http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm
(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)
Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio - Monastero Suore Clarisse Cappuccine
Ritiro spirituale di Quaresima per giovani
I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – SEGUE DA SOPRA
(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)
III CANTO
19 MARZO 1994
Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli
Terzo Canto
Il terzo canto è al capitolo 50.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
Perché, io ascolti come gli iniziati.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
È vicino chi mi rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa?
Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Ecco, come una veste si logorano tutti,
la tignola li divora.
Chi tra di voi teme il Signore,
ascolti la voce del suo servo!
Colui che cammina nelle tenebre,
senza avere luce,
speri nel nome del Signore,
si appoggi al suo Dioâ€.
Vedete come il tema della sofferenza incomincia a venire in primo piano.
Questo terzo canto è un salmo di fiducia, di quelli che si trovano a volte nella profezia di Geremia.
Geremia è un profeta che parla al popolo, ma che delle volte esprime semplicemente le sue sofferenze, i suoi lamenti perché la sua missione è una missione che gli costa, gli pesa. Geremia avrebbe voluto potere fare cose diverse da quelle che è stato costretto a fare. Geremia avrebbe amato la vita di comunione con gli altri, di società , di dialogo e invece è costretto ad annunciare la desolazione, il giudizio, la sofferenza; anzi, non riesce ad annunciare altro che questo e proprio questo fa di lui un emarginato, perché nessuno ascolta volentieri profezie di sventura, e Geremia è il profeta di sventure per eccellenza.
Per questo motivo Geremia ha dovuto rinunciare alle amicizie, ha dovuto rinunciare a formare una famiglia, è diventato nella sua logica morto prima ancora di morire e per questo si lamenta, racconta il peso di questa condizione che lui non ha scelto e che non gli piace, che è costretto a sopportare per una specie di violenza del Signore: “mi hai fatto forza e hai prevalsoâ€.
Il servo di Jahvè va collocato in questo contesto dei profeti che soffrono.
I profeti sono persone che annunciano la parola di Dio, e quindi sono dei messaggeri del Signore, ma sono messaggeri come coinvolti da quello che annunciano, sono trafitti dalla parola che dicono agli altri.
È una parola di giudizio? Questa parola di giudizio cade prima su di loro.
Annunciano la sofferenza? Ricade su di loro per primi.
Questo vale anche per il servo di Jahvè che viene trascinato dalla parola di Dio a essere una parola personale, una persona che è diventata parola, che è diventata manifestazione della volontà di Dio. Dio l’ha plasmata come persona tanto da essere la realizzazione di messaggio di giudizio, nel caso di Geremia, o di salvezza come vedremo nel quarto canto del servo di Jahvè.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parolaâ€. Abbiamo detto che il secondo Isaia è un profeta di consolazione, che vuole riportare speranza agli esuli che si sentono abbandonati e avviliti, bene il servo di Jahvè ha una parola di speranza da rivolgere al popolo del Signore e questa parola il servo la può trasmettere perché prima di tutto l’ha ascoltata con perseveranza: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché, io ascolti come gli iniziatiâ€.
Parla perché prima ha ascoltato. Trasmette consolazione perché prima ha ricevuto consolazione dal Signore.
Vale per questo servo quello che dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché, possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dioâ€, quindi consolati, consoliamo; abbiamo ricevuto dal Signore conforto per non tenerlo come una gioia privata ma per comunicarlo agli altri.
“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietroâ€. Però, questo compito positivo di consolazione il servo di Jahvè lo paga; è un consolatore, ma è un consolatore che proprio per potere consolare deve essere passato attraverso la sofferenza.
Se uno è consolato vuole dire che da una condizione di tribolazione viene portato a una condizione di speranza, ma deve partire dalla tribolazione altrimenti non c’è consolazione.
Il servo di Jahvè ha conosciuto la persecuzione, l’oppressione, la sofferenza: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputiâ€. Quindi ha conosciuto la sofferenza e l’umiliazione.
Eppure in mezzo alla sofferenza e all’umiliazione ha mantenuto la sua sicurezza e la sua speranza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. E’ vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?â€.
