanda di fare il bene, ma non dà la forza per compierlo. In definitiva essa rende tutti colpevoli davanti a Dio: «quelli che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione» (Gal 3,10). La sua funzione di far conoscere il peccato contribuisce ad accrescerne la responsabilità: «la Legge sopravvenne, perché abbondasse la caduta» (Rm 5,20). La Legge è solo un pedagogo, conduce a Cristo che rende gli uomini figli di Dio mediante la fede (Gal 3,24). Anche attraverso la Legge il peccato conduce alla morte spirituale (thanatos), entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24). Essa ha regnato nella storia, finchè «per l’opera giusta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rm 5,18). Nasce così la vita secondo lo Spirito, oggetto del prossimo argomento.

2. La vera libertà viene dallo Spirito
Lo Spirito è il mistero nel mistero di Dio. Non ha volto ed è descritto nella Bibbia, per la sua capacità trasformante, attraverso immagini quali il vento, l’acqua, il fuoco, la potenza, la colomba.
Conosciuto dagli effetti, rende l’uomo suo tempio («naos»: 1Cor 6,19). La sua presenza nella persona rivela e qualifica la vita cristiana, distinguendola da ogni altra forma di vita religiosa o spirituale. La forte immagine secondo la quale l’uomo abitato dallo Spirito ne diventa tempio e casa, permette di individuare le quattro colonne di questa costruzione che è l’uomo nuovo.
La prima è la giustizia che senza obbligo per Dio  trasforma il peccatore in  amico. Essa è pura gratuità, misericordia (Rm 5,9), amore (5,5; 8,39), grazia (3,24; 5,2) ed è offerta a tutti gli uomini. Ciò comporta la figliolanza che secondo la concezione giuridica dell’adozione, costituisce figli (Rm 8,15) con tutti i diritti degli altri membri della famiglia e rende la persona abitazione divina, luogo sacro o tempio.
La seconda colonna dell’edificio spirituale, la speranza, considerata un tempo sorella minore della sacra triade, ha oltrepassato le altre. Essa «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Fondata su Dio già definito «speranza di Israele» (Ger 14,8), questa virtù teologale (cioè che riguarda Dio) rende certi del compimento delle promesse divine, anche se la realtà attorno sembra smentire l’avveramento. Questo implica nell’oggi la certezza del superamento delle limitazioni e della trasformazione della sofferenza in gioia sulla base della morte di Cristo cambiata in vita e nel futuro la partecipazione alla sua gloria e al suo regno nella fase definitiva: ha i suoi luoghi nella preghiera, nella sofferenza e nella fiducia del superamento del giudizio finale.
La speranza trova fondamento nella fede, in quello che Dio ha detto e fatto e si configura come «risposta integrale dell’uomo a Dio che si rivela come suo salvatore e include l’accettazione del messaggio salvifico e la fiduciosa sottomissione alla sua parola» (J. Alfaro). Questa fede quale coscienza dell’impossibilità di raggiungere la salvezza da soli e certezza di riceverla come dono è un atto libero e un voler fidarsi e affidarsi a Dio e trova compimento nell’amore/agape. Questo, brillantemente espresso nell’inno di 1Cor 13, è manifestazione dello Spirito, è vincolo di unione tra Dio e l’uomo e tra gli uomini, centro della rivelazione, segno efficace della presenza di Dio nel mondo: «chi ama l’altro ha adempiuto la legge» (Rm 13,8.10). Quest’amore divino permette a Paolo di delineare la vita diretta dallo Spirito in cinque momenti. «Quelli che da sempre Dio ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo […] quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati, quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). L’azione dello Spirito che accompagna l’uomo dal momento in cui Dio lo pensa, nella fase terrena e nella gloria infonde una certezza: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28).
Le due considerazioni fatte donano alla persona un sentire profondo (phronema: Rm 8,6.7.27) che oltrepassa la razionalità, reso dalla Bibbia Cei prima come«desideri», ora come un «tendere», da altri «pensiero»: effetti sono la vita e la pace. Questo pensiero è presente attraverso la forma verbale (phronein) che introduce l’inno centrato su Cristo che «svuotò e umiliò se stesso, assumendo una condizione di servo […] per cui Dio lo esaltò, perché ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore» (Fil 2,5-11). Lo Spirito fa sperimentare alla persona la realizzazione di sé attraverso il servizio, conducendola alla libertà (2Cor 3,17): risulta così capovolta una mentalità diffusa che spinge a dominare gli altri per riuscire nella vita.
