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OMELIA PER IL 28 FEBBRAIO 2001 – MERCOLEDÌ DELLE CENERI – TOTUSTUUS

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OMELIA PER IL 28 FEBBRAIO 2001 – MERCOLEDÌ DELLE CENERI – TOTUSTUUS 

(le letture corrispondono con quele di domani)

NESSO TRA LE LETTURE « Vi supplichiamo, in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio », ci esorta san Paolo nella seconda lettura (2Cor 5,20). Riconciliazione è parola chiave nella liturgia del mercoledì delle ceneri. Riconciliazione significa cambiamento « a partire dall’altro », per questo, implica la conversione a Dio e a partire da Dio, alla quale chiama il profeta Gioele nella prima lettura: « Tornate al Signore, vostro Dio ». Gesù nel vangelo interiorizza le pratiche religiose e penitenziali del giudaismo: l’elemosina deve essere nascosta; il digiuno, gioioso; e la preghiera, umile. « E il Padre, che vede ciò che è nascosto, ti ricompenserà ».

MESSAGGIO DOTTRINALE LA PRIORITÀ DEL CUORE. Con il termine cuore si vuol dire l’interiorità, non in opposizione, ma come origine di ogni azione esteriore di riconciliazione e penitenza. Per questo, non parliamo di esclusività, ma di priorità. Con una espressione molto efficace, il profeta Gioele propende per codesta priorità: « Stracciate il vostro cuore, non le vostre vesti » (prima lettura). È evidente che il profeta non intende l’espressione in modo escludente, giacché nel versetto 15 continua: « Promulgate un digiuno, purificate la comunità, tra l’atrio e l’altare piangano i sacerdoti », tutte azioni esteriori. Il testo evangelico pone davanti ai nostri occhi Gesù, che porta al massimo grado di interiorità le tre pratiche tipiche della religione giudaica – e possiamo dire di ogni religione, compresa quella cristiana: 1) l’elemosina, che oggi potremmo tradurre con carità, solidarietà, assistenza sociale, volontariato, cioè, tutte le forme possibili di aiuto al bisognoso. Gesù ci insegna lo stile proprio di fare carità: in segreto, senza alcuna ostentazione, cercando unicamente di compiacere Dio e di compiere nel mondo la sua santissima volontà. 2) La preghiera, cioè, tutto l’insieme di attività spirituali che legano l’uomo intimamente a Dio. Dalla santa Messa alla preghiera privata, dalla meditazione all’orazione liturgica, dal sacramento della penitenza alle diverse forme di religiosità popolare. Per il cristiano ciò che conta è che, qualsiasi sia l’attività spirituale, sia un vero incontro con Dio Padre nell’intimità del cuore. 3) Il digiuno, ossia, tutto ciò che implichi rinuncia a se stesso, distacco da sé per guadagnare in disponibilità nei confronti di Dio e del prossimo. Possono essere i sacrifici volontari, le piccole noie della vita di ogni giorno, l’assumere con decisione e coraggio le prove della vita, la lotta costante e coraggiosa contro le tentazioni… Qui ciò che importa è la gioia spirituale con cui si affrontano tutte queste situazioni, una gioia che si ripercuote nell’atteggiamento e nel comportamento verso Dio e verso gli uomini.

MINISTRI DI RICONCILIAZIONE. « Siamo ambasciatori di Cristo, ed è come se Dio stesso vi esortasse per mezzo di noi », ci dice san Paolo nella seconda lettura, ed aggiunge: « Giacché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio ». San Paolo ci mostra la dimensione ecclesiale della riconciliazione. È Dio che pone nel cuore dell’uomo il dono della riconciliazione (lasciatevi riconciliare da Dio), ed è l’uomo colui che lo accoglie (o lo rifiuta), ma la Chiesa è lo strumento scelto dallo stesso Dio affinché ci ricordi, per mezzo dei suoi ministri, questo dono straordinario, ed è allo stesso tempo la mediatrice voluta da Dio di ogni riconciliazione. Per questo, per la Chiesa è un’esigenza della sua fedeltà a Dio tanto il predicare dovunque e in tutti i modi possibili la riconciliazione con Dio e tra gli uomini, quanto l’amministrare efficacemente codesta riconciliazione per mezzo del sacramento della penitenza e del perdono. La liturgia di oggi è un avvertimento nitido ai vescovi e ai sacerdoti, affinché siamo sempre preparati a promuovere la riconciliazione, e disponibili a riconciliare l’uomo con Dio e con i suoi fratelli per mezzo del sacramento.

SUGGERIMENTI PASTORALI GLOBALIZZARE LA RICONCILIAZIONE. Con questo termine si cerca di estendere la riconciliazione a tutti gli uomini, in tutte le latitudini e in qualsiasi strato della società. Come cattolici, dobbiamo riconciliarci innanzitutto con noi stessi, con la nostra coscienza posta davanti a Dio e alla sua volontà. Allo stesso tempo, dobbiamo cercare la riconciliazione entro la stessa Chiesa cattolica, dato che una persona o una comunità non riconciliate non potranno nemmeno riconciliare altri. Sotto l’impulso e la guida del Santo Padre e dei nostri Vescovi, dobbiamo promuovere la riconciliazione con tutte le comunità cristiane separate della Chiesa cattolica: con la nostra preghiera, con la nostra testimonianza, con la nostra solidarietà., con il nostro aiuto materiale o spirituale. Si deve promuovere allo stesso modo la riconciliazione con i membri di altre religioni (ebrei, musulmani, buddisti, induisti,…). È probabile che entro le nostre stesse parrocchie ci siano membri di altre Chiese cristiane, o di altre religioni: dovrà iniziare per mezzo loro l’impulso e il desiderio di riconciliazione. Come? Cercando di realizzare le forme che i nostri vescovi o parroci ci segnalano: ma altresì, lo Spirito ispirerà a ciascuno altri modi concreti, personali o collettivi. La riconciliazione globale comprende tutti i settori della vita, oltre a quello religioso: riconciliazione del Nord più sviluppato e del Sud, che lo è di meno, a livello mondiale o a livello nazionale; riconciliazione tra laici, non poche volte ostili ad ogni senso religioso, e credenti, che a volte esagerano i comportamenti laici; riconciliazione tra gli emigrati, provenienti da paesi in guerra o in condizioni economiche minime, e gli abitanti dei paesi che li accolgono; riconciliazione negli stadi di calcio tra i tifosi di una squadra o dell’altra, della squadra nazionale di diversi paesi… Una cosa inoltre resti chiara: la globalizzazione della riconciliazione esclude qualsiasi conseguenza negativa.

LA RICONCILIAZIONE PERMANENTE. Il fenomeno della globalizzazione reclama una riconciliazione permanente, in costante riciclaggio. L’uomo, le comunità umane non si riconciliano una volta per sempre, ma hanno necessità di mantenersi in atteggiamento continuo di riconciliazione. Nella riconciliazione succede la stessa cosa che accade in amore: se non lo si alimenta, si raffredda, diventa abitudine, e muore. Giorno dopo giorno si deve rinnovare l’atteggiamento dell’anima verso la riconciliazione, e ci si deve esercitare in atti di riconciliazione, per quanto siano piccoli, per mantenerla viva e per farla crescere. Quante occasioni hai al giorno di praticare la riconciliazione? Non lo so, ma sicuramente più di una. Non lasciarla passare. Traine profitto. Per giungere a creare nell’anima un atteggiamento di riconciliazione, si richiede di averla praticata, senza stancarsi, in molte occasioni. Perché non riflettere, al termine della giornata, se hai avuto qualche opportunità di riconciliarti con Dio, perché hai commesso qualche mancanza, o sei stato meno generoso con Lui? Se hai avuto qualche occasione di praticare la riconciliazione con gli altri (familiari, vicini, emigranti, cristiani di altre Chiese, mendicanti…) e se hai saputo approfittarne? Una riflessione che può cambiare abbastanza la tua vita e quella di chi ti sta intorno!