Tradotto vuole dire: in tutte le situazioni di tribolazione in cui mi trovo ho un difensore e un protettore: Dio. Mi basta. Non ho bisogno di altro che di questo. Se il Signore Dio mi assiste non resto confuso. L’opposizione degli uomini può fare male, anzi fisicamente fa molto male Ho presentato il dorso ai flagellatori, ma non riesce a spezzare la resistenza interiore di questo servo, anzi la protezione del Signore lo colloca di fronte agli altri come invincibile: “rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare delusoâ€.
Dura come pietra vuole dire che gli insulti o gli sputi non gli fanno cambiare scelta, non lo ripiegano dentro alla difesa di sé, non lo rendono impaurito e timido. Ha vicino il Signore che gli rende giustizia, ogni oppositore gli appare quindi insignificante: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
Queste parole le potete rivedere nell’esperienza del Signore, in quel cammino di passione di fronte al quale Gesù non si è tirato indietro, ma è rimasto perseverante, fedele nel compimento della volontà del Padre.
Ma quelle medesime parole sono usate da san Paolo nella lettera ai Romani, in riferimento al credente: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà ? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?â€. Sono proprio le parole del terzo canto del servo di Jahve: chi condannerà ? Chi potrà condannare chi è stato redento e salvato e protetto dall’amore di Dio in Gesù Cristo. Allora ne deve scaturire una sicurezza grande che permette al servo di rimanere fedele alla sua missione e che permette al credente di rimanere fermo nell’obbedienza a Dio, nella fiducia in Dio.
Riassunto.
I capitoli 42 – 49 – 50 sono una specie di piccolo itinerario spirituale del servo di Jahvè che nasce dalla sua istituzione divina:
Dio lo stabilisce come suo servo di fronte al mondo intero, assegnandogli una missione e donandogli lo Spirito perché sia in grado di compiere questa missione.
Il servo opera la volontà di Dio con mitezza e decisione nello stesso tempo.
Il risultato sembra deludente, sembra che debba dire «ho faticano invano», ma in realtà siccome ha compiuto la volontà di Dio questo insuccesso è solo apparente; in realtà la missione di salvezza il servo l’ha ricevuta, anzi il Signore gliela dilata all’infinito in modo che il servo diventi strumento di salvezza per tutti gli uomini.
Che cosa vuole dire? Che deve portare una parola di consolazione al mondo intero.
Questo però costerà al servo una sofferenza grande: la flagellazione, gli sputi, le umiliazioni… e in tutte queste esperienze il servo dovrà mantenere la sua fermezza che viene dalla protezione del Signore. Gli deve bastare la protezione del Signore contro ogni sofferenza.
In questo si incomincia a intravedere che il servo compie la missione non solo predicando, ma anche soffrendo.
Nell’ultimo canto il servo avrà solo sofferenza. Tutto l’aspetto della predicazione, che era così importante all’inizio, scompare e rimane solo la sofferenza dell’obbedienza e dell’amore.
Quarto Canto
Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui
tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo
così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità .
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità .
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatoriâ€.
Questo è il quarto e ultimo canto del servo del Signore. E’ il canto culminante perché presenta la sofferenza del servo che viene portata fino al limite: la persecuzione, il processo, l’esecuzione, la morte.
Insieme con questo annuncia la glorificazione del servo.
Quindi poema del servo sofferente e glorificato. Il tema è quello della salvezza attraverso la sofferenza, è quello della gloria attraverso la croce.
Notate che quelli che parlano in questo poema considerano questo messaggio della gloria attraverso la croce, come un messaggio inaudito, incredibile. Siamo davanti a qualcosa di paradossale che l’uomo non si sarebbe mai aspettato.
Notate anche che l’inizio e la conclusione del canto sono parola di Dio. E’ Dio che prende la parola e parla del suo servo.
Al centro invece c’è una narrazione messa sulla bocca di un gruppo di persone, non identificato, che racconta la storia del servo, racconta la sua vita come ha patito, come è morte e come alla fine lo hanno visto trionfante.
