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« E VOI, CHI DITE CHE IO SIA? » FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI – RAVASI

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« E VOI, CHI DITE CHE IO SIA? »  FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI – RAVASI

Gianfranco Ravasi

«Il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Queste parole, che raffigurano in modo limpido e immediato ogni esperienza di incontro e di scontro con Cristo, sono di uno scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, Mario Pomilio, che le ha poste all’interno del suo Quinto evangelio. Ebbene, quella domanda affiorata sulle labbra di Gesù a Cesarea di Filippo non attraversa solo i secoli ma riecheggia nell’intimità di ogni persona. E la risposta è data in mille forme, talora sorprendenti, altre volte sconcertanti. A me ha sempre fatto impressione quella che Kafka ha offerto all’amico Gustav Janouch: «Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi». Modesta e marginale, la mia testimonianza – come per quella di altri – può risultare impacciata proprio perché la domanda artiglia la coscienza nel suo segreto e « pesca » in quella profondità dove domina il silenzio personale, l’intimità, forse anche l’inesprimibile. Due considerazioni sono, però, possibili e immediate. Innanzitutto la mia esperienza è quella di un credente e di un sacerdote, cioè di una persona che ha pur sempre coinvolto se stessa, la sua identità, la sua vicenda umana intrecciandola con quella di Gesù Cristo. In questa dimensione l’elemento fondamentale è paradossalmente esterno all’ « io » del testimone. È illuminante in questo senso Paolo quando descrive la sua « via di Damasco » usando due verbi di rivelazione e uno di lotta: «Cristo è apparso anche a me (…) Dio si degnò di rivelarmi suo Figlio (… )Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Corinzi 15,8; Galati 1,16; Filippesi 3,12). Detto in altri termini, all’inizio dell’incontro con Cristo c’è « un’epifania », cioè non la mia ricerca ma il suo apparire. Per questo un filosofo credente come Soeren Kierkegaard alla data 16 agosto 1839 del suo Diario invocava: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei travisamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini!». Nella mia esperienza interiore c’è proprio questo svelarsi del divino non tanto su una via folgorata dalla voce celeste, come per Paolo, quanto piuttosto in una serie di pacate e delicate « epifanie » che affiorano fin dall’infanzia. E curiosamente esse si insediano in uno spirito che portava con sé – allora in forma intuitiva ed esile – già un senso intenso della fragilità della vita e delle cose, del fluire del tempo e dell’inconsistenza della realtà. Davanti a un frutto che si decomponeva, al fischio di un treno che lacerava la notte e si spegneva, al primo incontro con la morte, alle sofferenze della guerra, al padre assente perché perseguitato politico, nel mio animo infantile non cresceva la desolazione o la tristezza naturale ma lentamente si configurava quell’ « epifania » inattesa e ancora informe. È stato ancora Paolo a farmi capire in seguito questo contrasto e la sua pacificazione quando, stupendosi lui stesso delle parole di Isaia (« il profeta osa dire ») scriveva questa « confessione » divina: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me!» (Romani 10,20). Prima della risposta alla domanda « Ma voi, chi dite che io sia? », Cristo aveva per me (e per tutti) già detto chi egli realmente fosse. In principio c’è, dunque, la sua parola che ti scuote e sconcerta. Certo è sempre possibile rivolgere altrove lo sguardo e ostruire l’orecchio con altre voci e suoni e questa è pure una storia mia e un po’ di tutti nell’itinerario degli anni, nei percorsi non sempre lineari della vita. Per questo ritengo altrettanto capitale un’altra domanda di Gesù, quella di Cafarnao. Essa è diventata il titolo di una « vita di Cristo » di un altro scrittore a me particolarmente caro, Luigi Santucci: Volete andarvene anche voi? E’ un interrogativo che viene fatto serpeggiare tra i discepoli proprio dopo una grande « epifania », quella della continua presenza di Cristo sotto il segno del pane e del vino eucaristici. Un interrogativo che non sempre ha la pronta replica di Pietro: «Da chi mai andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!». Tuttavia anche se si va altrove, Cristo non cessa di seguirci, con discrezione o con insistenza. Quando in seguito mi dedicai allo studio teologico, mi fece impressione una frase di Dietrich Bonhoeffer, il teologo ucciso dai nazisti, che nella sua Cristologia annotava: «Cristo non è tale in quanto Cristo-per sé, ma nel suo riferimento a me. Il suo esser-Cristo è il suo esser-per me». Nella mia storia personale c’è, però, una seconda dimensione che devo mettere in luce ed è quello dell’essere stato un esegeta, cioè uno studioso delle Scritture Sacre e quindi delle parole evangeliche di Cristo. Già da ragazzo – avevo cominciato a studiare il greco da solo subito dopo le scuole elementari – mi avevano affascinato quelle 64327 parole greche che compongono i quattro Vangeli. In seguito quei versetti furono da me sempre più approfonditi; scoprivo nuove iridescenze in ogni termine e lentamente si configurava un profilo di Cristo che coniugava in sé due fisionomie. Da un lato, c’era la figura di Gesù di Nazareth, il rabbì ambulante le cui labbra dicevano cose sorprendenti ma in una lingua « barbarica » e concreta, le cui mani compivano gesti straordinari ma non « pubblicitari », i cui piedi seguivano una meta grandiosa e celeste ma calpestavano le polverose strade della Palestina, i cui interlocutori erano spesso un’accolta di miserabili o di altezzosi burocrati del sacro e della legge e persino dei traditori. Mi ha a lungo interessato – per usare una terminologia più « tecnica » – il Gesù storico, così come è rintracciabile attraverso l’analisi critica dei testi evangelici. D’altro lato, però, c’è la figura di Cristo, Figlio di Dio, che offre un volto illuminato dallo splendore della Pasqua. I Vangeli sono innanzitutto un canto al risorto che sboccia dall’incontro con lui, dalla fede e dall’annuncio gioioso. Mi sono, perciò, impegnato nel sottolineare, anche attraverso i miei scritti, le conferenze e una quasi decennale presenza televisiva, questo aspetto che in passato era talmente dominante da diventare esclusivo, così da cancellare il volto storico di Cristo, ma che in questi ultimi tempi è stato quasi messo tra parentesi. Prima una certa visione « sociologica », poi una concezione storicistica e apologetica si è protesa a dimostrare il Gesù storico, nella convinzione che solo così si fondasse la vera Cristologia. Ebbene, Gesù Cristo è uno ma in due nature; ogni divisione lo impoverisce e lo allontana. Egli è uno di noi e con noi ma è anche oltre noi e sopra di noi. E’ per usare il vocabolario di Giovanni, Logos, « parola » perfetta e suprema divina, ed è sarx, « carne » e storia. Conservare l’unità di Gesù Cristo, senza scindere la sua persona in un Gesù nazaretano e in un Cristo pasquale è un compito importante di chi annunzia il Vangelo con fedeltà. Lo studio esegetico, perciò, non è un freddo esercizio filologico (anche se suppone uno scavo nel testo con rigore e finezza). E’ anche un’avventura del nostro spirito che è invitato a rispondere alla domanda di Cesarea da cui siamo partiti. Mi è sempre piaciuta una frase del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: «Ho voluto indagare i contorni di un’isola; ma ciò che ho scoperto sono i confini dell’Oceano». Si comincia conoscendo un linguaggio concreto, una figura datata e circoscritta a quell’antica provincia dell’Impero romano, eventi e dati storici, ma alla fine ci si accorge che quella persona è immersa nell’Oceano della divinità, è appunto « il Cristo, il Figlio del Dio vivente », come rispose in quel giorno Pietro, figlio di Giona. (Cenni biografici – Gianfranco Ravasi, nato nel 1942, sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di esegesi Biblica alla facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione Biblica. Scrittore prolifico, è autore di numerosissimi libri e di trasmissioni televisive. cura la rubrica « Mattutino » nella prima pagina del quotidiano Avvenire).

LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA

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LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA

LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA dans CHIESA ORTODOSSA Grandeven

Il Grande Venerdì: l’ostensione e l’adorazione della Croce nella celebrazione del Mattutino

Secondo il Cristianesimo ogni Domenica è Pasqua. Questa comprensione è vissuta in modo particolare all’interno dell’Ortodossia. L’evento pasquale della morte e Resurrezione del Signore non viene concepito come un dogma al quale semplicemente credere ma fa parte della vita spirituale del fedele e trova continuo riscontro nella liturgia della Chiesa. Ancora oggi la Pasqua, festa delle feste, ha una solennità particolare. Lungo tutto il periodo della Grande e Santa Settimana che precede la Domenica di Resurrezione la Chiesa Ortodossa celebra ogni giorno delle lunghe liturgie nelle quali commemora con alta poesia e pathos la passione e morte del Signore. I segni e i simboli presenti sono pieni di forza e di significato. Fiori, foglie, acqua, processioni, incensazioni, canti, prosternazioni sono solo alcuni degli elementi inseriti nella liturgia che chiunque può osservare visitando una chiesa ortodossa nel periodo della Grande e Santa Settimana. Perfino a livello sociale in un Paese ortodosso la Pasqua crea un’atmosfera di particolare festività paragonabile pressapoco a quella che si sente in Italia nel periodo natalizio. La Chiesa ortodossa crede che Cristo abbia sofferto veramente come uomo e, come tale, sia morto e risorto. Tale morte e resurrezione non riguarda solo Lui ma, in Lui, viene associata tutta l’umanità passata e futura. L’iconografia con la quale si rappresenta la discesa di Cristo agli inferi è, in tal senso, particolarmente significativa. Cristo calpesta le porte dell’Ade e riporta alla vita Adamo ed Eva strappandoli dal luogo in cui stavano. Dio irrompe nel dominio usurpato dal demonio e distrugge il suo potere sull’umanità. La morte viene distrutta. Così, per l’Ortodossia, chiunque vive e muore in Cristo ha modo di pregustare quella vita nuova situata nell’orizzonte dell’eternità. La morte rimane certamente come fenomeno fisico ma non domina l’uomo come destino inevitabile e definitivo. A tal fine San Giovanni Crisostomo dice: “È vero, noi moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il potere e la forza reale della morte è soltanto questo: che un uomo non ha alcuna possibilità di ritornare alla vita. Questo concetto era ben chiaro alla Cristianità primitiva al punto che i martiri andavano incontro alla morte con serenità non avendone paura: avevano pregustato che la morte era stata vinta e che esisteva una vita dopo di essa! Non avevano più timore della morte fisica. Tale convinzione era così forte che se c’era qualche timoroso si pensava che costui avesse ripudiato il proprio battesimo o non fosse ancora stato battezzato. Chi è già morto con Cristo nel battesimo (ecco il significato della totale immersione del corpo del battezzando nella vasca battesimale il Sabato Santo) non può che risorgere con Lui (ecco il significato dell’emersione del corpo del battezzato). Sant’Atanasio dice a tal proposito: “Gli uomini, prima di credere in Cristo, vedono la morte come terribile e la temono; mentre quando passano alla fede e all’insegnamento di Lui disprezzano talmente la morte che le si muovono incontro coraggiosamente, divenendo testimoni della Resurrezione operata dal Salvatore contro di lei. Uomini e donne, ancor giovani di età, hanno fretta di morire e si esercitano a combatterla praticando l’ascesi. La morte è divenuta così debole che anche le donne, che prima erano state ingannate da lei, adesso si prendono gioco di lei considerandola morta e debilitata” (De incarnatione Verbi, 27). Il fatto riveste un significato profondo e permanente nella vita. I cristiani non divennero tali perché erano più morali o pii dei pagani. Non divennero tali per riscattare l’umanità dai dispotismi politici o da eventuali ingiustizie economico-sociali. Lo divennero semplicemente perché il Cristianesimo portò loro la liberazione dalla morte. Così se qualcuno vuol penetrare nel cuore del Cristianesimo Orientale deve tenere conto di ciò e constatarlo la notte in cui si celebra la liturgia pasquale ortodossa: di questa liturgia tutti gli altri riti non sono che riflessi o figure. Le parole del tropario pasquale – l’inno di Pasqua – ripetute moltissime volte in tono sempre più esultante, ripetute fino ad una travolgente ma composta gioia mistica – “con la tua morte hai calpestato la morte” – sono il grande messaggio della Chiesa Ortodossa: la gioia di Pasqua, l’aver bandito l’antico terrore che assediava la vita dell’uomo. Tale credo è stato tradotto in tutte le lingue ma non ha mai perso la sua forza e si presenta ogni anno intatto nel suo gioioso mistero. La gioia Pasquale si affaccia perfino durante la celebrazione della Passione di Cristo. Così il Venerdì Santo ai vespri, nel momento stesso in cui Cristo rese lo spirito, già risuonano i primi inni di resurrezione: “La mirra conviene ai morti, ma Cristo si è mostrato libero dalla corruzione”. È per tale gioia pasquale che l’icona di Cristo in croce non ha alcun segno di tragicità ma rappresenta un uomo serenamente addormentato. Il trionfo sulla morte, nascosto ma decisivo, permea pure la celebrazione liturgica del Sabato Santo: “Benché il tempio del tuo corpo fosse distrutto al momento della passione, pure anche allora unica era l’ipostasi della tua divinità e della tua carne” (Sabato Santo, Mattutino, Canone, Ode 6). Questa radiosa prospettiva ha creato nei paesi di fede cristiano-ortodossa una cultura nella quale non si riflette alcun terrore della morte. Ad esempio nei tradizionali canti popolari greci la morte viene semplicemente canzonata e la si considera in modo sereno. Non si può dire altrettanto in altre parti del mondo nelle quali è andata perdendosi la profondità del messaggio pasquale e la morte è oramai uno spettro da rimuovere dalla coscienza. Per chiunque vive in questa penosa situazione valgono le parole di Sant’Atanasio: “Se uno rimane incredulo anche dopo prove così grandi, dopo che tanti sono diventati martiri in Cristo, dopo che la morte viene derisa ogni giorno da coloro che si distinguono in Cristo; se rimane ancora in dubbio circa la distruzione e la fine della morte, fa bene a porsi delle domande su un argomento così importante, ma non sia duro fino all’incredulità né impudente di fronte a fatti così evidenti. Ma come chi prende l’amianto riconosce che non può essere intaccato dal fuoco e chi vuol vedere il tiranno incatenato va nel regno di colui che l’ha vinto, così chi non crede alla vittoria sulla morte, accetti la fede di Cristo e si metta alla sua scuola: vedrà allora la debolezza della morte e la vittoria su di lei. Molti che prima non credevano e ci deridevano, poi, divenuti credenti, disprezzarono talmente la morte che divennero martiri di Cristo” (De incarnatione Verbi, 28).

