Archive pour la catégorie 'LITURGIA: TEMPO DI PASQUA'

L’anima e il corpo, nella loro stretta unità, sono in rapporto a Dio -Tertulliano

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L’anima e il corpo, nella loro stretta unità, sono in rapporto a Dio -Tertulliano

La risurrezione della carne, 8 – 9

« La carne è il cardine della salvezza. Infatti se l’anima diventa tutta di Dio è la carne che glielo rende possibile! La carne vien battezzata, perché l’anima venga mondata; la carne viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne viene segnata della croce, perché l’anima ne sia difesa; la carne viene coperta dall’imposizione delle mani, perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e del sangue di Cristo, perché l’anima si sazi di Dio. Non saranno separate perciò nella ricompensa, dato che son state unite nelle opere.
Anche i sacrifici grati a Dio, le mortificazioni, cioè, i digiuni, i pasti consumati tardi e senza cibi liquidi, la trascuratezza esteriore dei penitenti, vien tutto compiuto dalla carne e a sue spese. Cosi l’osservanza della verginità e della castità vedovile, come l’unione coniugale apparente e con nascosta continenza (nozze di Giuseppe), sono sacrifici a Dio, consumati nella carne. Or su: che ne pensi di lei quando, per la fedeltà al nome cristiano, viene esposta al pubblico e deve combattere contro l’odio delle folle? Quando è macerata nelle carceri, in quell’orrenda privazione della luce, nella carenza di tutto il necessario, nello squallore, nella sporcizia, nell’obbrobrio; neppure libera di dormire, legata anche nel riposo e lancinata dallo stesso giaciglio? Dilaniata poi, alla luce, con ogni genere di tormenti, quando infine in pieno sole viene esposta al supplizio, vien costretta a dare il contraccambio a Cristo morendo per lui, e spesso sulla stessa croce o con altre pene ancor più atroci? O beatissima e gloriosissima carne, che può contraccambiare a Cristo per un debito cosí grande, tanto da dover essere a lui obbligata solo di averla fatta cessare di essere in debito; e ciò più nei vincoli che in libertà!
Perciò, per riassumere: quella che Dio ha strutturato con le sue mani facendone una propria immagine, quella che ha vivificato col suo spirito a somiglianza della sua vita, che ha preposto a tutta l’opera della sua creazione per abitarla, farla fruttificare e dominare; che ha rivestito con i suoi sacramenti e i suoi precetti; della quale ama la purezza, della quale approva la mortificazione, della quale apprezza le sofferenze: questa dunque non dovrebbe risorgere, che tanto appartiene a Dio? Non sia mai! La cura del suo pensiero, il vaso del suo soffio, la regina della sua creazione, l’erede della sua bontà, la sacerdotessa della sua religione, la combattente per la sua testimonianza, la sorella del suo Cristo! Sappiamo che Dio è buono e abbiamo appreso da Cristo che egli solo è ottimo; egli ci comanda l’amore al prossimo, dopo che a lui; egli farà certo ciò che lui stesso ha comandato: amerà la carne che in tanti modi gli è prossima, anche se è debole, perché la virtù si perfeziona nella debolezza (2 Cor. 12, 9); anche se inferma, perché i malati hanno bisogno del medico (Lc. 5, 31); anche se meschina, perché le nostre membra, meno oneste, le circondiamo di maggior onore (1 Cor. 12, 23); anche se perduta, perché io sono venuto a salvare ciò che era andato perduto (Lc. 19, 10); anche se peccatrice, perché preferisco la salvezza del peccatore che la sua morte (Ez. 18, 23); anche se dannata, perché io sono colui che colpisce e risana (Deut. 32, 39). Perché rivolgi i tuoi rimproveri alla carne, per ciò che aspetta Dio, per ciò che in lui spera, che da lui viene onorato e a cui egli soccorre? Oserei anzi dire che se ciò non fosse accaduto alla carne, la grazia, la misericordia, ogni influenza benefica di Dio sarebbero state vane. »

Preghiera:
O Dio, il tuo divino Figlio, che si fece carne nel purissimo seno della Vergine Maria, volle sperimentare tutte le debolezze della condizione umana eccetto il peccato. Concedici la grazia di seguire il Suo esempio, per risorgere anche noi alla vita eterna per mezzo della Sua Passione, Croce e Risurrezione. Te lo chiediamo per mezzo dello stesso Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

A cura dell’Ateneo Pontificio « Regina Apostolorum »

III DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (30/04/2017) – DAVVERO!

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don Giacomo Falco Brini

III DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (30/04/2017) – DAVVERO!

Vi è mai capitato di aver sognato ad occhi aperti e lavorato per tanto tempo a qualcosa cui avete dedicato tutto voi stessi con sacrificio e affetto, intravedendone poco a poco la graduale realizzazione, per poi assistere al crollo di tutto sotto il vostro sguardo? Se vi è successo, allora possiamo avvicinarci anche noi ai due discepoli che retrocedono mesti da Gerusalemme, conversando su quanto di tragico vi era accaduto. Possiamo immaginare i loro sentimenti, le loro domande, le loro pause, possiamo comprendere il loro discutere che cerca di spiegarsi qualcosa sulle vicende occorse. Sarebbe rimasta una delle solite sterili discussioni umane, se Gesù in persona (Lc 24,15) non li avesse raggiunti in quel cammino fatto di conversazioni senza sbocco. E’ bello pensare che Gesù ci raggiunge nel nostro smarrimento, laddove il nostro cuore non sa darsi risposte, laddove indietreggiamo difronte ai drammi che ci capitano nella vita, è bello sapere che continua a camminare con noi malgrado la nostra persistente cecità: ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo (Lc 24,16).
Il viandante risorto provoca una fermata con una domanda circa il loro discutere. Accende un dialogo semplice che fa uscire dai loro cuori la tristezza (Lc 24,17), la personale interpretazione dei fatti, la speranza delusa oramai appartenente al passato: noi speravamo (Lc 24,21); ma, soprattutto, la loro totale incertezza difronte all’annuncio delle donne che hanno trovato la tomba vuota. E’ così che lavora il Signore. Camminando con noi, dapprima ci porta a conoscere tutte le ritrosie e le resistenze che ci abitano. Perché è così che siamo fatti noi, dapprima piuttosto scettici difronte a quanto altri testimoniano di aver visto e udito e a quanto ci comunica la stessa parola di Dio. Stolti e lenti di cuore a credere (Lc 24,25): questa è la nostra carta identità quando è priva dell’aiuto del Pellegrino che mai ci abbandona.
Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? (Lc 24,26): questa è la parola su cui si infrangono i nostri ragionamenti e le nostre attese errate, le nostre equivoche immagini di Dio e ogni altra ricerca che vogliamo condurre da noi stessi. Perché Signore, bisognava che soffrissi? Perché Signore questa necessità per te e per noi? Il Risorto non dice perché, ma invita i due discepoli a ritornare con Lui sulle Scritture: lì, nel libro sacro della parola di Dio, era già predetta questa storia d’amore sofferta e solo apparentemente sconfitta. Anche oggi Gesù ci invita a ritornare sulle Scritture, perché tutto quanto è stato detto è per Lui e in vista di Lui: esse sono la roccia incrollabile su cui appoggiarci se vogliamo che la nostra fragilissima fede cresca e non venga meno. Così, quando rispondiamo sempre più a questo suo invito, ci ritroviamo a invitare noi stessi il Signore perché continui a parlarci restando insieme a noi (Lc 24,29).
Il cammino della fede è una discesa nell’oscurità del nostro cuore per poi scoprire, più avanti, che il Vivente è capace di stare con noi anche nelle nostre tenebre. La sua parola ci trasmette la luce vittoriosa che guarisce la nostra cecità spirituale e ce lo fa riconoscere sempre presente con noi, soprattutto alla tavola dove facciamo memoria del suo dono d’amore: l’Eucarestia. E anche se a causa della nostra intermittenza ci sembra talvolta di perderlo di vista (Lc 24,31), il fuoco acceso nel nostro cuore dalla sua parola ci rassicura e ci aiuta a confermarci l’un l’altro (Lc 24,32). L’incontro con il Risorto cambia la direzione del nostro cammino, ci converte a ripercorrere la sua stessa strada facendoci superare le nostre paure (Lc 24,33), ci riunisce ai nostri fratelli che condividono con noi la stessa inaudita sorpresa: davvero il Signore è risorto (Lc 24,34). Chi lo ha incontrato non può tacere, perché sente il bisogno di raccontare con gioia quello che il Signore ha fatto nella propria personale storia (Lc 24,35).