Quindi al centro c’è la narrazione; all’inizio e alla fine la proclamazione di Dio che annuncia quello che è avvenuto con il suo significato di salvezza.
Il canto incomincia con una proclamazione divina: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzatoâ€.
Ricordate il primo canto del servo, quell’istituzione in cui Dio, come re, costituiva il servo come suo rappresentante e lo presentava davanti a tutti gli uomini, a tutti i re della terrà ; all’inizio del quarto canto c’è qualcosa di simile: Dio presenta il suo servo e lo presenta glorioso. Fin dall’inizio Dio proclama l’esito finale dell’avventura, ed è un esito di gloria e di esaltazione.
Tutto il resto è indirizzato a questo, va verso questo traguardo. C’è una parola di Dio che annuncia la gloria, il resto è necessario come cammino. La Parola di Dio è infallibile, quindi se annuncia la gloria in un modo o nell’altro la storia dovrà andare a finire lì. Per quanto si veda una storia di sofferenza e di umiliazioni il traguardo è fissato: la gloria.
Notate che questa immagine del servo glorioso è quella che domina il quarto Vangelo: il Vangelo di Giovanni quando presenta la passione del Signore insiste sul fatto che è una realtà di innalzamento e di esaltazione. Giovanni vuole che uno abbia sempre davanti l’immagine della croce dove uno muore per innalzamento. Quella piccola realtà che è l’innalzamento in croce per san Giovanni diventa il simbolo della glorificazione di Cristo, per cui il Cristo del quarto vangelo è certamente il Cristo che muore in croce, ma in realtà è più ancora il Re che sale sulla croce e si insedia nel suo potere sovrano.
Quindi il Cristo di Giovanni è il Cristo in croce come la croce di san Francesco o delle croci bizantine dove di dolore non c’è quasi nulla; c’è piuttosto l’espressione della gloria e della vittoria.
Da qui san Giovanni ha preso l’immagine dell’innalzamento: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzatoâ€.
Poi il dolore del servo e la sua gloria vengono presentati indirettamente, guardando l’effetto che fanno sulle persone che stanno intorno, sulle persone che guardano: “Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano uditoâ€.
La sofferenza, prima di tutto, sfigura l’uomo: l’uomo è fatto a immagine di Dio, vuole dire che dovrebbe portare qualcosa della bellezza di Dio sul suo volto. Ora la sofferenza sfigura il volto dell’uomo, lo rende non guardabile, non oggetto di ammirazione, anzi un volto sfigurato può produrre quasi un terrore sacro.
Ripensato a Giobbe quando viene incontrato per la prima volta dagli amici che lo vedono in mezzo all’immondizia, in una condizione di desolazione e di avvilimento. Di fronte a questa condizione gli amici tacciono terrorizzati, in silenzio per una settimana. Quindi la condizione della sofferenza dell’uomo diventa motivo di paura, di terrore.
Ma non solo. Come crea stupore la sofferenza di quest’uomo, crea stupore anche l’esaltazione, anche la sua gloria. Perché dopo averlo visto in quella condizione di sfiguramento, i re della terra lo vedono nella condizione di gloria.
Se ricordate anche nei salmi succedeva che quando Dio libera un uomo giusto dalle sue angosce, la gente rimaneva a bocca aperta, stupita per quello che era avvenuto. Anche per il servo questa liberazione sarà qualcosa di inaudito, qualcosa di mai visto nella storia della salvezza: “vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano uditoâ€
Fino qui la proclamazione di Dio.
Dopo, invece, è un gruppo anonimo che inizia a parlare, un coro, un coro della tragedia greca o un gruppo di re, comunque un coro che comincia a raccontare la storia del servo sottolineando la novità di questa esperienza: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
Il braccio del Signore si è manifestato molte volte nella storia di Israele: quando il Signore ha liberato il suo popolo dall’Egitto “con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto“.
Il braccio teso, potente è naturalmente il simbolo di una forza messa in attività : Dio attua, esercita tutto il suo potere. Quindi avevamo già visto il braccio del Signore.