BENEDETTO XVI – MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2010 – (ANCHE PAOLO)

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BENEDETTO XVI – MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2010 – (ANCHE PAOLO)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 17 febbraio 2010

Cari fratelli e sorelle!

iniziamo oggi, Mercoledì delle Ceneri, il cammino quaresimale: un cammino che si snoda per quaranta giorni e che ci porta alla gioia della Pasqua del Signore. In questo itinerario spirituale non siamo soli, perché la Chiesa ci accompagna e ci sostiene sin dall’inizio con la Parola di Dio, che racchiude un programma di vita spirituale e di impegno penitenziale, e con la grazia dei Sacramenti.
Sono le parole dell’apostolo Paolo ad offrirci una precisa consegna: “Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio…Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2Cor 6,1-2). In verità, nella visione cristiana della vita ogni momento deve dirsi favorevole e ogni giorno deve dirsi giorno di salvezza, ma la liturgia della Chiesa riferisce queste parole in un modo del tutto particolare al tempo della Quaresima. E che i quaranta giorni in preparazione della Pasqua siano tempo favorevole e di grazia lo possiamo capire proprio nell’appello che l’austero rito dell’imposizione delle ceneri ci rivolge e che si esprime, nella liturgia, con due formule: “Convertitevi e credete al vangelo!”, “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”.
Il primo richiamo è alla conversione, parola da prendersi nella sua straordinaria serietà, cogliendo la sorprendente novità che essa sprigiona. L’appello alla conversione, infatti, mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere. Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù. E’ la sua persona la meta finale e il senso profondo della conversione, è lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla sua luce e sostenere dalla sua forza che muove i nostri passi. In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. Convertirsi e credere al Vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. La conversione è il “sì” totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. Proprio questo è il senso delle prime parole con cui, secondo l’evangelista Marco, Gesù apre la predicazione del “Vangelo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).
Il “convertitevi e credete al vangelo” non sta solo all’inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi, permane rinnovandosi e si diffonde ramificandosi in tutte le sue espressioni. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, a imparare da Lui l’amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l’unica grande legge di vita. Ogni giorno, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute, anche quando siamo tentati di abbandonare la strada della sequela di Cristo e di chiuderci in noi stessi, nel nostro egoismo, senza renderci conto della necessità che abbiamo di aprirci all’amore di Dio in Cristo, per vivere la stessa logica di giustizia e di amore. Nel recente Messaggio per la Quaresima ho voluto ricordare che “Occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’amore di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare” (L’Oss. Rom. 5 febbraio 2010, p. 8).
Il momento favorevole e di grazia della Quaresima ci mostra il proprio significato spirituale anche attraverso l’antica formula: Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai, che il sacerdote pronuncia quando impone sul nostro capo un po’ di cenere. Veniamo così rimandati agli inizi della storia umana, quando il Signore disse ad Adamo dopo la colpa delle origini: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,19). Qui, la parola di Dio ci richiama alla nostra fragilità, anzi alla nostra morte, che ne è la forma estrema. Di fronte all’innata paura della fine, e ancor più nel contesto di una cultura che in tanti modi tende a censurare la realtà e l’esperienza umana del morire, la liturgia quaresimale, da un lato, ci ricorda la morte invitandoci al realismo e alla saggezza, ma, dall’altro lato, ci spinge soprattutto a cogliere e a vivere la novità inattesa che la fede cristiana sprigiona nella realtà della stessa morte.
L’uomo è polvere e in polvere ritornerà, ma è polvere preziosa agli occhi di Dio, perché Dio ha creato l’uomo destinandolo all’immortalità. Così la formula liturgica “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” trova la pienezza del suo significato in riferimento al nuovo Adamo, Cristo. Anche il Signore Gesù ha liberamente voluto condividere con ogni uomo la sorte della fragilità, in particolare attraverso la sua morte in croce; ma proprio questa morte, colma del suo amore per il Padre e per l’umanità, è stata la via per la gloriosa risurrezione, attraverso la quale Cristo è diventato sorgente di una grazia donata a quanti credono in Lui e vengono resi partecipi della stessa vita divina. Questa vita che non avrà fine è già in atto nella fase terrena della nostra esistenza, ma sarà portata a compimento dopo “la risurrezione della carne”. Il piccolo gesto dell’imposizione delle ceneri ci svela la singolare ricchezza del suo significato: è un invito a percorrere il tempo quaresimale come un’immersione più consapevole e più intensa nel mistero pasquale di Cristo, nella sua morte e risurrezione, mediante la partecipazione all’Eucaristia e alla vita di carità, che dall’Eucaristia nasce e nella quale trova il suo compimento. Con l’imposizione delle ceneri noi rinnoviamo il nostro impegno di seguire Gesù, di lasciarci trasformare dal suo mistero pasquale, per vincere il male e fare il bene, per far morire il nostro “uomo vecchio” legato al peccato e far nascere l’”uomo nuovo” trasformato dalla grazia di Dio.
Cari amici! Mentre ci apprestiamo ad intraprendere l’austero cammino quaresimale, vogliamo invocare con particolare fiducia la protezione e l’aiuto della Vergine Maria. Sia Lei, la prima credente in Cristo, ad accompagnarci in questi quaranta giorni di intensa preghiera e di sincera penitenza, per arrivare a celebrare, purificati e completamente rinnovati nella mente e nello spirito, il grande mistero della Pasqua del suo Figlio.

CARD. RAVASI, MEDITAZIONI PER QUARESIMA (2013): DOPO IL « BUIO » DEL PECCATO, LA « LUCE » DELLA BELLEZZA

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CARD. RAVASI, MEDITAZIONI PER QUARESIMA (2013): DOPO IL « BUIO » DEL PECCATO, LA « LUCE » DELLA BELLEZZA

Dall’Uomo senza Dio all’Uomo sapiente e felice: proseguono le meditazioni del cardinale Ravasi negli Esercizi Spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana

Citta’ del Vaticano, 22 Febbraio 2013 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio

Continua l’itinerario tracciato dal cardinale Gianfranco Ravasi, nelle predicazioni degli Esercizi spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana. Un itinerario finora “negativo”, ha detto il porporato, che dalla “notte della creatura umana”, ovvero il dolore nella sua forma fisica e morale, giunge ad una nuova tappa: il peccato.
Concentrandosi sul peccato come “aberrazione che ci allontana da Dio”, il presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nella sua XI meditazione, ha rotto il tradizionale binomio proposto da Dostoevskij del “Delitto e Castigo”, evolvendolo, alla luce della “genuina spiritualità biblica”, nel trinomio: “Delitto Castigo Perdono”.
La riflessione inizia “sceneggiando” un pensiero di Pascal, dove un’anima in dialogo con Dio, chiede al Divino Creatore di non illuminarla così in profondità da mostrarle i suoi peccati, perché questo l’avrebbe portata alla disperazione. Ma il Padre eternamente buono risponde: “Non disperare perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui tutti saranno perdonati”.
È in questo modo che si introduce “la stretta componente di base del sacramento della riconciliazione” ha detto Ravasi. “I peccati devono apparire in tutta la loro rottura, in tutta la loro forza, negatività e oscurità”; se però – ha aggiunto – si confessano a Dio, Egli “li ripresenta nel momento stesso in cui li perdona”.
Nelle Sacre Scritture, ha poi spiegato il porporato, “il peccato è visto sempre come un atto personale che nasce dalla libertà umana”. È una realtà “che può avere anche risvolti psicologici, ma è, prima di tutto, teologica”. Per questo – ha sottolineato – il Sacramento della Riconciliazione “non potrà mai essere equiparato ad una seduta psicanalitica, perché è assolutamente fondamentale la consapevolezza di Dio che il peccatore ha”.
Il peccato non è altro che “lo smarrimento della strada giusta” ha precisato il cardinale. Convertirsi significa, dunque, “cambiare rotta”, “cambiando mentalità” e “lasciando alle spalle le cose alle quali siamo aggrappati”.
“Nella società non sempre si dà la possibilità di ricominciare – ha poi osservato – alcuni sono ormai bollati. Anche se nella legislazione ci sono tentativi di ricomporre e riproporre ancora alla società uno che ha sbagliato, rimane sempre questa sorta di timbro sulla persona che è stata giudicata peccatrice”.
Questo invece “nella Bibbia non esiste”, ha affermato il Capo Dicastero, ricordando l’immagine proposta da Isaia di un Dio che “getta alle spalle i tuoi peccati, in modo che non li guarda più, quindi non ci sono più. È la cancellazione vera”.
Proseguendo il filone nella riflessione pomeridiana, il cardinale ha approfondito il tema (riproposto anche nei Salmi 14 e 53) de “L’assenza e il nulla”, due mali che portano l’uomo a vivere lontano da Dio e lo conducono “nel mondo dell’ateismo pratico”.
Nonostante un’apparente sinonimia, l’assenza e il nulla sono due termini che indicano significati diversi. Se l’assenza – ha spiegato Ravasi – è la “nostalgia di Dio”, il nulla è invece “il vero male della cultura odierna”.
Esso rappresenta “l’indifferenza, la superficialità, la banalità”, è “una cosa molle che però non ha nessuna nostalgia” e, proprio per questo, molto più pericolosa. “Pastoralmente – ha affermato – noi incontriamo più spesso purtroppo questa seconda forma di ateismo”, ed “è per questo che io continuo a pensare come si può incidere in qualche modo in questa sorta di nebbia, di mucillagine”.
Si unisce poi un termine affine: il silenzio di Dio, un orizzonte oscurato che spesso, anche al credente, è capitato di provare. “Pensiamo anche a noi stessi – ha detto Ravasi – tutte le volte che abbiamo provato, magari attraverso la tiepidezza, attraverso lo scoraggiamento, il silenzio di Dio. Per noi non era del tutto scomparso dall’orizzonte però non Lo sentivamo più”.
A ciò si aggiunge “la società contemporanea” che “ha creato nelle nostre città una folla di solitudini”, ha detto il porporato. Il pensiero è andato, in particolare, ai tanti preti che “vivono questa esperienza”, verso cui Ravasi ha invocato una maggiore attenzione da parte dei vescovi.
Tuttavia la speranza c’è: lo dice il Salmo 22, dove il salmista, dopo aver provato il silenzio di Dio, riesce ad esclamare: “Tu mi hai risposto!”. È la preghiera infatti l’ancora di salvezza, perché “le nostre suppliche non cadono mai nel nulla”. Tanto che – ha ricordato il cardinale – anche un ateo come il drammaturgo Eugene Ionesco, prima di morire scrisse: “Pregare. Non so chi. Spero Gesù Cristo”.
Come nel ciclo della natura, alla ‘notte’ succede la ‘luce dell’alba’. Dopo aver parlato del “buio” del peccato e dell’assenza di Dio, il presidente del Dicastero per la Cultura, nella XII meditazione, si è soffermato infatti sulla “luce”, alimentata dal “sapore della felicità”.
Un sapore dato dalla sapienza e dalla bellezza. “Il verbo ‘sápere’ – ha spiegato Ravasi – in latino ha come primo significato avere sapore. Ed è successivo, il significato di sapere. È avere gusto. Per questo motivo, lo stolto si dice anche insipiente e, per certi versi, anche insipido, perché il vero sapiente è colui che dà senso alla vita”.
Questa insipienza si verifica spesso oggi, il più delle volte in una forma scadente di « mera volgarità ». Anche il mondo della comunicazione di massa segue questa scia, ha denunciato il cardinale, « prediligendo spesso, come in questi giorni, la pula al grano, il ‘chiacchiericcio’ alla verità”.
Infine c’è la bellezza che, nelle sue forme più alte, è anch’essa strada per la salvezza. In particolare i Salmi, secondo il porporato, “sono poesia, canto e musica” che seguendo la “via della bellezza”, portano “a pregare e parlare di Dio”. La bellezza però “porta anche inquietudine” – ha concluso Ravasi – perché “non lascia indifferenti”. E soprattutto – come disse il cardinale Ratzinger – “la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo destino ultimo”.

QUARESIMA. È L’ORA DEL RISVEGLIO – Enzo Bianchi

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QUARESIMA. È L’ORA DEL RISVEGLIO

Enzo Bianchi

SPIRITUALITÀ – Si avvicina il tempo della quaresima, tempo dei quaranta giorni precedenti la Pasqua, tempo da viversi come penitenziale, impegnati nel rinnovamento della conversione, tempo che la Chiesa vive e ceLebra dalla metà del IV secolo d.C. La quaresima – che la Chiesa con audacia chiama ‘sacramento’ ( annua quadragesimalis exercitia sacramenti: colletta della I domenica di Quaresima), cioè realtà che si vive per partecipare al mistero – è un tempo ‘forte’, contrassegnato da un intenso impegno spirituale, per radunare tutte le energie in vista di un mutamento del nostro pensare, parlare e operare, di un ritorno al Signore dal quale ci allontaniamo, cedendo costantemente al male che ci seduce. La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà.
Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.). Con l’Apostolo il cristiano dovrebbe dire: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15). Ecco, riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima, e i padri del deserto a ragione ammonivano: «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto».
Il cammino quaresimale si incomincia con questa consapevolezza, e perciò la Chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le parole che ne esprimono il significato: «Sei un uomo che, tratto dalla terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia del Vangelo di Cristo!». Così si vive un gesto materiale, una parola assolutamente decisiva per la nostra identità e chiamata.
Di conseguenza, nei 40 giorni quaresimali si dovrà intensificare l’ascolto della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si dovrà imparare a digiunare per affermare che «l’uomo non vive di solo pane» (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si dovrà esercitare alla prossimità all’altro, a guardare all’altro, a discernere il suo bisogno, a provare sentimenti di compassione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria presenza innanzitutto, e con quello che si ha.
Per la quaresima di quest’anno papa Francesco ha inviato, com’è consuetudine, un messaggio ai cattolici, ispirandosi significativamente a un testo, anzi a un solo versetto densissimo di cristologia della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Anche Benedetto XVI nel messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo stile.
Sì, la fede della Chiesa di Corinto, fondata dall’Apostolo da pochissimi anni, confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo, che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto apparteneva – potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste prerogative e si è dunque fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale, per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio. Io amo dire che il nostro Dio è un «Dio al contrario » perché si rivela nella debolezza, nella povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché chiedere il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbiamo l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnovano – di un Dio potente, che regna, che si impone. Se il nostro Dio è un «Dio al contrario» rispetto alle nostre attese mondane, anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un «Messia al contrario». Non è venuto nello splendore, nella gloria, nella straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo non a caso in una stalla, come uno che non ha trovato un luogo in cui venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7)…

IL MISTERO PASQUALE NEI SALMI

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IL MISTERO PASQUALE NEI SALMI