 

II DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (23/04/2017) – DAL FATTO ALLA FEDE

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II DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (23/04/2017) – DAL FATTO ALLA FEDE

padre Gian Franco Scarpitta

Dopo la sua risurrezione Gesù esorta i suoi a rendergli testimonianza e a recare a tutti l’annuncio della sua vittoria sulla morte e la novità di salvezza che ne consegue. Sarà particolarmente dopo l’evento di Pentecoste che, animati dallo Spirito Santo, gli apostoli diffonderanno il lieto annuncio della resurrezione di Cristo « fino agli estremi confini della terra », cioè secondo la concezione di allora fino a Roma. E inizierà il cosiddetto Tempo della Chiesa. Anche adesso però, Gesù Risorto invita tutti i suoi alla testimonianza, cioè a recare agli altri la notizia gioiosa del fatto che lui è vivo e presente e non è per niente defunto. La fede e la testimonianza sono quindi lo scopo e la risultante delle apparizioni di Gesù. Giovanni ci racconta di questo duplice aspetto collocando l’episodio nella dimensione temporale del « primo giorno della settimana », lo stesso nel quale era avvenuta, la mattina presto, la visita di Maria di Magdala al sepolcro con la sorpresa della tomba vuota. Appare loro mentre le porte della casa dove erano riuniti erano sprangate per paura dei Giudei. Avviene questo singolare episodio nel quale Gesù compare loro nonostante l’inaccessibilità del locale nel quale sono riuniti. In questa circostanza reca loro la pace, cioè la serenità e la gioia che scaturiscono dall’avvento del Regno di Dio instauratosi dopo la morte e la Resurrezione di Gesù. Quindi, seppure Giovanni non lo mostra immediatamente, convince i suoi discepoli della veridicità della sua resurrezione e da ultimo li invita all’annuncio universale, alla testimonianza dell’evento di salvezza. Cosicché gli apostoli annunceranno in ogni angolo del mondo allora conosciuto, a partire da Gerusalemme, la novità della Resurrezione e del Regno di Dio che si è instaurato in Cristo stesso. Inizia il tempo della Chiesa, quello in cui lo Spirito (lo vedremo il giorno di Pentecoste) rende missionaria la Chiesa. Lo stesso Signore, seppure nella forma invisibile, sarà presente nella loro azione di annuncio secondo la sua promessa: « Io sono con voi fino alla fine del mondo ».
Man mano che la Chiesa è animata nella sua missione, organizza anche se stessa nella comunione e la strutturazione interna: i discepoli si mostrano motivati, zelanti, assidui nella concordia e nella carità e convengono tutti nello spezzare il pane e nelle preghiere. Quanto più la comunità accresce il numero dei suoi membri, tanto più emergono nuove necessità di organizzazione e si impongono nuovi ruoli e nuove suddivisioni di compiti e di ministeri; il tutto però fatto salvo il proposito dell’annuncio salvifico, che viene diffuso con rinnovato zelo e fondata intraprendenza.
Fedele al mandato del Salvatore, la Chiesa si prodiga tuttora nella comunicazione del messaggio di salvezza e della lieta notizia del Cristo Risorto e lo fa’ attraverso tutti i mezzi, adoperando tutti gli strumenti e facendosi forte di ogni espediente atto a realizzare tale apostolato. Anche noi siamo inviati. Non solo i successori degli apostoli (Papa e Vescovi) si incaricano di comunicare la lieta notizia, ma tutti i battezzati, ciascuno nel suo ambito e secondo la propria vocazione specifica, contribuiscono alla comunicazione della lieta notizia del Risorto. La Chiesa non sarebbe tale se non si configurasse come Comunione e Missione, e lo stesso Signore unitamente allo Spirito Santo garantiscono tuttora queste prerogative.
Ma prima ancora di codeste caratteristiche, il Risorto ci chiede la radicalità e la convinzione della fede in lui. Se la fede deriva dall’annuncio (Paolo), siamo invitati in primo luogo all’accettazione in prima persona del messaggio di salvezza che ci è stato annunciato dagli apostoli e che viene promulgato dai loro successori. Occorre pertanto che innanziuttto ci affasciniamo del Risorto e aderiamo incondizionatamente e senza riserve alla sua presenza silente ma operosa, accogliendo l’annuncio che legittimamente altri ci hanno fatto di Lui. La fede si realizza nel pieno coinvolgimento di noi stessi al mistero di Dio e nel fascino dell’adesione all’assoluto. Nella misura in cui si mostra fede nel Risorto, tanto più si accresce in noi la gioia e l’entusiasmo di appartenere a lui e di renderci suoi testimoni.
Fede, comunione e missione costituiscono la Chiesa. Ma il famoso episodio di Tommaso ci ragguaglia sulle side che anche al giorno d’oggi è costretta ad affrontare la nostra fede, a motivo della freddezza, della vacuità e dell’indifferenza del cuore.
L’errore di Tommaso non è poi così unico e singolare se consideriamo che anche Pietro era stato definito da Gesù « uomo di poca fede » e addirittura luogo di tentazione satanica perché pensava secondo gli uomini e non secondo Dio. E del resto neppure lo stesso Pietro e l’altro discepolo, arrivati al sepolcro dalla pietra ribaltata, avevano immediatamente creduto, ma solo dopo aver visto le bende per terra e il sudario piegato Pietro « vide e credette ». E anche le donne, giunte al sepolcro, avevano constatato la sparizione del cadavere di Gesù pensando a un cambiamento di loculo. Piuttosto, assente la sera della prima apparizione di Gesù, Tommaso sbaglia nell’essere refrattario alla testimonianza dei suoi fratelli, che pure non potevano non essere credibili, poiché gli avevano raccontato un evento che certo aveva impresso ulteriormente nella loro vita. Il discepolo incredulo reagisce alle loro parole con l’atteggiamento di ripulsa tipicamente umano, il quale non si accontenta di testimonianze o di racconti, ma pretende verifiche e sottili dimostrazioni. Cosicché oseremmo affermare che il vero colpevole di siffatta mancanza non è Tommaso, ma la concezione sofista ed empirista di cui è vittima, cioè la cultura imperante anche ai nostri giorni per la quale nulla è reale se non è dimostrabile.
La fede è invece la reale prova delle cose che non si vedono (Eb 11, 1 e ss) e consiste nell’affidarsi, nel concedersi e nell’accogliere anziché opporre resistenza e recalcitrare di fronte a qualcosa che siamo chiamati a concepire come Dono. Il Cristo Risorto ad essa ci scuote e verso di essa ci incoraggia.
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IL DINAMISMO PASQUALE (PAOLO GIANNONI, CAMALDOLESE)

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IL DINAMISMO PASQUALE (PAOLO GIANNONI, CAMALDOLESE)

