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QUARESIMA TEMPO “SPIRITUALE”

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QUARESIMA TEMPO “SPIRITUALE”

La quaresima è un tempo per “guardare avanti” e per lasciarsi trasformare continuamente dallo Spirito del Cristo risorto. Vivere questo periodo come un “catecumenato spirituale” mediante il quale riportare Cristo al centro. Un tempo di “disciplina spirituale” nel primato dell’amore e della carità.
Nel libro del Siracide è scritto che «un uomo si conosce veramente alla fine» (11,28). La conclusione illumina tutto ciò che precede, la meta rivela la validità del percorso effettuato, il fine spiega i passaggi intermedi. La prospettiva della quaresima è la pasqua, intesa come piena conformazione a Gesù. Nell’attuale cultura fluida, incapace di pazienza e in continua ricerca di emozioni forti, si è tentati di prendere soluzioni rapide, invece di stare a lungo in silenzio davanti al Signore o ci si preoccupa di adottare una “tecnica spirituale” più che di ritrovare la fiducia in Dio.
Gesù non è venuto solo per liberarci dai lacci del peccato e della morte, ma anche per farci entrare nell’intimità della sua vita divina e per innalzarci fino alla comunione d’amore con il Padre. Per Gesù la “vita spirituale” significa essere nel mondo senza essere del mondo. La conversione è lasciarsi trasformare completamente dallo Spirito, anche se tutto pare rimanere come prima.

Quaresima, periodo di “catecumenato spirituale”
Il primo gradino della scala verso la pasqua è diventare liberi dalle costrizioni del mondo e fissare il cuore sull’unica cosa necessaria: sperimentare situazioni e rapporti come una varietà di modi con cui Dio fa conoscere la sua presenza. In Dio, amato senza condizionamenti e senza riserve, viene ricuperato il resto. La conversione non è apatia, indifferenza o presa di distanza, ma è trovare in Dio il significato di ogni realtà. Il vero discepolo vede, ascolta e comprende, sintonizzandosi con gli occhi, con le orecchie e con il cuore a Dio. La persona, la famiglia e la comunità convertite sono dove è Dio, e lì tutto è importante.
La quaresima prepara i catecumeni al battesimo e aiuta i battezzati a vivere questo sacramento, che è morte e risurrezione, rinascita e trasformazione in una vita “nuova”. Il papa, al convegno di Verona, affermava: con il battesimo «il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel battesimo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo».
Non la competizione, ma l’amore che, ricevuto da Dio, fa dire con s. Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). L’unione col Padre in Cristo per mezzo dello Spirito genera nuove relazioni, toglie paure e avidità, libera dalla competitività vicendevole, introduce nella condivisione e genera gioia e gratitudine. Non si tratta più di essere logorati dall’“inseguire” i risultati, col pericolo di cadere nella depressione e nella frustrazione, ma di partecipare alla vita della Trinità, che è un totale “darsi” e “riceversi” nell’amore. L’uomo cerca la gloria “salendo”, Dio rivela la sua gloria “discendendo”. È questa la strada per la vita.[1]

Rimettere Cristo al “centro”
La quaresima stimola ad una rinnovata curiosità per la ricchezza nascosta nell’esperienza cristiana. Proprio in un’epoca di cristianesimo “quantitativamente ridotto” è urgente ricominciare con un’adesione più consapevole al Credo. Senza conversioni di massa o inversioni di tendenza, ci sono segnali di una nuova vitalità per la fede, pur in comunità di modeste dimensioni e apparentemente ininfluenti.[2] La chiesa può essere “moderna” opponendosi a ciò che dicono tutti: nel coraggio della verità sta la sua forza.
L’odierna cultura parla spesso di Cristo ma, se si guarda all’ambito della fede, si nota un’inquietante assenza, se non addirittura il rifiuto della sua persona. Eppure, la fede che salva è la fede in Gesù Cristo e nel suo mistero pasquale di morte e di risurrezione. Benedetto XVI a Verona ha identificato la vocazione cristiana nel «cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col battesimo: siamo chiamati a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza cristiana nel mondo».
Oggi è importante accentuare il momento “iniziale” della fede, perché non regge più il regime di cristianità, che privilegia la completezza e l’ortodossia dei contenuti della fede stessa. Poiché i cristiani di oggi non sono passati attraverso il catecumenato, occorre proporre loro l’annuncio fondamentale, nitido e scarno, semplice ed efficace («Gesù è il Signore!»), che li metta in diretto contatto con Cristo e faccia loro sperimentare la potenza del suo Spirito.[3]
Non mancano gli “ostacoli”: le divisioni, la troppa fiducia nelle risorse umane, l’appesantimento dei messaggeri del Vangelo, la ricerca della propria gloria, la burocrazia, il clericalismo, il linguaggio astruso e incomprensibile, le troppe “prudenze” umane e le controtestimonianze. La vera domanda è: «Che posto occupa Cristo nella mia vita?», per vivere per lui e fare penetrare il Vangelo in tutto ciò che facciamo.
Il cristianesimo non comincia con quello che l’uomo deve fare per salvarsi, ma con quello che Dio ha fatto per salvarlo. Nell’esperienza cristiana è Dio che tende la sua mano all’uomo peccatore: il dono precede l’impegno. Nell’Exultet si inneggia al redentore a partire dalla colpa di Adamo, ritenuta “felice”, anzi “necessaria”. Dio permette il peccato perché si eviti il peccato. La croce di Gesù – ha detto il papa a Verona – «non è la negazione della vita, da cui per essere felici occorrerebbe sbarazzarsi. È invece il “sì” estremo di Dio, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigine della vita piena e perfetta: contiene, dunque, l’invito più convincente a seguire Cristo sulla via del dono di sé». Egli ha aggiunto che la vera forza del cristiano è nutrirsi della Parola e del corpo di Cristo.
Prima di Gesù, “convertirsi” significava sempre “tornare indietro”, mediante una rinnovata osservanza della legge. Con Gesù, “convertirsi” equivale ad “andare avanti”, entrando nella nuova alleanza. Convertirsi a Dio consiste nel credere in Cristo: «Convertiti e credi al vangelo», ripete a ciascuno la chiesa il giorno in cui impone le ceneri sul capo dei fedeli che iniziano il percorso quaresimale. L’opera della fede è partecipare alla vittoria di Cristo. Per questo il papa a Verona ha ribadito che, «all’inizio dell’essere cristiano, non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la persona di Gesù Cristo, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Quaresima, tempo di “disciplina spirituale”
Per don Mazzolari, il primo atto della conversione è «ritornare in noi stessi, restituirci a uomini, diventare uomini, incominciare a ragionare con la nostra testa, col nostro cuore e con la nostra coscienza. È inutile parlare di Dio dove c’è alienazione. Quando uno non è più padrone di sé, non è in condizione di ascoltare».[4] Per cambiare qualcosa fuori di noi, non c’è altra via che cambiare noi stessi. È finito il tempo di fare gli spettatori, sotto il pretesto che si è onesti e cristiani. Forse troppi hanno le mani pulite perché non hanno mai fatto niente. Talvolta si è malati di indecisione per la paura di sbagliare: Sören Kierkegaard affermava che, secondo il Nuovo Testamento, il cristianesimo è inquietudine, mentre nella cristianità si presenta il cristianesimo come un “calmante”.
Allora è facile chiamare rassegnazione la nostra ignavia, prudenza la nostra paura, sacrificio la nostra avidità di godimento, diritti le nostre concupiscenze, desiderio di pace la nostra viltà. Chi non ha la grazia di credere è travagliato dall’incertezza, dalla paura e dal vuoto; chi ha la grazia di credere è travagliato dalla verità e dalla luce. La fede, infatti, rende giudici “implacabili” di noi stessi.
Susanna Tamaro afferma che «un cielo senza Dio è pronto a popolarsi di idoli». E tra un “senza Dio” e un “idolatra” – diceva don Mazzolari – non è facile discernere chi è più lontano dal Regno. La quaresima è il tempo privilegiato per purificare il cuore, che oggi riceve ogni genere di spazzatura e la accumula, vivendo in una condizione di povertà assoluta. Il percorso verso la pasqua tende a riportare l’uomo alla centralità del cuore, “luogo” non di cose frivole, ma “luogo” di apertura a Dio, che opera in ciascuno e con ciascuno.
Ogni giorno l’uomo si sveglia “schiavo” per addormentarsi la sera un po’ più “figlio” sul guanciale della divina paternità. La persona umana è una creatura che cade, la si incontra più spesso a terra che in piedi: un abisso di miseria e di grandezza. Cristo cade sotto il peso della croce e sa attendere quanti sono chini sotto la propria debolezza. Cristo non è come il sacerdote e il levita della parabola che, data un’occhiata al caduto, tirano diritto verso i loro traguardi ideali. L’infinita pazienza del Signore può irritare soltanto coloro che preferiscono il giudizio alla misericordia, la lettera allo spirito e il trionfo della verità all’esaltazione della carità. Ogni parola del Vangelo è “dura”, ma c’è una “durezza” disumana e c’è una “durezza” che modella come persone. Il mondo conosce la prima, Cristo offre la seconda. Il vero rischio è di “svuotare” il Vangelo, di levigarlo a tal punto da non farlo più essere “pietra di scandalo”. In Cristo, Dio ci ama come siamo, per farci diventare come ci vuole. Cristo non comanda niente, ma attrae. Credere all’amore di Cristo rende possibile credere anche negli altri “amori”, perché allenta il legame con le cose, scioglie dall’ambizione, dai desideri di successo e dalla suscettibilità: si frantuma la corazza che ognuno si costruisce addosso e si aprono nuovi spiragli di luce e di risurrezione.[5]
È il tema della “disciplina spirituale”, che è dono dello Spirito, ma esige il proprio sforzo. Una “vita spirituale” senza disciplina è impossibile, perché non consente di ascoltare Dio. Il termine “obbedire” ha in sé la radice dell’audire, dell’ascoltare, in solitudine e mediante il digiuno. La “disciplina spirituale” impedisce al mondo di riempire le nostre vite così che non resti più posto per ascoltare e seguire Gesù. La solitudine è la fornace della trasformazione del falso io.
Il termine “mortificazione” significa “fare morte”, cioè scoprire la parte mortale di ogni persona e realtà, così da apprezzarne il valore senza attaccarvisi come fosse un possesso duraturo. Di qui il senso di gratuità da acquisire come stile di vita. La Parola e i ritiri spirituali, la preghiera e il digiuno, la direzione spirituale e la celebrazione penitenziale, il distacco dalla tv e da internet, le opere di carità… servono ad entrare nel Rinuncio e nel Credo la notte di pasqua.

Quaresima, tempo del “primato dell’amore”
A Verona Benedetto XVI ha precisato che la cifra del mistero della salvezza è «l’amore, e solo nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso. La risurrezione di Gesù Cristo è stata un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte». La quaresima serve a prepararsi al primato di questo amore, che vince i due grandi nemici della vita spirituale, la collera e la cupidigia, frutti acidi della dipendenza dal mondo.
Preghiera e azione si richiamano a vicenda. Se la preghiera guida a una più profonda unità con il Cristo della compassione, non mancherà di provocare azioni concrete di servizio e solidarietà ai poveri (vecchi e nuovi) e la loro presenza genererà la preghiera, che consente di essere vicino a ciascun tribolato.
La Parola, la via crucis e l’eucaristia portano ad una totale autodonazione per un amore radicale e completo che trova nella liturgia del giovedì santo il modello permanente. Cristo vuole che ci chiniamo a terra e purifichiamo le parti che hanno bisogno di essere lavate, dicendoci gli uni gli altri: «Mangia di me, bevi di me». Dove manca l’amore, anche la verità diminuisce. La carità non esalta solo la giustizia, ma anche la verità: chi ha poca carità vede pochi poveri e l’occhio della carità è l’unico che vede giusto. A un anno dalla pubblicazione, l’enciclica Deus caritas est offre tanti spunti per leggere nel Crocifisso il testamento dell’amore (n. 26-39). Il peccato è un modo sbagliato di procurarsi amore e le infedeltà dell’amore vengono perdonate moltiplicando l’amore.

Per il discernimento comunitario può servire la seguente griglia, da presentare nella liturgia del mercoledì delle Ceneri: quale formazione la comunità cristiana sta offrendo ai laici (ragazzi, giovani, adulti) per prepararli alle sfide dell’odierna società? (prima domenica); quale rilevanza è data alla preghiera per trasformare il quotidiano in una testimonianza solida e gioiosa della fede? (seconda domenica); come fare del Vangelo la chiave interpretativa dell’esperienza umana, coniugando correttamente il credere e l’agire per portare frutti buoni? (terza settimana); come aiutare i giovani a ritrovare la gioia di vivere, in un contesto in cui si guarda al futuro più con paura che con speranza? (quarta domenica); come aiutare genitori e figli a reagire ad uno stile di vita fortemente individualista, frutto di un relativismo che rende tutto provvisorio e discutibile e trasforma in norma la trasgressione? (quinta domenica).

Al convegno di Verona il card. Tettamanzi ha premesso che la risposta propria della testimonianza cristiana è «la coerenza con la grazia e la responsabilità che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall’obbedienza alla sua Parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino». Questo impedisce di affrontare la quaresima con abitudine o con attivismo, con frammentarietà o con affanno, con mediocrità e nel “fai-da-te”. Con il consiglio pastorale va preparato tale evento, ispirandosi allo stile sobrio, orante e sinodale di Verona, per accedere ad un “cibo solido” (1Cor 3,2) e superare il “complesso di Peter Pan”, cioè tendere personalmente e “in rete” alla maturità della pasqua.