La quarta colonna dell’edificio spirituale è la percezione interiore e sicura che tutti i doni dello Spirito costituiscono solo un pegno (arrabon: 2Cor 1,22), una primizia (aparche: Rm 8,23). La certezza che il meglio deve ancora venire assume quasi la forma di un diritto donato che troverà compimento nell’eternità. Unità e varietà dei doni trovano qui una sintesi: «il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). La persona così costruita ha raggiunto la libertà e vive di libertà.

3. Dalla libertà alla «koinonia»
La liberazione realizzata dal dono di Gesù nel mistero pasquale e partecipata nel battesimo svuota il cuore da ogni negatività e lo riempie dello Spirito, facendo emergere una «nuova creatura» (2Cor 5,17). Questa non vive da sola la ricchezza ricevuta, è spinta ad allacciare legami, a interessarsi, a partecipare alla comunità. Essa vive la koinonia o comunione, considerata una definizione dinamica della vita cristiana. Più di altri termini, koinonia pone in evidenza l’unione verticale con Dio e orizzontale con i fratelli nelle 13 ricorrenze dell’epistolario autentico (compare 6 volte nel resto del NT).  Essa indica l’unione di mente, volontà, cuore dell’uomo. Cinque sono i testi più importanti sul duplice orientamento dell’essere con, del dare e ricevere partecipazione. «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,9). La comunità di Corinto, nota  per la dissolutezza dei costumi, la litigiosità e la presenza di partiti contrapposti, è rassicurata da Paolo che la fedeltà di Dio  prevarrà alla fine su tutte le divisioni: Dio realizzerà la vocazione dei Corinti a restare uniti a Gesù, Messia (Cristo), salvatore (Gesù), risorto, Signore glorioso o Kyrios. Ancora ai Corinti Paolo, all’interno di una formula trinitaria, augura, o meglio, rende certi dell’unione allo Spirito. «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (sono) con tutti voi» (2Cor 13,13). La koinonia dello Spirito comporta sia l’unione realizzata dal frutto dello Spirito (cfr Gal 5,22), sia quella con la persona stessa dello Spirito. Koinonia è associata al Padre soltanto nella Prima Lettera di Giovanni (1,3), ma è equivalentemente presente quando la comunità è fonte per i credenti di ogni dono che unisce. «La chiesa è in Dio Padre» (1Ts 1,1), elargitore di «grazia e pace, misericordioso, fonte di ogni consolazione» (2Cor 1,2-3), desideroso di reciproca intimità e familiarità che autorizza i credenti a «gridare: ’Abba! Padre!» (Rm 8,15), così come fece Gesù nel Getsemani (Mc 14,36) e per noi fa continuamente lo Spirito (Gal 4,6).
L’autentica unione al Padre, Figlio e Spirito si allarga ai fratelli. È quanto afferma il discepolo di Paolo, Luca, negli Atti degli Apostoli, specialmente nei tre sommari di vita comunitaria (At 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16), il primo dei quali contiene la parola koinonia. «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). Qui «comunione» è chiave interpretativa di tutti gli episodi seguenti, non solo della prima parte degli Atti, dove guida è Pietro, ma anche della seconda parte, che presenta Paolo intento a fondare nuove comunità. «Comunione» infatti, assieme all’esperienza del Risorto, include l’elemento interiore, l’essere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Questa espressione racchiude il massimo grado di unione attraverso la formula greca (essere una sola anima) e quella biblica, evocativa dello šema’ (Dt 6,4) dell’amore di Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, esteso da Gesù al prossimo (Mt 22,39): Luca qui ha «fuso totalmente l’eredità veterotestamentaria ricevuta dai LXX col patrimonio greco» (E. Haenchen).
Il passaggio dalla comunione con la Trinità all’unione con gli uomini e tra loro avviene per Paolo attraverso la presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo;    tutti infatti partecipiamo all’unico pane»  (1Cor 10,16-17). La comunione reale con Gesù, efficacemente espressa come unione al sangue e al corpo di Cristo, si estende a tutti i credenti che formano il corpo totale di Cristo. Essi sono uniti non principalmente attraverso una solidarietà etnica, storica e culturale, ma per una necessaria estensione dell’unione a Gesù, presente e nascosto sotto le specie eucaristiche. È la chiesa che nasce dall’Eucarestia e vive dell’Eucarestia. «L’espressione “un solo corpo” e “un solo pane” non si riduce a una formula simbolica per tradurre in modo pregnante la comunanza di vita di quelli che condividono la commensalità… c’è una relazione strettissima tra il corpo di Cristo eucaristico e quello ecclesiale. Il primo non è solo segno, ma centro dinamico e vitale del secondo» (R. Fabris).  