Come pure lo abbiamo visto quando ha fatto entrare il suo popolo nella terra promessa; quando lo ha liberato dai nemici. La storia di Israele è una serie di avvenimenti in cui il braccio di Dio si è manifestato.
Ma adesso siamo davanti ad un’azione nuova e inconcepibile. “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore� Siamo davanti a qualcosa di nuovo e inaccettabile. Questo nuovo mistero sembra superare tutte le esperienze che abbiamo avuto in precedenza.
Nonostante questo, nonostante sia incredibile, il coro racconta ugualmente. Per chi? Forse per il futuro perché ci possa essere qualcuno che arrivi a comprendere quello che per i nostri occhi e i nostri orecchi è rimasto troppo misterioso, troppo al di là delle nostre capacità di comprensione.
Il tema del messaggio non è una teoria, non è un contenuto di idee, ma una serie di fatti, una vita, la vita di un personaggio. Di questo personaggio viene raccontata la nascita, la passione, la morte, la sepoltura, la glorificazione. Non solo viene raccontata la vita, ma quelli che raccontano sono coinvolti personalmente, profondamente, sanno che quegli avvenimenti non riguardano altre persone, ma coinvolgono loro stessi.
E’ vero che io racconto la storia di un altro, ma quello che è capitato a questo personaggio ha delle ripercussioni sulla mia vita, mi riguarda da vicino.
Sarà bene che anche voi ascoltiate nello stesso modo.
Vi racconto la storia del servo di Jahvè, ma si parla della vostra vita, della vostra esperienza, del vostro peccato e della vostra salvezza. Quindi non potete ascoltare come se vi raccontassi di Alessandro Magno, con interesse ma con la distanza che c’è tra noi e lui. Questa è storia vostra, è la vostra vita che si rispecchia nell’esperienza di quest’uomo.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.â€
Così incomincia la storia del servo di Jahvè.
Ma chi è questo servo di Jahvè? Mistero! Anonimo.
E’ un re? E’ un profeta? E’ un sacerdote? Vive nella terra di Israele? Ha un nome nobile?
Non è detto niente. E’ cancellato tutto. Rimane solo la sua pura presenza segnata dal dolore, dall’umiliazione. L’unica immagine che ci viene messa davanti è quella del dolore e dell’umiliazione. Le altre caratteristiche, quelle umane, sono irrilevanti. Gli autori, i raccontatori non le tengono presente.
Quello che ci dicono: è un virgulto, quindi una vita che nasce, che vorrebbe fiorire; ma è un virgulto in una terra arida, quindi che non lo nutre, non gli da alimento; la sua vita è una vita di stenti e di povertà ; l’ambiente nel quale vive non lo sostiene.
E’ naturalmente un uomo, ma è un uomo sfigurato: “Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. (…) come uno davanti al quale ci si copre la faccia†Sembra fare riferimento, con quest’ultima affermazione, ad un lebbroso.
Il lebbroso è un uomo sfigurato, in cui l’immagine umana è cancellata dalla malattia, e che proprio per questo suscita ribrezzo, rifiuto. Il lebbroso non ha rapporto con la convivenza sociale degli uomini, deve vivere emarginato e rifiutato: è uno davanti al quale ci si copre la faccia.
Quindi quest’uomo vive in una società ma è rifiutato ed emarginato. Ai dolori e alle sofferenze fisiche si unisce quindi l’abbandono degli altri, l’emarginazione sociale. La gente lo abbandona perché interpreta la sua sofferenza come un castigo di Dio, quindi ha paura di avvicinarsi. Guai avvicinarsi a chi è castigato da Dio perché potrebbe contagiarti. Se è sotto una potenza negativa, quella potenza potrebbe attaccarsi alla tua carne. Allora meglio rimanere lontani, meglio interrompere qualunque rapporto, fosse anche il solo rapporto del guardare.
Questo tema, quest’immagine dell’uomo sofferente e rifiutato la trovate in numerosi salmi: il quarto canto del servo di Jahvè è vicino, per molti aspetti, ai salmi di supplica individuale.