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[1] Nowen H., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di quaresima, Queriniana, Brescia 2003, pp. 47-49.
[2] Ratzinger J., Il sale della terra, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2005, pp. 17-20, 251, 272, 301.
[3] Vari spunti sono ispirati a Cantalamessa R., La fede che vince il mondo, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2006.
[4] Barra G. (a cura), Don Primo Mazzolari. Perdersi: il solo guadagno, Gribaudi, Torino 1975, pp. 98-99.
[5] Grün A., La gioia del rilassamento, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2006.

EGERIA, UN’INVIATA SPECIALE A GERUSALEMME ( articolo del 20 marzo 2005)

http://www.toscanaoggi.it/Cultura-Societa/Egeria-un-inviata-speciale-a-Gerusalemme

EGERIA, UN’INVIATA SPECIALE A GERUSALEMME ( articolo del 20 marzo 2005)

La nostra inviata speciale a Gerusalemme si chiama Egeria; è una figura in parte misteriosa, con ogni probabilità una ricca vedova dalla vocazione monastica ? forse al suo rientro in Occidente riuscirà a realizzare il suo sogno ?- che negli anni 381-383 d.C. ha visitato la Terra Santa, l’Asia Minore, l’Egitto.

di Elena Giannarelli

La nostra inviata speciale a Gerusalemme si chiama Egeria; è una figura in parte misteriosa, con ogni probabilità una ricca vedova dalla vocazione monastica ? forse al suo rientro in Occidente riuscirà a realizzare il suo sogno ?- che negli anni 381-383 d.C. ha visitato la Terra Santa, l’Asia Minore, l’Egitto. Nella prima parte del suo «Diario di viaggio» descrive i luoghi della Scrittura, riconoscendoli nella realtà, dopo averne letto per tante volte nelle pagine sacre; la seconda parte è dedicata alla scansione dell’anno liturgico in Gerusalemme, dove la liturgia era di tipo stazionale o itinerante e riproponeva un mini-viaggio sulle orme del passaggio storico di Gesù.
Il trasferirsi dell’assemblea da un posto all’altro, in un coinvolgimento totale dell’intera città, al di fuori degli edifici sacri ed oltre la stessa cerchia urbana, sulle coordinate della Scrittura, per rivivere i singoli avvenimenti proprio là dove si erano svolti, è motivo di sbalordimento per la avventurosa donna. Essa coglie anche altri punti interessanti: Cristo è al centro di ogni azione liturgica; la Scrittura è punto di riferimento spaziale e temporale; la preghiera, la meditazione, la lettura della Bibbia avvengono in una dimensione il più possibile comunitaria ed ecclesiale. Persone diverse, provenienti da luoghi lontani, parlanti lingue diverse, nel momento in cui si uniscono per celebrare i riti, diventa una comunità in cammino. Egeria lo percepisce e lo restituisce benissimo.
Ecco quello che ci narra a cominciare dalla Domenica che introduce nella «settimana di Pasqua», come la si chiamava in Occidente, la «grande settimana», come la definivano i greci. Non è ancora chiamata la domenica delle palme. Al canto del gallo, i fedeli, dopo i riti consueti all’ Anastasi o alla Croce, si riuniscono nel Martyrium, la chiesa maggiore che è sul Golgota, per la celebrazione. Quindi l’arcidiacono, prima del congedo, dà l’orario per tutta la settimana: a partire dal lunedì all’ora nona, i fedeli si raduneranno al Martyrium. Quella domenica però all’ora settima la folla sale al Monte degli Ulivi, dove è una chiesa. Il vescovo è presente e con lui si cantano inni e antifona, si fanno letture adatte al luogo e al tempo.
All’ora nona si procede fino all’Imbomon (dal greco en bounó, sulla collina), ossia alla cima del Monte degli Olivi, da cui il Signore salì al cielo. Tutto il popolo si siede, anche il vescovo, mentre i diaconi restano in piedi, per cantare inni e antifone. Poi all’ora undecima si legge il passo del Vangelo in cui i bambini con rami di palme andarono incontro al Signore. Il vescovo si alza, il popolo si mette in cammino davanti a lui fra inni e antifone, sempre rispondendo: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. «E quanti sono i bambini in quei luoghi, anche quelli incapaci di camminare, perché troppo piccini e che i loro genitori portano in collo, tutti tengono in mano rami, chi di palme, chi di ulivo; così si accompagna il vescovo nel modo in cui fu allora accompagnato il Signore».
Dalla cima della montagna, scrive Egeria, fino alla città e poi all’Anastasi attraverso tutto l’abitato, anche grandi signori e grandi signore fanno scorta al vescovo. Una volta all’Anastasi, si fa la preghiera del Lucernale ? è l’orazione della sera per l’accensione delle lampade ? e con una sosta presso la Croce si congeda il popolo.
Il lunedì prevede le preghiere del mattino all’Anastasi, all’ora terza e alla sesta. Alla nona tutti si raccolgono al Martyrium e fino alla prima ora della notte si dicono inni e antifone. Anche il Lucernale viene detto lì. Quindi si accompagna all’Anastasi il vescovo che benedice e congeda i fedeli.
Martedì: tutto si svolge come il lunedì. Una volta usciti dall’Anastasi, popolo e clero si recano alla chiesa dell’Eleona (il Monte degli Ulivi). Il vescovo entra nella grotta dove la tradizione voleva che il Signore fosse solito insegnare ai discepoli; riceve il libro dei Vangeli e stando in piedi legge il passo di Mt 24,4: State attenti che nessuno vi seduca. Si fa una preghiera, vengono benedetti catecumeni e fedeli, si fa il congedo e dal monte ciascuno torna a casa. È tardi, ormai notte.
Mercoledì. Alla fine della giornata, che si è svolta come la precedente, il congedo viene fatto al Martyrium; il vescovo viene accompagnato con inni all’Anastasi. Subito questi entra nella grotta del sepolcro, isolata da una cancellata; un prete davanti ai cancelli prende il Vangelo e legge il passo secondo cui Giuda Iscariota andò a trovare i Giudei e stabilì il prezzo del tradimento. Alla fine della lettura, davanti a quel vescovo figura Christi, solo come Gesù, «tale è il gridare e il gemere di tutto il popolo che non c’è nessuno che possa non commuoversi fino alle lacrime in quel momento». E su questa partecipazione emotiva si chiude la giornata con preghiera, benedizione e congedo.
Giovedì. La ritualità si complica. Al mattino il popolo prega all’Anastasi; poi si sposta al Martyrium dove avviene l’oblazione e il congedo. Dietro la Croce il vescovo offre l’oblazione e tutti si comunicano: ciò avviene solo in questo giorno dell’anno. Quindi all’Anastasi si recita la preghiera, si benedicono catecumeni e fedeli e si fa il congedo. «Ciascuno si affretta a tornare a casa sua, per mangiare, perché subito dopo mangiato tutti vanno sull’Eleona, a quella chiesa nella quale si trova la grotta in cui il Signore stette quel giorno con i suoi discepoli». Fino all’ora quinta della notte canti, inni, antifone si alternano con letture adatte al tempo e al luogo; poi all’ora sesta della notte si sale all’Imbomon, da dove il Signore ascese al cielo e si continua a pregare fino al primo canto del gallo.
Venerdì. Dopo la notte di veglia, si lascia l’Imbomon per il luogo in cui il Signore pregò, secondo Lc 22,41. C’è una chiesa: vescovo e popolo vi entrano per cantare un inno, leggere un passo del Vangelo e pregare. «Poi, fra gli inni, tutti, fino al bambino più piccolo, a piedi insieme col vescovo scendono nel Getsemani». La folla è stanca, cammina piano piano inneggiando e discendendo da un monte così alto (la fatica e l’emozione evidentemente dilatano le proporzioni della realtà). Più di duecento candele rischiarano la chiesa in cui si prega prima che venga letta la pagina della cattura del Signore. È un altro momento forte di commozione collettiva: il popolo geme e si lamenta, piange: «forse ? scrive Egeria ? fino in città si riesce ad udire il lamento di tutta la folla».
Si arriva a piedi a Gerusalemme alle prime luci del giorno: la si attraversa per intero dalla porta fino al Golgota e alla Croce. È già chiaro quando davanti alla Croce stessa viene letto il brano del Vangelo in cui il Signore è condotto davanti a Pilato. Il vescovo si rivolge al popolo «per incoraggiarlo, perché le persone per tutta la notte si sono affaticate e ancora dovranno faticare in quel giorno: che non si stanchi, ma abbia la speranza in Dio, che per quella fatica renderà loro una ricompensa più grande». Esorta ad andare a riposarsi a casa, per poi tornare alla seconda ora del giorno ad adorare il santo legno della croce e pregare poi fino a notte.
Non è ancora sorto il sole; dopo il congedo tutti di slancio vanno a Sion, a pregare presso la colonna della flagellazione. Quindi, dopo un breve riposo, viene messo sul Golgota un seggio per il vescovo, proprio dietro la Croce; davanti al lui su un tavolo coperto da un panno di lino vien esposto un cofanetto di legno dorato nel quale è il santo legno della croce. La reliquia viene tolta e offerta al bacio dei fedeli, che rendono identico omaggio all’anello del re Salomone e all’ampolla che serviva per l’unzione dei re (è evidente il richiamo alla regalità di Cristo).
Dall’ora sesta alla nona il tempo passa in letture: Salmi, Passione, profezie della passione per insegnare alla folla che nulla è avvenuto che non sia stato predetto e niente è stato predetto che non si sia compiuto. L’emozione è forte. La gente piange. E all’ora nona viene letto dal Vangelo secondo Giovanni che Cristo rese lo spirito. Si passa quindi al Martyrium, poi all’Anastasi dove si legge il passo del Vangelo in cui Giuseppe chiede a Pilato il corpo del Signore e lo pone in un sepolcro nuovo. Finita la lettura, dopo la benedizione, c’è il congedo. Il popolo è stanco, non gli si impone la veglia, ma l’usanza esiste. I chierici, i più giovani, i più forti restano, per tutta la notte a cantare fino al mattino. «Una folla immensa veglia, alcuni dalla sera, altri dalla mezzanotte, ciascuno secondo le sue possibilità».
Sabato. Tutto riprende come al solito, con in più i preparativi per le veglie pasquali al Martyrium. La pellegrina nota le differenze fra quanto avviene a Gerusalemme e al suo paese (forse la Galizia). Nota che i neofiti, una volta battezzati e rivestiti vengono condotti insieme al vescovo all’Anastasi, dove questi canta un inno e recita per loro una preghiera. Poi si va alla chiesa maggiore (Martyrium) dove tutto il popolo veglia. Da lì si fa tappa all’Anastasi, dove fra gli inni viene letto il brano evangelico della resurrezione. Dopo una preghiera, il vescovo presenta l’offerta, con estrema rapidità.

Quello che dette un morso alla croce
Egeria racconta, nella descrizione dei riti del venerdì santo, un episodio divertente, che però deve far riflettere. Quando la preziosa reliquia del legno della croce vien deposta sulla tavola per essere offerta al bacio dei fedeli, «il vescovo, seduto, appoggia le mani sulle estremità del legno santo ed i diaconi, che gli stanno intorno in piedi, sorvegliano. Si fa una simile sorveglianza per questo, perché è consuetudine che, venendo ad uno ad uno, tutto il popolo, sia fedeli che catecumeni, chinandosi sul tavolo, bacino il legno santo e passino oltre. E poiché, non so quando, si dice che uno ha dato un morso e ha rubato una scheggia del santo legno, ora viene sorvegliato dai diaconi, che stanno in piedi in cerchio perché nessuno che arriva osi fare di nuovo lo stesso atto». Anche nell’antichità il sacro furore per le reliquie poteva spingere ad atteggiamenti a dir poco sconvenienti.