LA PASQUA NELL’ARTE. CIÒ CHE L’OCCHIO NON VIDE MAI.

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LA PASQUA NELL’ARTE. CIÒ CHE L’OCCHIO NON VIDE MAI.

Dall’era paleocristiana fino a oggi, l’arte a servizio della Chiesa ha descritto il « prodigioso duello » di cui parla l’inno, ora in maniera astratta, ora in modo allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre.

Pienezza della fede in Cristo è accoglienza della sua risurrezione e del potere che ne promana: è l’atto d’adesione intellettuale ed esistenziale al paradosso di un’umiliazione che sfocia in gloria, di una morte che si trasmuta in vita. In tale adesione consiste infatti la sapienza cristiana, e san Paolo – nel medesimo passo in cui ricorda ai credenti di Corinto d’aver predicato loro il vangelo senza argomentazioni filosofiche, ritenendo « di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso » (1 Corinzi, 2, 2-4) – afferma comunque di parlare « sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, divina, misteriosa, che è rimasta nascosta » così che « nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla », perché (dice) « se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1 Corinzi, 2, 7-8).
Paolo mutua questa frase « Signore della gloria », da un antico inno ebraico celebrante la traslazione dell’arca dell’alleanza dall’esterno all’interno delle mura di Gerusalemme: « Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria » (Salmi, 24, 7). Nel suo ragionamento, cioè, aprire la mente e la vita al paradosso di Cristo crocifisso, risorto e glorioso è come spalancare le porte di una città fortificata; anzi, è come demolirle del tutto per far entrare il conquistatore vittorioso. Per Paolo « il re della gloria » infatti è Cristo, e chi apre a lui riceve Dio, come nel salmo che domanda, « Chi è questo re della gloria? », e poi subito risponde: « Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia » (Salmi, 24, 8).
Dalle catacombe fino a oggi, molti artisti hanno reso visibile quest’interiore accoglienza del Risorto. Hanno offerto cioè non evocazioni di idee teologiche, non illustrazioni di fatti storici, ma traduzioni visive della più misteriosa, profonda e personale esperienza di ogni cristiano e di tutti i cristiani, del singolo credente e della Chiesa universale: l’esperienza di resa davanti al conquistatore, di porte antiche che si alzano e si spaccano, pur di farlo entrare. Grandi maestri di pittura e scultura hanno creato immagini di un processo individuale e collettivo in sé « inimmaginabile », come dice ancora san Paolo nel passo sopraccitato. Dopo l’affermazione che gli uccisori di Cristo non avevano la sapienza derivante dalla fede, l’Apostolo descrive tale sapienza come l’insieme di « quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo » ma che « Dio ha preparato per coloro che lo amano » (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr. Isaia, 64, 3); e aggiunge: « Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito ».
Le immagini del Risorto sono pertanto visualizzazioni di ciò che « occhio non vide mai », racconti di quanto nessun orecchio ha mai udito, appelli emotivi a una gioia mai entrata in cuore umano se non infrangendo limiti posti dalla ragione, se non demolendo barriere erette dalla logica, se non per pura fede. Tra tutte le immagini che riguardano Cristo, queste infatti sono le più religiose, le immagini che cioè inabissano nel vero mistero del Salvatore.
Come tutti sanno, il Nuovo Testamento non descrive l’evento decisivo della fede cristiana, la risurrezione di Cristo, parlando solo della scoperta della sua tomba vuota il mattino di Pasqua. In verità non si tratta di un evento, come il Battesimo o l’Ultima Cena, ma di un processo, un graduale dispiegarsi di energie spirituali, morali e fisiche tale che la morte non riesce a tenere il Salvatore nel suo amplesso. La risurrezione è implicita nell’esistenza stessa di Gesù, possiamo dire, perché – Verbo di Dio – « in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini » (Giovanni, 1, 4). È già definita come traguardo nei primi tempi del suo ministero, quando – parlando con Nicodemo – Cristo afferma che, « come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna » (Giovanni, 3, 14-15). Su questo tema ritornerà dopo l’ingresso trionfale a Gerusalemme quando dice ancora: « Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » (Giovanni, 12, 32). Il processo risurrezionale inizia veramente durante la Cena, quando – dopo aver lavato i piedi ai suoi discepoli, dopo aver loro comandato di amarsi gli uni gli altri come lui li ha amati, promettendo loro lo Spirito consolatore e la pace – Cristo alza gli occhi al cielo e dice: « Padre, è giunta l’ora, glorifica il figlio tuo, perché il figlio glorifichi te.
Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse » (Giovanni, 17, 1-5).