di Padre Felice Artuso

Chi inizia a pregare non si chiude in se stesso, ma si apre a Dio, si muove verso di lui e sta alla sua presenza. Ascolta quindi la sua parola, dialoga con lui, gli eleva inni di lode e di invocazione. Confidando nella sua misericordia, attende infine la liberazione da ogni afflizione.
I salmi sono canti di ringraziamento e di supplica a Dio, composti da poeti ebrei. Presentano con un linguaggio lirico le grida di gioia e di sofferenza, di vittoria e di sconfitta. Cantano la santità, la bellezza e la misericordia di Dio, rese visibili nell’opera della creazione e della redenzione. Esprimono l’anelito del credente di incontrarlo, di adorarlo, di ringraziarlo e di rimanere in piena comunione con lui. Suscitano in qualsiasi persona sentimenti d’amore, di gioia, di speranza, di liberazione e di gratitudine. Trasmettono la convinzione che nessuna persona può ostacolare e bloccare la realizzazione dei suoi sovrani progetti.
Raccolti nel Salterio, accompagnano le celebrazioni liturgiche del tempio e delle sinagoghe. Drammatizzano la situazione del servo, giusto e fedele, che per la sua totale adesione a Dio è odiato, disprezzato, minacciato e angustiato dagli uomini. Raccontano la vita e la missione salvifica di Gesù Cristo. Segnalano le tappe del suo cammino pasquale, che si conclude a Gerusalemme, città della predilezione, della pace e della giustizia divina. Annunciano la nascita, lo sviluppo, le persecuzioni e le sofferenze della Chiesa. Ravvivano in noi la coscienza battesimale e ci sollecitano di corrispondere alla grazia della nostra vocazione.
L’ebreo credente prega, cantando i salmi, possibilmente ritmati dagli strumenti musicali. Si rivolge verso il tempio, loda e invoca Dio, usando il tu confidenziale (Sal 5,8;28,2). Esterna la certezza che solo in Dio, alleato fedele, trova soccorso, liberazione, riparo, difesa e invito ad un onesto comportamento civico: «Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte, perché possa annunziare le tue lodi, esultare per la tua salvezza alle porte della città di Sion» (Sal 9-10,14-15); «Fino a quando, Signore, starai a guardare? Libera la mia vita dalla loro violenza» (Sal 35,17); «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha accolto» (Sal 27,10).
Fin dall’infanzia Gesù è introdotto alla preghiera Dei salmi. Si attiene abitualmente a questo metodo di orazione, ne gusta l’afflato spirituale e adempie il suo contenuto profetico. Nei giorni di riposo, di festa o di penitenza canta i salmi nelle assemblee liturgiche. Li canta anche in privato con i suoi discepoli (Mt 26,30). Nel suo annuncio a volte cita qualche espressione salmica o vi allude, riferendola a se stesso o alla sua attività. Dimostra in questo modo che sta compiendo una rilettura attualizzante di tutto il Salterio.
Gli apostoli e i primi evangelizzatori collegano i salmi alle rilevanti fasi della storia di Gesù e alle vicende personali dei nuovi credenti. Li recitano, rimanendo in comunione d’amore con lui, incompreso, perseguitato, rifiutato e glorificato. Pensano che egli è presente nella Chiesa, le parla anche con le parole dei salmi e si rivolge al Padre celeste mediante le stesse preghiere . Raccomandano ai primi battezzati di alzare la testa, di elevare la propria mente a Dio e di salmeggiare. Compongono inoltre per le assemblee liturgiche dei nuovi inni .
La Chiesa educa i cristiani a leggere i salmi, a memorizzarli, a cantarli e a meditarli, perché possano incontrarsi con il Signore, lottare assieme a lui contro il male, conservare la fede nella sua opera redentrice e trasmetterla agli altri. Inserisce dei versetti salmici nelle celebrazioni eucaristiche oppure vi ricava preghiere di lode e di intercessioni per tutto il tempo dell’anno liturgico.
Riportiamo ora alcune espressioni salmiche, nelle quali i primi cristiani scorgevano le enunciazioni profetiche dell’incarnazione, della passione, della morte, della risurrezione e della sovranità universale di Gesù. Esponiamo infine il contenuto del salmo 22 (21) e del salmo 69 (68), in cui secondo una rilettura cristiana trapela la sofferenza e la gloria del Signore Gesù.

L’incarnazione del Figlio di Dio
Un salmista esorta il popolo ebraico di attendere la venuta del Signore, elargitore di misericordia e di salvezza: «Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (Sal 130,7-8). Un altro salmista annuncia che Dio, attento al lamento degli oppressi, si alzerà, si metterà in movimento e li libererà dalle loro tristezze: «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, io sorgerò – dice il Signore – metterò in salvo chi è disprezzato» (Sal 12,6).
Nel giorno di un’incoronazione regale un salmista attesta al nuovo sovrano che Dio ha giurato di costituirlo suo figlio (2 Sam 7,13-14): «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» (Sal 2,7). A sua volta il figlio risponde a Dio che è pronto a compiere la sua volontà, asserisce a cambiare il sacrificio degli animali con l’offerta di se stesso: «Sacrificio ed offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: Ecco io vengo sul rotolo del libro è scritto, di fare il tuo volere» (Sal 40,7-9).
Dio Padre realizza questi annunci, inviando nel mondo il Figlio unigenito, che dall’eternità vive rivolto verso di lui (Ebr 1,5). Lo genera ora nel tempo, pensa a lui, lo accompagna con la sua grazia, riconoscendo la sua origine ed identità. Inoltre nel giorno della gloriosa risurrezione il Padre può dirgli: Io ti ho generato, ti ho ridato una nuova vita, ti ho collocato alla destra del mio trono regale, ti ho conferito l’investitura messianica e ti ho affidato la sovranità su tutto l’universo (At 13,33). Il Figlio, generato nel tempo da Maria vergine, si pone nelle braccia del Padre come un bambino che riposa sicuro nel grembo di sua madre: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Risponde alle premure del Padre celeste, dicendogli di amarlo e compiere la sua volontà fino al punto di accettare la morte di croce (Eb 10,8-10). Il cristiano imita Gesù, che ha obbedito al Padre, ha sacrificato se stesso per onorarlo, si è affidato alla sua bontà e ha atteso di essere glorificato da lui.

Le insidie contro Gesù
Alcuni salmisti condannano l’omertà e la corruzione morale di molti: «Si dicono menzogne l’uno all’altro, labbra bugiarde parlano con cuore doppio» (Sal 12,3). Deplorano coloro che ordiscono turpi intrighi e calunniano il giusto: «Non c’è sincerità sulla loro bocca, è pieno di perfidia il loro cuore» (Sal 5,10). Paragonano le loro aggressioni al morso micidiale dell’aspide: «Sono velenosi come il serpente, come vipera sorda che si tura le orecchie» (Sal 58,5). Equiparano gli insulti dei malvagi ai colpi di spada e alle frecce, tirate con destrezza: «Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare per colpire di nascosto l’innocente; lo colpiscono di sorpresa e non hanno timore. Si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli; dicono: Chi li potrà vedere?» (Sal 64,4-6).
Asseriscono che il giusto, perseguitato e isolato dagli avversari, si affida a Dio, suo pastore, difensore e liberatore: «Custodiscimi come pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra delle tue ali, di fronte agli empi che mi opprimono, ai nemici che mi accerchiano» (Sal 17,8-9); «Signore, libera la mia vita dalle labbra di menzogna, dalla lingua ingannatrice» (Sal 120,1-2); «Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice. Ho detto con sgomento ogni uomo è inganno» (Sal 116,10-11).
Gesù prova il disagio dei giusti e dei perseguitati d’Israele. Innalza ferventi suppliche al Padre suo con la certezza di essere ascoltato. Il Padre celeste esaudisce le grida di suo Figlio. Accoglie anche le suppliche di noi miseri.

L’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, il complotto contro di lui e il tradimento di Giuda
Ogni pellegrino era accolto nel tempio di Gerusalemme con queste parole di benvenuto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Sal 118,26). Gesù, diretto al tempio, è acclamato dalla folla con la medesima espressione salmica (Mc 11,9-10). Alcuni dei presenti se ne sdegnano, ma egli accetta la spontanea acclamazione della gente e la difende, dicendo: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza e contro i tuoi avversari per ridurre al silenzio nemici e ribelli» (Sal 8,3; Mt 21,12-13).
Un salmista si lamenta con Dio, perché gli empi lo circondano, lo oltraggiano e minacciano di ucciderlo: «Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda; quando insieme contro di me congiurano, tramano di togliermi la vita» (Sal 31,14). Gesù sperimenta qualcosa di simile, quando gli avversari complottano contro di lui (Mt 26,3; Gv 18,14).
Alcuni salmisti menzionano un uomo, che all’interno di un gruppo defeziona, inganna e tradisce l’amicizia conviviale: «Ecco, l’empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna» (Sal 7,15); «Egli pensa: non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure. Di spergiuri, di frodi e di inganni ha piena la bocca sotto la sua lingua sono iniquità e sopruso» (Sal 9-10,27-28); «L’empio trama contro il giusto, contro di lui digrigna i denti» (Sal 37,12); «Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangia con me, ha alzato contro di me il calcagno» (Sal 41,10); «Ma sei tu, mio compagno, mio aiuto e mio confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa» (Sal 55,14-15); «Il nemico mi perseguita, calpesta a terra la mia vita, mi ha relegato nelle tenebre come i morti da gran tempo. In me languisce il mio spirito, si agghiaccia il mio cuore» (Sal 143,2-4).
Gesù prova sentimenti di sconforto analoghi ai salmisti, quando Giuda Iscariota lo rifiuta e lo consegna ai sequestranti (Gv 13,18). Continua tuttavia ad amarlo. Se siamo traditi da quelli che abbiamo amato e beneficato, ricordiamo che l’amore vince l’odio.