Quest’ultima affermazione pone una stretta relazione con 1Cor 11,23-30 che contiene il «vangelo dell’Eucarestia», ricco di due verità. I partecipati al banchetto eucaristico diventano un unico « corpo », sono la visibilità di quel « mistico » organismo di cui Gesù è il capo, gli uomini le membra (cfr 1Cor 12; Rm 12). Inoltre 1Cor 11,25 «questo calice è la nuova diatheke», cioè impegno solenne, nel mio sangue (cfr Lc 22,20; Ger 31,31-34) esprime  la volontà irreversibile del Padre e di Gesù di essere sempre compagnia dell’uomo: è il trionfo della divina misericordia.

4. La morale paolina: l’amore come dono
La dimensione etica della vita cristiana scaturisce dalla  persona, divenuta «nuova creatura». Per questo spesso Paolo unisce strettamente la narrazione dell’evento Cristo e l’esortazione a viverlo quotidianamente nella fedeltà alle norme, quali segni del cambiamento interiore. La complementarietà tra motivazioni e impegni pratici risalta anche dai modi dei verbi, che alternano indicativo e imperativo. Fondamento della nuova etica è il mistero pasquale partecipato all’uomo nel sacramento del battesimo che rende figli di Dio e il dono dello Spirito propulsore dell’agire morale fino al compimento della storia. «Tutti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo […] tutti quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Gal 3,27-28; Rm 8,14). «Senza il legame con il kerigma, l’etica cristiana rischia di livellarsi a semplice moralismo situazionale e senza l’etica, il kerygma del vangelo corre il pericolo di essere mutato in una forma di gnosi disincarnata: tra lo Scilla del moralismo e il Cariddi del agnosticismo transita l’attualità dell’etica paolina» (A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, 494).
La parte pratica  presente in elenchi di virtù da incrementare e vizi da sradicare, trova l’esempio più completo in Rm 12. Questo capitolo da una parte, attraverso l’espressione «vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio», conclude la densa dottrina centrata sulla «giustizia» riflessa nella vita di Abramo e sull’«agape» che osa sperare perfino nella conversione di Israele, e dall’altra inizia l’esposizione di un ampio progetto di vita (Rm 13,1-15,13).
Ottimo per un esame di coscienza, Rm 12 si snoda in tre parti, paragonabili a un albero che affonda le radici nella «misericordia» presentata come «giustizia» (capp. 1-4) e «agape» (capp. 5-11) e si sviluppa nel tronco e nei rami e giunge a dare i frutti. «Vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (12,1-2). Questa sintesi dei principi dell’agire morale o di morale generale è centrata su Dio, nominato due volte, come avveniva per il kerygma (1,16-17). Per esprimere il dono di sé a Dio, Paolo usa il linguaggio sacrificale e parla di offrire i «corpi», cioè la persona in quanto si manifesta, abolendo ogni sacrificio di animali non più gradito al Signore.
Questa novità cristiana di rivolgersi in alto ha una sua logica, acquista senso davanti a Dio. «Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia» (Rm 6,13). Paolo ritorna su un pensiero precedente, parlando dei credenti come tempio (1Cor 3,16; 6,19), riallacciandosi a Gesù presentato come agnello pasquale (1Cor 5,7) e strumento di espiazione (Rm 3,25). Il dono di sé al Signore si esplica in un retto comportamento che esige di rifiutare il male presente in questo mondo, nell’ambiente cioè non ancora permeato dal vangelo e rinnovare la propria mentalità che si concretizza nel «discernere» (dokimazein). Ogni situazione racchiude un volete divino: per scoprirlo necessita un’attività mentale, una valutazione, una scelta. Anche quando la scelta di Dio è definitiva e convalidata dal tempo, il credente è chiamato ogni giorno a scegliere quel dettaglio per far crescere in sé un Cristo inedito. Tre aggettivi aiutano a fare la scelta giusta. Preferire ciò che è buono per gli altri, ciò che piace a Dio specialmente quando crea armonia e non dare occasione al diavolo di danneggiare, come avviene nella discordia e infine quanto facilita il proprio cammino verso la perfezione.