« E ora, Padre, glorificami »: ma, subito dopo, chi parlava fu arrestato, giudicato, giustiziato!
Significa forse che il Padre lo ha disatteso, non concedendogli la gloria rivendicata? La fede cristiana afferma il contrario, proclamando che Dio gliela concessa ma come processo paradossale, uno spiegamento di forze all’interno della debolezza, una gloria emergente dall’umiliazione, la vita che lotta con la morte e vince. Mors et vita duello, conflixere mirando: dux vitae mortuus regnat vivus: sono le parole di un inno pasquale del medioevo, e ben descrivono quest’eroica lotta al cuore dell’essere: « La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa ».
Dall’era paleocristiana fino a oggi, l’arte a servizio della Chiesa ha descritto il « prodigioso duello » di cui parla l’inno, ora in maniera astratta, ora in modo allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre. Tra le più splendide articolazioni di questo tema, vi è il monumentale Risorto in croce di Giuliano Vangi, eseguito nel 1999 per il presbiterio del duomo di Padova, dove l’artista visualizza il discorso escatologico del vangelo di Luca, in cui Cristo descrive il suo ritorno con linguaggio drammatico: « Come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno », dice, alludendo al « giorno » della Parusia, il « giorno senza tramonto », l’ »ottavo giorno » dell’eternità (cfr. Luca, 17, 24). È il testo più adatto a quest’opera che, infatti, lampeggia, guizza, brilla. Realizzato in un’inconsueta lega d’argento e nichel, con elementi d’oro e bronzo, si distingue radicalmente dall’apparato decorativo del duomo e perfino dalle altre figure di Vangi nel presbiterio, concepite in marmo bianco di Carrara, giallo di Siena, rosso veronese, pietra tunisina color miele e nel blu reale del Portogallo: materiali, colori e incastri tradizionali che troviamo nella scultura tardo imperiale, in quella della fine del Rinascimento, e nei monumenti barocchi della stessa cattedrale padovana.
Il Cristo invece si distingue. È avveniristico, quasi tecnologico, quest’uomo che emana luce dalla croce « tirata come un cristallo » (al dir dell’artista): una croce alta sei metri, la cui gamma cromatica va dal blu scuro della base (la notte in cui l’uomo soffre e perde speranza) al « dolce color d’oriental zaffiro » che rincuorò l’Alighieri (cfr. Purgatorio, 1, 13), e infine al bianco limpido, incandescente della luce in cui abita il Padre.
Sono materiali e colori moderni – qualcuno dirà « da discoteca » – e nel contempo antichi, plasmati dall’immaginazione dei profeti, dalle visioni nella notte del tempo. « Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco che splendeva tutt’intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente », dice un profeta d’Israele (Ezechiele, 1, 4). Bronzo lucido e topazio, un firmamento simile a cristallo splendente, carboni ardenti come torce agitate, il fuoco che sprigiona bagliori: ecco l’immaginario degli inizi del sesto secolo avanti Cristo, il linguaggio sacrale del figlio di Buzi, il sacerdote Ezechiele che, sulle rive del Chebar, vide aprirsi i cieli (Ezechiele, 1, 1).
Questo linguaggio visionario, che ritroviamo nel libro di Daniele e infine nell’Apocalisse, è quello preferito da Cristo stesso, nel già citato passo lucano e in numerosi altri passi, per descrivere il suo « giorno », « quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli e si siederà sul trono della sua gloria » (Matteo, 25, 31). Ed è il linguaggio in cui Vangi fa vedere i cieli aperti, il Figlio dell’uomo che brilla da un capo all’altro come un lampo, la croce come trono di gloria, il « giorno » del testimone fedele, del primogenito dei morti e principe dei re della terra, di colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, facendo di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre; l’ »oggi » in cui Cristo « viene sulle nubi e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero » (Apocalisse, 1, 7). Al centro del presbiterio, dove in persona Christi il vescovo celebra la liturgia eucaristica, l’artista cioè strappa il velo che copre i nostri occhi, traducendo in lingua corrente un celebre affresco del Risorto di Ambrogio Borgognone in Sant’Ambrogio a Milano, dove Cristo proclama (in parole scritte su un drappo d’onore sotto i suoi piedi): « Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi » (Apocalisse, 1, 17-18).
È significativo che questo Cristo di Vangi, raffigurato mentre passa da morte a vita, sia stato concepito per l’altare di una chiesa. In immagini legate alla liturgia, come nella liturgia stessa, i credenti sono invitati a cercare, oltre ciò che vedono, qualche cosa di più, magari non vista perché ancora nel futuro o che c’è ma rimane nascosta, ma che in ogni caso muta radicalmente il senso e l’aspetto delle cose viste. L’immagine si pone come epifania e apocalisse, manifestazione e rivelazione: è il caso di una splendida pala d’altare senese, opera di Giovanni di Paolo oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui vediamo Cristo umiliato che regge la croce, a sinistra, mentre a destra, risorto e trionfante giudica vivi e morti, mostrando le piaghe come trofei. Frammezzo, fra l’imago pietatis e l’imago gloriae di questa doppia immagine, è raffigurato lo Spirito, operatore dei cambiamenti che conducono alla vita eterna (tra cui quello eucaristico: il cambiamento del pane e vino nel corpo e sangue di Cristo). La colomba è collocata all’apice dell’immagine, sopra il punto in cui il sacerdote, consacrando, invoca lo Spirito Santo sui doni, ed è come se scendesse contemporaneamente su Cristo sofferente per risuscitarlo alla gloria, e sul pane e vino per transustanziarli. Quando si celebrava la messa davanti a quest’immagine, l’ostia e il calice innalzati tra le due raffigurazioni di Cristo comunicavano che, come Cristo è risorto nello Spirito e sotto lo stesso Spirito il pane diventa suo corpo, anche noi che ci nutriamo di questi elementi siamo destinati a mutare forma. « Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste: in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba noi saremo trasformati » (1 Corinzi, 15, 49-52).
In modo analogo, il Crocifisso di Vangi ripropone l’intuizione dell’autore dell’Apocalisse, che colloca la sua visione della fine delle cose nel contesto della domenica e di un’esperienza mistica della liturgia. « Rapito in estasi nel giorno del Signore – dice – udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: quello che vedi, scrivilo in un libro » (Apocalisse, 1, 10). Giovanni vide sette candelabri d’oro in mezzo ai quali si muoveva il sommo Sacerdote dei beni futuri, simile a un figlio d’uomo ma con gli occhi fiammeggianti come fuoco e che teneva nella destra sette stelle (Apocalisse, 1, 12-15).
Il nuovo Crocifisso sopra l’altare riporta l’Eucaristia a questo contesto escatologico. Tra i santi della città e diocesi (Prosdoscimo, Giustina, Antonio, Gregorio Barbarico) scolpiti dallo stesso Vangi in atteggiamenti ruminativi, ora esplode Cristo. La comunione dei santi – la comunione dei padovani con questi quattro santi patroni, la comunione di ogni credente con coloro che lo hanno preceduto – ora ritrova il suo centro in Lui, nel suo corpo e sangue offerti sulla croce.
Così ora nel presbiterio del Duomo di Padova contempliamo il Vivente rivelato nella comunione dei santi, sopra un altare che sembra la pietra sepolcrale « rotolata via » dagli angeli che la sostengono, esprimenti una sorta di tripudio cosmico. Perché, a differenza del Cristo del Borgognone a Milano, in cui predominano i segni dell’umiliazione – e a differenza dell’altro grande crocifisso a Padova, quello di Donatello all’altare del santo – qui è il trionfo di Cristo che viene proclamato, la gloria della sua vita nuova. Scriveva infatti Vangi nel 1999, per l’inaugurazione del Crocifisso: « Ho cercato di esprimere tramite gli occhi aperti la vita, la vittoria di Cristo sulla morte, la risurrezione e quindi la Parusia, la gloria finale promessa per tutti da Gesù nel passo di Giovanni: « Quando sarò innalzato attirerò tutti a me ». Il Signore qui non è inchiodato ma quasi appoggiato alla croce, con le braccia spalancate non nel supplizio ma piuttosto in quest’abbraccio redentivo per l’intera umanità ».
Le mani del Salvatore non inchiodate ma « appoggiate » alla croce, i chiodi diventati punti di luce: fa pensare alla mistica tavola conservata nella stessa Cattedrale, nella sagrestia dei Canonici, opera di Nicoletto Semitecolo raffigurante il Figlio crocifisso davanti al Padre, ma senza la croce. Le mani del Figlio, con i segni della sua obbedienza, sono semplicemente « appoggiate » alle mani estese del Padre che lo sostiene con il suo amore. Le parole di Cristo sulla Croce, « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », vengono così riportate al loro contesto d’origine: al salmo che sia Gesù che coloro che l’ascoltarono conobbero, e che, dall’iniziale senso d’abbandono, porta all’affermazione conclusiva che Dio « non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito » (Salmi, 21, 25). E poi le ultime parole: « Io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: « Ecco l’opera del Signore »" (Salmi, 21, 30-32).
Questo Cristo sulla croce azzurra è già in cielo, Signore delle generazioni future, Redentore del terzo millennio, Salvatore di popoli nascituri. Nel mistero del corpo crocifisso che, splendente e senza sofferenza, vive davanti al Padre, Vangi rivela l’Uno di cui l’Antico Testamento affermava: « Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza » (Abacuc, 3, 4).