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ I – II

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio – Monastero Suore Clarisse Cappuccine
Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – I E II IL III NEL POST SOTTO

I -II – CANTO, IL III SEPARATAMENTE PERCHÉ È TUTTO LO STUDIO È MOLTO LUNGO

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Premessa
Il tema di questo ritiro sono i canti del servo di Jahvè, cioè quattro canti che sono inseriti nel cosiddetto deutero-Isaia, dal capitolo 40 al 55 del libro del profeta Isaia.
Dentro a questo grande blocco ci sono quattro brani che in qualche modo emergono rispetto al contesto, e sono i quattro canti del servo di Jahvè.
Probabilmente anche questi sono opera del deutero-Isaia, però certamente con un messaggio, con delle prospettive particolari, in quanto tutte quattro queste poesie parlano di un personaggio misterioso, chiamato “il servo”, al quale viene affidata una missione importante e decisiva per la storia di Israele e per tutti gli uomini. Praticamente gli viene affidato il compito di fondare la religione autentica, l’atteggiamento corretto nei confronti di Dio e gli viene affidato l’incarico di rivelare la volontà di Dio.
Questo pone tutta una serie di problemi, per esempio l’identificazione di questo servo. A chi si riferiva l’autore? Le risposte degli esegeti sono diversissime, comunque tenete presente che per alcuni esegeti il servo è Israele stesso. Il popolo in esilio ha da Dio un compito, una vocazione di rinascita, di rigenerazione della vita religiosa, e questo compito fa di Israele il vero servo di Jahvè.
Per altri esegeti il servo è un personaggio simbolo o il deutero-Isaia stesso, o un profeta come Geremia, o un personaggio storico come Zorobabele.
Quello che a noi interessa principalmente è la fisionomia di questa figura, quale tipo di missione gli viene affidato.
Per certi aspetti il servo di Jahvè ha alcune caratteristiche regali: deve esercitare un potere che diventa anche universale; ma le sue caratteristiche sono principalmente profetiche perché deve- annunziare la parola di Dio, e per questo compito subisce derisione e persecuzione cioè paga l’annuncio della Parola di Dio con una serie di sofferenze che il servo accoglie in prospettiva positiva, come strumento di intercessione per i peccatori.
Il servo è uno che intercede, cioè cerca di ottenere la salvezza di tutto il popolo attraverso la sua preghiera, la sua persona e in particolare la sua sofferenza.
Proprio per questo motivo il servo di Jahvè assume delle caratteristiche che lo avvicinano a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, anzi Gesù e il Nuovo Testamento hanno interpretato la missione del Signore alla luce di questi canti, in particolare la passione di Gesù.
Si potrebbe rileggere la passione di Gesù e notare tutta una serie di riferimenti impliciti ai canti del servo, in particolare al quarto canto dove viene descritta la sofferenza del servo di Jahvè.
Proprio per questo motivo i quattro canti vengono usati nella liturgia della settimana santa, e forse per questo don Davide mi ha chiesto di commentarli. Allora li riprendiamo insieme, li rileggiamo e tentiamo di vedere quali sono le cose più preziose.

Primo Canto
Il primo canto è nel capitolo 42 di Isaia, ed è un oracolo di investitura del servo: possiamo immaginare l’investitura di un vassallo da parte del grande re.
Il re vuole costituire un vassallo primo ministro; naturalmente si fa un’assemblea con tutti i vassalli del regno e davanti a tutti i suoi sottomessi l’imperatore presenta la figura che lui ha scelto. E’ questo il contesto immaginario del nostro brano.
“Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché, tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.

Come dicevo è la presentazione del servo: il re, Dio stesso, lo presenta davanti a un’assemblea, all’assemblea del popolo, delle nazioni, dei grandi della terra: “Ecco il mio servo che io sostengo”.
Mio servo intendetelo come una dignità conferita a quest’uomo.
È vero che in italiano ‘servo’ vuole dire subordinato, ma quando si parla del servo di un re si intende il primo ministro, cioè quello che il re pone al di sopra degli altri.
Nell’Antico Testamento “servo di Dio” è per esempio Mosè, o Giosuè, o i profeti, cioè tutte quelle persone che hanno ricevuto da Dio una missione e con questa missione hanno ricevuto una dignità, un potere.
Quindi “mio servo” intendetelo come un titolo di onore.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”. “Mio eletto” vuole dire che Dio lo ha scelto in mezzo agli altri come unico, Dio dice a questo servo «tu sei per me unico» e non solo ma aggiunge «di te mi compiaccio» e vuole dire che Dio è contento della persona di questo servo, del compito che gli affida. In qualche modo il servo appare davanti a Dio come un sacrificio perfetto.
I sacrifici perfetti erano quelli che Dio guardava con piena benevolenza. Questo servo appare davanti a Dio come perfetto nella sua consacrazione, e Dio se ne compiace, Dio è contento di lui.
Questo compiacimento di Dio diventa l’affidamento di un incarico con equipaggiamento annesso: “Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
L’incarico è “portare il diritto” dove per diritto intendete quello che noi chiamiamo oggi la religione, quindi vuole dire rivelare la volontà di Dio, il progetto di Dio ai popoli, perché questi si sottomettano a questa volontà. Quindi non è il diritto in senso giuridico stretto, ma è il diritto nel senso della volontà globale di salvezza di Dio.
In altre parole: il servo deve condurre tutte le nazioni all’obbedienza a Dio.
Naturalmente questo è un compito molto grande e che supera le energie umane del servo. Per quanto sia intelligente o abile, un compito di questo genere supera ogni possibilità, allora “ho posto il mio spirito su di lui”.
Questo vuole dire che si compie per il servo quello che era stato detto nel capitolo 11 di Isaia a proposito del Messia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.
Il testo continua descrivendo l’attività di questo messia, di questo re, il quale stabilisce la giustizia, difende i poveri, decide le questioni non approssimativamente ma secondo una valutazione corretta.
Come può fare tutto questo? “Su di lui si poserà lo spirito del Signore”. Non solo è sceso lo Spirito, ma si è fermato, si è inserito nell’esistenza di questo servo tanto da riposarsi dentro di lui.
Allora questo spirito gli dona la sapienza e l’intelletto, cioè la capacità di conoscere oggettivamente le cose, come sono davanti a Dio.
Poi gli dona il consiglio e la fortezza cioè la capacità di scegliere, di decidere con coraggio. Dopo avere capito le cose sa prendere delle decisioni forti.
Poi gli dona lo spirito di conoscenza e del timore, cioè nello scegliere si lascia guidare non da interessi particolari, ma dalla volontà di Dio, dalla sottomissione al volere di Dio.
Quindi con lo Spirito quest’uomo è guidato, è orientato nei suoi pensieri e nei suoi desideri non dagli interessi privati, ma dalla rivelazione della volontà di Dio; ha assimilato il suo cuore al cuore di Dio.
“Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
Questa è la missione. Poi si dice qualcosa sul metodo, sul come verrà svolta, come si realizzerà questa missione:
“Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.”
Vuole dire che il suo metodo di azione è un metodo discreto, umile, rispettoso, capace di valorizzare quello che di positivo trova, anche se piccolo.
L’immagine della canna incrinata e dello stoppino dalla fiamma smorta, sembrano essere la fotografia dell’Israele dell’esilio.
Quando Israele si trova in Babilonia è un popolo nel quale è venuta meno la voglia di vivere, un popolo avvilito, deluso. schiacciato, che non ha un grande gusto di andare avanti.
Il servo viene mandato a questo popolo.
Come lo tratta? Lo giudicherà e lo eliminerà proprio per i suoi difetti? Spezzerà la canna incrinata? Spegnerà lo stoppino dalla canna smorta?
Al contrario. Questo servo è rispettoso di tutto quello che di positivo, anche piccolo, esiste nel popolo del Signore e lo valorizza. Con il suo intervento invece di umiliare valorizza. Invece di schiacciare, da energia e speranza.
Proprio per questo si presenta come un servo mite, che non grida, che non alza il tono, né fa udire in piazza la sua voce.
Vuole dire allora che è debole? Che non ha la capacità di imporsi?
È mite, ma tutt’altro che debole.
È, in realtà, deciso, costante, ostinato nelle sue scelte, per cui dice:
“Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.”
Quindi non si lascia abbattere da nessun ostacolo, non si lascia intimidire dalle minacce, ma una volta che si è proposto il suo compito (quello di stabilire la volontà di Dio) lo esegue senza deviare a destra o a sinistra.
Mite, ma perseverante. Si presenta come rispettoso ma anche deciso nell’esecuzione della volontà di Dio.
Questa presentazione viene completata da alcune parole che vengono rivolte direttamente al servo:
“Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita”
Chi parla in questo modo è Dio, il creatore del mondo, che sta al di sopra di ogni cosa e la cui voce si afferma come invincibile. E’ quello che crea i cieli, che dispiega i cieli e la terra. L’universo intero è plasmato dalle sue mani, disposto dalla sua volontà.
È Lui che dà il respiro alla gente che vi la abita, quindi anche la vita ha la sua origine nella volontà di Dio.
Che cosa dice questo Signore dell’universo?
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché‚ tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”
Richiama la missione che Lui stesso ha consegnato al servo: Io ti ho chiamato per la giustizia.
Questo compito è accompagnato dalla benevolenza di Dio: ti ho preso per mano, cioè il servo in tutta la sua opera è accompagnato dalla presenza premurosa e di difesa del Signore.
Inoltre ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo. Formato e stabilito vogliono dire che il servo è proprio una creazione di Dio, che Dio si è fatta con le sue mani. Così come all’inizio del mondo Dio ha creato l’uomo plasmandolo con la creta, così il Signore ha plasmato il servo.
Plasmato significa che gli ha dato una forma che corrisponde alla sua volontà, tanto che il servo possa diventare uno strumento docile di Dio.
Siccome diventa uno strumento docile di Dio, il servo in qualche modo diventa onnipotente. Cioè riesce ad agire con la stessa potenza misericordiosa di Dio, tanto che apre gli occhi ai ciechi, tanto che libera i prigionieri, tanto che porta la luce a chi abita nelle tenebre.
Tutte queste cose l’uomo non è capace di farle, solo Dio è capace, ma questo servo è diventato uno strumento docile, perché Dio lo ha formato secondo la sua volontà, e quindi attraverso questo servo passa, come attraverso un vetro trasparente, l’azione di Dio che è potente e misericordioso, che è forte e salvatrice. Quindi il servo diventa strumento di Dio.
Questo è il primo canto del servo.
Quando rileggete queste parole provate a rivederle in riferimento al Nuovo Testamento.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”, questo è il Battesimo di Gesù.
“Ho posto il mio spirito su di lui”, è successo questo all’inizio del ministero di Gesù.
“egli porterà il diritto alle nazioni”, questo è il compito che Gesù ha realizzato in tutta la sua vita.
Come lo ha realizzato? Con mitezza: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento del Signore sia stato di mitezza, ma è stato altrettanto fermo e deciso tanto da non venire meno finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra, quindi tanto che non si è ritirato di fronte a nessun ostacolo nemmeno davanti alla minaccia della morte.
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni”, che Gesù sia luce delle nazioni questo era stato già detto da Simeone al momento della presentazione del Signore al tempio, ma lo si rivede in tutta la predicazione del Signore, in tutto quello che Gesù ha detto.
Che Gesù abbia riaperto gli occhi ai ciechi tutto il Nuovo Testamento lo dice.
Che “faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” questo è tutto il significato della redenzione.
Quindi si può rileggere il canto in riferimento a Gesù.
Non vuole dire che il secondo Isaia abbia necessariamente pensato ad una figura messianica, però vuole dire che nel momento in cui Gesù è venuto per compiere la volontà del Padre, ha reso vere tutte le profezie, tutte le parole dell’Antico Testamento e le attese dei profeti.

Secondo Canto
Il secondo canto è al capitolo 49 del profeta Isaia.
Se il capitolo 42 era la presentazione del servo davanti ai vassalli del re, il capitolo 49 è una specie di racconto autobiografico: il servo racconta la sua esperienza, rilegge il passato:
“Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
poiché, ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza
mi disse: «E’ troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra»“.