PER VIVERE CON MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA IL TEMPO FORTE LITURGICO PASQUALE

La forza della pasqua non va pensata come realtà che si manifesterà solo alla fine dei tempi, perché essa penetra e trasforma già oggi la storia del cristiano, della chiesa e del mondo. I « cieli nuovi e la terra nuova » sono già iniziati, i segni della risurrezione sono presenti tra noi. Quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura. La « memoria » che lo Spirito di Dio compie degli eventi della salvezza nella via liturgica continua il metodo dell’incarnazione e della pasqua. Una glorificazione della condizione umana, che viene assunta nella sua concretezza. È questo che fa di ogni tempo liturgico un’esperienza antica nella perennità del dono e un’esperienza nuova nella concretezza sempre diversa della vicissitudine storica.
Nei fatti l’attuale cammino storico è segnato da profondi disagi di varia natura. La crisi economica che porta impoverimento in molte famiglie (e a fronte di questo sta insopportabile il lusso di altri); l’oscurità delle prospettive dei prossimi mesi; una crisi evidente sul piano della validità e dell’orientazione vitale delle persone e della società; un politica persa nei luoghi del potere, degli interessi particolari e delle menzogne senza vergogna; la difficoltà di una chiesa che sembra voler seguire sempre più una chiusura conservatrice perdendo la sua funzione di lievito e di speranza concreta per gli uomini e le donne di oggi; la precarietà dell’ecumenismo ridotto spesso ai convenevoli dei pasticcini e delle parole retoriche.
È un quadro pesante. Può essere alleggerito in uno sguardo al futuro possibile e alla certezza escatologica? Ma, in questa maniera, non lasciamo questi giorni al serpente? Non facciamo della pasqua un lusso alienante? Dinanzi a questo, è opportuno vivere il tempo grande di quaresima-pasqua, la santa decima dell’anno e il cinquantenario della gloria, collocandoli dentro una prospettiva che assuma la difficoltà attuale portandola dentro la luce pasquale senza alienarsi dalla durezza delle sue oscurità, anzi portandole dentro la luce del risorto Signore. La risurrezione non è un evento che avverrà alla fine, perché è un evento già avvenuto e illumina il cammino dei giorni e delle opere. La luce della pasqua è ora e qui.

Che s’intende per « risurrezione »?
La quaresima prende luce e ragione dalla pasqua, come suggerisce in modo così bello s. Benedetto: «Attendere la santa pasqua nella gioia di un più intenso desiderio spirituale» (RM 49,7). Lo Spirito «che dà la vita»è questo istinto vitale che ci porta verso la vita vincente sulla morte. Egli « fa memoria », rende attuale la risurrezione aiutandoci a compiere un cammino di verifica della sorgente e delle ragioni della vita che viviamo e che siamo.
Questa luce illumina la creazione, che è un discorso della fede non sulle origini ma sul progetto di pienezza con il quale Dio vuole le creature: la creazione è di suo escatologica e Tertulliano parlando della creazione dell’uomo afferma: «Quando il fango assumeva la sua forma veniva configurato Cristo, l’uomo futuro», e il Cristo risorto, l’èschatos Adàm (1Cor 15,45), è la pienezza dell’uomo.
Quando parliamo di escatologia non intendiamo semplicemente parlare delle « cose ultime », perché vengono alla fine della vita, ma di quella « realtà di pienezza » che già intride la vita presente. E questa realtà di pienezza trova anticipazione nella storia. Nel presente la pienezza finale, anche se in passi poveri, trova realizzazione (se Dio asciugherà ogni lacrima, un anticipo avviene ogni volta che si asciuga una lacrima, anche con una politica seria di giustizia verso i poveri). Perciò la risurrezione vive nei nostri giorni, soprattutto quando l’abisso vorrebbe ingoiare la luce, il che avviene ogni volta che la nostra finitudine viene attentata dal nulla che la segna nel profondo: tanto il nulla che si esprime nel limite, nelle impotenze, nel fallimento, nel dolore, nella malattia, nella decadenza e, infine, nella morte, quanto il nulla che vince in ogni peccato. Quando la speranza vince la rinunzia che viene dal limite e dall’impotenza, quando il perdono vince il peccato, è pasqua e ne sperimentiamo la gioia. Forse tutti abbiamo ammirato il dono della risurrezione farsi presente nella pace serena, anche se dolorosa, e nella forza capace di fratelli e sorelle particolarmente feriti dalla vita: sono stati e sono vincenti come frutto vivente della risurrezione del Signore.

Partecipare al Risorto
La prima istanza pasquale è il senso della risurrezione, il senso di una vita così forte che vince la morte (e con lei la disperazione e il peccato), sicché essa appare un’attrice che sulla scena realizza un evento, ma è finto. Ma forse questa interpretazione di S. Kierkegaard nasce da una fede troppo sbrigativa. Occorre più veracemente congiungere la fede della pasqua con la difficoltà concreta della morte e del morire.
Questo è possibile se il senso della fede nell’invincibilità della vita, assicurato dalla risurrezione del Signore, ha un impatto personale profondo in noi, congiungendosi a quel desiderio di vita che tutti siamo.
Ora, avviene che il desiderio della vita per molti diventa il tema dell’immortalità dell’anima. In questa prospettiva si perde troppo del prezioso essere umano. Si trascura l’entità profonda della corporeità, come realtà in sé, ricca e viva, e come atto e capacità di relazione e di vivere nella storia, di fare la storia. La vita cristiana santifica il corpo, solo che si pensi all’acqua battesimale, al crisma, all’eucaristia, all’unzione confortante nella malattia, all’onore al corpo defunto che non è un cadavere e lo si incensa come un corpo santo. La pienezza della vita riguarda l’uomo per intero.
Inoltre, il fatto che il desiderio di vita sia segnato da un’inevitabile finitudine può far ripiegare in un interesse su di noi che rischia di impoverirci. Il senso della pasqua, infatti, ci assicura che la « cornice » della nostra esistenza non è solo la finitudine, ma l’apertura all’oltre, all’altro, al Dio santo. Senza questa apertura, si rischia di camminare nella proiezione di un desiderio invece di vivere una realtà visitata dalla grazia.
Per questo emerge e ha da emergere in noi la luce della risurrezione, anzi del Risorto. Se il riferimento a Cristo per la nostra fede è cosa di sempre, nel caso della risurrezione si ha il massimo del verismo del rapporto con il Verbo della vita. Nel rapporto con lui noi viviamo la continuità fra il suo prendere la nostra carne fino a partecipare alla nostra morte (con un’espressione potente dice s. Gregorio: «Si è fatto più profondo dell’abisso della morte, perché la trascese portandola sulle sue spalle», Moralia in Job 10,9) e la sua risurrezione. Tutto si stabilisce nel verismo di una unità vitale per la quale noi partecipiamo di lui: «sepolti con Cristo nel battesimo, in lui anche risuscitati» (Col 2,12).
Certamente il riferimento al Risorto comporta una difficoltà perché chiede la fede in un evento che apre oltre la storia, mentre il pensiero della risurrezione si trova coinvolto nel profondo desiderio della vita che è ogni persona e riguarda la storia dell’umanità. E tuttavia esso ha una potenza che attrae con forza perché inserisce nella nostra persona il riferimento ad un evento nel quale la storia reale e la nostra singolare e reale storia si trasformano in un « oltre storia », cioè nel compimento che risponde alla stoffa umana e storica, ma anche la trasforma.
Qui si tocca il grave problema dell’evento reale della risurrezione. La stessa liturgia nella gloria pasquale sa di essere davanti ad una realtà che nessuno ha visto e paradossalmente canta la luce di una notte: l’evento lo ha visto solo la notte («O notte beata, tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagl’inferi!»). Questo grido ha l’umiltà della verità e lo stupore di un’eccedenza che nessuno ha visto accadere. Ci resta (e ci basta) alzare la lode della notte «di cui è stato scritto: la notte splenderà come il giorno e sarà fonte di luce per la mia delizia».
Se si insiste sull’esperienza della risurrezione, si rimane nella « notturnità ». Infatti, se noi non abbiamo rapporto di verifica sulla risurrezione (ma lo abbiamo forse della sua incarnazione? è forse un caso che la nascita sia avvenuta nell’altra notte santa?), noi abbiamo rapporto col Risorto. Così fu per gli apostoli e noi ne accogliamo la testimonianza.
La risurrezione non è un tema che rimanda solo ad un futuro, ma raggiunge l’esperienza umana, vi si colloca all’ interno, diventando non solo l’aspettativa di un futuro escatologico, ma una realtà sempre presente e operante. La risurrezione è insieme storia (è una realtà che avviene all’interno della storia) e trapasso nell’oltre della storia come sua pienezza.
È chiaro che tutto questo vive ed è in un ambito di fede. Ma la fede è un dato divino e insieme umano ed ha la possibilità di portare un beneficio esperienziale importante, perché la risurrezione non è una luce oltre le tenebre, ma una luce che si fa presente nella fragilità creaturale.