Timothy Verdon

(©L’Osservatore Romano, 9 aprile 2009)

BENEDETTO XVI- UDIENZA GENERALE 2009 – (OTTAVA DI PASQUA)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090415_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 15 aprile 2009

L’ottava di Pasqua

Cari fratelli e sorelle,

la consueta Udienza Generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte. “Cristo è risorto! Alleluia! ”, canta la Chiesa in festa. E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana – l’Ottava di Pasqua – ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste. Anzi, possiamo dire: il mistero della Pasqua abbraccia l’intero arco della nostra esistenza.
In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua. La “via crucis”, che nel Triduo Santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne Veglia pasquale è diventata la consolante “via lucis”. Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza. Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all’alba del “primo giorno dopo il sabato” è risuonato con vigore l’annuncio della Vita che ha sconfitto la morte: “Dux vitae mortuus/regnat vivus – il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!” La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è “giorno del Signore” e Pasqua settimanale del popolo di Dio. I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica “giorno della risurrezione” (voskrescénje).
È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni. Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche. Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente. In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro. La risurrezione si pone in un’altra dimensione: é il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l’universo. Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un’apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l’esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita. Anche quest’anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia: Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l’essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio. Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant’Agostino cantare: “La risurrezione di Cristo è la nostra speranza”, perché ci introduce in un nuovo futuro.
È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l’intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l’enigma umano del dolore e della morte. La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell’intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro “Credo”. Di tale “Credo” essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella Prima Lettera ai Corinzi (15,3-8) dove, l’Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti – la nostra speranza –, trasmette fedelmente quello che egli – Paolo – aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore.
Egli inizia con una affermazione quasi perentoria: “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!” (vv. 1-2). Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto. Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all’inizio di questo nostro incontro. San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che «Cristo morì». La prima aggiunta è: morì «per i nostri peccati»; la seconda è: «secondo le Scritture» (v. 3). Questa espressione «secondo le Scritture» pone l’evento della morte del Signore in relazione con la storia dell’alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato. Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro. Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata “secondo le Scritture” è un avvenimento che porta in sé un logos, una logica: la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo “carne”, “storia” umana. Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall’altra aggiunta che san Paolo fa: Cristo morì «per i nostri peccati». Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel Quarto Canto del Servo di Dio (cfr Is 53,12). Il Servo di Dio – così dice il Canto – “ha spogliato se stesso fino alla morte”, ha portato “il peccato di molti”, ed intercedendo per i “colpevoli” ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio: la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione.
Nei versetti che seguono, l’Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore. Egli dice che Cristo «è risorto il terzo giorno secondo le Scritture». Di nuovo: “secondo le Scritture”! Non pochi esegeti intravedono nell’espressione: «è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» un significativo richiamo di quanto leggiamo nel Salmo 16, dove il Salmista proclama: «Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione» (v.10). È questo uno dei testi dell’Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù. Poiché secondo l’interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione. San Paolo, tramandando fedelmente l’insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio. Questa potenza divina reca speranza e gioia: è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale. Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell’amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto. Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla Via di Damasco. Non possiamo tenere solo per noi l’annuncio di questa Verità che cambia la vita di tutti. E con umile fiducia preghiamo: “Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!”. Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos: “Gioisci, anima mia. È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!”. Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell’Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza. Ancora una volta, Buona Pasqua a voi tutti!

VANGELO DI GIOVANNI: C. 20,19-31: INVIATI DI FEDE E DI PACE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/08-09/14-Inviati-di-fede-pace.html

(ho fatto un ricerca su Google sotto la voce : « credere senza vedere », uno dei risultati!)

VANGELO DI GIOVANNI: C. 20,19-31: INVIATI DI FEDE E DI PACE

Un incontro che si fa missione (20,19-23)
La sera del primo giorno della settimana, mentre le porte dove si trovavano i discepoli erano state chiuse per paura dei dirigenti giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me io mando voi”. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete Spirito Santo. Coloro a cui rimetterete i peccati saranno perdonati; coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”.
La voce di quanto è capitato quella mattina si è rapidamente diffusa tra i discepoli e li ha riuniti, anche se per paura dei Giudei hanno sbarrato bene le porte. Questo non impedisce a Gesù di rendersi presente in mezzo a loro e di donare loro il suo saluto: “Pace a voi!”. Gesù è ormai “Colui che viene” e lo sarà sino alla fine del mondo. Egli si rende presente dove ci sono due o tre riuniti nel suo nome.
“Si rese presente”. Non si descrive nessun passaggio attraverso le porte e nessun movimento dalla porta al centro della sala. Solo si afferma che rese visibile la sua presenza e “mostrò loro le mani e il costato”. Colui che soffrì la passione e li amò sino alla fine, ora è di nuovo con loro. Ha mantenuto la sua parola: “Vi rivedrò e il vostro cuore gioirà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (16,22).
Ed eccoci al secondo momento della scena. Gesù ripete il suo saluto: “La pace sia con voi”, ma poi aggiunge: “Come il Padre ha mandato me, io mando voi”.
   E perciò per i discepoli è ora possibile la missione: “Io vi ho scelto perché andiate a portiate frutto e il vostro frutto sia duraturo” (15,16). Sono mandati come lui è stato mandato. Quindi su di loro pesa lo stesso comandamento del Padre a cui Gesù si è attenuto: “Dare la vita”. Amare come egli ha saputo amare sino alla fine. Però per essere capaci debbono essere ricreati da Spirito Santo e Gesù glielo dà; segno che è già risalito al Padre: “È bene per voi che io me ne vada altrimenti non verrà a voi lo Spirito”. Sono inviati nel mondo per riunire i figli di Dio dispersi (11,52), per fare un solo gregge sotto un solo Pastore (10,16).
         Per questo ricevono il potere di rimettere il peccato. È un potere destinato a discernere chi davvero si allontana da un mondo di peccato per aderire a Gesù, da chi non vuole aderire. La verità consolante è che nel mondo esiste il perdono dei peccati (vedi Lc 24,47) e che questo potere è stato dato agli uomini (Mt 9,7).
BEATO CHI CREDE SENZA AVER VISTO (20,24-29)
Tommaso, uno dei dodici chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore”. Ma egli disse: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e la mia mano nel suo fianco, non credo”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo ma credente”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio”. Gli disse Gesù: “Perché mi hai veduto tu hai creduto; beati quelli che credono pur senza avere visto”.
Otto giorni dopo alla presenza di Tommaso, la comunità proclama la sua fede in Gesù risorto e dice a Tommaso: “Abbiamo visto il Signore”. Ma lui non condivise la fede della comunità. Voleva un’esperienza diretta e forse non aveva torto: era anche lui uno dei Dodici. Si dimostra incredulo di fronte a un fatto che esige una fede  radicale. E Gesù, come otto giorni prima, si rese visibilmente presente in mezzo a loro.
Era già lì. Non aveva bisogno di passare da nessuna parte per entrare. Egli è già presente quando i suoi sono tutti riuniti nel suo nome e dona la pace. Gli altri non avevano più bisogno di vederlo. Tommaso sì. Gesù si è reso visibile per lui e vuole convincerlo che non è un fantasma. Le sue parole suonano a sfida: “Guarda…, toccami”, ma sono piene di bontà: “e non continuare a essere incredulo, ma credente”. Come a Maria bastò sentirsi chiamare per nome (20,16), a Tommaso bastarono queste ultime parole per dire tutta la sua fede: “Signore mio, e Dio mio”.
È una fede che si ripete nei secoli. È l’espressione della fede personale e comunitaria. Essa nasce dai fatti concreti; è ben radicata negli eventi storici. L’insistenza di Giovanni sulle ferite di Gesù; sui segni della sua passione, dice che la fede nella divinità di Gesù nasce dall’esperienza di ciò che hanno visto, udito e toccato; dall’avere costatato che Gesù li ha davvero amati sino alla fine. Tutto ciò li ha portati a credere nella parola di Gesù: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora di nuovo torno al Padre e lascio il mondo” (16,28): “Io e il Padre siamo uno” (10,30). La Risurrezione ha sancito per essi la verità di tutte le sue parole ed essi hanno creduto che Egli fin dal principio era presso Dio, era Dio” (1,1). Così, il Vangelo finisce con lo stesso atto di fede con cui era iniziato.