Per esempio il salmo 31:
“Sono l’obbrobrio dei miei nemici,
il disgusto dei miei vicini,
l’orrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono caduto in oblio come un morto,
sono divenuto un rifiuto.
Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.â€
Oppure il salmo 69:
Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono un estraneo per i miei fratelli,
un forestiero per i figli di mia madreâ€.
Quindi l’esperienza non è nuova, anzi è presente in molti sofferenti dell’antico testamento. Ma c’è una differenza. Nei salmi di supplica è il sofferente che parla e descrive la sua condizione di sofferenza ed umiliazione. In questo testo, quello che viene chiamato da Isaia l’uomo dei dolori non parla, sono gli altri che descrivono la sua condizione, la sua miseria. Lui tace, è l’uomo del silenzio.
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità . Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guaritiâ€.
In alcuni salmi di lamento, come quelli appena citati, il salmista confessa il suo peccato, e chiede a Dio perdono e grazia:
“Signore, non castigarmi nel tuo sdegno,
non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto,
su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo,
come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe
a causa della mia stoltezzaâ€.
Il Salmista confessa il suo peccato e chiede la grazia di Dio. Uguale atteggiamento lo troviamo nel salmo successivo.
Anche nel quarto canto del servo di Jahvè c’è la confessione del peccato, ma non è il servo che confessa il suo peccato, ma sono gli spettatori, il coro degli uomini: egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori.
Ci sono dolori e sofferenze, e questi sono il segno che siamo di fronte ad una realtà di peccato, ma non al peccato di colui che soffre, ma siamo di fronte al peccato di coloro che lo vedono soffrire, al peccato degli altri.
Il peccato c’è, ma viene portato da un’innocente.
All’inizio della storia, quando la gente ha visto quest’uomo sfigurato, disprezzato ed emarginato ha pensato che fosse colpito da Dio, come avevano pensato gli amici di Giobbe quando lo vedono in mezzo alla sofferenza e gli dicono: «Dio ti ha castigato, devi avere compiuto dei peccati, chiedi perdono a Dio».
La sofferenza, tradizionalmente, è vista come la conseguenza di peccato e di crimini.
In realtà il servo accetta sì, nella sofferenza, la conseguenza del peccato, ma del peccato degli altri. Questo è l’unico caso, dell’antico testamento, in cui ci sia l’idea di una sofferenza di carne, di qualcuno che soffre al posto di un altro, soffre per quello che toccherebbe all’altro come conseguenza del peccato commesso. In questo modo, soffrendo innocentemente, il servo apre gli occhi ai peccatori, perché gli uomini vedendo la sua sofferenza si rendano conto del loro peccato; vedendo l’angoscia del servo riconoscano la propria colpa.
Dolore e castigo sono normalmente legati tra loro nell’ottica dell’antico testamento. Adesso, nell’esperienza del servo, sono separati: il castigo è nostro, il dolore è suo; il castigo toccava a noi, ce lo siamo meritati noi, il dolore invece lo sopporta lui. Il dolore che il Servo sopporta è il dolore che porta alla salvezza, perché procura pentimento e perdono. Quindi il testo gioca sul contrasto: “noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità â€. C’è il paradosso di un castigo che dovrebbe creare angoscia e che invece procura pace: il castigo che il servo sopporta produce la pace degli uomini, dei peccatori. C’è il paradosso delle cicatrici che curano: le cicatrici delle sofferenze del servo diventano cura, guarigione per noi, “per le sue piaghe noi siamo stati guaritiâ€.
A questo punto il coro confessa ancora più esplicitamente il proprio peccato: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.†Nuova confessione di peccato, quindi, con l’immagine tradizionale del gregge che fa riferimento al popolo di Dio traviato e disperso. E’ l’immagine di una divisione, di un venir meno di quel legame di fraternità e comunione che dovrebbe tenere compatto il popolo del Signore.
Quell’immagine che riprenderà san Pietro nella sua prima lettera:
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre animeâ€.
San Pietro ha praticamente descritto la passione del Signore con le parole del quarto canto del Servo: ha portato i nostri peccati, siamo stati guariti dalle sue piaghe, eravamo erranti come pecore.