Vita trasfigurata e trasfigurante
Se leggiamo i vangeli – come in realtà sono – come un racconto che è stato composto a partire dalla luce trasfigurante del Risorto e se siamo convinti della densità del termine « corpo di Cristo » con il quale viene indicata la chiesa, e della « ricapitolazione » che interessa l’intero creato, noi arriviamo a cogliere il vangelo come un commento liberatore della vita nella sua integralità. La risurrezione infatti è non solo una verità che riguarda il Signore, ma una verità che riguarda la comunità dei credenti e tutta la storia e il cosmo intero (la cui materia vediamo accomunata al destino del corpo di Gesù). In verità, noi comprendiamo che quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura.
Questo non diventa un criterio di retorica vuota, perché tutto parte dal realismo nel quale Dio assume la carne nella sua fragilità e le dà amore: l’incarnazione porta la risurrezione nel tessuto vivente dell’umanità, del cosmo, di ogni vita.
Questo determina la possibilità di un annunzio che fa della proclamazione del Risorto un’esperienza di liberazione, nell’incontro con la libertà umana nella storia concreta (era l’ispirazione della teologia della liberazione). In questo sta la fedeltà di Dio alla carne nella sua debolezza: egli l’ha esperita e segnata nella morte del Signore, vivificato dallo Spirito.
Nella vita della fede
Dinanzi a questa prospettiva di gloria, la fede accetta senza sviamenti la fragilità umana, ma non come umiliazione o destino di entropia, di inarrestabile declino verso la morte e il nulla, bensì come fonte di quell’affidamento motivato dalla potenza del Risorto che si proclama nella beatitudine della povertà. Il povero è beato solo perché c’è la risurrezione e si apre alla potenza di vita che si dischiude nel Risorto. Così si apre un modo diverso, nuovo, di vita e di esperienza.
Il «non conformarsi alla mentalità di questo secolo» (Rom 12,2) non è un invito ad una snobistica forma alternativa e non si inscrive in un ambito di obblighi che nascono da un’appartenenza, perché indica che la vita quotidiana ha da essere resa coerente con la luce trasfigurante. Questa non apre un percorso di ostentazione o di trionfo, non di sicurezze né di presunzione, perché è un cammino che porta e vive il segreto di una certezza di gloria nell’umiltà dei giorni feriali con la loro fatica, durezza, creatività. La fedeltà di Dio alla fragilità della carne porta in noi e sostenta la fedeltà alla vita ordinaria. Pasqua così diventa una pro-vocazione, una chiamata dell’intera esistenza nella piccola e preziosa opera e presenza di ogni uomo/donna. Si parla non solo di « opera », ma anche di « presenza », perché la trasfigurazione impedisce di cogliere qualsiasi persona come scarto, come un nulla che appesantisce il cammino degli altri: nessuna persona è più trascurabile, tutti siamo una gloria di Dio.
Di più: la trasformazione in « corpo spirituale » per l’opera del Cristo risorto divenuto « Spirito datore di vita » (1Cor 15,45) porta una specie di transustanziazione, mai di alienazione. L’ombra del nulla che sta dietro ogni creatura è come vinta dalla gloria dell’intenzione creativa di Dio che, come suo principio, ha voluto la creatura per la sua pienezza. In conseguenza di questo, il mondo e la sua esistenza, l’umanità e l’esistenza dei singoli si capiscono superando la limitazione di uno sguardo che si posa soltanto sulla loro origine, per cogliere l’universo nella luminosità della sua verità escatologica. La loro pienezza di vita trova il primo compimento nella risurrezione del primogenito della creazione che è anche primogenito dei risorti da morte (Col 1,15-18).
Questa è la profonda ricchezza della fede. Essa ci rende coscienti che la visione cristiana dell’uomo non è secondo una « natura » concepibile solo a livello di ragione. Il discorso paolino sulla risurrezione (1Cor 15) ci fa capire che « la natura » è la decadenza del « corpo di polvere » e l’insufficienza del « corpo psichico ». Essa ha da essere trasformata nella potenza del « corpo spirituale » (1Cor 15,42-46).
La fede apre la speranza, e qui ritorna l’espressione bella e determinante del vescovo Dionigi di Milano: «La speranza per la vita porta l’intelligenza della vita», un’espressione profondamente e fondatamente pasquale. Il Risorto è sorgente di una vita intrinsecamente, veracemente risorta, e questo porta la luce su ogni forma di vita. Apre anche la preoccupazione e l’impegno a che la vita sia più grande possibile. Qui si collocano l’impegno politico e l’impegno ecologico (e si coglie la contraddizione di un’ecologia che non ha orrore dell’aborto).
In questa luce l’amore è conoscenza e la conoscenza è amore. L’amore prende questa forma particolare e diventa un riconoscimento relazionale che coglie l’intensa profondità ed essenzialità di vita vincente in ogni creatura e la vuole, la mette in atto nella storia con gesti forse poveri ma veri di risposta al desiderio vitale di pienezza. Sempre si ama non un/a morituro/a ma un vivente. Questo porta ad una forza di volere incondizionato che conduce o almeno tenta di organizzare il reale non secondo il principio della morte, perché la morte e il nulla non sono più condizioni che bloccano il vivere e l’impegno.
Se la vita non ha il gusto della vita, ma ha il gusto della morte, nasce l’angoscia che determina la ricerca – vana – del potere, di ogni forma di potere, come vano surrogato di esistenza e di potenza, che trasforma la storia in un processo di competizioni e la relazione in un contesto di paure, perché l’altro – nella fosca ombra del niente -è un non-me, un attentato al mio essere. Inoltre, si scambia la gioia col piacere, come un disperato risarcimento in frammenti che non conoscono l’arte di essere posti come tessere nell’intero di un mosaico di vita.
L’esistenza nel Risorto fa cessare ogni istinto di potere, perché l’eredità del Risorto porta il senso « signorile » (Rom 6,5-9) della propria vita, dal momento che egli, Spirito vivificante, è il segreto del corpo che è sotto la luce del suo essere.
Noi abitiamo un tempo trasfigurato, come anticipo che non sogna un « al di là », ma vive con fedeltà il « qui-ora » come veracità della verità risorta di tutto il cosmo e la storia (qui tutta la forza di Rom 8,19-25) e che avrà compimento « lassù » (Col 3,1-4), quando si manifesterà Cristo nostra vita.

Memoria passionis e promissionis
Quando dallo sguardo al mistero passiamo allo sguardo sul mondo e sulla storia, la prima cosa che abbiamo da compiere è la memoria passionis: nella liturgia celeste l’agnello che « sta » nella posizione del Risorto resta sempre immolato (Ap 5). In lui resta il segno della passione e della morte, per ricordarci che la fede nella risurrezione, anzi nel Risorto, contiene dentro di sé e sancisce il criterio dell’ »autorità dei sofferenti ». Di qui la chiamata ad un «ecumenismo della compassione» (J.B. Metz) che porta dentro di sé una speranza che si basa sulla memoria della promessa (quale forza in Cristo assume anche la « grande compassione » buddista!).
La memoria che lo Spirito realizza in noi (Gv 14,26) non è un ricordo, ma l’attualizzazione della promessa di Dio attraverso l’opera nostra, come chiesa e come singoli. L’escatologia chiede che la storia sia un anticipo della pienezza finale, attraverso gesti forse poveri ma realizzatori della pienezza.
In concreto, qui l’affermazione conclusiva della storia che Dio dà in Ap 21,4 (che riprende la promessa di Is 25,8: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»), diventa la necessità di coloro che vivono la caparra della risurrezione ad essere asciugatori di lacrime, dal gesto maternale della carezza fino all’impegno in una politica, come arte di costruire una polis dove pace, giustizia, verità non siano parole ma stoffa della vita, non gioco di potere ma potenza di servizio (e tutti sappiamo quanto questo sia manchevole e necessario). Quanto avviene nella gloria che il cuore vive nella celebrazione della pasqua, nella luminosa notte pasquale, ha da muovere le mani nei giorni feriali della storia.
Di questo sono testimoni la teologia della speranza e la teologia della liberazione, che non sono episodi culturali, ma presenze necessarie nel vivere dei cristiani.