Chiusura (20,30-31)
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo abbiate la vita nel suo nome.
Importante è la parola segno, tante volte resa con “segni miracolosi o meravigliosi”. Traduzioni possibili purché si insista sulla parola “segno” che serve sempre a rivelarmi qualcosa d’altro; in concreto nel Vangelo di Giovanni, l’identità di Gesù. L’autore ci tiene a sottolineare che ha raccontato solo alcuni segni non tutti, e che lo ha fatto per fondare solidamente la nostra fede in Gesù, il Cristo e il Figlio di Dio.
Con queste parole si chiude il Vangelo di Giovanni poiché il capitolo 21 di per sé non è suo.

Preghiamo
Signore, quanta gioia e quanta speranza hai diffuso nel mondo con la tua Risurrezione. Donaci di diffondere nel mondo questa gioia e questa speranza. Fa’ che tutti capiscano che la vita non è un camminare verso il nulla, ma verso un incontro con Te e il Padre nello Spirito; verso una gioia infinita. Che la nostra parola convinca tutti a non pensare alla morte, ma alla gioia di incontrarsi con Te.

 Mario Galizzi SDB

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO – LECTIO PER LA DOMENICA DI PASQUA

http://www.zenit.org/it/articles/la-vita-ha-scambiato-la-tomba-con-il-cielo

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA DOMENICA DI PASQUA

PARIGI, 31 MARZO 2013 (ZENIT.ORG)

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit la seguente riflessione sulle letture liturgiche della Domenica di Pasqua.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
***
LECTIO DIVINA
La Vita ha scambiato la tomba con il cielo: Gesù è risorto, ha distrutto la morte ed è luce di amore per il nostro cammino
Domenica di Pasqua di Risurrezione – Anno C – 31 marzo 2013.
RITO ROMANO
At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
RITO AMBROSIANO
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

1) La prima di tutte le Domeniche.
Il primo giorno della settimana è la domenica, giorno in cui si celebra il fatto che Cristo è risorto. Cristo risorge nella notte prima che il sorgere del sole illumini questa giornata di festa.
La prima di tutte le Domeniche è un giorno nato da due notti speciali: quella dell’Incarnazione in cui il Verbo si fece carne, e quella della Risurrezione in cui la carne indossò l’eternità, in cui si aperse il sepolcro, vuoto del Corpo di Cristo che ha svuotato la potenza della morte. Cristo risorto ci invita a mettere il nostro respiro in sintonia con il suo, con quell’immenso soffio di vita, che unisce incessantemente il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, il Verbo e la carne, il presente e l’Eterno.
A Pasqua, il primo di tutti i giorni del Signore, Dio rinnova il mondo e dice di nuovo: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclisse solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”.
Gesù risorge dal sepolcro: la vita è più forte della morte, il bene è più forte del male, l’amore è più forte dell’odio. la verità è più forte della menzogna.
Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi (cfr Benedetto XVI, 7 aprile 2012).
Preghiamo il Signore, Creatore e Amore, perché faccia scaturire dall’oscurità del mondo la luce del suo Figlio: nella notte del Natale, nella notte della Risurrezione, nella notte della nostra umanità faccia scaturire quello che noi speriamo: l’incontro con Cristo, la vicinanza con Cristo, la conoscenza di Cristo e l’amore che ci unisce a Lui.
Preghiamo fissando in primo luogo le piaghe gloriose di Cristo e contempliamo la Croce, sulla quale Cristo “ha versato il sangue del suo Cuore per guadagnare il tuo cuore” (S. Benedetta della Croce – Edith Stein). Poi con San Agostino, che ha vissuto un’esperienza di peccato come la Maddalena, preghiamo: “Ma che cosa amo amando Te? Non la bellezza di un corpo, non il fascino passeggero della terra, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza di dolci melodie di canti d’ogni specie, non il profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non la manna né il miele di abbracci carnali. Non amo queste cose, quando amo il mio Dio. E tuttavia nell’amare Lui amo una certa luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e un tipo di abbraccio che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’abbraccio dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo, quando amo il mio Dio …” (Sant’Agostino d’Ippona, Le Confessioni, X, 6, 8).
2) I primi incontri con Cristo-Luce.
Ma Maria Maddalena non sa ancora che il giorno della gioia senza fine era già iniziato. Quindi piena di dolore va alla tomba di Gesù, perché ha nostalgia di Lui (avessimo noi come lei questa nostalgia del Cielo) e vuole completare l’unzione, che lei aveva iniziata tempo prima quando lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime e li unse con un profumo che valeva 300 denari (dieci volte di più del prezzo pagato a Giuda per il suo tradimento – con 30 denari restituiti da Giuda i capi comprarono un campo per i pellegrini che morivano a Gerusalemme).
Nell’alba di questo giorno di festa -che per Maria Maddalena è ancora un giorno di tristezza perché non sa ancora che il suo Gesù è risorto- questa donna è consolata almeno dal pensiero che questo “fraterno amico” è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso.   Maria va al sepolcro, preoccupata di come togliere la lastra di pietra che chiudeva il sepolcro, per potere completare l’unzione mortuaria, prescritta dalla legge mosaica e dal suo amore di donna salvata da Redentore. E piange (si veda il Vangelo ambrosiano di oggi) perché la tomba era vuota: non sa ancora che era diventata come un tabernacolo da cui il Corpo di Cristo risorto è uscito e può essere mangiato.
Non immagina che il Cristo Signore, Luce d’eternità, aveva spazzato via non una ma due lastre: quella di pietra sul sepolcro e quella, ancora più pesante e inamovibile della morte sul suo corpo immolato del Salvatore e sul cuore della Maddalena.
Questa donna fu la prima a costatare che la morte aveva lasciato la sua presa sulla preda.
Fu la prima nella fede perché fu la prima nell’amore, ed ebbe il premio dell’amore.
Ricevuta la notizia stupefacente portata agli Apostoli dalla prediletta di Cristo, da colei che la Liturgia delle Chiese Orientali chiama Isoapostola (uguale agli apostoli) della Risurrezione, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, perché sono quelli il cui amore è più grande che corrono più veloci degli altri. Arrivati videro che Cristo aveva mantenuto la parola profeticamente annunciata più volte: “Come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,40).“Lo consegneranno ai gentili per farlo schernire, flagellare, e crocifiggere, e il terzo giorno risorgerà” (Mt 20,19).“Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo ricostruirò. Ma Egli parlava del Tempio del Suo Corpo” (Gv. 2,19-20).“Dopo che sarò risuscitato vi precederò in Galilea” (Mc 14,28).“Comandò loro di non dire a nessuno le cose che avevano visto finché il Figlio dell’uomo non fosse risorto dai morti. Ed essi osservarono l’ordine, chiedendosi tuttavia fra di loro che cosa significasse questo: ‘Quando fosse risorto dai morti’” (Mc 9,9-10).
Erano stupefatti. Dopo giorni passati nella desolazione, perché sembrava che tutto fosse irrimediabilmente perduto, ecco l’avvenimento di luce, che mostra come la violenza, l’ingiustizia, l’infamia e la morte non hanno avuto l’ultima parola. Un fatto che permette di vedere chiaro: sono illuminati dalla luce di Cristo, luce santa e colma dell’amore di Dio.
3) Evangelizzatori della Luce, che salva.
Senza la luce di Dio nessun uomo si salva.
Essa fa muovere all’uomo i primi, timorosi passi: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrà paura?” (Sal 26/27, 1);
essa lo conduce nel pellegrinaggio della fede verso l’alto: “Manda la tua verità e la tua luce, siano esse a guidarmi, mi portino al tuo monte santo alle tue dimore” (Sal 42/43, 3).
 Se vogliamo continuare a possedere questa luce di Dio, preghiamo.