Una seconda parte (12,3-8) invita ad avere un giusto concetto di sé (ripreso al v.16) e a svolgere il compito assegnato nella comunità con semplicità, diligenza, gioia, in modo che il cammino di perfezione diventi spedito nel tendere all’unità nella diversità.
La terza parte (12,9-21) costituisce una dettagliata analisi dell’agape (v.9), nelle manifestazioni interne (vv.9-13) ed esterne alla comunità (vv.14-20) conclusa con un forte invito: «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21): utile sarebbe un confronto con l’inno all’agape di 1Cor 13. Rm 12 presenta una morale obiettiva che trova il suo modello nel dire e fare di Cristo; dinamica sia per il richiamo all’attività del credente, sia per la necessità di lasciarsi guidare dallo Spirito, come detto ampiamente in Rm 8; concreta perché lascia intendere un esercizio quotidiano; comunitaria per la verifica quale emerge dalla risposta dei fratelli; missionaria, perché si configura per i non credenti come proposta senza imposizione. Una frase di S. Agostino fa emergere la diversità tra persone e comunità che si ispirano a questa morale e altre che si lasciano guidare dall’egoismo. «Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri».

5.L’Attesa dei tempi ultimi
L’escatologia o eventi ultimi è l’orizzonte nel quale Paolo considera la vita umana dell’individuo, della comunità e del cosmo; è la dimensione del futuro in tutti gli aspetti del credere e del riflettere; colta nella speranza  è il compimento di una storia che è un fine più che una fine: essa ha trovato il vertice e un senso nuovo in Cristo Risorto. La risurrezione di Gesù Cristo, fondata su molteplici testimoni che lo hanno «visto» (cfr 1Cor 15,3-8) e riflessa in titoli, quali Cristo Signore (cfr Fil 2,11; 1Cor 16,22), Figlio di Dio (Rm 1,9) è partecipata ai credenti nel battesimo. Attraverso questo «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinchè, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova […] anche voi consideratevi viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,4.11).
L’essere in Cristo e con Cristo  è già esperienza di risurrezione e garanzia di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,10-11). Per convincere i Corinti, che la ritengono impossibile (cfr At 17,32), Paolo dà qualche spiegazione su «come risorgono i morti» e «con quale corpo verranno» (1Cor 15,35). Intanto con il termine sôma, «corpo», diverso da sárx «carne», legata alla debolezza e alla peccaminosità (cfr 1Cor 15,50), Paolo indica l’uomo intero nel suo manifestarsi. Tra il corpo terreno e quello glorificato c’è diversità e continuità, da conservare in una tensione equilibrata. Si contrappongono (cfr 1Cor 15,42-44) corruzione e incorruttibilità, umiliazione e gloria, debolezza e potenza. Con forza è affermata l’identità della persona nella trasformazione del corpo, illustrata mediante l’immagine del seme (cfr 1Cor 15,43) e fondata sulla potenza divina. L’intervento di questa dà luogo a un evento ultimo, che pone fine al tempo presente e cioè la venuta gloriosa di Gesù Cristo: il ritorno sarà diverso dalla prima comparsa nel mondo.
Il termine parousía compare 14 volte nell’epistolario paolino su un totale di 24 ricorrenze neotestamentarie. Nel primo scritto Paolo considera i tessalonicesi sua speranza, gioia, corona di gloria «davanti al Signore nostro Gesù Cristo alla sua parusia» (1Ts 2,19) e auspica che essi siano conservati irreprensibili davanti a Dio «nella venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,13). La speranza di incontrare Cristo rende i tessalonicesi sicuri dinanzi al giudizio finale (cfr 1Ts 1,10), riservato invece agli uccisori di Cristo (cfr 1Ts 2,16): i credenti saranno «irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23). Questa certezza risolve il problema di quei fedeli che si preoccupavano per coloro che erano già morti. Alla parusia – si chiedevano – i morti potranno godere dell’incontro con il Signore? I viventi – risponde Paolo – non avranno alcun vantaggio in quel giorno rispetto ai già defunti (cfr 1Ts 4,15). Alla venuta finale ci sarà la risurrezione di quelli che sono di Cristo (cfr 1Cor 15,23). Ambedue gli eventi, parusia e risurrezione, costituiranno il compimento (télos) della storia. Questo comporterà anche l’annientamento di ogni negatività (principato, potestà, potenza, morte) e la consegna del regno al Padre (cfr 1Cor 15,24). La parusia pertanto può essere descritta come lo svelamento definitivo di una storia salvifica del singolo, dei popoli e del mondo al momento della venuta gloriosa di Gesù Cristo. Allora avrà compimento l’intero sviluppo della storia.