L’agonia, la cattura e la fuga dei discepoli
Oppressi dalla presenza oscura del male, alcuni salmisti si angosciano e si esortano ad avere fiducia in Dio, difensore degli umili: «Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,12); «L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando?» (Sal 6,4); «Ascolta la mia supplica: ho toccato il fondo dell’angoscia» (Sal 142,7); «Nel mio affanno invocai il Signore, nell’angoscia gridai al mio Dio» (Sal 18,7).
Nel Getsemani Gesù esterna ai tre discepoli lo stesso stato d’animo dei salmisti. Angosciato, prega il Padre, da cui riceve forza, equilibrio e serenità. Si prepara quindi ad incontrare gli avversari, che si dirigono verso di lui, per sequestrarlo .
Un salmista riferisce che alcuni perversi, lo aggrediscono di notte senza possedere una seria motivazione: «Ecco, insidiano la mia vita, contro di me si avventano i potenti. Signore, non c’è colpa in me, non c’è peccato; senza mia colpa accorro e si appostano… ritornano a sera e ringhiano come cani, si aggirano per la città. Ecco, vomitano ingiurie, le loro labbra sono spade» (Sal 59,4-8). Nel buio notturno Gesù è accerchiato e ammanettato irragionevolmente (Gv 18,3).
Altri salmisti parlano della caduta dei loro assalitori e della fuga degli amici, intimoriti da un’improvvisa violenza: «Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere» (Sal 27,2); «Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza» (Sal 38,12.14-15); «Sono l’obbrobrio dei miei nemici, il disgusto dei miei vicini» (Sal 31,12); «Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine, ma nel nome del Signore li ho sconfitti» (Sal 118, 12).
Nell’individuazione di Gesù i sequestranti passano un attimo di incertezza: retrocedono, barcollano, inciampano e cadono (Gv 18,6), mentre gli apostoli fuggono e abbandonano il loro maestro (Mt 26,56). Le persone fedeli a Dio, che si china sui deboli (Sal 18,36), conoscono momenti di angoscia e di coazione. Sperimentano sofferenze simili a quelle che Gesù ha provato nel giorno della sua passione e morte.

L’interrogatorio religioso e il processo politico
Qualche orante menziona i cospiratori, i falsi accusatori e violenti, che si compiacciono di aggredirlo ingiustamente: «Godono della mia caduta, si radunano contro di me per colpirmi all’improvviso» (Sal 35,15); «Contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza» (Sal 27,12); «Sorgevano testimoni violenti, mi interrogavano su ciò che ignoravo, mi rendevano male per bene: una desolazione per la mia vita» (Sal 35,11-12); «Perché le genti congiurano, perché invano cospirano i popoli? Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Messia» (Sal 2,1-2); «Lavo nell’innocenza le mie mani e giro attorno al tuo altare, Signore» (Sal 26,6); «Siedono i potenti, mi calunniano, ma il tuo servo medita i tuoi decreti» (Sal 119,23).
Durante l’interrogatorio religioso e il processo politico Gesù si trova davanti alle legittime autorità. Intervengono persone che lo scherniscono, lo umiliano e lo accusano con malizia. Le sofferenze attestate dai salmisti si attuano anche in Gesù e in tutti coloro che seguono il suo esempio. Non meravigliarcene .

La flagellazione, la crocifissione, le tenebre, l’agonia, la morte e la sepoltura
Alcuni oranti accennano alle violenze subite e raccontano i tormenti del giusto perseguitato, schernito e percosso, ma fiducioso in un potente intervento di Dio: «Hanno arato gli aratori, hanno fatto lunghi solchi» (Sal 129,3); «Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto» (Sal 69,22); «Molti contro di me insorgono. Molti di me vanno dicendo: Neppure Dio lo salva!» (Sal 3,2-3); «Dicono insolenze contro il giusto con orgoglio e disprezzo» (Sal 32,19); «Si è affidato nel Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico» (Sal 22,9); «Sono diventato loro oggetto di scherno, quando mi vedono scuotono il capo» (Sal 109,25); «Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza» (Sal 38,12); «Mandò le tenebre e si fece buio, ma resistettero alle sue parole» (Sal 105,28); «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente» (Sal 42.3); «Sono sfinito dal gridare, riarse sono le mie fauci» (Sal 69,4); «Si dissolvono in fumo i miei giorni e come brace ardono le mie ossa. Il mio cuore abbattuto come erba inaridisce, dimentico di mangiare il mio pane. Per il lungo mio gemere aderisce la mia pelle alle mie ossa» (Sal 102,4-6); «Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 141,2); «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 31,6); «Molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore: preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato» (Sal 34,21); «Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai privo di forza. È tra i morti il mio giaciglio, sono come gli uccisi stesi nel sepolcro» (Sal 88,5-6).
Consegnatosi nelle mani degli uomini, Gesù conosce le sofferenze della flagellazione, della crocifissione, della sete, degli scherni e della solitudine. Dopo la morte riceve una sepoltura regale e termina il suo cammino di abbassamento . La storia di ogni martire della fede o della carità ha delle evidenti connessioni con la sua morte.