Cristo è risorto non per allontanarsi da noi, ma per farci risorgere insieme con lui nel suo Regno, i cui confini sono la luce e l’amore.
Più guarderemo a Cristo risorto, più i nostri occhi rifletteranno la luce dei suoi occhi. L’importante che il nostro sguardo si faccia preghiera (=contemplazione), riconoscenza (=eucaristia) e dono di amore che perdona le offese.
E ciò accadrà se, come Maria Maddalena, andremo da Cristo addolorati per averLo perduto. Allora le lacrime purificheranno i nostri occhi che tersi, puliti potranno riflettere la Luce di Cristo, Luce che libera, Amore che redime, Bene che colma i nostri cuori. A noi che meschinamente e frequentemente ci accontentiamo di promesse di felicità, di parole di amore, di righe di luce, Cristo Luce ci fa uomini e donne di luce, testimoni della Luce, che da vita piena. Noi che non solo siamo affascinati dalla luce, la Luce è la nostra vocazione.
Questa vocazione è vissuta in modo particolare dalle Vergini consacrate, che ricevono il cero o la lampada illuminata per aver cura di conservare la luce del Vangelo che salva ed essere sempre pronte all’incontro con lo Sposo che viene (cfr Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 28). Queste donne sono chiamate ad evangelizzare mediante la santità e la preghiera. Il modo di Evangelizzazione che le Vergini Consacrate sono chiamate a vivere e vivono è quello di comunicare la Sua luce, divenendo lampada che porta la luce della Presenza adorabile dell’eterno amore, mediante la loro sollecitudine umana di donne dedicate a Dio.

LETTURA PATRISTICA
LETTURE PATRISTICHE DALLA PRIMA APOLOGIA DI S. GIUSTINO (100-165 D.C), MARTIRE E FILOSOFO.
“Sull’Eucaristia domenicale”
“1. Da allora, la domenica, giorno della Risurrezione, noi ci ricordiamo a vicenda questo fatto. E quelli che possiedono, aiutano tutti i bisognosi e siamo sempre uniti gli uni con gli altri.
2. Per tutti i beni che riceviamo ringraziamo il creatore dell’universo per il Suo Figlio e lo Spirito Santo.
3. E nel giorno chiamato « del Sole » ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente.
4. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.
5. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere; e, come abbiamo detto, terminata la preghiera, vengono portati pane, vino ed acqua, ed il preposto, nello stesso modo, secondo le sue capacità, innalza preghiere e rendimenti di grazie, ed il popolo acclama dicendo: « Amen ». Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati, ed attraverso i diaconi se ne manda agli assenti.
6. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno.
7. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate.
Nel giorno chiamato del Sole si fa l’adunanza di tutti nello stesso luogo, dimorino in città o in campagna, e si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti, finché il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, chi presiede con un sermone ci ammonisce ed esorta all’imitazione di quei begli esempi. Poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; e, avendo noi terminato le preghiere, si porta pane, vino ed acqua e il capo della comunità fa similmente orazioni e azioni di grazie con tutte le sue forze, e il popolo acclama dicendo l’Amen, e si fa a ciascuno la distribuzione e la spartizione delle  cose consacrate e se ne manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti. I ricchi, invero, e quelli che vogliono, ciascuno a suo piacere dà ciò che vuole, e quello che si raccoglie viene depositato presso il capo; ed egli soccorre gli orfani e le vedove, e quelli che sono bisognosi per malattia o per altra ragione, quelli che sono carcerati e gli ospiti forestieri, e senza eccezione ha cura di tutti quelli che hanno bisogno. Ci aduniamo tutti nel giorno del sole, perchéè il primo giorno in cui Dio, avendo mutato la tenebra e la materia, creò il mondo e Gesù Cristo nostro salvatore nello stesso giorno risuscitò dai morti; infatti la vigilia del giorno di Saturno lo crocifissero e nel giorno dopo quello di Saturno, il quale è il giorno del sole, comparso agli apostoli suoi e discepoli insegnò queste cose, che abbiamo presentate anche al vostro esame” (Giustino, Prima Apologia, 67, 3-7: M. Simonetti – E. Prinzivalli, Letteratura cristiana antica,  Casale Monferrato, 1996, I, pp. 223-225)

Breve biografia di San Giustino (n. ca 100 – m. ca 165 d.C).
Questo Padre della Chiesa nacque intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa. Cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.

IL MISTERO PASQUALE CONTINUA

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IL MISTERO PASQUALE CONTINUA

(giugno 2011)