È corretto allora parlare di «escatologia realizzata»? L’escatologia non è solo quella finale, ma inizia con la venuta sulla terra del Figlio di Dio che dà «pienezza» al tempo (Gal 4,4) e inaugura il regno definito «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). È possibile già oggi vivere la koinonia (comunione) che caratterizza l’autentica vita cristiana. Il credente partecipe «della potenza della risurrezione» (Fil 3,10) diviene  «nuova creatura» (2Cor 5,17; cfr Rm 6,4; 7,6) vivendo ogni giorno in Cristo (Fil 1,21), finchè «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). È questa la «caparra» (2Cor 1,22; 5,5) e la primizia (1Cor 15,23) ricevuta dal cristiano nel tempo dell’«escatologia che si realizza» o del «già e non ancora». Questa certezza rende spedito e gioioso il cammino verso il futuro. «Niente e nessuno può togliermi l’amore di Cristo. È certezza di Paolo. Noi possiamo perderlo. Lui non ci perde mai. È questo il Patto sottoscritto con il Sangue della Croce. Un patto per sempre. Il che vuol dire che se lo perdiamo lo possiamo ritrovare. Egli viene sempre all’appuntamento. Per questo la fede diventa ogni giorno, dovunque e in ogni circostanza, speranza. Poter ricominciare senza aver mai finito di incontrarlo» (G. Pattaro).

La Quaresima della Chiesa: o il dominio o la croce – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350184

La Quaresima della Chiesa: o il dominio o la croce

Un messaggio, una catechesi, un’omelia, una doppia « lectio divina ». Sono le istruzioni di Benedetto XVI per traversare il deserto del mondo e vincere le tentazioni del potere e del successo. Sarà ascoltato?

di Sandro Magister

ROMA, 25 febbraio 2012 – Da domani sarà per tutti Quaresima. Secondo il rito romano essa ha già avuto inizio con il mercoledì delle ceneri, mentre secondo il rito ambrosiano in uso nell’arcidiocesi di Milano, che osserva un calendario più antico, questo periodo forte dell’anno liturgico comincia dalla sesta domenica antecedente la Pasqua.
Periodo forte? Nella mentalità diffusa dell’Occidente, la Quaresima si è molto sbiadita. Fa più notizia il Ramadan musulmano.
Ma a Benedetto XVI, visibilmente, preme ridare significato e vigore a questo tempo di preparazione alla Pasqua.
Quest’anno, come già nei due anni precedenti, oltre che con il tradizionale messaggio ai fedeli:

  »La Quaresima ci offre… »
oltre che con l’udienza generale del mercoledì delle ceneri:
  »In questa catechesi vorrei soffermarmi… »
oltre che con l’omelia nella messa dello stesso giorno:
« Con questo giorno di penitenza e di digiuno… »
papa Joseph Ratzinger ha voluto introdurre la Quaresima anche con una doppia « lectio divina ». La prima l’ha « Cari Seminaristi… »
La seconda ai preti della sua diocesi:
  »È per me una grande gioia… »
La « lectio divina » è una riflessione sulle Sacre Scritture fatta scegliendo un passo biblico e commentandolo. Papa Benedetto usa dettarla a braccio, con lo stile degli antichi Padri della Chiesa e dei grandi maestri teologi del Medioevo, sempre con lo sguardo attento ai fatti e alla cultura di oggi.
Lo spirito di fondo della « lectio divina » è quello espresso da Gesù quando fu tentato dal demonio nella sua « Quaresima » nel deserto: « Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio ».
Dei cinque testi citati, i più suggestivi sono sicuramente le due « lectio », di cui sono disponibili le trascrizioni integrali nel sito del Vaticano, in corso di traduzione nelle varie lingue.
Ma qui di seguito è riprodotto quello che, dei cinque testi, è il più didascalico. In esso Benedetto XVI spiega con parole semplici che cos’è la Quaresima e insegna come viverla.