Uomo e cosmo
Se ricordiamo la Contra gentiles di s. Tommaso nei capitoli 15-19 del terzo libro, noi comprendiamo che il destino della pienezza riguarda non solo l’uomo, ma tutte le creature e l’intero cosmo: «conseguire Dio ognuno nella propria maniera». Lasciamo nell’enigma il tema dei « cieli nuovi » e della « terra nuova » (2Pt 3,13), ma teniamo di conto la bellezza della comunanza del desiderio e della promessa che riguarda tutte le creature. L’antico cuore della chiesa ha sentito questo quando nell’Exultet, dopo gli angeli, per prima viene invitata alla gioia non la chiesa ma «la terra inondata da così grande splendore». Ora si adempie la promessa di Gen 8,21-22 e l’arco delle saette degli dèi è stato trasformato nell’iride dell’alleanza di Dio con ogni « carne » (Gen 9, 11-17). Questa promessa raggiunge la verità del compimento nel corpo risorto di Gesù. In lui l’intera materia e l’intera basar-carne diventano glorificate. E questo ha il suo acme nel mistero dell’ascensione, che porta la materia e l’universo nel cuore stesso di Dio mediante il corpo dell’Agnello immolato e risorto che sale nel fastigio della gloria.
Nasce un nuovo modo di procedere, quello di un cuore largo come la spiaggia del mare che accoglie ogni onda e ogni relitto. In esso l’operosità di carità di una fede ricca di speranza vive la feconda intesa insieme a tutte le creature, in ogni nuova via verso la verità (GS 44).
La fede sente sorelle e sodali le scienze e la cultura creativa umana. La coscienza della risurrezione intride il quotidiano e porta motivazione ad una tecnica che chiede una risposta di senso. E anche se non la chiede – ma ce l’ha dentro di sé! – noi la portiamo e la doniamo, non come colonizzazione delle scienze, ma come offerta fraterna di un servizio di gioia.

Paolo Giannoni

MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE – RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/084q04a1.html

MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE

Volti di donne in un vociante corteo

di Gianfranco Ravasi

« Anche noi, povere donne senza più lacrime, lasciammo il Calvario con Giovanni, che da quel momento mi prese con sé. E nei giorni del pianto, per confortarmi mi raccontò molte cose di lui. Anch’io gli raccontai quelle cose che, dalla sua prima infanzia, mi erano accadute per causa di lui, e che io conservavo diligentemente nel cuore. E il contarcele e il ricontarcele era un modo di continuare a vivere con lui, a vivere di lui ». Sono le parole finali di una delicata autobiografia immaginaria di Maria stesa poco prima della sua morte dallo scrittore e sacerdote pavese Cesare Angelini e pubblicata nel 1976 con il titolo La vita di Gesù narrata da sua Madre.
Anche noi abbiamo pensato – sia pure in modo non « letterario », ma esegetico – di raccogliere il filo dei ricordi che partono da quel tardo pomeriggio di un venerdì primaverile di una data imprecisata degli anni 30 dell’era cristiana, quando Maria e il discepolo amato scesero da un piccolo sperone roccioso della periferia di Gerusalemme, chiamato « Golgota », in aramaico « cranio », ribattezzato dai romani « Calvario ». Di quelle ore tragiche, iniziate in un giardino della valle del Cedron, il torrente orientale di Gerusalemme, nella notte del giovedì, abbiamo un ricco resoconto offerto da tutti gli evangelisti, un resoconto che è anche meditazione e teologia, contrassegnato dalla memoria storica e dalla fede degli scrittori sacri. Ebbene, noi sfoglieremo quelle quattro narrazioni con una finalità ben precisa e circoscritta, ossia la ricerca del volto della Madre del condannato Gesù di Nazaret. Ma ecco, subito, una sorpresa.
Da secoli la pratica popolare della Via Crucis, sorta probabilmente all’epoca delle crociate tra il XII e il XIV secolo ci ha abituati a incrociare Maria lungo quella strada di Gerusalemme che porta ancor oggi il nome di Via dolorosa. Il corteo vociante avanza sotto la guida e la responsabilità del cosiddetto exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione della condanna per crocifissione. Il condannato è scortato da quattro soldati armati di lance, dietro e ai lati si ammassa la folla dei curiosi. Dalle case e dai negozi si affacciano i cittadini di Gerusalemme, un po’ come avviene ancor oggi quando per questa stessa strada si muove la processione dei pellegrini che è diretta al Santo Sepolcro pregando e cantando. Soste per cadute del condannato o per piccoli incidenti di percorso sono scontate e alcune sono registrate dagli stessi vangeli: pensiamo, per esempio, a Simone di Cirene, un ebreo della diaspora residente a Gerusalemme, che, rientrando dalla campagna, è costretto a portare per un tratto la croce del Cristo.
La Via Crucis, però, ci ha abituati a una sosta tutta particolare: è la quarta stazione, quella in cui gli occhi di Gesù velati dalla sofferenza si incontrano con quelli, velati di lacrime, di sua madre. Tuttavia Marco, Matteo, persino Luca e Giovanni, più attenti a segnalare la presenza di Maria accanto a Gesù, tacciono. Forse si potrebbe ipotizzare che il volto di Maria si nasconda, quasi anonimamente, tra quelle donne che Luca ritaglia tra la folla dei curiosi. Erano « donne che si battevano il petto e facevano lamenti su Gesù. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli! Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! (…) Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (Luca, 23, 27-31).
Le parole di Gesù sono piuttosto aspre: il legno secco a cui si appicca il fuoco è il simbolo del peccato che verrà incenerito dal giudizio di Dio, mentre il legno verde è segno dell’uomo giusto, Cristo stesso, che si tenta ora di eliminare col giudizio umano. Ma è difficile pensare che tra quelle donne ci sia Maria. Esse, infatti, altro non sono che le caratteristiche lamentatrici professionali « che si battevano il petto e facevano lamenti » in occasione dei riti funebri. Forse erano alcune pie donne assistenti dei condannati a morte, una specie di « confraternita della buona morte ». Cristo non ha bisogno di compianto e di pie consolazioni e, pur non rifiutando quel gesto di solidarietà, lancia a loro un messaggio di penitenza invitandole piuttosto a pensare alla loro imminente tragedia. Quella tragedia che, dopo pochi decenni, nel 70, spazzerà via la città santa e ne annienterà gli abitanti sotto l’incombere delle armate romane di Vespasiano e Tito.
Certo è che alla fine ritroveremo Maria sulla cima del Golgota. È per questo, allora, che i vangeli apocrifi non hanno esitato a colmare liberamente e un po’ fantasticamente quel vuoto alla narrazione evangelica canonica offrendo in tal modo la fonte per quella stazione della Via Crucis. Così, nel Vangelo di Gamaliele, giunto a noi in una versione etiopica del v-vi secolo, ma di origine più antica, Maria è ripetutamente in scena durante la passione. È lei che consola l’apostolo Giovanni scoraggiato per il tradimento di Pietro. Ed è lei che con altre donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea si incammina dietro a quel lugubre corteo. Anzi, secondo questo testo popolare, scoppia anche un piccolo alterco con alcune spettatrici della scena, cioè con le madri degli innocenti trucidati da Erode al tempo della nascita di Gesù. « C’erano là delle donne: Giovanna, moglie di Cusa, Maria Maddalena e Salome. Esse abbracciarono la Vergine nostra signora e la sostennero. Un lamento interiore serpeggiava nella cerchia di tutte queste sante donne che piangevano pronunziando commoventi parole. Ma altre donne ebree, udendo il pianto, ingiuriavano Maria dicendo: È giunta per noi oggi la vendetta contro di te e contro tuo figlio. Per colpa tua il nostro grembo rimase senza figlio, due anni dopo che tu generasti il tuo! ».
Il corteo della crocifissione esce finalmente dalle mura della città e sale sul Calvario. Qui finalmente il silenzio dei vangeli riguardo a Maria si rompe. A tutti è noto che l’evangelista Giovanni racconta un episodio molto essenziale, ma segnato da intense allusioni spirituali. Gesù ormai è stato innalzato da terra ed è alle soglie dell’agonia in croce. È a questo punto che Giovanni aggiunge: « Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Gesù, allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo; Ecco tua madre! E da quel momento il discepolo la accolse con sé » (19, 25-27). Qual è il valore di questo atto estremo di Cristo? È solo una raccomandazione, piena di amore filiale, indirizzata al discepolo più caro perché si incarichi del sostentamento e della protezione di Maria? Oppure nei dati realistici del racconto si nascondono ulteriori significati simbolici spirituali?
Le parole di Gesù sono solo un « testamento domestico », come scriveva sant’Ambrogio, o sono la rivelazione di una nuova maternità spirituale di Maria, come ha dichiarato lo stesso vescovo di Milano e come hanno ripetuto Pio xii nell’enciclica Mystici Corporis e Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Mater? L’affidamento di Maria a Giovanni è ricordato solo per ribadire la verginità di Maria, priva di altri figli a cui essere affidata, come volevano i primi vescovi e scrittori della Chiesa, da Atanasio a Ilario, da Girolamo ad Ambrogio? Oppure, secondo quanto scriveva un altro di questi padri della Chiesa, Efrem siro (iv secolo), come Mosè incaricò Giosuè di prendersi cura del popolo ebraico in sua vece, così Gesù incaricò Giovanni di prendersi cura di Maria, cioè della Chiesa, popolo di Dio?
Ai piedi della croce sono presenti quattro donne: di tre conosciamo i nomi, Maria madre di Gesù, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala, della quarta è riferita solo la parentela, è la sorella di Maria e quindi la zia di Gesù, il cui nome forse non era stato conservato sino al momento della tarda stesura del quarto vangelo. Gli altri evangelisti, però, introducono anche altre donne: Maria, madre di Giacomo, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, Giovanna. Spesso si permetteva ai parenti, agli amici e ai nemici di una persona crocifissa di seguire le ultime ore di quell’atroce agonia. Sappiamo, per esempio, che un infame re ebreo della dinastia degli Asmonei, Alessandro Janneo, discendente dei grandi Maccabei, che regnò dal 102 al 76 prima dell’era cristiana, aveva fatto crocifiggere i capi farisei di una rivolta contro il suo regime. Egli aveva voluto che attorno alle croci fossero raccolte le famiglie dei singoli condannati perché assistessero al supplizio e i crocifissi vedessero il pianto disperato delle loro mogli e dei bambini, mentre il re, sotto un lussuoso padiglione, banchettava con le sue concubine.
L’obiettivo di Giovanni si fissa, però, solo su due visi. Il primo, naturalmente, è quello di Maria, il secondo è quello del « discepolo che Gesù amava ». Si è discusso a lungo sull’identità di questo discepolo che è citato soltanto sei volte nel quarto vangelo e solo a partire dalla passione (vedi Giovanni 13, 23-26). Alcuni hanno pensato persino a Lazzaro a cui Gesù « voleva molto bene », anzi, era « colui che egli amava » (Giovanni, 11, 3-5). Altri sono ricorsi a Giovanni Marco, il cristiano discepolo di Paolo e di Pietro, che aveva una casa a Gerusalemme (Atti, 12, 12) e che la tradizione identifica con l’evangelista Marco. Più semplice è il riferimento tradizionale all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo. Tuttavia l’espressione usata dall’evangelista sembra avere una risonanza ulteriore: in Giovanni di Zebedeo si vuole quasi certamente rappresentare anche il ritratto del perfetto discepolo, il titolo acquista anche un valore simbolico. Il teologo Max Thurian nel suo libro Maria, Madre del Signore e figura della Chiesa definiva questa figura come « la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele del Cristo, del credente che ha ricevuto lo Spirito ». Il quarto evangelista, allora, in questa scena ai piedi della croce vuole ricamare un’immagine ulteriore che supera i semplici connotati storici.