Notate ancora quell’espressione significativa con cui termina il versetto: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tuttiâ€. Vuole dire che la sofferenza del servo è opera del Signore, è opera di Dio. Non soffre per caso, per un maleficio di potenze negative; soffre per un disegno di Dio. Misteriosamente il Signore ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti, ed è fondamentale per riuscire a dare, a questa sofferenza, un valore positivo. Fosse per caso, sarebbe senza significato; fosse il segno delle potenze del male, sarebbe negativo: vorrebbe dire che il bene è radicalmente sconfitto. Invece è opera del Signore e questo apre la possibilità di una speranza, di un esito positivo per questo dramma.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua boccaâ€. Viene ricordato esplicitamente il silenzio del servo che non è per caso. E’ a sua volta, a modo suo, un discorso eloquente. E’ un’azione simbolica: ha scelto il silenzio, e lo ha scelto non perché non abbia niente da dire a sua discolpa, ma proprio perché questo silenzio esprime l’atteggiamento di perdono che il servo ha scelto nei confronti degli uomini.
“(…) Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché, ne seguiate le orme:
egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca,
oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendettaâ€.
Cristo non ha risposto al male con il male, ha piuttosto coperto il male con una capacità più grande di perdono.
Quando san Paolo, nell’inno alla carità , dice tra le altre cose che la carità copre tutto, dice esattamente questo, dice del servo che tace di fronte alla sofferenza che sta portando per i peccati degli altri.
In questo siamo davanti a qualcosa di sorprendente.
Potete fare il confronto con Giobbe; Giobbe soffre anche lui e soffre da innocente, ma non tace. E’ diventato eloquente, ha tutta una serie di parole con le quali esprime la sua ribellione alla sofferenza e difende la sua innocenza.
Il servo, invece, tace; la pecora muta si contrappone al gregge traviato. Siamo di fronte a qualcosa che misteriosamente sposta il giudizio di Dio: l’agnello condotto al macello, la pecora muta portano sopra di sé il giudizio e la condanna.
“Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.â€
Siamo davanti ad un tema nuovo; fino ad ora si era parlato di sofferenze fisiche, di disprezzo, ora si parla di giudizio e di una condanna ingiusta.
La condanna ingiusta è uno dei grandi temi dei salmi di lamentazione. I salmisti si lamentano molto spesso della degradazione della giustizia, di giudici che si sono lasciati comperare ed hanno emesso sentenze false schiacciando l’innocente. Questo è un tema fondamentale nell’antico testamento.
Il servo ha subito proprio questo: una condanna ingiusta, con l’unica differenza che il servo non si difende, non invoca il castigo di Dio contro i nemici; quello che invece succede frequentemente nei salmi.
Nei Salmi chi è ingiustamente condannato rivendica l’intervento di Dio, ha diritto che Dio intervenga perché Dio è l’ultima istanza della giustizia, nel popolo del Signore, quindi deve intervenire per riportare le cose alla verità , alla giustizia.
Il servo NON chiede nessun intervento di Dio. La sua storia dunque termina con la condanna e l’esecuzione: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte?â€. Nessuno lo ha difeso, nessuno si è preoccupato di proclamare la giustizia del servo, anzi, “gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua boccaâ€. Quindi la sepoltura sigilla tutta la vita del servo come vita di dolore e di disprezzo, ed è una vita che termina in una fossa comune, nella fossa dei giustiziati.
Ora, quelli che raccontano la storia, ne possono dire il significato vero, possono dire che era innocente quell’uomo: “sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua boccaâ€. Questa è una dicitura che rimane come sigillo della sua sepoltura, è scritta sulla sua lapide; sulla lapide c’è scritto che era innocente nelle parole e nelle opere, non ha commesso violenza, non ha detto inganno o falsità .