Il servo sta raccontando la sua esperienza, la sua vocazione, e dice una cosa fondamentale: la sua vocazione, la sua chiamata è avvenuta quando ancora era nel seno materno, prima di nascere.
L’idea è tipica di Geremia.
Quando parla della sua vocazione usa proprio questa espressione: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Vuole dire: quando Geremia incomincia a fare il profeta ha una certa età della sua vita, però in realtà Geremia era profeta da prima; quella vocazione non fa altro che manifestare, mettere in luce quella che era la struttura genetica spirituale di Geremia. Geremia non è mai esistito se non come profeta; Dio lo ha sempre sognato, voluto e pensato come profeta. La profezia non è un vestito che gli si è aggiunto in un momento della sua vita, ma è un gene che ha accompagnato il profeta fin dall’inizio e che ha dato forma a tutti i suoi pensieri, i suoi progetti, le sue speranze e ideali.
La vocazione nell’ottica di Geremia è così, e così dice anche il servo «il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome».
Pronunciato il mio nome vuole dire che mi ha conosciuto, ma vuole dire anche che mi ha amato, che mi ha dato un compito. Il nome contiene il compito della persona, contiene la sua vocazione.
Ciascuno di noi ha un nome, che Dio conosce, e che è il significato della nostra esistenza, quindi è quella che noi chiamiamo vocazione.
Il servo è stato scelto, amato e voluto fin dall’inizio del suo concepimento con una missione precisa da parte di Dio.
Ricordate che questa immagine verrà ripresa poi da san Paolo. Quando parla della sua vocazione riconosce che è venuta ad un certo punto della sua vita (sulla via di Damasco), è venuta in contrasto con molte cose precedenti, perché prima era un persecutore della chiesa e poi la vocazione ha capovolto la sua prospettiva e il suo modo di pensare, però san Paolo riconosce che Dio lo aveva scelto fin dal seno materno.
Quindi la vocazione è avvenuta concretamente se non dopo molto tempo, ma quella vocazione non faceva altro che innestarsi su una realtà profonda che Paolo portava sempre con sé.
Questo naturalmente vale per ciascuno di noi. La vocazione la scopriamo ad un certo punto della vita, delle volte la costruiamo pian piano, con fatica, con tensione.
Però in realtà quello che viene a galla è la parola con cui Dio ci ha chiamato fin dall’origine.
Continua il servo: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” e vuole dire che il servo di Jahvè è diventato uno strumento di Dio, uno strumento di cui Dio si serve per compiere la sua volontà, uno strumento soprattutto attraverso la parola, la predicazione. E’ un predicatore, un profeta, deve annunciare il diritto, proclamare la volontà di Dio; per questo Dio ha reso la sua bocca come spada affilata, quindi capace di colpire, capace di discernere, di distinguere, di dividere, di mettere in luce i pensieri del cuore.
“Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. La parola “Israele” sembra una glossa, cioè un’aggiunta di qualcuno che ha voluto interpretare il canto, per dire che questo servo su cui Dio manifesta la sua gloria è Israele stesso, il popolo stesso.
E ha ragione. Quando il servo di Dio si rivela è probabilmente una persona singola, ma è una persona che riassume in sé il mistero di tutto il popolo di Israele. Di quel popolo che Dio ha chiamato da sempre, che Dio ha plasmato con le sue mani, al quale ha affidato la missione di testimoniarlo in mezzo ai popoli, di essere quindi luce per le nazioni.
Tutte queste cose sono corrette se riferite a Israele, ma nello stesso tempo si riferiscono a qualcuno che incarna e realizza perfettamente il compito di Israele.
Quello che alla fine vale per Israele vale anche per noi. Noi siamo sì la chiesa del Signore ma a volte siamo una chiesa che non realizza la sua vocazione autentica di amore, di fede, di speranza. C’è quindi una specie di scalino tra la chiesa com’è nel progetto di Dio e la chiesa come riusciamo a viverla noi.
C’è uno scalino, una distanza tra Israele così come Dio lo sogna e Israele come storicamente si realizza.
Per questo c’è nella Chiesa una persona nella quale la chiesa viene espressa pienamente nel suo mistero di amore: Gesù Cristo, i santi che riassumono il mistero vero della Chiesa.
Lo stesso vale per Israele e per questo servo che riassume in sé l’esistenza, la vita e la missione del popolo.
“Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Qui entra un altro tema che diventerà poi dominante, ed è la sofferenza, il fallimento, la delusione.
Vuole dire che questo servo ad un certo punto vede la sua missione fallire.
Si è impegnato per annunciare il diritto alle nazione, per portare la volontà di Dio in mezzo al mondo, per trasformare il mondo secondo il progetto di Dio. Che cosa ha ottenuto? Poco, tanto da essere ormai avvilito, privo di energia.
Vuol dire che ha perso la fiducia? No la fiducia gli rimane. Vede che il risultato è quasi nullo ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio. Non ha quindi paura del fallimento, dell’insuccesso; sa che siccome la missione gli è stata affidata da Dio è come al sicuro dentro alla volontà, al progetto di Dio. Qualunque sia il risultato che si vede, in realtà la sua missione non è inutile. Dio custodisce lui e i suoi meriti, il significato del suo compito, della sua missione.
“Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, poiché, ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza mi disse: «è troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché, porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Vuole dire: questo servo che sembra non riuscire a realizzare la sua missione di ricostituzione del popolo di Israele, secondo il volere di Dio, questo servo riceve, stranamente, una missione infinitamente più grande: quella di ricondurre l’umanità intera alla fedeltà al Signore, quello di donare agli uomini la salvezza di Dio.
Questo è tipico del Nuovo Testamento:
Gesù è venuto come salvatore di Israele, e si può che ha fatto fallimento.
Gesù può dire al termine della sua vita: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze» perché quelli che hanno creduto non sono stati molti, e quelli che gli si sono opposti, invece, hanno apparentemente vinto.
Non c’è dubbio che le parole “ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio” sono parole che esprimono il mistero di Gesù, che non ha restituito male per male, che non ha oltraggiato gli oltraggiatori, ma ha affidato la sua causa a colui che giudica con giustizia.
Quindi si è consegnato nelle mani del Padre perché fosse Lui a difenderlo. Ma proprio questo è avvenuto, che in questo modo la missione di Gesù è passata da missione per Israele a missione universale, a missione per tutte le nazioni.
Proprio il rifiuto di Israele ha aperto la strada ai pagani, così dice san Paolo più volte. Ed è proprio questo che ha reso l’annuncio del Vangelo un annuncio di salvezza fino alle estremità della terra.
Fino all’estremità della terra, se ricordate, è il progetto che Luca pone alla base degli atti degli Apostoli; il compito della chiesa è fare sì che il Vangelo, partendo da Gerusalemme, arrivi fino agli estremi confini della terra, arrivi cioè ai pagani, a tutti gli uomini.
Entrano quindi due elementi nella vocazione del servo, che sono complementari:
da una parte la sofferenza, dall’altra la dilatazione della missione;
da una parte il fallimento, dall’altra il compito aperto a tutti e la salvezza offerta.

 

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÉ – III CANTO – ISAIA

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio - Monastero Suore Clarisse Cappuccine

Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – SEGUE DA SOPRA

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

III CANTO

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Terzo Canto
Il terzo canto è al capitolo 50.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
Perché, io ascolti come gli iniziati.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
È vicino chi mi rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa?
Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Ecco, come una veste si logorano tutti,
la tignola li divora.
Chi tra di voi teme il Signore,
ascolti la voce del suo servo!
Colui che cammina nelle tenebre,
senza avere luce,
speri nel nome del Signore,
si appoggi al suo Dio”.
Vedete come il tema della sofferenza incomincia a venire in primo piano.
Questo terzo canto è un salmo di fiducia, di quelli che si trovano a volte nella profezia di Geremia.
Geremia è un profeta che parla al popolo, ma che delle volte esprime semplicemente le sue sofferenze, i suoi lamenti perché la sua missione è una missione che gli costa, gli pesa. Geremia avrebbe voluto potere fare cose diverse da quelle che è stato costretto a fare. Geremia avrebbe amato la vita di comunione con gli altri, di società, di dialogo e invece è costretto ad annunciare la desolazione, il giudizio, la sofferenza; anzi, non riesce ad annunciare altro che questo e proprio questo fa di lui un emarginato, perché nessuno ascolta volentieri profezie di sventura, e Geremia è il profeta di sventure per eccellenza.
Per questo motivo Geremia ha dovuto rinunciare alle amicizie, ha dovuto rinunciare a formare una famiglia, è diventato nella sua logica morto prima ancora di morire e per questo si lamenta, racconta il peso di questa condizione che lui non ha scelto e che non gli piace, che è costretto a sopportare per una specie di violenza del Signore: “mi hai fatto forza e hai prevalso”.
Il servo di Jahvè va collocato in questo contesto dei profeti che soffrono.
I profeti sono persone che annunciano la parola di Dio, e quindi sono dei messaggeri del Signore, ma sono messaggeri come coinvolti da quello che annunciano, sono trafitti dalla parola che dicono agli altri.
È una parola di giudizio? Questa parola di giudizio cade prima su di loro.
Annunciano la sofferenza? Ricade su di loro per primi.
Questo vale anche per il servo di Jahvè che viene trascinato dalla parola di Dio a essere una parola personale, una persona che è diventata parola, che è diventata manifestazione della volontà di Dio. Dio l’ha plasmata come persona tanto da essere la realizzazione di messaggio di giudizio, nel caso di Geremia, o di salvezza come vedremo nel quarto canto del servo di Jahvè.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola”. Abbiamo detto che il secondo Isaia è un profeta di consolazione, che vuole riportare speranza agli esuli che si sentono abbandonati e avviliti, bene il servo di Jahvè ha una parola di speranza da rivolgere al popolo del Signore e questa parola il servo la può trasmettere perché prima di tutto l’ha ascoltata con perseveranza: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché, io ascolti come gli iniziati”.
Parla perché prima ha ascoltato. Trasmette consolazione perché prima ha ricevuto consolazione dal Signore.
Vale per questo servo quello che dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché, possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”, quindi consolati, consoliamo; abbiamo ricevuto dal Signore conforto per non tenerlo come una gioia privata ma per comunicarlo agli altri.
“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Però, questo compito positivo di consolazione il servo di Jahvè lo paga; è un consolatore, ma è un consolatore che proprio per potere consolare deve essere passato attraverso la sofferenza.
Se uno è consolato vuole dire che da una condizione di tribolazione viene portato a una condizione di speranza, ma deve partire dalla tribolazione altrimenti non c’è consolazione.
Il servo di Jahvè ha conosciuto la persecuzione, l’oppressione, la sofferenza: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Quindi ha conosciuto la sofferenza e l’umiliazione.
Eppure in mezzo alla sofferenza e all’umiliazione ha mantenuto la sua sicurezza e la sua speranza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. E’ vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.
Tradotto vuole dire: in tutte le situazioni di tribolazione in cui mi trovo ho un difensore e un protettore: Dio. Mi basta. Non ho bisogno di altro che di questo. Se il Signore Dio mi assiste non resto confuso. L’opposizione degli uomini può fare male, anzi fisicamente fa molto male Ho presentato il dorso ai flagellatori, ma non riesce a spezzare la resistenza interiore di questo servo, anzi la protezione del Signore lo colloca di fronte agli altri come invincibile: “rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”.
Dura come pietra vuole dire che gli insulti o gli sputi non gli fanno cambiare scelta, non lo ripiegano dentro alla difesa di sé, non lo rendono impaurito e timido. Ha vicino il Signore che gli rende giustizia, ogni oppositore gli appare quindi insignificante: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
Queste parole le potete rivedere nell’esperienza del Signore, in quel cammino di passione di fronte al quale Gesù non si è tirato indietro, ma è rimasto perseverante, fedele nel compimento della volontà del Padre.
Ma quelle medesime parole sono usate da san Paolo nella lettera ai Romani, in riferimento al credente: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?”. Sono proprio le parole del terzo canto del servo di Jahve: chi condannerà? Chi potrà condannare chi è stato redento e salvato e protetto dall’amore di Dio in Gesù Cristo. Allora ne deve scaturire una sicurezza grande che permette al servo di rimanere fedele alla sua missione e che permette al credente di rimanere fermo nell’obbedienza a Dio, nella fiducia in Dio.

Riassunto.
I capitoli 42 – 49 – 50 sono una specie di piccolo itinerario spirituale del servo di Jahvè che nasce dalla sua istituzione divina:
Dio lo stabilisce come suo servo di fronte al mondo intero, assegnandogli una missione e donandogli lo Spirito perché sia in grado di compiere questa missione.
Il servo opera la volontà di Dio con mitezza e decisione nello stesso tempo.
Il risultato sembra deludente, sembra che debba dire «ho faticano invano», ma in realtà siccome ha compiuto la volontà di Dio questo insuccesso è solo apparente; in realtà la missione di salvezza il servo l’ha ricevuta, anzi il Signore gliela dilata all’infinito in modo che il servo diventi strumento di salvezza per tutti gli uomini.
Che cosa vuole dire? Che deve portare una parola di consolazione al mondo intero.
Questo però costerà al servo una sofferenza grande: la flagellazione, gli sputi, le umiliazioni… e in tutte queste esperienze il servo dovrà mantenere la sua fermezza che viene dalla protezione del Signore. Gli deve bastare la protezione del Signore contro ogni sofferenza.
In questo si incomincia a intravedere che il servo compie la missione non solo predicando, ma anche soffrendo.
Nell’ultimo canto il servo avrà solo sofferenza. Tutto l’aspetto della predicazione, che era così importante all’inizio, scompare e rimane solo la sofferenza dell’obbedienza e dell’amore.
Quarto Canto

Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui
tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo
così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori”.