Decisiva in questa linea è la doppia dichiarazione di Gesù. Non si tratta di una formula d’adozione, come è stato ipotizzato da qualche studioso, perché non ne ricalca lo schema giuridico: « Tu sei mio figlio… » (Salmi, 2, 7). È, invece, una formula di rivelazione, simile a quella celebre del Battista: « Ecco l’agnello di Dio! ». Non siamo, quindi, di fronte a un semplice atto sociale che sfocia in un incarico del tipo: « Io ti lascio mia madre perché te ne prenda cura ». Siamo, invece, davanti a una duplice parola solenne che svela il mistero e il significato ultimo di una persona. La prima « rivelazione » è indirizzata a Maria interpellata con un inatteso vocativo: « Donna! ». Questo termine, usato normalmente nel mondo ebraico e greco e anche da Gesù nei confronti delle donne – la cananea della zona di Tiro e Sidone a cui guarisce la figlia, la samaritana, la donna curva guarita in giorno di sabato, l’adultera, Maria di Magdala – è piuttosto strano se usato nei confronti della propria madre. Eppure Gesù si era già rivolto a sua madre con questo appellativo agli inizi della sua missione, proprio come ora lo fa alla fine. A Cana, durante il pranzo nuziale, riferendosi idealmente al momento che si sta adesso compiendo – quello che Giovanni chiama « l’ora » per eccellenza -, aveva detto a Maria: « Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora » (Giovanni, 2, 4).
Il titolo solenne « Donna » vuole alludere, secondo il gioco dei rimandi simbolici caro al quarto vangelo, alla « donna » che sta alla radice della storia umana e a quel celebre passo della Genesi: « Io porrò inimicizia tra il serpente e la donna, tra il suo seme e quello della donna (…) L’uomo chiamò la donna Eva perché essa fu la madre di tutti i viventi » (3, 15.20). La prima donna era stata l’inizio e la madre dell’umanità intera; ora Maria diventa l’inizio e la madre di tutti i credenti nel Figlio suo. Maria appare ora nella sua funzione materna, quella di essere la madre di tutti i fedeli, segno della Chiesa che genera nuovi figli a Dio e li protegge dal drago del male, come si dirà anche in un famoso passo dell’Apocalisse: « Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bimbo appena nato. Essa partorì un figlio maschio » (12, 4-5).
La « donna » Maria, nuova Eva, sta quindi vivendo l’ »ora » del suo Figlio come sua « ora »: come il Cristo, soffrendo e morendo, genera la salvezza, così Maria, soffrendo e perdendo tutto, diventa madre della Chiesa. Infatti, la seconda dichiarazione di Gesù presenta al discepolo amato, simbolo dei credenti, la sua madre spirituale: « Ecco tua madre! ». È curioso notare che nella trentina di parole che compongono l’originale greco del brano per ben cinque volte si ripete il vocabolo mèter, « madre ». Già sant’Ambrogio vedeva in Maria ai piedi della croce il mistero della Chiesa e nel discepolo amato il cristiano figlio della Chiesa. A questo punto Maria e il discepolo lasciano il Calvario; il cadavere di Gesù sta per essere deposto nel sepolcro nuovo di un uomo benestante di Arimatea, Giuseppe. Ma Giovanni ci lascia un’ultima, piccola indicazione: il discepolo accoglie con sé Maria.
Questa annotazione è stata spesso interpretata come una semplice notizia di cronaca: il termine greco usato per descrivere questo avere « con sé » Maria è ìdia e può significare anche « casa, proprietà, patria ». E possibile certamente intendere, come fa qualche versione della Bibbia, che il discepolo amato « prese nella sua casa » Maria. È nata da qui la tradizione popolare secondo cui Maria avrebbe seguito Giovanni in Asia Minore (Turchia) e sarebbe morta a Efeso. Ancor oggi a otto chilometri dalle celebri rovine di Efeso su un monte in un paesaggio verdeggiante, si leva una chiesetta collegata idealmente alla residenza efesina di Maria e Giovanni. Tuttavia, se noi continuiamo a seguire il filo dei rimandi a cui il quarto vangelo ci ha abituati, ci accorgiamo che quella parola greca è carica di altri significati. Nel prologo del vangelo, per esempio, il termine greco ìdia/ìdioi indica « i suoi », la sua gente, cioè il popolo a cui Gesù apparteneva: « Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto » (1, 11). E alle soglie della morte di Gesù, Giovanni scriverà questa bellissima frase: « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi (ìdioi) che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine » (13, 1). La frase che chiude la scena del Calvario è, allora, carica di una risonanza ulteriore: Maria e il discepolo non solo avranno la stessa residenza ma saranno in comunione di fede e di amore proprio come il cristiano che accoglie e vive in comunione profonda con la Chiesa, sua madre.
Questa scena del Calvario che abbiamo ora rammentato è ormai nella mente, nel cuore e nella fantasia di tutti, anche perché a partire dal vii secolo la raffigurazione della crocifissione è entrata trionfalmente nell’arte cristiana – prima si preferiva rappresentare solo il Cristo risorto, glorioso coi segni della passione. Anche la scena successiva della deposizione dalla croce ha avuto infinite presentazioni artistiche: chi non conosce la Pietà di Michelangelo della basilica di San Pietro e chi non si commuove di fronte all’altra, meno nota, ma altrettanto straordinaria, Pietà di Michelangelo, quella cosiddetta « Rondanini » del Castello Sforzesco di Milano, in cui il Cristo morto sembra quasi ritornare nel grembo di Maria? Ma è col Settecento che inizia ad avere grande successo la figura della Mater dolorosa, sulla scia della festa della Madonna Addolorata, che si celebra il 15 settembre. Maria è raffigurata col cuore trafitto da sette spade, simbolo del dolore supremo, per evocare quella misteriosa profezia che le aveva indirizzato il vecchio Simeone durante la presentazione di Gesù bambino al Tempio: « Anche a te una spada trafiggerà l’anima » (Luca, 2, 35). È come se simbolicamente la lancia che aveva trafitto il costato del Figlio morto trapassasse ora anche la Madre.
Ed è davanti a questa figura di donna e madre « addolorata », segno e sintesi di tutte le donne e le madri addolorate, che si scioglieranno i canti più noti della pietà cristiana e mariana. Tra queste voci, la più celebre è certamente lo Stabat Mater, il bellissimo lamento attribuito a Jacopone da Todi (xiii secolo) ed entrato anche nella liturgia. Lo si potrebbe ascoltare con tutte le sue appassionate sfumature umane e spirituali in una delle numerosissime rese musicali: da quella del Palestrina (1525-1594), che ne stese due rispettivamente a 8 e a 12 voci, a quella di Alessandro Scarlatti (1660-1725) che scrisse anche due oratori dedicati ai Dolori di Maria sempre Vergine (1703) e alla Vergine addolorata (1717); dallo Stabat Mater che Pergolesi (1710-1736) compose per una confraternita napoletana nel convento cappuccino di Pozzuoli, ove si era ritirato per curarsi la tisi e ove morirà giovanissimo, « un divino poema di dolore », come lo definirà Bellini, a quello sontuoso e laborioso di Rossini che lo iniziò, lo interruppe e lo completò solo anni dopo, nel 1841; da quello mirabile di Verdi (1897) fino a quello, molto suggestivo, del musicista ceco Antonín Dvorák che lo compose a Praga nel 1877, lo propose nel 1880 per dirigerlo di persona con un vero trionfo nel 1884 a Londra.
Ma prima di concludere il nostro viaggio con Maria lungo la Via dolorosa sorge spontanea una domanda: Maria incontra suo Figlio risorto? Negli scritti canonici il Cristo risorto appare a Maria di Magdala, alle donne che accorrono al sepolcro la mattina di Pasqua, agli apostoli, ai due discepoli di Emmaus. Ma su Maria non c’è una sola parola dopo la grande scena del Calvario. La tradizione popolare si è, invece, affidata ancora una volta al terreno piuttosto insicuro degli apocrifi, col citato Vangelo di Gamaliele. Secondo questo testo Maria, prostrata dalla prova, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce della sepoltura del Cristo. Maria, però, non si rassegna a restare lontana dalla tomba di suo figlio e dice tra le lacrime a Giovanni: « Anche se la tomba di mio figlio fosse l’arca di Noè, io non ne riceverei nessun conforto se non la vedo e vi possa versare sopra le mie lacrime. Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba stanno quattro soldati dell’esercito del governatore! (…) La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro. Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro. Allora esclamò: questo miracolo è avvenuto a favore di mio figlio! Si sporse in avanti, ma non vide all’interno del sepolcro il corpo del figlio. Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era abbattuto e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita. La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste ».
Maria, però, non riconosce in questa figura gloriosa suo figlio e allora inizia un dialogo con l’essere misterioso simile a quello che il vangelo di Giovanni (20, 11-18) riferisce tra Maria Maddalena e il Cristo, scambiato per il custode del cimitero. Alla fine, però, ecco lo scioglimento dell’enigma: « Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo figlio! Io sono il Gesù che consola la tua tristezza, io sono il Gesù per la cui morte hai pianto, io sono il Gesù per il cui amore hai versato lacrime. Ma ora sono vivo e ti consolo con la mia risurrezione prima di tutti gli altri. Nessuno ha portato via il mio cadavere, ma sono risorto per volere del Padre, o madre mia! Udite queste parole, il cuore della Vergine si colmò di consolazione, cessò di piangere e di essere smarrita ed esclamò: Sei dunque risorto, mio Signore e mio figlio! Felice risurrezione! E si inginocchiò a baciarlo ». Ma non è questa l’unica testimonianza tradizionale dell’incontro del Cristo risorto con sua madre. Ne vogliamo citare un’altra, molto fastosa e solenne, tratta dalla pietà popolare della comunità cristiana d’Egitto, i Copti. Si tratta appunto di un frammento copto del v-vii secolo, traduzione di testi più antichi.
« Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, gridò: Maricha, marima, Thiath! – che significa: « Mariam, madre del Figlio di Dio! ». Mariam ne capiva il senso, perciò si volse e rispose: Rabboní, Kathiath, Thamioth! – che significa: « Figlio di Dio onnipotente, mio Signore e mio figlio! ». Il Salvatore le disse: Salve a te che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo nel mondo! Salve, mia brocca piena d’acqua santa! (…) Tutto il paradiso gioisce per merito tuo. Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita. Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (…) Maria disse a suo figlio: Gesù, mio Signore e mio figlio unico, prima di andare nei cieli da tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se vuoi che io non ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno. Il Figlio di Dio si innalzò, allora, sul suo carro di Cherubini mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine ». A noi che preferiamo stare solo sulla solida base della tradizione neotestamentaria basterà suggellare il nostro itinerario nelle ore della Passione in compagnia di Maria ricorrendo alla nota del capitolo di apertura degli Atti degli Apostoli, quando tutta la comunità cristiana attende il dono dello Spirito, unita attorno a Maria: « Erano tutti assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di lui » (1, 14).