Il salmo 22 (21) e 69 (68)
Nei salmi 22 e 69 un giusto racconta che dei nemici minacciano di aggredirlo e di ucciderlo. Angosciato, supplica Dio di intervenire e di liberarlo dal pericolo mortale. Presagendo di essere ascoltato, promette a Dio di elevargli inni di lode. I due salmi hanno un valore messianico. Si realizzano pienamente nella passione, nella morte e nella glorificazione di Gesù. Esponiamo separatamente il contenuto di entrambi.
Il salmo 22 è un’ampia lamentazione individuale, che ha delle relazioni con il linguaggio usato da Geremia, da Ezechiele e dal Servo sofferente. L’orante è forse un ammalato grave, disprezzato dai nemici. Profondamente desolato, ha l’impressione che Dio lo ignori. Si sente separato e lontano da lui, ma non ha perduto la fiducia nel suo solerte soccorso. Gli chiede quindi il motivo della sua apparente ed illogica assenza: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!» (Sal 22,1). Descrive poi le sue sofferenze fisiche e morali con una serie d’immagini. Attesta che alcuni potenti nemici, simili a bestie feroci, lo assalgono, lo torturano, lo spogliano, lo trafiggono, lo privano d’ogni dignità, lo scherniscono e lo riducono ad una nullità. Grida pertanto a Dio la sua opprimente angoscia: «Io sono un verme, non un uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico…Hanno forato le mie mani ed i miei piedi, posso contare le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte» (Sal 22,7-9; 17-19).
Ricorre ad immagini impressionanti e sconvolgenti: «Il mio cuore è come cera, si fonde in mezzo alle mie viscere. È arido come coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola, su polvere di morte mi hai deposto» (Sal 22,15-16). Agli estremi della sofferenza si affida a Dio, suo unico difensore e salvatore. Gli domanda di liberarlo dall’imminente e orribile morte. Passato il temuto pericolo, potrà vivere per lui, mangiare assieme a tutta la comunità di fede, esultare nel suo nome, elevargli inni di lode (Sal 22,30), inoltre i suoi discendenti racconteranno quanto egli ha compiuto e lo ringrazieranno e: «Lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: “Ecco l’opera del Signore!”» (Sal 22,31-32).
Il salmo annuncia il cammino di Gesù, giusto rifiutato, crocifisso, risorto e glorificato. Infatti, una furiosa bufera d’odio si abbatte su di lui nel giorno della sua passione. Appeso alla croce, ha l’impressione che il Padre celeste, grande nell’amore, lo abbia abbandonato in balia dei nemici coalizzati e induriti. Dilaniato, grida al Padre il suo tormento, aspetta che lo esalti all’alba pasquale e lo ringrazia in anticipo (Mt 27,46; Mc 15,34). Ricevuta l’effusione dello Spirito Santo, gli apostoli e gli evangelisti comprendono il senso profetico della Scrittura. Nei loro racconti pasquali dimostrano che questo salmo si compie perfettamente in Gesù .
I Padri della Chiesa spiegano i salmi, attribuendoli a Gesù. Pertanto sant’Agostino commenta il salmi 22: «Queste parole indicano bene il corpo del Cristo disteso sulla croce, le sue mani ed i suoi piedi confitti e trapassati dai chiodi, il suo supplizio offerto in spettacolo a quelli che lo guardavano e lo disprezzavano» . Commentando la stessa preghiera, precisa: «In questo salmo ascoltiamo tutto ciò: quello che ha sofferto e perché (ha sofferto). Tenete a mente questi due elementi, che cosa e perché… Chiusa era la Scrittura e nessuno la intendeva; il Signore è stato crocifisso e…tutto ciò che era occulto ci è stato rivelato» .
Passiamo al salmo 69, che rispecchia le sofferenze del profeta Geremia. Un orante teme di morire, vittima di una grave malattia o di una spietata persecuzione. Attesta che dei potenti senza scrupoli, assieme ad altre persone, lo odiano, lo isolano e lo opprimono, recandogli immensa sofferenza: «Più numerosi dei capelli del mio capo sono coloro che mi odiano senza ragione» (Sal 69,5). Lo accusano di rapina e lo insultano, mentre egli ha lealmente testimoniato il suo ardente zelo nel servizio cultuale: «Poiché mi divora lo zelo per la tua casa, ricadono su di me gli oltraggi di chi mi insulta» (Sal 69,10-11). Lotta solitario contro i suoi denigratori e torturatori, aspettando inutilmente un gesto di compassione: «Ho atteso compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati. Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto» (Sal 69,21-22). Immerso in un’immensa sofferenza fisica e morale supplica Dio, buono e fedele (Sal 69,4.11-12). Con insistenza gli chiede di punire quelli che lo perseguitano. Gli domanda anche la liberazione dalla solitudine, dalla calunnia, dalla violenza, dalla morte e dalla sepoltura (Sal 69,25-29). Conclude la preghiera, presagendo che Dio lo soccorrerà, gli toglierà le assurde persecuzioni e lo ristabilirà nella giustizia. Gli promette quindi che trasformerà il suo lamento in un gioioso inno di lode: «Io sono infelice e sofferente; la tua salvezza, Dio, mi ponga al sicuro. Loderò il nome di Dio con il canto, lo esalterò con azioni di grazie» (Sal 69,30-32). Invita infine i giusti e tutte le creature ad associarsi al suo ringraziamento: «Vedano gli umili e si rallegrino. A lui acclamino i cieli e la terra, i mari e quanto in essi si muove» (Sal 69,33.35).
Questa preghiera ha parecchie connessioni con la passione di Gesù. Infatti, durante l’ultima cena egli si rattrista per l’imminente abbandono dei suoi discepoli: «Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo» (Gv 16,32). Nel Getsemani rimprovera gli apostoli prediletti di essersi lasciati sopraffare dal sonno e di non aver pregato con lui: «Poi tornò dai discepoli che dormivano. E disse a Pietro: Così non siete capaci di vegliare un’ora sola con me?» (Mt 26,40). Nell’agonia della croce, mentre dà diversi segni d’infinito amore, patisce il rifiuto, la solitudine, la sete e gli scherni . Tuttavia non impreca contro nessuno, né implora la vendetta sui suoi aguzzini. Invoca bensì su di loro il perdono e la salvezza. Elevato alla gloria della risurrezione, innalza al Padre celeste un perenne inno di lode ed è per tutti gli umili un segno di speranza.
Nel commento a questo salmo sant’Agostino elabora la seguente applicazione cristologica ed ecclesiologica: «Qui parla Cristo… e parla non solo come capo, ma anche come corpo. Queste parole si adempiono alla lettera. Non ci è qui concesso di intendere alcunché di diverso. Anche gli Apostoli, parlando di Cristo, citano le testimonianze di questo salmo. E chi oserà allontanarsi dalle loro parole? Quale agnello non seguirà gli arieti? È certo dunque che qui parla Cristo. A noi piace mostrare dove di preferenza parlino le sue membra, onde documentare che qui parla il Cristo totale» .
I due salmi sono inseriti nel Lezionario liturgico come pure nell’Ora media di ogni venerdì della terza settimana e nell’Ufficio delle letture del Venerdì Santo. Mediante queste preghiere i cristiani contemplano le fasi più dolorose della storia di Gesù; si uniscono alla sua supplica e alla sua lode a Dio; si associano parimenti al grido d’angoscia e di lode di tutti i sofferenti. Attendono quindi fiduciosi la redenzione eterna.

La gloriosa risurrezione di Gesù
Un gruppo di salmisti loda Dio, per aver donato una nuova vita al suo eletto. Dio, infatti, «ha infranto le porte di bronzo ed ha spezzato le sbarre di ferro» (Sal 107,16). Si è rivolto a lui e gli ha detto: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (Sal 110,1). Gli ha conferito una sovranità regale e sacerdotale, dicendogli: «Tu sei sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedech» (Sal 110,4).
L’eletto ha risposto all’intervento divino, evocando il suo cammino di abbassamento e di esaltazione, di dolore e di gloria: «Tutti i popoli mi hanno circondato ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi hanno circondato, mi hanno accerchiato ma nel nome del Signore li ho sconfitti» (Sal 118,10-11); «In questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima, anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuio santo veda la corruzione… gioia piena nella tua presenza, dolcezza sena fine alla tua destra» (Sal 16,9-11); «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato, gli ha dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal 8,4-7); «Io sono con te sempre: tu mi hai preso per la tua mano destra» (Sal 73,23); «Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato e su di me non hai lasciato esultare i nemici. … Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi… Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino ecco la gioia» (Sal 30,2.4.6).
I salmisti invitano inoltre i propri connazionali ad associarsi alla loro preghiera e a lodare Dio per aver liberato il suo eletto dai vincoli della morte: «Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra» (Sal 96,1). «Celebrate il Signore, perché egli è buono; perché eterna è la sua misericordia. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo» (Sal 118,1.22-24); «Vita ti ha chiesto, a lui l’hai concessa, lunghi giorni in eterno, senza fine» (Sal 21,5); «Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro giusto lo scettro del tuo regno» (Sal 45,7); «Dite tra i popoli: “Il Signore regna!”. Sorregge il mondo, perché non vacilli; giudica le nazioni con rettitudine» (Sal 96,9-10).
Gesù, re e sacerdote, conosce una storia simile a quella che emerge da queste preghiere. Gli uomini lo insultano, lo condannano a morte, lo crocifiggono, lo seppelliscono in una tomba nuova al tramonto del sole. Dio tuttavia lo esalta nelle prime ore del mattino e lo costituisce sovrano universale ed eterno . Pieno di vita, il Risorto loda incessantemente il Padre, per averlo innalzato accanto a sé. Ora guarda e controlla tutto il genere umano. Indica a tutti l’accesso finale della vita terrena. Invita ognuno ad adorare e glorificare Dio onnipotente, che tramuta il lamento in danza, l’ingiustizia in liberazione, l’oppressione in esultanza.
I Padri della Chiesa esortano i cristiani a celebrare con gioia e riconoscenza la Pasqua di risurrezione. Commentando i versetti del salmo 30,2.4.6 san Basilio spiega che dopo l’oscurità arriva la luce del mattino e aggiunge: «Ricorda il tempo della passione del Signore e capirai il significato di questo verso. A sera infatti dimorò il pianto presso i discepoli del Signore, quando lo vedevano crocifisso; ma al mattino ci fu letizia, quando, dopo la risurrezione, correvano con gioia a scambiarsi la buona novella dell’apparizione del Signore» .