Questo è il quarto e ultimo canto del servo del Signore. E’ il canto culminante perché presenta la sofferenza del servo che viene portata fino al limite: la persecuzione, il processo, l’esecuzione, la morte.
Insieme con questo annuncia la glorificazione del servo.
Quindi poema del servo sofferente e glorificato. Il tema è quello della salvezza attraverso la sofferenza, è quello della gloria attraverso la croce.
Notate che quelli che parlano in questo poema considerano questo messaggio della gloria attraverso la croce, come un messaggio inaudito, incredibile. Siamo davanti a qualcosa di paradossale che l’uomo non si sarebbe mai aspettato.
Notate anche che l’inizio e la conclusione del canto sono parola di Dio. E’ Dio che prende la parola e parla del suo servo.
Al centro invece c’è una narrazione messa sulla bocca di un gruppo di persone, non identificato, che racconta la storia del servo, racconta la sua vita come ha patito, come è morte e come alla fine lo hanno visto trionfante.
Quindi al centro c’è la narrazione; all’inizio e alla fine la proclamazione di Dio che annuncia quello che è avvenuto con il suo significato di salvezza.
Il canto incomincia con una proclamazione divina: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Ricordate il primo canto del servo, quell’istituzione in cui Dio, come re, costituiva il servo come suo rappresentante e lo presentava davanti a tutti gli uomini, a tutti i re della terrà; all’inizio del quarto canto c’è qualcosa di simile: Dio presenta il suo servo e lo presenta glorioso. Fin dall’inizio Dio proclama l’esito finale dell’avventura, ed è un esito di gloria e di esaltazione.
Tutto il resto è indirizzato a questo, va verso questo traguardo. C’è una parola di Dio che annuncia la gloria, il resto è necessario come cammino. La Parola di Dio è infallibile, quindi se annuncia la gloria in un modo o nell’altro la storia dovrà andare a finire lì. Per quanto si veda una storia di sofferenza e di umiliazioni il traguardo è fissato: la gloria.
Notate che questa immagine del servo glorioso è quella che domina il quarto Vangelo: il Vangelo di Giovanni quando presenta la passione del Signore insiste sul fatto che è una realtà di innalzamento e di esaltazione. Giovanni vuole che uno abbia sempre davanti l’immagine della croce dove uno muore per innalzamento. Quella piccola realtà che è l’innalzamento in croce per san Giovanni diventa il simbolo della glorificazione di Cristo, per cui il Cristo del quarto vangelo è certamente il Cristo che muore in croce, ma in realtà è più ancora il Re che sale sulla croce e si insedia nel suo potere sovrano.
Quindi il Cristo di Giovanni è il Cristo in croce come la croce di san Francesco o delle croci bizantine dove di dolore non c’è quasi nulla; c’è piuttosto l’espressione della gloria e della vittoria.
Da qui san Giovanni ha preso l’immagine dell’innalzamento: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Poi il dolore del servo e la sua gloria vengono presentati indirettamente, guardando l’effetto che fanno sulle persone che stanno intorno, sulle persone che guardano: “Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”.
La sofferenza, prima di tutto, sfigura l’uomo: l’uomo è fatto a immagine di Dio, vuole dire che dovrebbe portare qualcosa della bellezza di Dio sul suo volto. Ora la sofferenza sfigura il volto dell’uomo, lo rende non guardabile, non oggetto di ammirazione, anzi un volto sfigurato può produrre quasi un terrore sacro.
Ripensato a Giobbe quando viene incontrato per la prima volta dagli amici che lo vedono in mezzo all’immondizia, in una condizione di desolazione e di avvilimento. Di fronte a questa condizione gli amici tacciono terrorizzati, in silenzio per una settimana. Quindi la condizione della sofferenza dell’uomo diventa motivo di paura, di terrore.
Ma non solo. Come crea stupore la sofferenza di quest’uomo, crea stupore anche l’esaltazione, anche la sua gloria. Perché dopo averlo visto in quella condizione di sfiguramento, i re della terra lo vedono nella condizione di gloria.
Se ricordate anche nei salmi succedeva che quando Dio libera un uomo giusto dalle sue angosce, la gente rimaneva a bocca aperta, stupita per quello che era avvenuto. Anche per il servo questa liberazione sarà qualcosa di inaudito, qualcosa di mai visto nella storia della salvezza: “vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”
Fino qui la proclamazione di Dio.
Dopo, invece, è un gruppo anonimo che inizia a parlare, un coro, un coro della tragedia greca o un gruppo di re, comunque un coro che comincia a raccontare la storia del servo sottolineando la novità di questa esperienza: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
Il braccio del Signore si è manifestato molte volte nella storia di Israele: quando il Signore ha liberato il suo popolo dall’Egitto “con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto“.
Il braccio teso, potente è naturalmente il simbolo di una forza messa in attività: Dio attua, esercita tutto il suo potere. Quindi avevamo già visto il braccio del Signore.
Come pure lo abbiamo visto quando ha fatto entrare il suo popolo nella terra promessa; quando lo ha liberato dai nemici. La storia di Israele è una serie di avvenimenti in cui il braccio di Dio si è manifestato.
Ma adesso siamo davanti ad un’azione nuova e inconcepibile. “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore”? Siamo davanti a qualcosa di nuovo e inaccettabile. Questo nuovo mistero sembra superare tutte le esperienze che abbiamo avuto in precedenza.
Nonostante questo, nonostante sia incredibile, il coro racconta ugualmente. Per chi? Forse per il futuro perché ci possa essere qualcuno che arrivi a comprendere quello che per i nostri occhi e i nostri orecchi è rimasto troppo misterioso, troppo al di là delle nostre capacità di comprensione.
Il tema del messaggio non è una teoria, non è un contenuto di idee, ma una serie di fatti, una vita, la vita di un personaggio. Di questo personaggio viene raccontata la nascita, la passione, la morte, la sepoltura, la glorificazione. Non solo viene raccontata la vita, ma quelli che raccontano sono coinvolti personalmente, profondamente, sanno che quegli avvenimenti non riguardano altre persone, ma coinvolgono loro stessi.
E’ vero che io racconto la storia di un altro, ma quello che è capitato a questo personaggio ha delle ripercussioni sulla mia vita, mi riguarda da vicino.
Sarà bene che anche voi ascoltiate nello stesso modo.
Vi racconto la storia del servo di Jahvè, ma si parla della vostra vita, della vostra esperienza, del vostro peccato e della vostra salvezza. Quindi non potete ascoltare come se vi raccontassi di Alessandro Magno, con interesse ma con la distanza che c’è tra noi e lui. Questa è storia vostra, è la vostra vita che si rispecchia nell’esperienza di quest’uomo.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.”
Così incomincia la storia del servo di Jahvè.
Ma chi è questo servo di Jahvè? Mistero! Anonimo.
E’ un re? E’ un profeta? E’ un sacerdote? Vive nella terra di Israele? Ha un nome nobile?
Non è detto niente. E’ cancellato tutto. Rimane solo la sua pura presenza segnata dal dolore, dall’umiliazione. L’unica immagine che ci viene messa davanti è quella del dolore e dell’umiliazione. Le altre caratteristiche, quelle umane, sono irrilevanti. Gli autori, i raccontatori non le tengono presente.
Quello che ci dicono: è un virgulto, quindi una vita che nasce, che vorrebbe fiorire; ma è un virgulto in una terra arida, quindi che non lo nutre, non gli da alimento; la sua vita è una vita di stenti e di povertà; l’ambiente nel quale vive non lo sostiene.
E’ naturalmente un uomo, ma è un uomo sfigurato: “Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. (…) come uno davanti al quale ci si copre la faccia” Sembra fare riferimento, con quest’ultima affermazione, ad un lebbroso.
Il lebbroso è un uomo sfigurato, in cui l’immagine umana è cancellata dalla malattia, e che proprio per questo suscita ribrezzo, rifiuto. Il lebbroso non ha rapporto con la convivenza sociale degli uomini, deve vivere emarginato e rifiutato: è uno davanti al quale ci si copre la faccia.
Quindi quest’uomo vive in una società ma è rifiutato ed emarginato. Ai dolori e alle sofferenze fisiche si unisce quindi l’abbandono degli altri, l’emarginazione sociale. La gente lo abbandona perché interpreta la sua sofferenza come un castigo di Dio, quindi ha paura di avvicinarsi. Guai avvicinarsi a chi è castigato da Dio perché potrebbe contagiarti. Se è sotto una potenza negativa, quella potenza potrebbe attaccarsi alla tua carne. Allora meglio rimanere lontani, meglio interrompere qualunque rapporto, fosse anche il solo rapporto del guardare.
Questo tema, quest’immagine dell’uomo sofferente e rifiutato la trovate in numerosi salmi: il quarto canto del servo di Jahvè è vicino, per molti aspetti, ai salmi di supplica individuale.
Per esempio il salmo 31:
“Sono l’obbrobrio dei miei nemici,
il disgusto dei miei vicini,
l’orrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono caduto in oblio come un morto,
sono divenuto un rifiuto.
Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.”

Oppure il salmo 69:
Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono un estraneo per i miei fratelli,
un forestiero per i figli di mia madre”.

Quindi l’esperienza non è nuova, anzi è presente in molti sofferenti dell’antico testamento. Ma c’è una differenza. Nei salmi di supplica è il sofferente che parla e descrive la sua condizione di sofferenza ed umiliazione. In questo testo, quello che viene chiamato da Isaia l’uomo dei dolori non parla, sono gli altri che descrivono la sua condizione, la sua miseria. Lui tace, è l’uomo del silenzio.
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
In alcuni salmi di lamento, come quelli appena citati, il salmista confessa il suo peccato, e chiede a Dio perdono e grazia:
“Signore, non castigarmi nel tuo sdegno,
non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto,
su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo,
come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe
a causa della mia stoltezza”.
Il Salmista confessa il suo peccato e chiede la grazia di Dio. Uguale atteggiamento lo troviamo nel salmo successivo.
Anche nel quarto canto del servo di Jahvè c’è la confessione del peccato, ma non è il servo che confessa il suo peccato, ma sono gli spettatori, il coro degli uomini: egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori.
Ci sono dolori e sofferenze, e questi sono il segno che siamo di fronte ad una realtà di peccato, ma non al peccato di colui che soffre, ma siamo di fronte al peccato di coloro che lo vedono soffrire, al peccato degli altri.
Il peccato c’è, ma viene portato da un’innocente.
All’inizio della storia, quando la gente ha visto quest’uomo sfigurato, disprezzato ed emarginato ha pensato che fosse colpito da Dio, come avevano pensato gli amici di Giobbe quando lo vedono in mezzo alla sofferenza e gli dicono: «Dio ti ha castigato, devi avere compiuto dei peccati, chiedi perdono a Dio».
La sofferenza, tradizionalmente, è vista come la conseguenza di peccato e di crimini.
In realtà il servo accetta sì, nella sofferenza, la conseguenza del peccato, ma del peccato degli altri. Questo è l’unico caso, dell’antico testamento, in cui ci sia l’idea di una sofferenza di carne, di qualcuno che soffre al posto di un altro, soffre per quello che toccherebbe all’altro come conseguenza del peccato commesso. In questo modo, soffrendo innocentemente, il servo apre gli occhi ai peccatori, perché gli uomini vedendo la sua sofferenza si rendano conto del loro peccato; vedendo l’angoscia del servo riconoscano la propria colpa.
Dolore e castigo sono normalmente legati tra loro nell’ottica dell’antico testamento. Adesso, nell’esperienza del servo, sono separati: il castigo è nostro, il dolore è suo; il castigo toccava a noi, ce lo siamo meritati noi, il dolore invece lo sopporta lui. Il dolore che il Servo sopporta è il dolore che porta alla salvezza, perché procura pentimento e perdono. Quindi il testo gioca sul contrasto: “noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”. C’è il paradosso di un castigo che dovrebbe creare angoscia e che invece procura pace: il castigo che il servo sopporta produce la pace degli uomini, dei peccatori. C’è il paradosso delle cicatrici che curano: le cicatrici delle sofferenze del servo diventano cura, guarigione per noi, “per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
A questo punto il coro confessa ancora più esplicitamente il proprio peccato: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.” Nuova confessione di peccato, quindi, con l’immagine tradizionale del gregge che fa riferimento al popolo di Dio traviato e disperso. E’ l’immagine di una divisione, di un venir meno di quel legame di fraternità e comunione che dovrebbe tenere compatto il popolo del Signore.
Quell’immagine che riprenderà san Pietro nella sua prima lettera:
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.
San Pietro ha praticamente descritto la passione del Signore con le parole del quarto canto del Servo: ha portato i nostri peccati, siamo stati guariti dalle sue piaghe, eravamo erranti come pecore.
Notate ancora quell’espressione significativa con cui termina il versetto: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Vuole dire che la sofferenza del servo è opera del Signore, è opera di Dio. Non soffre per caso, per un maleficio di potenze negative; soffre per un disegno di Dio. Misteriosamente il Signore ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti, ed è fondamentale per riuscire a dare, a questa sofferenza, un valore positivo. Fosse per caso, sarebbe senza significato; fosse il segno delle potenze del male, sarebbe negativo: vorrebbe dire che il bene è radicalmente sconfitto. Invece è opera del Signore e questo apre la possibilità di una speranza, di un esito positivo per questo dramma.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Viene ricordato esplicitamente il silenzio del servo che non è per caso. E’ a sua volta, a modo suo, un discorso eloquente. E’ un’azione simbolica: ha scelto il silenzio, e lo ha scelto non perché non abbia niente da dire a sua discolpa, ma proprio perché questo silenzio esprime l’atteggiamento di perdono che il servo ha scelto nei confronti degli uomini.
“(…) Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché, ne seguiate le orme:
egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca,
oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta”.
Cristo non ha risposto al male con il male, ha piuttosto coperto il male con una capacità più grande di perdono.
Quando san Paolo, nell’inno alla carità, dice tra le altre cose che la carità copre tutto, dice esattamente questo, dice del servo che tace di fronte alla sofferenza che sta portando per i peccati degli altri.
In questo siamo davanti a qualcosa di sorprendente.
Potete fare il confronto con Giobbe; Giobbe soffre anche lui e soffre da innocente, ma non tace. E’ diventato eloquente, ha tutta una serie di parole con le quali esprime la sua ribellione alla sofferenza e difende la sua innocenza.
Il servo, invece, tace; la pecora muta si contrappone al gregge traviato. Siamo di fronte a qualcosa che misteriosamente sposta il giudizio di Dio: l’agnello condotto al macello, la pecora muta portano sopra di sé il giudizio e la condanna.
“Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.”
Siamo davanti ad un tema nuovo; fino ad ora si era parlato di sofferenze fisiche, di disprezzo, ora si parla di giudizio e di una condanna ingiusta.
La condanna ingiusta è uno dei grandi temi dei salmi di lamentazione. I salmisti si lamentano molto spesso della degradazione della giustizia, di giudici che si sono lasciati comperare ed hanno emesso sentenze false schiacciando l’innocente. Questo è un tema fondamentale nell’antico testamento.
Il servo ha subito proprio questo: una condanna ingiusta, con l’unica differenza che il servo non si difende, non invoca il castigo di Dio contro i nemici; quello che invece succede frequentemente nei salmi.
Nei Salmi chi è ingiustamente condannato rivendica l’intervento di Dio, ha diritto che Dio intervenga perché Dio è l’ultima istanza della giustizia, nel popolo del Signore, quindi deve intervenire per riportare le cose alla verità, alla giustizia.
Il servo NON chiede nessun intervento di Dio. La sua storia dunque termina con la condanna e l’esecuzione: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte?”. Nessuno lo ha difeso, nessuno si è preoccupato di proclamare la giustizia del servo, anzi, “gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Quindi la sepoltura sigilla tutta la vita del servo come vita di dolore e di disprezzo, ed è una vita che termina in una fossa comune, nella fossa dei giustiziati.
Ora, quelli che raccontano la storia, ne possono dire il significato vero, possono dire che era innocente quell’uomo: “sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Questa è una dicitura che rimane come sigillo della sua sepoltura, è scritta sulla sua lapide; sulla lapide c’è scritto che era innocente nelle parole e nelle opere, non ha commesso violenza, non ha detto inganno o falsità.
Ma non è stato il servo a dire questo, non è stato il servo a proclamare la sua innocenza, come di solito avviene nei salmi di un accusato ingiustamente. Nemmeno questa proclamazione di innocenza è stata fatta durante la sua vita, non c’è nessuno che durante il processo si sia alzato a difenderlo, o che di fronte alla esecuzione abbia protestato. Sono altre persone che invece proclamano il servo innocente, ma dopo la sua morte; quando orami è troppo tardi, quando orami non c’è più niente da fare; a quel punto il servo è proclamato dal coro innocente e giusto.
Non è vero che non c’è più niente da fare, non è vero che è troppo tardi. E’ troppo tardi per gli uomini, per la giustizia degli uomini, ma non è troppo tardi per l’intervento di Dio.
Sembrava che anche Dio lo avesse abbandonato e che non si fosse preso cura della sorte del servo. Quando dice: “chi si affligge per la sua sorte?” sembra che la risposta sia proprio nessuno: né gli uomini, né Dio.
“Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;” Viene proclamata la glorificazione del servo; la storia finisce adesso nella glorificazione del servo.
Nei salmi di azione di grazie il protagonista racconta, di solito, la sua disgrazia e poi la liberazione ottenuta meravigliosamente dal Signore. Quando proclama questa liberazione invita tutti gli altri a fare festa con lui, a lodare Dio insieme con lui, ed invita tutti ad avere fiducia nel Signore.
Ma in tutti questi salmi la narrazione riguarda un pezzo della vita: «ho sperimentato una malattia grave, una lotta grave e mi sentivo ormai spacciato, ma il Signore è intervenuto e mi ha liberato»; questa è l’esperienza che ho fatto un mese fà, quindi c’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho conosciuto l’angoscia e al termine di questa ho conosciuto la liberazione del Signore.
Ma per quanto riguarda il servo non è solo un pezzo della sua vita che è stato segnato dalla sofferenza. Nel suo caso la disgrazia è stata integra, dalla nascita fino alla sepoltura; fin dall’inizio è cresciuto come un virgulto in terra arida, fin dall’inizio non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, quindi tutta la sua vita è stata di sofferenza, nella quale ha portato il peso dei peccati degli uomini.
Per questo la liberazione non può essere solo la guarigione da una malattia mortale, o la protezione da un nemico ostile; la liberazione deve riscattare tutta l’esistenza, deve superare la morte stessa, perché solo una liberazione totale può salvare da una disgrazia che è stata totale, radicale e piena.
Tutta la vita di dolore di questo servo è stato un piano di Dio nascosto nel mistero, ma già attivo come salvezza. Il Signore aveva voluto questo piano, lo accettava, e per questo la vita del servo ha avuto un valore grande. Ma ci si accorge di questo solo adesso, dopo la morte, nella glorificazione del Signore: “quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo”. Vuol dire che la sua vita e la sua morte sono state feconde; sembrava un germoglio arido, senza vita, senza pienezza, la sua vita era stata segnata da una morte violenta, ma il Signore lo ha salvato e “vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. Quindi c’era un progetto positivo, un progetto di salvezza che il servo ha portato a compimento.
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”. La sua passione diventa sorgente di vita e di salvezza per gli uomini. Si è addossato l’iniquità degli uomini e giustificherà molti. “Giustificherà” non vuole dire che scuserà, ma vuole dire che renderà giusti, che trasforma gli uomini, e da egoisti li trasforma in autentici nell’amore, in giusti, in veri, in sinceri. Opera questa trasformazione meravigliosa dell’uomo. “Molti” vuol dire la moltitudine, molta gente, un popolo immenso, che scaturisce, che riceve vita dalla sua passione e dalla sua morte.
“Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché‚ ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Quindi Dio conferma il messaggio con il suo oracolo ed annulla il giudizio umano.
Il giudizio umano ha condannato a morte quest’uomo come colpevole; Dio annulla il giudizio degli uomini dichiarando il servo innocente, anzi l’innocenza del servo renderà innocenti molti uomini. Questi uomini che vengono giustificati, liberati dalla condanna che si sono meritati saranno la preda della sua vittoria, cioè li conquisterà come bottino con il dono della sua vita. Vuole dire che la vita, la passione e la morte di questo servo sono state un intercessione che Dio ha accettato: il suo silenzio è stato in realtà una preghiera accolta da Dio.
Tra i vari compiti del profeta uno dei più significativi è quello di intercedere per il popolo.
E’ il compito che ha esercitato molto bene Mosè: quando il libro dell’Esodo racconta il peccato del vitello d’oro, dell’idolatria al vitello, dice che Dio aveva reagito al peccato di Israele con la volontà di annientare il suo popolo, e rivela questo a Mosè:
“Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché, il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché, dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre». Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo.”