Ma non è stato il servo a dire questo, non è stato il servo a proclamare la sua innocenza, come di solito avviene nei salmi di un accusato ingiustamente. Nemmeno questa proclamazione di innocenza è stata fatta durante la sua vita, non c’è nessuno che durante il processo si sia alzato a difenderlo, o che di fronte alla esecuzione abbia protestato. Sono altre persone che invece proclamano il servo innocente, ma dopo la sua morte; quando orami è troppo tardi, quando orami non c’è più niente da fare; a quel punto il servo è proclamato dal coro innocente e giusto.
Non è vero che non c’è più niente da fare, non è vero che è troppo tardi. E’ troppo tardi per gli uomini, per la giustizia degli uomini, ma non è troppo tardi per l’intervento di Dio.
Sembrava che anche Dio lo avesse abbandonato e che non si fosse preso cura della sorte del servo. Quando dice: “chi si affligge per la sua sorte?†sembra che la risposta sia proprio nessuno: né gli uomini, né Dio.
“Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;†Viene proclamata la glorificazione del servo; la storia finisce adesso nella glorificazione del servo.
Nei salmi di azione di grazie il protagonista racconta, di solito, la sua disgrazia e poi la liberazione ottenuta meravigliosamente dal Signore. Quando proclama questa liberazione invita tutti gli altri a fare festa con lui, a lodare Dio insieme con lui, ed invita tutti ad avere fiducia nel Signore.
Ma in tutti questi salmi la narrazione riguarda un pezzo della vita: «ho sperimentato una malattia grave, una lotta grave e mi sentivo ormai spacciato, ma il Signore è intervenuto e mi ha liberato»; questa è l’esperienza che ho fatto un mese fà , quindi c’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho conosciuto l’angoscia e al termine di questa ho conosciuto la liberazione del Signore.
Ma per quanto riguarda il servo non è solo un pezzo della sua vita che è stato segnato dalla sofferenza. Nel suo caso la disgrazia è stata integra, dalla nascita fino alla sepoltura; fin dall’inizio è cresciuto come un virgulto in terra arida, fin dall’inizio non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, quindi tutta la sua vita è stata di sofferenza, nella quale ha portato il peso dei peccati degli uomini.
Per questo la liberazione non può essere solo la guarigione da una malattia mortale, o la protezione da un nemico ostile; la liberazione deve riscattare tutta l’esistenza, deve superare la morte stessa, perché solo una liberazione totale può salvare da una disgrazia che è stata totale, radicale e piena.
Tutta la vita di dolore di questo servo è stato un piano di Dio nascosto nel mistero, ma già attivo come salvezza. Il Signore aveva voluto questo piano, lo accettava, e per questo la vita del servo ha avuto un valore grande. Ma ci si accorge di questo solo adesso, dopo la morte, nella glorificazione del Signore: “quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungoâ€. Vuol dire che la sua vita e la sua morte sono state feconde; sembrava un germoglio arido, senza vita, senza pienezza, la sua vita era stata segnata da una morte violenta, ma il Signore lo ha salvato e “vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signoreâ€. Quindi c’era un progetto positivo, un progetto di salvezza che il servo ha portato a compimento.
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità â€. La sua passione diventa sorgente di vita e di salvezza per gli uomini. Si è addossato l’iniquità degli uomini e giustificherà molti. “Giustificherà †non vuole dire che scuserà , ma vuole dire che renderà giusti, che trasforma gli uomini, e da egoisti li trasforma in autentici nell’amore, in giusti, in veri, in sinceri. Opera questa trasformazione meravigliosa dell’uomo. “Molti†vuol dire la moltitudine, molta gente, un popolo immenso, che scaturisce, che riceve vita dalla sua passione e dalla sua morte.
“Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché‚ ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatoriâ€. Quindi Dio conferma il messaggio con il suo oracolo ed annulla il giudizio umano.
Il giudizio umano ha condannato a morte quest’uomo come colpevole; Dio annulla il giudizio degli uomini dichiarando il servo innocente, anzi l’innocenza del servo renderà innocenti molti uomini. Questi uomini che vengono giustificati, liberati dalla condanna che si sono meritati saranno la preda della sua vittoria, cioè li conquisterà come bottino con il dono della sua vita. Vuole dire che la vita, la passione e la morte di questo servo sono state un intercessione che Dio ha accettato: il suo silenzio è stato in realtà una preghiera accolta da Dio.