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA 2013 – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130330_veglia-pasquale.html

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA 2013 – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana

Sabato Santo, 30 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle!

1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.
Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.
2. Ma torniamo al Vangelo, alle donne e facciamo un passo avanti. Trovano la tomba vuota, il corpo di Gesù non c’è, qualcosa di nuovo è avvenuto, ma tutto questo ancora non dice nulla di chiaro: suscita interrogativi, lascia perplessi, senza offrire una risposta. Ed ecco due uomini in abito sfolgorante, che dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24, 5-6). Quello che era un semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore – il recarsi al sepolcro – ora si trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella, a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!
Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole.

3. C’è un ultimo semplice elemento che vorrei sottolineare nel Vangelo di questa luminosa Veglia Pasquale. Le donne si incontrano con la novità di Dio: Gesù è risorto, è il Vivente! Ma di fronte alla tomba vuota e ai due uomini in abito sfolgorante, la loro prima reazione è di timore: «tenevano il volto chinato a terra» – nota san Luca -, non avevano il coraggio neppure di guardare. Ma quando ascoltano l’annuncio della Risurrezione, l’accolgono con fede. E i due uomini in abito sfolgorante introducono un verbo fondamentale: ricordate. «Ricordatevi come vi parlò, quando era ancora in Galilea… Ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,6.8). Questo è l’invito a fare memoria dell’incontro con Gesù, delle sue parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è proprio questo ricordare con amore l’esperienza con il Maestro che conduce le donne a superare ogni timore e a portare l’annuncio della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli altri (cfr Lc 24,9). Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita!
In questa Notte di luce, invocando l’intercessione della Vergine Maria, che custodiva ogni avvenimento nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), chiediamo che il Signore ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle sorprese di Dio, tanto belle; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni, cari fratelli e sorelle, ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo. Amen.

 

BENEDETTO XVI – MEDITAZIONE SUL SIGNIFICATO DELLA PASQUA

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060419.html

BENEDETTO XVI – MEDITAZIONE SUL SIGNIFICATO DELLA PASQUA

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 19 aprile 2006

Cari fratelli e sorelle!

All’inizio dell’odierna Udienza generale, che si svolge nel clima gioioso della Pasqua, vorrei insieme a voi ringraziare il Signore, che dopo avermi chiamato esattamente un anno fa a servire la Chiesa come Successore dell’apostolo Pietro – grazie per la vostra gioia, grazie per la vostra acclamazione -, non manca di assistermi con il suo indispensabile aiuto. Come passa in fretta il tempo! È già trascorso un anno da quando, in maniera per me assolutamente inaspettata e sorprendente, i Cardinali riuniti in Conclave hanno voluto scegliere la mia persona per succedere al compianto e amato Servo di Dio, il grande Papa, Giovanni Paolo II. Ricordo con emozione il primo impatto che dalla Loggia centrale della Basilica ho avuto, subito dopo la mia povera elezione, con i fedeli raccolti in questa stessa Piazza. Mi resta impresso nella mente e nel cuore quell’incontro al quale ne sono seguiti tanti altri, che mi hanno dato modo di sperimentare quanto sia vero ciò che ebbi a dire nel corso della solenne concelebrazione con la quale ho iniziato solennemente l’esercizio del ministero petrino: « Sento viva la consapevolezza di non dover portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo ». E sempre più sento che da solo non potrei portare questo compito, questa missione. Ma sento anche come voi lo portiate con me: così sono in una grande comunione e insieme possiamo portare avanti la missione del Signore. Mi è di insostituibile sostegno la celeste protezione di Dio e dei santi, e mi conforta la vicinanza vostra, cari amici, che non mi fate mancare il dono della vostra indulgenza e del vostro amore. Grazie di vero cuore a tutti coloro che in vario modo mi affiancano da vicino o mi seguono da lontano spiritualmente con il loro affetto e la loro preghiera. A ciascuno chiedo di continuare a sostenermi pregando Iddio perché mi conceda di essere pastore mite e fermo della sua Chiesa. Narra l’evangelista Giovanni che Gesù proprio dopo la sua resurrezione chiamò Pietro a prendersi cura del suo gregge (cfr Gv 21, 15 .23). Chi avrebbe potuto allora umanamente immaginare lo sviluppo che avrebbe contrassegnato nel corso dei secoli quel piccolo gruppo di discepoli del Signore? Pietro insieme agli apostoli e poi i loro successori, dapprima a Gerusalemme e in seguito sino agli ultimi confini della terra, hanno diffuso con coraggio il messaggio evangelico il cui nucleo fondamentale e imprescindibile è costituito dal Mistero pasquale: la passione, la morte, la risurrezione di Cristo. Questo mistero la Chiesa celebra a Pasqua, prolungandone la gioiosa risonanza nei giorni successivi; canta l’alleluja per il trionfo di Cristo sul male e sulla morte. « La celebrazione della Pasqua secondo una data del calendario – nota il Papa san Leone Magno – ci ricorda la festa eterna che supera ogni tempo umano ». « La Pasqua attuale – egli nota ancora – è l’ombra della Pasqua futura. E’ per questo che la celebriamo per passare da una festa annuale a una festa che sarà eterna ». La gioia di questi giorni si estende all’intero anno liturgico e si rinnova particolarmente la domenica, giorno dedicato al ricordo della resurrezione del Signore. In essa, che è come la « piccola Pasqua » di ogni settimana, l’assemblea liturgica riunita per la Santa Messa proclama nel Credo che Gesù è risuscitato il terzo giorno, aggiungendo che noi aspettiamo « la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà ». Si indica in tal modo che l’evento della morte e risurrezione di Gesù costituisce il centro della nostra fede ed è su quest’annuncio che si fonda e cresce la Chiesa. Ricorda in maniera incisiva sant’Agostino: «Consideriamo, carissimi, la Risurrezione di Cristo: infatti, come la sua Passione ha significato la nostra vita vecchia, così la sua risurrezione è sacramento di vita nuova…Hai creduto, sei stato battezzato: la vecchia vita è morta, uccisa nella croce, sepolta nel Battesimo. E’ stata sepolta la vecchia nella quale hai vissuto: risorga la nuova. Vivi bene: vivi così che tu viva, affinché quando sarai morto, tu non muoia» (Sermo Guelferb. 9, 3). I racconti evangelici, che riferiscono le apparizioni del Risorto, si concludono abitualmente con l’invito a superare ogni incertezza, a confrontare l’evento con le Scritture, ad annunciare che Gesù, al di là della morte, è l’eterno vivente, fonte di vita nuova per tutti coloro che credono. Così avviene, ad esempio, nel caso di Maria Maddalena (cfr Gv 20,11-18), che scopre il sepolcro aperto e vuoto, e subito teme che il corpo del Signore sia stato portato via. Il Signore allora la chiama per nome, e a quel punto avviene in lei un profondo cambiamento: lo sconforto e il disorientamento si convertono in gioia ed entusiasmo. Con sollecitudine ella si reca dagli Apostoli e annunzia: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). Ecco: chi incontra Gesù risuscitato viene interiormente trasformato; non si può « vedere » il Risorto senza « credere » in lui. Preghiamolo affinché chiami ognuno di noi per nome e così ci converta, aprendoci alla « visione » della fede. La fede nasce dall’incontro personale con Cristo risorto, e diventa slancio di coraggio e di libertà che fa gridare al mondo: Gesù è risorto e vive per sempre. E’ questa la missione dei discepoli del Signore di ogni epoca e anche di questo nostro tempo: « Se siete risorti con Cristo – esorta san Paolo – cercate le cose di lassù… pensate alle cose di lassù, e non a quelle della terra » (Col 3,1-2). Questo non vuol dire estraniarsi dagli impegni quotidiani, disinteressarsi delle realtà terrene; significa piuttosto ravvivare ogni umana attività come un respiro soprannaturale, significa farsi gioiosi annunciatori e testimoni della risurrezione di Cristo, vivente in eterno (cfr Gv 20,25; Lc 24,33-34). Cari fratelli e sorelle, nella Pasqua del suo Figlio unigenito Dio rivela pienamente se stesso, la sua forza vittoriosa sulle forze della morte, la forza dell’Amore trinitario. La Vergine Maria, che è stata intimamente associata alla passione, morte e risurrezione del Figlio e ai piedi della Croce è diventata Madre di tutti i credenti, ci aiuti a comprendere questo mistero di amore che cambia i cuori e ci faccia pienamente gustare la gioia pasquale, per poter poi comunicarla a nostra volta agli uomini e alle donne del terzo millennio.

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