L’espressione “Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio” è nel testo ebraico tradotta diversamente: Mosè allora accarezzo il Signore suo Dio. E’ un modo un po’ umano di parlare però contiene questa immagine di intimità di Mosè con il Signore, e che lo conduce ad un atteggiamento diverso.
Questa è l’intercessione di Mosè. Proprio perché è amico del Signore si può accostare a Lui, può “accarezzare” il Signore, e può ottenere che Dio cambi il suo atteggiamento.
E’ sempre un modo umano di parlare, però è essenziale per capire come è fatto Dio.
Sempre nel libro dell’Esodo, qualche paragrafo più avanti, c’è una seconda preghiera di Mosè:
“Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco il mio angelo ti precederà; ma nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato»“.
Vuole dire che Mosè dice al Signore: «E’ vero il popolo ha peccato, ma tu perdonalo; o se non te la senti di perdonarlo annulla, distruggi anche me con il popolo». Allora il Signore si trova davanti a questa scelta: se vuole punire il popolo deve distruggere anche Mosè; se vuole salvare Mosè deve perdonare al popolo. E il Signore scegli di perdonare per amore di Mosè, perché è giusto, perché è un amico docile, obbediente. Questa è l’intercessione.
Il servo di Jahvè intercede. Vuole dire che vive una piena solidarietà con gli uomini e con il loro peccato, e siccome è innocente ottiene la giustificazione di molti, della moltitudine.
Capite che questo quarto canto è importante per l’antico testamento, ma lo è anche per noi perché è una delle chiavi per comprendere la passione del Signore.
Anche la passione del Signore è qualcosa di misterioso e di sorprendente, eppure in questa sofferenza c’è un disegno di grazia, di salvezza.
Ricordate quelle espressioni del Vangelo:
“Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, oppure le parole dell’ultima cena:
“«Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti»“
vengono proprio dal quarto canto del servo di Jahve e sono essenziali per capire la passione del Signore dove Egli porta sopra di sé il peccato degli altri e lo annulla con il suo silenzio, con la sua non-ribellione, con la capacità di coprire il peccato degli uomini con un amore più grande, con una sopportazione più grande.
I discorsi dell’istituzione dell’Eucaristia vengono rapportati al quarto canto;
l’inno della prima lettera a Pietro al capitolo 2° cita varie volte il quarto canto;
i racconti della passione sono anch’essi intrecciati di espressioni che fanno riferimento alla sofferenza del servo.
Vuol dire che quando la comunità cristiana si è interrogata sulla morte di Gesù e si è chiesta il perché, si è chiesta come fosse possibile che Dio abbandonasse il Suo servo, ha cercato la risposta nel quarto canto del servo di Jahvè.
Naturalmente vuole collegato agli altri tre, ma certamente il quarto canto è il principale.
La sofferenza si era già manifestata nel secondo canto, era diventata ampia nel terzo, ma diventa il tema unico del quarto canto.
Costruito in questo modo:
si parte dalla gloria, quindi dalla conclusione;
poi c’è una specie di flashback dove si racconta tutta la storia, dalla nascita alla sepoltura, e anche dopo, alla glorificazione;
ma bisogna arrivare lì perché la Parola di Dio fin dall’inizio ha pronunciato la glorificazione del servo: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”, il resto deve condurre a questo punto.
È evidente che il quarto canto del servo di Jahvè sia un’ottima chiave per capire e comprendere il mistero pasquale.
* Documento non rivisto dall’autore, ma rilevato come amanuense dal registratore, con l’aggiunta dei riferimenti biblici.

I RACCONTI DEL PERDONO

http://www.sestogiorno.it/racconti/racconti_perdono.html

I RACCONTI DEL PERDONO

Sentirsi amati
Henri Nouwen monaco (1932-1996)
«Non molto tempo fa, nella mia comunità, ho avuto un’autentica esperienza personale del potere di una vera benedizione. Poco tempo prima che ciò accadesse avevo iniziato una funzione di preghiere in una delle nostre cappelle. Janet, una handicappata della nostra comunità mi disse: “Henri, mi puoi benedire?”Io risposi alla sua richiesta in maniera automatica tracciando con il pollice il segno della croce sulla sua fronte. Invece di essere grata, lei protestò con veemenza: “no, questa non funziona. Voglio una vera benedizione!” Mi resi subito conto di come avevo risposto in modo formalistico alla sua richiesta e dissi: “Oh scusami…ti darò una vera benedizione quando saremo tutti insieme per la funzione”.Lei mi fece un cenno con un sorriso e io compresi che mi si richiedeva qualcosa di speciale. Dopo la funzione, quando circa una trentina di persone erano sedute in cerchio sul pavimento, io dissi: “Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale. Lei sente di averne bisogno adesso”. Mentre stavo dicendo questo, non sapevo cosa Janet volesse veramente. Ma Janet non mi lasciò a lungo nel dubbio. Appena dissi “Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale” lei si alzò e venne verso di me. Io indossavo un lungo abito bianco con ampie maniche che coprivano sia le mani che le braccia. Spontaneamente Janet mi cinse tra le sue braccia e pose la testa contro il mio petto. Senza pensare, la coprii con le mie maniche al punto da farla quasi sparire tra le pieghe del mio abito. Mentre ci tenevamo l’un l’altra io dissi: “Janet voglio che tu sappia che sei l’Amata Figlia di Dio. Sei preziosa agli occhi di Dio. Il tuo bel sorriso, la tua gentilezza verso gli altri della comunità e tutte le cose buone che fai, ci mostrano che bella creatura tu sei. So che in questi giorni ti senti un po’ giù e che c’è della tristezza nel tuo cuore, ma voglio ricordarti chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amata da Dio e da tutte le persone che sono qui con te.”. Appena dissi queste parole, Janet alzò la testa e mi guardò; il suo largo sorriso mi mostrò che aveva veramente sentito e ricevuto la benedizione. Quando Janet tornò al suo posto, un’altra donna handicappata alzò la mano e disse: “Anch’io voglio una benedizione”. Si alzò e, prima che mi rendessi conto, mise il suo viso contro il mio petto. Dopo che io le dissi parole di benedizione, molti altri handicappati vennero esprimendo lo stesso bisogno di essere benedetti. Ma il momento più toccante si verificò quando uno degli assistenti, un giovane di ventiquattro anni, alzò la mano e disse: “E io?” “Certo”, risposi. “Vieni”. Lui venne e quando ci trovammo di fronte, lo abbracciai e dissi: “John, è così bello che tu sia qui. Tu sei l’Amato Figlio di Dio. La tua presenza è una gioia per tutti noi. Quando le cose sono difficili e la vita è pesante, ricordati sempre che tu sei Amato di un amore infinito.” Pronunciate queste parole, egli mi guardò con le lacrime agli occhi e disse: “Grazie, grazie molte”. Quella sera compresi l’importanza della benedizione e dell’essere benedetto e l’ho intesa come il vero segno che contraddistingue l’amato. Le benedizioni che diamo gli uni gli altri sono espressione della benedizione che riposa su di noi da tutta l’eternità.

UN LADRO IN PARADISO
(Bruno Ferrero, Il segreto dei pesci rossi)
QUMRAN NET – Materiale Pastorale online

Un ladro arrivò alla porta del Cielo e cominciò a bussare: «Aprite!». L’apostolo Pietro, che custodisce le chiavi del Paradiso, udì il fracasso e si affacciò alla porta. «Chi è là?». «Io». «E chi sei tu?». «Un ladro. Fammi entrare in Cielo». «Neanche per sogno. Qui non c’è posto per un ladro». «E chi sei tu per impedirmi di entrare?». «Sono l’apostolo Pietro!». «Ti conosco! Tu sei quello che per paura ha rinnegato Gesù prima che il gallo cantasse tre volte. Io so tutto, amico!». Rosso di vergogna, San Pietro si ritirò e corse a cercare San Paolo: «Paolo, va’ tu a parlare con quel tale alla porta». San Paolo mise la testa fuori della porta: «Chi è là?». «Sono io, il ladro. Fammi entrare in Paradiso». «Qui non c’è posto per i ladri!». «E chi sei tu che non vuoi farmi entrare?». «Io sono l’apostolo Paolo!». «Ah, Paolo! Tu sei quello che andava da Gerusalemme a Damasco per ammazzare i cristiani. E adesso sei in Paradiso!». San Paolo arrossì, si ritirò confuso e raccontò tutto a San Pietro. «Dobbiamo mandare alla porta l’Evangelista Giovanni» disse Pietro. «Lui non ha mai rinnegato Gesù. Può parlare con il ladro». Giovanni si affacciò alla porta. «Chi è là?». «Sono io, il ladro. Lasciami entrare in Cielo». «Puoi bussare fin che vuoi, ladro. Per i peccatori come te qui non c’è posto!». «E chi sei tu, che non mi lasci entrare?». «Io sono l’Evangelista Giovanni». «Ah, tu sei un Evangelista. Perché mai ingannate gli uomini? Voi avete scritto nel Vangelo: « Bussate e vi sarà aperto. Chiedete ed otterrete ». Sono due ore che busso e chiedo, ma nessuno mi fa entrare. Se tu non mi trovi subito un posto in Paradiso, torno immediatamente sulla Terra e racconto a tutti che hai scritto bugie nel Vangelo!». Giovanni si spaventò e fece entrare il ladro in Paradiso.