Il servizio prestato dai piedi – Sant’Ambrogio; Sant’Agostino

http://www.prayerpreghiera.it/padri/padri.htm

Il servizio prestato dai piedi

Perché ricordate il servizio prestato dai piedi, che sorreggono tutto il corpo senza soffrire minimamente sotto il suo peso? Il ginocchio è pieghevole, e più di ogni altra cosa placa il Signore offeso, ne addolcisce l`ira e ne ottiene la grazia. Il dono del sommo Padre al Figlio è che nel nome del Signore Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua professi che è Signore Gesù nella gloria di Dio Padre (Fil 2,10-11). Due sono infatti le cose che soprattutto piacciono a Dio: l`umiltà e la fede. Il piede esprime l`umiltà dell`animo e assidua servizievolezza; la fede considera il Figlio uguale al Padre e professa che la gloria dei due è identica. E con ragione l`uomo non ha un grande numero di piedi, ma solo due. Le fiere selvagge e gli animali ne hanno quattro; gli uccelli ne hanno due; così l`uomo è come un uccello, che deve fissare il suo sguardo in alto e con la forza di pensieri eccelsi deve innalzarsi come su ali. Perciò è detto di lui: La tua giovinezza si rinnoverà come quella delle aquile (Sal 102,5). Più dell`aquila è vicino al cielo, e più ardito nel suo volo è colui che sa dire: Il nostro soggiorno è nel cielo (Fil 3,20).

Ambrogio, Esamerone, 6,74

La somiglianza a Dio si custodisce con l`umiltà
Come infatti il serpente striscia non con passi decisi, ma con minutissimi movimenti delle squame, così il moto all`ingiù trascina i negligenti a poco a poco, cominciando da un perverso desiderio di somigliare a Dio, e giungendo alla somiglianza con gli animali. Perciò gli uomini, privati della prima veste, meritarono di portare la tunica di pelle della mortalità. Il vero onore dell`uomo è di essere a immagine e similitudine di Dio, immagine che non si conserva se non andando verso Colui dal quale è impressa. Tanto più dunque si aderisce a Dio, quanto meno si ama il bene proprio. Ma per brama di sperimentare il suo potere, l`uomo cade in se stesso, per un suo capriccio, come a un grado intermedio; così, non volendo restar sottomesso a nessuno, in castigo, viene precipitato dallo stesso grado intermedio che è lui stesso, fino a ciò che v`è di più basso, cioè a quello di cui si allietano gli animali.

Agostino, La Trinità, 12,16

L`amore per le realtà eterne è un giogo soave
Quale grave sacrificio impone la vita eterna ai suoi amanti, quando esige di essere amata allo stesso modo che questa nostra vita è amata dai suoi innamorati? E` forse cosa degna o almeno tollerabile che, mentre si trascurano tutte le cose che si amano nel mondo per poter conservare la vita destinata dopo un breve spazio a finire, per conservarla – dico – almeno per quel breve spazio nel mondo, non si disprezzi egualmente il mondo, per conseguire la vita che è senza fine presso colui dal quale fu creato il mondo? Or non è molto, quando Roma medesima, sede della potenza più famosa del mondo, era devastata dall`invasione dei barbari [i visigoti condotti da Alarico, nell`anno 410], quante persone innamorate di questa vita temporale, pur di prolungarla nell`infelicità e riscattarla nella miseria, donarono tutti i beni che avevano in serbo non solo per renderla piacevole e bella, ma per sostentarla e proteggerla? Certo gli innamorati sono soliti recare molti doni alle donne che amano, per possederle; costoro invece non possederebbero la loro amata, se amandola non l`avessero resa povera, né le farebbero molti doni, ma piuttosto la spoglierebbero di tutto, per non farsela portare via dal nemico. Ma io non voglio biasimare la loro perspicacia: chi ignora infatti che essa sarebbe perita se non fossero stati distrutti quei beni già messi in serbo per lei? Con tutto ciò, alcuni hanno perso prima questi tesori e subito dopo l`amata; altri, pur disposti a perdere ogni bene per amore di lei, l`hanno persa prima. Da questi esempi dobbiamo trarre monito per ricordarci quali ardenti innamorati dobbiamo essere della vita eterna, sì da disprezzare, per amore di essa, ogni cosa superflua, dal momento che per questa vita transitoria furono disprezzati perfino i beni ad essa indispensabili.
Noi invece non spogliamo, come fanno quelli, la nostra amata per conservarla, ma, per ottenere la vita eterna, facciamo servire la vita temporale come un`ancella più libera da impedimenti, se non la teniamo legata con vincoli di ornamenti inutili e non l`appesantiamo con fardelli di pensieri dannosi, ma porgiamo ascolto al Signore, che ci promette nel modo più veridico la vita eterna degna d`essere desiderata con ardentissimo amore e che ci grida come in un`assemblea di tutto il mondo: Venite da me, voi tutti che siete affaticati e stanchi e io vi ristorerò. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore, e troverete pace per le anime vostre; poiché il mio giogo è soave e il mio carico è leggero (Mt 11,28-30). Questa lezione di santa umiltà scaccia dall`animo la vana e torbida cupidigia, avida di beni non sottoposti al nostro potere, e in qualche modo la fa esalare. Ci si affanna infatti quando si ricercano e amano molti beni, per il cui acquisto e possesso non è sufficiente la volontà, poiché non ha il potere necessario a raggiungerli. La vita giusta, invece, noi l`abbiamo quando la vogliamo, giacché il volerla pienamente è già la giustizia, e la giustizia, per essere perfetta, non richiede altro che una perfetta volontà. Guarda se c`è fatica, dove è sufficiente il volere.
Ecco perché divinamente fu detto: Pace in terra agli uomini di buona volontà (Lc 2,14). Dov`è pace, ivi è tranquillità, ivi è il termine di ogni desiderio e non c`è alcun motivo di penare. Ma a far sì che questa volontà sia piena, occorre che sia sana; sarà sana poi se non respingerà il medico per grazia del quale soltanto può esser risanata dal male di desideri nocivi. Orbene, il medico è proprio colui che ad alta voce proclama: Venite da me voi tutti che siete affaticati, e dice che il suo giogo è dolce e lieve il suo peso, poiché quando per mezzo dello Spirito Santo sarà stata diffusa la carità nei nostri cuori (cf. Rm 5,5), si amerà certo ciò che ci verrà comandato; il giogo di Cristo non sarà duro né gravoso, se sotto questo unico giogo quanto meno superbamente tanto più liberamente serviremo Dio. Questo è l`unico fardello da cui il portatore non è aggravato, ma alleviato. Se si ama la ricchezza, venga custodita là dove non può perire; se si ama l`onore, lo si riponga là dove non è onorato se non chi lo merita; se si ama la salute, si aspiri a conseguirla là dove per essa non si teme più quando si sia ottenuta; se si ama la vita, la si acquisti là dove non è troncata da nessuna morte.

Agostino, Le Lettere, II, 127,4-5 (ad Armentario e Paolina)

PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO – di GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/vita/0706vp/0706vp93.htm

(non trovo la data, ma di Gianfranco Ravasi è scritto « Prefetto della Biblioteca Ambrosiana »)

Nella Sacra Scrittura -

PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO

di GIANFRANCO RAVASI

Il senso profondo della fragilità umana percorre tutta la Bibbia, a partire dalla caducità strutturale della creatura. A tal proposito la Genesi non lascia dubbi: l’uomo è polvere e torna alla polvere; è precario perché è finito. Ma c’è anche il risvolto delle responsabilità personali, delle miserie umane. La fragilità peccatrice, però, non è condannata: Cristo cerca chi si è perduto.
È quasi impossibile, pur sfogliando tutti i dizionari biblici nelle principali lingue, imbattersi in una voce dedicata alla « fragilità ». La parola deriva dalla radice arcaica frag-, che ha dato origine a una costellazione di vocaboli latini e italiani come « (in)frangere », « naufrago », « frammento », « fragore », « frutta », « frattaglia », « frazione » « frattura » e così via.
C’è, dunque, qualcosa di spezzato alla base, proprio perché quella realtà è debole, fallace, gracile, precaria. È per questa via, di taglio più esistenziale, che è possibile isolare nella Sacra Scrittura il senso profondo della fragilità umana. Anzi, si ha la possibilità di individuare una vera e propria radice fondamentale della stessa antropologia biblica. Due sono i profili di questa labilità:

1 La finitudine
C’è innanzitutto la caducità strutturale della creatura, precarietà legata alla sua finitudine. Giobbe usa un’immagine folgorante: «L’uomo è ospite di una casa di fango, fondata sulla polvere, pronta a cedere al tarlo» (4,19). L’essere profondo, spirituale e intellettuale dell’uomo è deposto, come dirà il libro della Sapienza, in «una tenda d’argilla» (9,15). Qohelet con l’implacabile provocazione delle sue rilevazioni classificherà l’intero essere creato sotto quel vocabolo impietoso hebel, ossia « soffio, fumo, vuoto » e, riprendendo l’antica lezione della Genesi (3,19), concluderà amaramente: «Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere» (Qo 3,20).
Un monito che percorrerà anche la preghiera di Israele, se è vero che ripetutamente sentiamo i salmisti presentarsi davanti a Dio così: «In pochi palmi hai misurato i miei giorni, la mia esistenza davanti a te è un soffio. Solo un soffio è l’uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa, solo un soffio che si agita. [...] Sì, sono un soffio i figli di Adamo; insieme sulla bilancia, sono meno di un soffio. [...] Essi sono carne, un soffio che va e non ritorna. [...] L’uomo è come un soffio, i suoi giorni sono un’ombra che passa» (Sal 39,6-7; 62,10; 78,39; 144,4). Molte sono le immagini che tratteggiano questa fragilità radicale dell’essere umano. La più comune e fragrante è quella dell’erba: «Sono come l’erba che germoglia al mattino; all’alba fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca», canta ancora il Salmista (90,5-6).
A lui fa eco Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo: secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi» (40,6-7). Ma anche san Pietro nella sua Prima lettera contrapporrà alla Parola divina, ferma, stabile e indistruttibile, «i mortali che sono come l’erba e ogni loro splendore è come fiore d’erba: l’erba inaridisce e i fiori cadono; solo la parola del Signore rimane in eterno» (1,24-25).
C’è, dunque, una prima fragilità che è legata al limite creaturale, al nostro essere prigionieri del tempo che finisce e dello spazio che ci circoscrive. In questa luce si delineano tante figure che rivelano la consapevolezza della loro debolezza strutturale, dell’avere – per usare una celebre immagine paolina – «un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7).
Pensiamo, ad esempio, a Mosè e al suo reiterato tentativo di sottrarsi alla sua missione, nella certezza di una impreparazione e di un ostacolo di fondo: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato prima, sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Così Geremia non esiterà a obiettare: «Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (1,6). E lo stesso Salomone, nella notte antecedente alla sua intronizzazione, confessa a Dio: «Sono un ragazzo e non so come regolarmi» (1Re 3,7). Dopo tutto, l’intero popolo d’Israele nella sua storia secolare rivela un’immaturità sostanziale, a partire dalla nostalgia della schiavitù, pur di non rischiare l’avventura della libertà nel deserto e nella ricerca della terra promessa.
Gesù nella sua predicazione ha illustrato in modo vigoroso l’instabilità soprattutto dei giovani. Chi non ricorda la scenetta dei ragazzi che non s’accordano sul gioco da fare in piazza, se mimare un funerale o un matrimonio, e così perdono il tempo del divertimento (Mt 11,16-17)? Oppure, come non evocare la vicenda dei due figli difficili della parabola di Matteo 21,28-31, l’uno tutto parole e niente fatti e l’altro sgarbato e sguaiato ma alla fine buono?
È impressionante, ma proprio sulla base della verità dell’incarnazione, anche Cristo è rappresentato fragile nel momento della morte, quando implora il Padre di evitargli quel calice avvelenato (Mc 14,36) e la Lettera agli Ebrei non esita a dichiarare che Gesù «È in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza» (5,2). Similmente san Paolo, che ci ha lasciato nel cap. 7 della Lettera ai Romani un ritratto vigoroso della frattura profonda dell’anima umana, si vedrà costretto a «vantarsi della sua debolezza», riconoscendo la sua fragilità (2Cor 11,30) e la spina che lo tormenta nella carne e nella vita.

2 La peccaminosità
A questo punto c’è da lasciare spazio all’altro profilo della finitudine creaturale, quello della sua peccaminosità. Non bisogna, infatti, ignorare che la pagina di antropologia che apre la Bibbia e ne costituisce il punto di riferimento capitale (Gen 2-3) comprende proprio la « frattura » delle tre relazioni costitutive dell’essere adam, ossia uomini: quella che intercorre con Dio dal quale si riceve la vita, la libertà e la coscienza; il rapporto col proprio simile, incarnato dalla donna; e infine il nesso con la materia, col creato, con gli animali.
Ecco, infatti, dopo il peccato, l’uomo espulso dal giardino del dialogo intimo con Dio; eccolo prevaricare sul prossimo, a partire dal dominio sulla donna (3,16) per giungere al fratricidio di Caino e alla prepotenza di Babele; ecco, infine, la dissociazione dell’uomo con la terra che si ribella generando «spine e cardi» (3,18).
Questa onda limacciosa lambisce tutta l’umanità e la storia biblica è una lunga vicenda di debolezze, di miserie, di fallimenti, di tradimenti, come per altro sarà la trama costante della storia umana. La fragilità peccatrice colpisce anche le grandi figure: pensiamo a Davide che per il corpo e il fascino di una donna, Betsabea, si trasforma in adultero e in assassino (2Sam 11-12) o alla ribellione tragica di suo figlio Assalonne o all’altro suo figlio e successore, il grande Salomone, che invecchia lasciandosi corrompere dal suo harem (1Re 11,1-13); oppure (tanto per scegliere a caso un altro esempio) la meschina figura rimediata dai due anziani vogliosi che attentano alla fedeltà di Susanna (Dn 13).
La gamma delle debolezze morali umane è quasi del tutto perlustrata dalle Sacre Scritture, a partire proprio da un Israele sistematicamente sedotto dall’idolatria (si legga la celebre e veemente pagina simbolica di Ez 16). Noi vorremmo solo evocare un tratto molto specifico di questa variegata fragilità, cioè la tipologia del tradimento e del relativo fallimento. Forse è poco nota la storia di Achitofel, consigliere di Davide che decide di passare nel campo avverso del ribelle Assalonne e che, alla fine, vistosi a sua volta tradito e perduto, «andò a casa sua nella sua città, sistemò i suoi affari familiari e s’impiccò» (2Sam 17,23). E naturalmente in dissolvenza vediamo profilarsi la tragedia di Giuda, traditore e suicida.
Ma ci sono anche debolezze meno clamorose ma altrettanto umilianti e infami: Pietro in quella notte, nel cortile del palazzo sinedrale, non esita – per evitare rischi personali – a spergiurare senza pudore: «Non conosco Gesù! Non sono un suo discepolo! Non so quello che dite!» (Lc 22,54-62).
Si potrebbe a lungo infierire sulle miserie della fragilità, soprattutto quando essa sconfina nella sua superficialità, nella tiepidezza incolore, quell’atteggiamento che suscita il « vomito » di Cristo, come si dichiara nella celebre invettiva dell’Apocalisse contro la Chiesa di Laodicea (3,15-16). Tuttavia non bisogna mai dimenticare che l’ultima parola divina nei confronti della fragilità creaturale e morale dell’umanità non è mai la condanna aspra e implacabile. Cristo va per monti e dirupi a cercare la pecorella smarrita, stando accanto a peccatori, pubblicani e prostitute.
Il Padre celeste è sempre sulla soglia di casa per riabbracciare quel figlio prodigo, debole e moralmente sfibrato per riportarlo alla vita, alla gioia, alla speranza, alla certezza di essere sempre amato. Nessuno è mai perduto, purché si lasci liberare e risollevare da Colui che «è venuto proprio per cercare chi era perduto», che è giunto in mezzo a noi non per badare ai sani ma ai malati, ai deboli, ai peccatori.

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