È la catechesi che il papa ha tenuto alle migliaia di pellegrini che gremivano l’aula delle udienze la mattina del 22 febbraio, mercoledì delle ceneri.
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« LA CHIESA IN CAMMINO NEL DESERTO DEL MONDO… »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, in questa catechesi vorrei soffermarmi brevemente sul tempo della Quaresima. Si tratta di un itinerario di quaranta giorni che ci condurrà al triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, il cuore del mistero della nostra salvezza.
Nei primi secoli di vita della Chiesa questo era il tempo in cui coloro che avevano udito e accolto l’annuncio di Cristo iniziavano, passo dopo passo, il loro cammino di fede e di conversione per giungere a ricevere il sacramento del Battesimo. Si trattava di un avvicinamento al Dio vivo e di una iniziazione alla fede da compiersi gradualmente, mediante un cambiamento interiore da parte dei catecumeni, cioè di quanti desideravano diventare cristiani ed essere incorporati a Cristo e alla Chiesa.
Successivamente, anche i penitenti e poi tutti i fedeli furono invitati a vivere questo itinerario di rinnovamento spirituale, per conformare sempre più la propria esistenza a quella di Cristo.
La partecipazione dell’intera comunità ai diversi passaggi del percorso quaresimale sottolinea una dimensione importante della spiritualità cristiana: è la redenzione non di alcuni, ma di tutti, ad essere disponibile grazie alla morte e risurrezione di Cristo. Pertanto, sia coloro che percorrevano un cammino di fede come catecumeni per ricevere il battesimo, sia coloro che si erano allontanati da Dio e dalla comunità della fede e cercavano la riconciliazione, sia coloro che vivevano la fede in piena comunione con la Chiesa, tutti insieme sapevano che il tempo che precede la Pasqua è un tempo di « metanoia », cioè del cambiamento interiore, del pentimento; il tempo che identifica la nostra vita umana e tutta la nostra storia come un processo di conversione che si mette in movimento ora per incontrare il Signore alla fine dei tempi.
Con una espressione diventata tipica nella liturgia, la Chiesa denomina il periodo nel quale siamo entrati oggi « Quadragesima », cioè tempo di quaranta giorni e, con un chiaro riferimento alla Sacra Scrittura ci introduce così in un preciso contesto spirituale.
Quaranta è infatti il numero simbolico con cui l’Antico e il Nuovo Testamento rappresentano i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. È una cifra che esprime il tempo dell’attesa, della purificazione, del ritorno al Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse.
Questo numero non rappresenta un tempo cronologico esatto, scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una paziente perseveranza, una lunga prova, un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi. È il tempo delle decisioni mature.
Il numero quaranta appare anzitutto nella storia di Noè. Quest’uomo giusto, a causa del diluvio trascorre quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. E attende altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione.
Poi, la prossima tappa: Mosè rimane sul monte Sinai, alla presenza del Signore, quaranta giorni e quaranta notti, per accogliere la legge. In tutto questo tempo digiuna.
Quaranta sono gli anni di viaggio del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa, tempo adatto per sperimentare la fedeltà di Dio. « Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni », dice Mosè nel Deuteronomio alla fine di questi quarant’anni di migrazione.
Gli anni di pace di cui gode Israele sotto i Giudici sono quaranta, ma, trascorso questo tempo, inizia la dimenticanza dei doni di Dio e il ritorno al peccato.
Il profeta Elia impiega quaranta giorni per raggiungere l’Oreb, il monte dove incontra Dio.
Quaranta sono i giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio.
Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul, di Davide e di Salomone, i tre primi re d’Israele.
Anche i salmi riflettono sul significato biblico dei quaranta anni, come ad esempio il salmo 95: « Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie ».
Nel Nuovo Testamento Gesù, prima di iniziare la vita pubblica, si ritira nel deserto per quaranta giorni, senza mangiare né bere: si nutre della Parola di Dio, che usa come arma per vincere il diavolo. Le tentazioni di Gesù richiamano quelle che il popolo ebraico affrontò nel deserto, ma che non seppe vincere.
Quaranta sono i giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di ascendere al Cielo e inviare lo Spirito Santo.
Con questo ricorrente numero di quaranta è descritto un contesto spirituale che resta attuale e valido, e la Chiesa, proprio mediante i giorni del periodo quaresimale, intende mantenerne il perdurante valore e renderne a noi presente l’efficacia.