IL FILO E I NODI
Un fedele buono, ma piuttosto debole, si confessava di solito dal parroco. Le sue confessioni sembravano però un disco rotto: sempre le stesse mancanze, e, soprattutto sempre lo stesso grosso peccato. “Basta!” gli disse un giorno, in tono severo, il sacerdote. “Non devi prendere in giro il Signore. E’ l’ultima volta che ti assolvo per questo peccato. Ricordatelo!”. Ma quindici giorni dopo, il fedele era di nuovo lì a confessare il solito peccato. Il confessore perse davvero la pazienza: “Ti avevo avvertito: non ti do l’assoluzione. Così impari”. Avvilito e colmo di vergogna, il pover’uomo si alzò. Proprio sopra il confessionale, appeso al muro, troneggiava un grande crocifisso di gesso. L’uomo lo guardò. In quell’istante, il Gesù di gesso del crocifisso si animò, sollevò un braccio dalla sua secolare posizione e tracciò il segno dell’assoluzione: “Io ti assolvo dai tuoi peccati…”. Ognuno di noi è legato a Dio con un filo. Quando commettiamo un peccato, il filo si rompe. Ma quando ci pentiamo della nostra colpa, Dio fa un nodo nel filo, che diviene più corto di prima. Di perdono, in perdono ci avviciniamo a Lui.

AFFIDARSI ALLE BRACCIA DEL PADRE
(Pino Pellegrino QUANDO SI DICE GESU’. Ed. LDC)
In una casa isolata, nella notte scoppia, improvviso, un incendio. Tutti scendono in fretta, uscendo all’aperto, in un prato. Al bagliore delle fiamme, guardandosi attorno, si accorgono che manca il più piccolo, un bambino di 5 anni. Nell’allarme generale anche lui era sceso con gli altri, ma arrivato, ultimo, al fondo delle scale, di fronte alla porta avvolta ormai dalle fiamme, preso dal panico, era risalito. Eccolo apparire alla finestra del secondo piano, tutto spaventato e singhiozzante. Suo padre lo vede e gli grida: «Buttati giù!». Lui riconosce la voce di suo padre, ma non lo vede: c’è troppo fumo e le fiamme paurose. «Non ti vedo papà». E lui: «Ti vedo io e basta. Buttati giù!». Il bambino obbedisce e le braccia di suo padre lo accolgono.

 

RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO – Fénelon

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm#RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO

RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO

Fénelon *

François de La Mothe-Fénelon nasce nel Périgord nel 1651. Nobile di carattere, dalla sensibilità molto delicata, riceve una formazione classica dai Gesuiti di Gahors. In seguito si prepara al sacerdozio a Parigi, a saint-Sulpice, dove impara la pedagogia dell’amore di Dio. Nel 1689 diviene istitutore del Duca di Borgogna. Verso quest’epoca incontra Mme. Guyon, la cui amicizia lo stabilisce più solidamente nel suo cammino interiore, compromettendolo però, in parte, nell’affare del quietismo. Nominato arcivescovo di Gambrai nel 1697, cadrà in disgrazia e verrà condannato da Roma. Si sottometterà e si dedicherà fino alla morte (1715) al ministero pastorale e alla predicazione. Le opere spirituali di Fénelon sono piene di puro amore di Dio verso cui ha indirizzato tutta la sua vita.
Il totale abbandono a Dio… è fonte di tranquillità e di serenità sia nei confronti del passato che dell’avvenire. Si abbia pure di noi stessi la peggiore considerazione possibile; ma ci si abbandoni ciecamente nelle braccia di Dio. La più perfetta penitenza consiste nel dimenticarsi, nel completo oblìo di noi stessi. La conversione, infatti, si realizza con la rinuncia di sé per occuparsi esclusivamente di Dio.
Questo dimenticarsi è il martirio dell’amor proprio. Preferiremmo contraddirci, condannarci, tormentare la nostra anima ed il nostro corpo, piuttosto che disinteressarci del nostro ‘io’. Dimenticarsi significa annientare il proprio egoismo, non lasciandogli risorsa e scampo alcuni. Allora il nostro cuore si allarga; ci sentiamo sollevati dal peso di noi stessi, peso che ci opprimeva; e con stupore ci rendiamo conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.
Credevamo che fossero necessari sforzo e tensione ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di fatti. Ci rendiamo conto, invece, che poche sono le cose da fare; è infatti sufficiente, senza neppure troppo ragionare sul passato o sul futuro, guardare Dio con fiducia, come ad un padre che ci conduce nella realtà presente, come per mano. Se per una momentanea distrazione lo dovessimo perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Dio, e comprenderemo quale sia la sua volontà. Se compiamo degli errori, cerchiamo di fare una penitenza che sia un dolore tutto d’amore. Rivolgiamoci a colui dal quale ci eravamo allontanati. Se il peccato sembra orribile, l’umiliazione le ne deriva, e per la quale Dio l’ha permesso, appare buona. Le riflessioni dell’orgoglio sui nostri errori personali, sono tanto amare, inquiete e penose, quanto raccolto, pacato e sostenuto dalla fiducia è il ritorno a Dio dell’anima dopo le sue mancanze.
Sentirete, per esperienza, come questo ritorno semplice sereno, faciliterà la vostra correzione più di tutti i risentimenti nei riguardi dei vostri difetti. Siate unicamente costanti nel rivolgervi a Dio con semplicità, dal momento stesso in cui vi rendete conto della vostra mancanza. C’è poco da cavillare con voi stessi; non è con voi che dovete prendere le vostre precauzioni. Quando vi lamentate per le vostre miserie, nel vostro modo di ragionare vi vedo soli le prese con voi stessi. Povero ragionamento, dove non è Dio!
Chi vi tenderà la mano per uscire dal fango? Ne uscirete forse da soli? Eppure siete voi che vi ci siete messi
e non potete uscirne! Anzi, il pantano siete voi in persona! La vera sostanza del vostro male è di non essere capaci di uscirne da soli. Sperate forse di liberarvi da questa condizione con le vostre sole forze, alimentandovi esclusivamente I voi e nutrendo la vostra sensibilità con la vista delle vostre debolezze? Con tutti questi espedienti, non fate alo che alimentare la commiserazione che provate per voi. la lo sguardo di Dio, anche il più piccolo, calmerà assai i più il vostro cuore torturato da queste eccessive atte noni per il vostro ‘io’. Egli, con la sua presenza, fa sì che vi possiate liberare di voi, e questo è ciò che vi occorre. Uscite dunque da voi stessi, e sarete in pace. Ma in che modo? on dovete fare altro che rivolgervi a Dio ed accostarvi dolcemente a lui e, con costanza, formare a poco a poco l’abitudine a ricorrere a lui tutte le volte che vi rendete conto di esservi da lui stesso allontanati.

* Instructions et avis sur divers points de la morale et de la perfection chrétienne, XIV: in « Oeuvres de Fénelon», voI. XVIII. Lebel, Parigi 1823, pp. 264-267.

IL NASCONDIMENTO DI DIO NELLA TRADIZIONE EBRAICA

http://www.hakeillah.com/3_13_16.htm

IL NASCONDIMENTO DI DIO NELLA TRADIZIONE EBRAICA

DI FEDERICO DAL BO

In un celebre aforisma della Gaia Scienza, Nietzsche descrive un folle che è alla ricerca di Dio con una lanterna:

L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio?”
(F. Nietzsche, La Gaia Scienza, § 125)

Possiamo interrompere la citazione a questo punto, prima del famoso annuncio che “Dio è morto”. Infatti, il testo offre già lo spunto per fare alcune riflessioni introduttive sul modo in cui è necessario affrontare il nostro tema: il nascondimento di Dio nella teologia ebraica classica e contemporanea.
Con questo aforisma Nietzsche gioca sottilmente con la tradizione filosofica per formulare un principio decisivo per la teologia. Osserviamo innanzitutto lo stile di questo aforisma. Nietzsche riprende il famoso aneddoto sul cinico Diogene che “cerca l’uomo” (ovvero, cerca l’“idea platonica” di uomo), mentre trova solo “uomini concreti”. In effetti, Nietzsche rovescia il senso dell’aneddoto di Diogene. Vediamo infatti che colui che cerca Dio con la lanterna non è un filosofo, bensì un folle, deriso e incompreso dagli uomini del mercato. L’ilarità che il folle suscita non rivela solo l’incapacità da parte della gente comune di comprendere il paradosso dell’azione del folle. L’ilarità suscitata dal cercare Dio “con la lanterna” rivela anche un presupposto fondamentale per il nostro tema: sebbene Dio si sia rivelato all’uomo, la Sua esistenza, ovvero il segreto della Sua esistenza, rimane nascosto e deve essere oggetto di un’indagine specifica. In altri termini, proprio come è ridicolo cercare Dio “con la lanterna,” perché non è possibile “trovare” Dio come si potrebbe trovare “un oggetto concreto” nel mondo – così, allo stesso modo, il fatto che Dio “si nasconda” non può venire assimilato alla semplice “assenza” di un oggetto mondano. Piuttosto, ciò che Nietzsche suggerisce a proposito del “nascondimento di Dio” è che sia necessario riferirsi all’“idea” che noi abbiamo del divino, ma non alla “presenza effettiva” di Dio in quanto tale.
Il “nascondimento di Dio” non è la semplice contraddizione dell’idea di “Dio rivelato ma è connesso in qualche modo alla Sua “rivelazione”. In effetti, se si osserva come è stato interpretato il fatto che il Dio della Rivelazione “si nasconde” agli occhi dell’uomo, si intraprende di fatto un percorso tra la teologia ebraica classica fino alla teologia ebraica contemporanea dopo la Shoah.

Il Nascondimento di Dio nella Bibbia: Deut 31:17-18
Vi sono molti notevoli passaggi biblici in cui si manifesta la dialettica tra rivelazione e nascondimento: ovvero ciò possiamo chiamare la visione contraddetta (Roberto Fornara).
Il “nascondimento di Dio” viene comunemente designato in ebraico con l’espressione rabbinica hester panim: “il nascondimento del Volto”. Questa espressione, formulata nella letteratura post-biblica, deriva da un famoso passo della Scrittura in cui Dio profetizza ciò che accadrà ad Israele che si abbandonerà all’idolatria, dopo la guida di Mosè e Giosuè:
In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di lui; io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi e angosciosi e in quel giorno dirà: Questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me? Io, in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi.
(Deut 31:17-18).
Prima di procedere con l’esegesi al testo, è importante osservare la struttura retorica di questi versetti.
Innanzitutto, Dio minaccia per due volte di “nascondere il volto”. La prima volta, la minaccia è generica: “io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati” (Deut 31:17). La seconda volta, la minaccia è pronunciata in modo enfatico e viene giustificata in modo assai preciso come conseguenza dell’idolatria di Israele: “in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi” (Deut 31:18). Va notato, inoltre, che nella seconda minaccia si ricorre all’uso di una doppia forma verbale, tipica dell’ebraico classico: haster astir, letteralmente “nascondere, mi nasconderò”. L’uso di una doppia forma verbale è un artificio tipico dell’ebraico classico per intensificare un’azione. In questo caso, la doppia forma haster astir potrebbe venire resa con una circonlocuzione: “sicuramente mi nasconderò”. In seguito, vedremo come diversi esponenti della teologia ebraica abbiano interpretato questa forma verbale non come una forma retorica, bensì come l’indicazione di una doppia azione da parte di Dio.