Durante la Notte pasquale, la santa Chiesa vi ha dato quel che ha di migliore: vi ha donato la caparra dell’eternità e voi ne avete ottenuto – alle due fonti del sacramento e della poesia – la sostanza. L’intero anno liturgico tende verso questo vertice, che è l’espressione cultuale dell’essenza del cristianesimo.
Ma il mistero pasquale non è un punto nello spazio. È una linea continua con la quale si deve identificare la linea della vostra vita: voi siete venuti in monastero per vivere il mistero pasquale, che consiste nel passare da questo mondo a Dio.
La Pasqua non finisce. La Pasqua è la transumanza dell’umanità redenta che passa dalla terra d’Egitto alla terra promessa, dalle tristezze del tempo alle gioie dell’eternità, dalla cella al cielo. Non si finisce mai di convertirsi.
Quando in forma di auspicio chiediamo ai nostri fratelli secolari di pregare per la nostra conversione, essi assumono uno sguardo confuso: «Se non siete convertiti voi, chi lo sarà?». Lo lasciamo dire, ma sapete che i nostri antichi, per significare l’ingresso in religione, impiegavano la formula «venire ad conversionem», «cominciare a rivolgersi a Dio». È un lavoro che dura tutta la vita e che ci assorbe interamente.
Nel Vangelo della terza domenica dopo Pasqua, leggiamo: «Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete» (Gv 16,19). I Padri della Chiesa ci forniscono le «armoniche» di questa parola misteriosa, da cui consegue che il mistero pasquale si estende a tutta la vita, e che la vita è «un poco». Gesù allora scompare dai nostri occhi carnali: è il tempo della prova, la traversata del deserto, la notte della fede. Poi sarà la visione in cielo. Allora, prosegue Gesù, «la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Già alla Pentecoste, lo Spirito Santo ci fa «gustare Gesù». Non è un modo saporito di vedere Gesù con gli occhi dell’anima? È la gioia nella fede.
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Vedete che tutta la nostra vita, come quella di Gesù, consisterà nel passare da questo mondo a Dio. Notate tuttavia che per Gesù si trattava di una traiettoria tipica e sacrificale grazie alla quale ci preparava il sentiero, mentre per noi l’espressione passare da questo mondo a Dio indica più di un movimento locale, o anche semplicemente cultuale. Occorre passare strappandoci da questo mondo al quale una certa parte di noi rimane attaccata. Ecco ciò che assegna all’ascesi una parte essenziale nella spiritualità di Pasqua.
Osservate che san Paolo, nella Lettera ai Colossesi, dice che Dio ci ha strappati, rapiti, innalzati – come tradurre adeguatamente «eripuit nos»? –, «liberati dal potere delle tenebre» (Col 1,13) e che ci ha trasportati – «transtulit nos»: il verbo indica un’azione passata –, «trasferiti nel regno del Figlio del suo amore» (ibidem). Comprendete adesso il giubilo, direi quasi l’ubriacatura, della liturgia pasquale! Il termine non vi scandalizzi: si tratta della «sobria ebbrezza spirituale» di cui parla sant’Ambrogio
Il vocabolario mistico utilizza questa parola perché nello stato d’ubriacatura, l’uomo non si appartiene più.
Viviamo per Dio!
La liturgia pasquale riassume il mistero della Chiesa in ciò che essa ha di essenziale, di celeste, di permanente. La Pentecoste, l’Assunzione, Ognissanti: si tratta ancora del mistero pasquale. Ecco perché vi ho detto in altra occasione che, secondo san Paolo, noi siamo già passati al Regno. Lo stato di grazia suppone che la nostra anima bagni già nella luce dell’eternità. Ecco perché i cristiani sono della gente a parte. Sono delle persone diverse dalle altre. Esteriormente, certo, siamo degli esseri fragili e spesso ridicoli; abbiamo tutte le infermità della terra, talora addirittura le meno confessabili! Ma è sufficiente che il nostro sguardo s’innalzi e che diciamo «Padre nostro» per ricordarci che, in realtà, noi siamo una razza celeste.
Ebbene, la Regola benedettina non è altro che l’organizzazione di una vita in società in cui l’intera esistenza è una preparazione e – diciamo la parola – un’anticipazione della vita degli eletti in cielo. È una grande liturgia in cui tutti i gesti acquisiscono un valore sacrale, un valore di culto. Ecco un’esistenza del tutto ordinaria, ma trasfigurata dall’interno mediante la preghiera e i sacramenti, che si dispiega completamente in presenza di Dio con un profumo antico che ci proviene dal fondo delle epoche: come ai tempi di san Benedetto, noi conduciamo una vita semplice, contadina, familiare, dai ritmi lenti, senza lampi o colpi di scena; è la vita nascosta, come a Nazaret.
Ma è una vita esigente che domanda che si adottino dei costumi celesti.
Sarebbe davvero sconveniente, per non dire volgare, non fare caso a quel che ci regala la santa liturgia. Aprite i vostri messali, leggete le mirabili collette del Tempo pasquale e ditemi se non c’è in esse tutta una regola di vita, un metodo per dirci come vivere, come agire.
Colletta del Martedì di Pasqua: «concede famulis tuis ut sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» («concedi ai tuoi servi di custodire nella loro vita quel sacramento che ricevettero mediante la fede»).
Ciò che abbiamo ricevuto con l’intelligenza della fede nella notte di Pasqua, si tratta ora di tenerlo nelle nostre mani per farne della vita!
Colletta del Venerdì di Pasqua: «quod professione celebramus, imitemur effectu» («riprodurre con le opere ciò che professiamo esternamente»).
Ecco cosa ci spinge nei nostri sogni! Non che ciò che abbiamo celebrato con una professione di fede così solenne durante la santa Notte sia un sogno (è anzi probabilmente, al contrario, la realtà suprema). Ma l’illusione nasce quando si pensa che sia sufficiente riferirvisi mentalmente. Con due parole energiche, la liturgia c’invita al più esigente realismo: imitemur effectu, riprodurre con le opere!
Tradurre in miele la luce caduta dalle corolle.
Quando trasformiamo in carità effettiva quello che traiamo dall’interno di questi testi, siamo veramente le api del buon Dio.
Vi ho detto che la santa liturgia ci dona la caparra dell’eternità. È rigorosamente vero. Il termine compare in san Paolo – «arrabon» (Ef 1,14) –, non solo il pegno, ma una garanzia reale (versare una caparra non consiste nel fare delle promesse, ma denaro contante!).
Il buon Dio ha sigillato l’unione nuziale del suo Figlio unigenito con la Chiesa concedendole una dote regale: i gioielli della sua liturgia e dei suoi sacramenti. Il fiume liturgico è una collana di perle. Ed è per suo tramite che ella ci parla dell’eternità.
Ella si comporta come fece Marco Polo al suo ritorno dalla Cina. L’episodio vi è noto: dopo ottant’anni di assenza eccolo sbarcare a Venezia con suo padre Nicola e suo zio Matteo. Tutti e tre indossano dei costumi asiatici, ma si dichiarano veneziani. Non si crede loro. Allora offrono un banchetto in città e poi, dopo la cena, si alzano in silenzio e in contemporanea si strappano i vestiti di dosso, lasciando cadere a terra rubini, zaffiri e smeraldi. Ecco, la santa Chiesa fa lo stesso: i diamanti della sua liturgia ci parlano dell’Altro Mondo!
Poi viene il Tempo dopo la Pentecoste, e la luce della Pasqua continuerà a diffondersi attraverso il Temporale e il Santorale; essa ci parla del cielo: approfittatene.
Sono contento perché uno di voi mi ha detto che gustava il pane quotidiano della liturgia, l’invisibile, l’elementare: quella strofa dell’inno, l’altro versetto del salmo, che recitiamo ogni giorno. Tutto è grande nella liturgia perché tutto viene da Dio e tutto risale a Lui con una sovrana efficacia.
Come dice dom Guéranger, «la preghiera della Chiesa è la più piacevole all’orecchio e al cuore di Dio, e perciò la più potente. Fortunato quindi colui che prega con la Chiesa, che associa i suoi voti particolari a quelli di questa Sposa cara allo Sposo e sempre esaudita».

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère pascal continue, in Itinéraires, n. 244, giugno 1980, pp. 102-106, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 185-190, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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