La liturgia cristiana della Quaresima ha lo scopo di favorire un cammino di rinnovamento spirituale, alla luce di questa lunga esperienza biblica e soprattutto per imparare ad imitare Gesù, che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto insegnò a vincere la tentazione con la Parola di Dio.
I quarant’anni della peregrinazione di Israele nel deserto presentano atteggiamenti e situazioni ambivalenti. Da una parte essi sono la stagione del primo amore con Dio e tra Dio e il suo popolo, quando egli parlava al suo cuore, indicandogli continuamente la strada da percorrere. Dio aveva preso, per così dire, dimora in mezzo a Israele, lo precedeva dentro una nube o una colonna di fuoco, provvedeva ogni giorno al suo nutrimento facendo scendere la manna e facendo sgorgare l’acqua dalla roccia. Pertanto, gli anni trascorsi da Israele nel deserto si possono vedere come il tempo della speciale elezione di Dio e della adesione a lui da parte del popolo: tempo del primo amore.
D’altro canto, la Bibbia mostra anche un’altra immagine della peregrinazione di Israele nel deserto: è anche il tempo delle tentazioni e dei pericoli più grandi, quando Israele mormora contro il suo Dio e vorrebbe tornare al paganesimo e si costruisce i propri idoli, poiché avverte l’esigenza di venerare un Dio più vicino e tangibile. È anche il tempo della ribellione contro il Dio grande e invisibile.
Questa ambivalenza, tempo della speciale vicinanza di Dio – tempo del primo amore –, e tempo della tentazione – tentazione del ritorno al paganesimo –, la ritroviamo in modo sorprendente nel cammino terreno di Gesù, naturalmente senza alcun compromesso col peccato.
Dopo il battesimo di penitenza al Giordano, nel quale assume su di sé il destino del servo di Dio che rinuncia a se stesso e vive per gli altri e si pone tra i peccatori per prendere su di sé il peccato del mondo, Gesù si reca nel deserto per stare quaranta giorni in profonda unione con il Padre, ripetendo così la storia di Israele, tutti quei ritmi di quaranta giorni o anni a cui ho accennato. Questa dinamica è una costante nella vita terrena di Gesù, che ricerca sempre momenti di solitudine per pregare il Padre suo e rimanere in intima comunione, in intima solitudine con lui, in esclusiva comunione con lui, e poi ritornare in mezzo alla gente.
Ma in questo tempo di “deserto” e di incontro speciale col Padre, Gesù si trova esposto al pericolo ed è assalito dalla tentazione e dalla seduzione del Maligno, il quale gli propone una via messianica altra, lontana dal progetto di Dio, perché passa attraverso il potere, il successo, il dominio e non attraverso il dono totale sulla croce. Questa è l’alternativa: un messianesimo di potere, di successo, o un messianesimo di amore, di dono di sé.
Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa in cammino nel deserto del mondo e della storia.
In questo deserto noi credenti abbiamo certamente l’opportunità di fare una profonda esperienza di Dio che rende forte lo spirito, conferma la fede, nutre la speranza, anima la carità; un’esperienza che ci fa partecipi della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte mediante il sacrificio d’amore sulla croce.
Ma il deserto è anche l’aspetto negativo della realtà che ci circonda: l’aridità, la povertà di parole di vita e di valori, il secolarismo e la cultura materialista, che rinchiudono la persona nell’orizzonte mondano dell’esistere sottraendolo ad ogni riferimento alla trascendenza. È questo anche l’ambiente in cui il cielo sopra di noi è oscuro, perché coperto dalle nubi dell’egoismo, dell’incomprensione e dell’inganno.
Nonostante questo, anche per la Chiesa di oggi il tempo del deserto può trasformarsi in tempo di grazia, poiché abbiamo la certezza che anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva che disseta e ristora.
Cari fratelli e sorelle, in questi quaranta giorni che ci condurranno alla Pasqua di risurrezione possiamo ritrovare nuovo coraggio per accettare con pazienza e con fede ogni situazione di difficoltà, di afflizione e di prova, nella consapevolezza che dalle tenebre il Signore farà sorgere il giorno nuovo.
E se saremo stati fedeli a Gesù seguendolo sulla via della croce, il chiaro mondo di Dio, il mondo della luce, della verità e della gioia ci sarà come ridonato: sarà l’alba nuova creata da Dio stesso.

Buon cammino di Quaresima a voi tutti!

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