Il Nascondimento di Dio come punizione: Rashi, Hezechia ben Manoah e Maimonide
Molti commentatori biblici dell’ebraismo medievale, soprattutto quelli che aderiscono ad un’interpretazione “più letterale” del testo biblico, leggono in continuità le due minacce di “nascondere il volto”. Assimilano la ripetizione ad un espediente retorico e considerano il “nascondimento del volto” come un’unica forma di punizione per l’infedeltà di Israele. Nonostante l’apparente semplicità di questa interpretazione, la maggior parte di questi esegeti ha ritenuto necessario fare alcune precisazioni, in effetti molto rilevanti per il nostro tema.
La prima precisazione, per bocca del grande esegeta francese medievale Rashi riguarda la capacità di Dio di nascondersi ma di continuare a “vedere” ciò che accade a Israele. Rashi commenta la prima minaccia e scrive:
Nasconderò il mio volto: come se non vedessi le loro sofferenze
(Rashi su Deut 31:17)
Questa precisazione ha come primo scopo evitare di confondere il “nascondimento del volto” come una forma di “disinteresse” di Dio per ciò che accade nel mondo. Conformemente alla metafora antropomorfica, il nascondimento del volto implica la copertura degli occhi di Dio; tuttavia, come Rashi rimarca esplicitamente, questo non significa che Dio “non veda” ciò che accade; il disinteresse da parte di Dio è evidentemente una finzione: “come se”.
La seconda precisazione, per bocca di un altro grande esponente della scuola esegetica francese, Hezechia ben Manoah, associa il “nascondimento del volto” alla necessità della punizione. Hezechia ben Manoah commenta la seconda minaccia e scrive:
E sicuramente nasconderò il mio volto: questa è una via obbligata, quando qualcuno, il cui figlio ha peccato contro di lui, dice di fustigarlo, ma non davanti a lui, a causa del suo amore per lui
(Huzzekani su Deut 31:18)
Rispetto alla interpretazione di Rashi, questo commento si arricchisce di ulteriori aspetti, che saranno decisivi nello sviluppo della teologia ebraica successiva, in particolare quella successiva alla Shoah. Hezechia ben Manoah concorda con Rashi nel considerare il “nascondimento del volto” una forma di punizione per l’infedeltà di Israele.
Tuttavia, nell’economia della metafora patriarcale, Hezechia ben Manoah fa due osservazioni importanti: da un lato, ammette che Dio mal sopporterebbe “di vedere” Israele soffrire per la punizione; dall’altro, ammette che siano altri, non Dio stesso, ad infliggere questa punizione – che viene considerata, tuttavia, necessaria. Questa forma di “punizione indiretta” viene precisata in termini filosofici da Maimonide nella sua celebre opera Guida ai perplessi:
Ora è chiaro che di questo ‘nascondere la faccia’ siamo noi stessi la causa, e che siamo noi stessi ad aver prodotto questa separazione […] Dunque, ti è ormai chiaro che la causa del fato che un individuo umano sia abbandonato al caso, e venga permesso che egli sia mangiato come le bestie, sta nel fatto che egli resta nascosto a Dio.
(Maimonide, Guida ai Perplessi, 3:51 [451, 15])
Maimonide accorda la visione del “Dio vivente” con una concezione aristotelica del divino. Secondo Maimonide, Dio non punisce Israele direttamente, o “di propria mano”; piuttosto, Dio ritira la “provvidenza” (hasgahah) da Israele; di conseguenza, Israele viene consegnato al “caso” (miqreh), ovvero alle vicissitudini della storia. Si tratta in effetti di un compromesso tra le esigenze filosofiche di ascendenza aristotelica e la dottrina biblica del “nascondimento del volto”. Da questo punto di vista, Maimonide non sembra accogliere ciò che l’esegeta Hezechia ben Manoah implicitamente sosteneva: ovvero, una difformità all’interno della vita divino.

Il Nascondimento di Dio come dialettica nel divino: Nachmanide
A differenza degli esegeti considerati in precedenza, Nachmanide è il primo ad interpretare la ripetizione della minaccia nel testo del Deuteronomio come il segno di una duplice azione da parte di Dio. Nachmanide non ritiene che la minaccia espressa in Deut 31:17 e la minaccia espressa in Deut 31:18 siano semplicemente un crescendo retorico, culminante nell’uso della doppia forma verbale haster astir, “sicuramente mi nasconderò”. Nachmanide ritiene invece che Dio compia due diversi “nascondimenti del volto”, come viene illustrato nel suo lungo commento al testo biblico:
E nasconderò il mio volto: un’altra volta ancora. Poiché Israele aveva ponderato da solo sul fatto che aveva peccato contro Dio e che, dal momento che Dio non era vicino al loro, ha trovato tutte questi mali, si era meritato la Grazia del Signore che li aveva aiutati e li aveva salvati quando avevano negato [Dio] nell’idolatria, ma concernendo il fatto che [Israele] disse: “Eccomi pronto a entrare in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato!” (Ger 2:35), allora [Dio] disse: a causa dei grandi mali che hanno compiuto per dedicarsi all’idolatria nasconderò ancora il volto da loro. Non come lo nascosi la prima volta, quando nascosi il volto della misericordia e trovarono grandi mali e sofferenze, solo che [la seconda volta] si troveranno nel nascondimento del volto della redenzione ma si troveranno nella sicurezza delle ali della misericordia: “Nonostante tutto questo, quando saranno nel paese dei loro nemici, io non li rigetterò e non mi stancherò di essi fino al punto d’annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro; poiché io sono il Signore loro Dio” (Lev 26:44) fino a quando non avranno un vero rimorso e una confessione (widdui) piena e un pentimento completo, come è ricordato sopra: “se ti convertirai al Signore tuo Dio e obbedirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il cuore e con tutta l’anima, secondo quanto oggi ti comando” (Deut 30:2).
(Nachmanide su Deut 31:18).
Questa ricchissima interpretazione della seconda minaccia di “nascondere il volto” manifesta una concezione piuttosto articolata della vita del divino.
A differenza degli esegeti precedenti, Nachmanide ritiene che Dio possa nascondere ripetutamente il proprio volto, pur senza consegnare la vittima alla distruzione. Un ripetuto “nascondimento del volto” può avvenire fino a quando non avvenga un vero pentimento da parte del peccatore. Per quanto riguarda il testo del Deuteronomio, Nachmanide ritiene che la prima minaccia formulata in Deut 31:17 indichi un primo “nascondimento del volto”: si tratta del nascondimento della misericordia divina. In effetti, già una prima forma di pentimento da parte del peccatore sembra garantire il ritorno della “Grazia del Signore,” a due condizioni: che il colpevole abbandoni l’idolatria ma soprattutto che non protesti la sua innocenza se invece è colpevole. In questo caso, allora, Dio può procedere con un secondo “nascondimento del volto” come viene evidenziato, secondo Nachmanide, dalla seconda minaccia formulata in Deut 31:18. Questa volta Dio cela il volto della redenzione, ma non cela il volto della misericordia.
La distinzione tra due tipi di “nascondimento del volto” è particolarmente interessante e originale. Sembra alludere a due tipi di punizione: l’una di carattere generico, l’altra di carattere politico. In effetti, sembra che Nachmanide concepisca “il volto della misericordia” come la capacità divina di perdono e di aiuto: quando il volto della misericordia è nascosto, si cade in una serie di difficoltà e sofferenze, come sono state descritte sopra. Invece, sembra che Nachmanide concepisca “il volto della redenzione” come la capacità divina di permettere l’indipendenza storica e politica di Israele: quando il volto della redenzione è nascosto, Israele è soggetto alla dominazione straniera, sebbene non sia destinato alla distruzione totale da parte dei suoi nemici, perché resta sempre al di sotto delle ali della misericordia.

Il Nascondimento di Dio come antropologia
La teologia hassidica interpreta il nascondimento di Dio come una parte integrante del rapporto con il divino. Tanto la presenza quanto l’assenza di Dio, tanto la parola di Dio quanto il silenzio di Dio richiedono infatti un determinato atteggiamento religioso da parte del pio. Se Dio si manifesta nella Sua pienezza e comunica all’uomo, il pio deve aderire immediatamente ai principi della vita religiosa; se Dio invece si nasconde e rimane in silenzio, il pio deve cercare le ragioni di quest’assenza per ricostruire un rapporto religioso. Si tratta quindi di un atteggiamento “integralista” rispetto al divino, nel senso preciso che ogni aspetto della relazione con il divino è integralmente positivo.
La teologia hassidica si richiama in parte alla visione dei “due nascondimenti” già formulata da Nachmanide; in aggiunta, la teologia hassidica rinnova soprattutto l’interpretazione del secondo “nascondimento del volto”. La teologia hassidica si richiama alla doppia forma verbale haster astir, comunemente resa con la circonlocuzione “sicuramente mi nasconderò”. Diversamente da altri esegeti, la teologia hassidica interpreta questa doppia forma verbale come una forma riflessiva. La doppia forma vebale haster astir, letteralmente “nascondere, mi nasconderò”, indica un atto riflessivo del nascondimento da parte di Dio: ovvero, l’atto di nascondere il fatto di essere nascosto. Da un lato, quindi, c’è il nascondimento semplice, annunciato dal versetto: “io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati” (Deut 31:17). Dall’altro lato c’è una più complessa forma di nascondimento, introdotta dalla doppia forma verbale hastir aster, convenzionalmente tradotta, come abbiamo già visto: “in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto” (Deut 31:18). La teologia hassidica piuttosto interpreta questa espressione in modo riflessivo, per cui il versetto può venire tradotto più o meno così: “in quel giorno, nasconderò il fatto di nascondere il volto”. Questa fondamentale comprensione del secondo “nascondimento del volto” viene sostenuta da Jacob Joseph ha-Kohen di Polonne, uno dei primi discepoli del capostipite il Ba‘al Shem Tov
Questo insegnamento, riportato da Jacob Joseph in nome del suo maestro il Ba‘al Shem Tov eleva il “nascondimento” di Dio (hasitarah) a principio ontologico fondamentale per il divino. Il “nascondimento del volto” propriamente detto è quando l’uomo non ha più percezione delle condizione essenzialmente nascosta di Dio, annunciata tra l’altro dal profesta Isaia: “tu sei davvero un Dio nascosto” (el mistatter) (Is 45:15). Questo più profondo “nascondimento del volto” consiste nel nascondimento stesso del fatto di essere nascosto. La difficoltà epistemologica di “conoscere” Dio dettata dal principio che il Signore è “un Dio nascosto” tramuta nella impossibilità esistenziale di “conoscerlo” perché Dio nasconde persino il fatto di essere nascosto. Le conseguenze di questa impossibilità esistenziale vengono giudicate in diversi modi dalla teologia hassidica. La giustificazione per questo mutamento di condizione è pienamente antropologico: quando Dio si cela autenticamente, nascondendo il fatto stesso di nascondersi, Dio si sottrae agli occhi di coloro che sono spiritualmente incapaci di comprenderLo.

Il Nascondimento di Dio dopo la Shoah
Queste interpretazioni del “nascondimento di Dio” sono varianti più o meno differenti del medesimo principio teologico, esposto originariamente nella Scrittura: Dio è presente come un padre di fronte ad Israele e può punire Israele nascondendo il proprio volto. Questo principio teologico ha offerto per centinaia d’anni una complessa teodicea: ovvero, una giustificazione articolata della bontà assoluta di Dio nonostante la contemporanea presenza del male nel mondo. In termini molto convenzionali, si può dire che il “nascondimento del volto” replichi uno dei principi fondamentali della dottrina del “delitto e castigo” nella Scrittura: quando l’uomo pecca, viene punito da Dio, proprio come un figlio viene punito dal padre quando disobbedisce.
Questo principio teologico è entrato definitivamente in crisi dopo la tragedia della Shoah e lo sviluppo di una teologia ebraica non ortodossa. La crisi di questo principio teologico non va confuso con altre forme di contestazione del concetto di “Dio punitore”, già testimoniate, ad esempio, negli scritti sapienziali della Scrittura, come il Libro di Giobbe, l’Ecclesiaste e i Proverbi. La crisi di questo principio teologico costituisce un vero e proprio “cambiamento di paradigma,” per usare un’espressione del filosofo della scienza Thomas Kuhn; oppure, se vogliamo richiamarci al passo di Nietzsche citato, possiamo dire che con la Shoah “Dio è morto”. Questo cambiamento di paradigma comporta un cambiamento delle assunzioni basilari condivise da una comunità, in questo caso: la comunità di intellettuali religiosi appartenenti alla confessione ebraica. All’interno della cosiddetta “teologia dopo Auschwitz” che non può essere esposta qui per ovvie questioni di brevità, si segnalano in particolare le posizioni “eterodosse” di alcuni teologi che hanno contestato il fondamento patriarcale della dottrina del nascondimento di Dio.
Accanto ad esponenti della cosiddetta “neo-Ortodossia” (Ignaz Maybaum, Emil Frankenheim, Eliezer Berkovits e Normal Lamm) si segnalano in particolare la produzione di tre teologi ebrei che sostengono che la Shoah abbia determinato la fine della millenaria teologia ebraica precedente: Eliezer Schwid, Cynthia Ozick e Melissa Raphael. Tutti questi tre autori condividono infatti il medesimo convincimento che la teodicea della teologia classica si fonda sull’idea patriarcale di un Dio “padre e padrone” che osserva, giudica e punisce. Al contrario, questi autori sostengono che la Shoah abbia compromesso la legittimità dell’uso di questo principio teologico patriarcale e, anzi, che sia necessario un nuovo paradigma teologico per parlare di Dio.
Melissa Raphael suggerisce di intendere il “nascondimento di Dio” durante la Shoah non semplicemente come un “silenzio patriarcale” di fronte all’ingiustizia e al dolore, bensì come un eclissamento del volto patriarcale di Dio stesso, in favore di una nuova “faccia” del divino, i cui tratti sono in effetti ancora da determinare. Nelle sue parole si conclude la storia centenaria del “nascondimento di Dio” quale punizione per gli empi e potenzialmente si apre la via ad una nuova teologia ebraica, consapevole del mutamento di paradigma avvenuto con la tragedia della Shoah. Si tratta tuttavia di una strada appena indicata che è ancora tutta da percorrere.

Federico Dal Bo

 

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