Tra i vari compiti del profeta uno dei più significativi è quello di intercedere per il popolo.
E’ il compito che ha esercitato molto bene Mosè: quando il libro dell’Esodo racconta il peccato del vitello d’oro, dell’idolatria al vitello, dice che Dio aveva reagito al peccato di Israele con la volontà di annientare il suo popolo, e rivela questo a Mosè:
“Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché, il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché, dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre». Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo.â€
L’espressione “Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio†è nel testo ebraico tradotta diversamente: Mosè allora accarezzo il Signore suo Dio. E’ un modo un po’ umano di parlare però contiene questa immagine di intimità di Mosè con il Signore, e che lo conduce ad un atteggiamento diverso.
Questa è l’intercessione di Mosè. Proprio perché è amico del Signore si può accostare a Lui, può “accarezzare†il Signore, e può ottenere che Dio cambi il suo atteggiamento.
E’ sempre un modo umano di parlare, però è essenziale per capire come è fatto Dio.
Sempre nel libro dell’Esodo, qualche paragrafo più avanti, c’è una seconda preghiera di Mosè:
“Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco il mio angelo ti precederà ; ma nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato»“.
Vuole dire che Mosè dice al Signore: «E’ vero il popolo ha peccato, ma tu perdonalo; o se non te la senti di perdonarlo annulla, distruggi anche me con il popolo». Allora il Signore si trova davanti a questa scelta: se vuole punire il popolo deve distruggere anche Mosè; se vuole salvare Mosè deve perdonare al popolo. E il Signore scegli di perdonare per amore di Mosè, perché è giusto, perché è un amico docile, obbediente. Questa è l’intercessione.
Il servo di Jahvè intercede. Vuole dire che vive una piena solidarietà con gli uomini e con il loro peccato, e siccome è innocente ottiene la giustificazione di molti, della moltitudine.
Capite che questo quarto canto è importante per l’antico testamento, ma lo è anche per noi perché è una delle chiavi per comprendere la passione del Signore.
Anche la passione del Signore è qualcosa di misterioso e di sorprendente, eppure in questa sofferenza c’è un disegno di grazia, di salvezza.
Ricordate quelle espressioni del Vangelo:
“Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per moltiâ€, oppure le parole dell’ultima cena:
“«Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti»“
vengono proprio dal quarto canto del servo di Jahve e sono essenziali per capire la passione del Signore dove Egli porta sopra di sé il peccato degli altri e lo annulla con il suo silenzio, con la sua non-ribellione, con la capacità di coprire il peccato degli uomini con un amore più grande, con una sopportazione più grande.
I discorsi dell’istituzione dell’Eucaristia vengono rapportati al quarto canto;
l’inno della prima lettera a Pietro al capitolo 2° cita varie volte il quarto canto;
i racconti della passione sono anch’essi intrecciati di espressioni che fanno riferimento alla sofferenza del servo.
Vuol dire che quando la comunità cristiana si è interrogata sulla morte di Gesù e si è chiesta il perché, si è chiesta come fosse possibile che Dio abbandonasse il Suo servo, ha cercato la risposta nel quarto canto del servo di Jahvè.
Naturalmente vuole collegato agli altri tre, ma certamente il quarto canto è il principale.
La sofferenza si era già manifestata nel secondo canto, era diventata ampia nel terzo, ma diventa il tema unico del quarto canto.
Costruito in questo modo:
si parte dalla gloria, quindi dalla conclusione;
poi c’è una specie di flashback dove si racconta tutta la storia, dalla nascita alla sepoltura, e anche dopo, alla glorificazione;
ma bisogna arrivare lì perché la Parola di Dio fin dall’inizio ha pronunciato la glorificazione del servo: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzatoâ€, il resto deve condurre a questo punto.
È evidente che il quarto canto del servo di Jahvè sia un’ottima chiave per capire e comprendere il mistero pasquale.
* Documento non rivisto dall’autore, ma rilevato come amanuense dal registratore, con l’aggiunta dei riferimenti biblici.