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AGOSTINO D’IPPONA: SANGUE SPARSO – Vittorino Grossi, osa

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AGOSTINO D’IPPONA: SANGUE SPARSO

Vittorino Grossi, osa

(Vittorino Grossi è stato mio professore, non è molto importante, ma mi fa piacere presentarvi qualcosa di suo)

SOMMARIO
1. La morte di Cristo.
2. « Il sangue sparso » e i sacramenti.
3. « Sangue sparso-remissione dei peccati » (La II Penitenza).
4. Il « sangue sparso » e la celebrazione eucaristica.
5. Conclusioni.
Note
Bibliografia

Il tema del « sangue sparso » era molto comune nell’antichità cristiana fin dai tempi subapostolici. Lo esaminiamo soprattutto nel Commento di s. Agostino al Vangelo di Giovanni. Esso rappresenta, nell’opera agostiniana, un ampio arco di tempo (dal 406 al 418), e riflette perciò le linee del pensiero di Agostino relativo sia alla polemica donatista che a quella pelagiana. La polemica donatista approfondì la natura essenziale circa le questioni sacramentarie. Un sacramento, ne fu la conclusione, è della Chiesa, ne è essa il ministro, perciò a nessuna persona singola è concesso sia di monopolizzarlo che di manipolarlo. La polemica pelagiana approfondì l’universalità della redenzione. Cristo, cioè, ha sparso il suo sangue per tutti e non solo per una classe di uomini, gli adulti, che sarebbero in possesso di una supposta coscienza sviluppata e perciò responsabili del loro agire, escludendo di conseguenza i menomati psichici e in particolare i bambini.
Nella questione del « sangue di Gesù » si ha quindi, nel Commento a Giovanni, l’intreccio della questione sacramentaria con quella più generale della « morte di Cristo », cioè le ragioni soteriologiche. Il « sangue sparso » era già, ai tempi di Agostino, un’espressione tecnica per significare la morte. Questa riceve significato dal come e dal perché la si accetta. Cristo poteva dare e diede significato alla sua morte, constatata come quella di tutti che avvenne, tra l’altro, con una grande dispersione di sangue. Morire perciò fu per lui anche uno « spargere sangue » fisicamente, sino a non averne più, morì
cioè anche lui. Agostino, d’altra parte, visse in un momento storico in cui le città romane, sottoposte ad assedi e occupazioni da parte di popoli invasori, venivano spesso lasciate intrise di tanto sangue umano. Il sangue sparso degli uomini ritrovava allora nella riflessione di Agostino un suo significato nel « sangue sparso » di Cristo. Egli perciò nel Tractatus in lohannem (cfr 119, 4) parla della morte che, in Cristo, riceve significato dall’umiltà di accettarla (cfr 119, 4); ne parla come vita perché in Cristo si tratta della morte del re delle genti (cfr 117, 5). Morendo lui vivono gli altri, perché Cristo rappresenta l’uomo che, pur morendo, non muore; l’uomo che, se muore lui, muoiono tutti. Parlando della morte di Cristo si parla perciò della « potenza della sua morte » e non della sua disfatta a causa della morte, così come abitualmente si dice della morte di tutti (cfr 31, 6).

1. LA MORTE DI CRISTO
La morte di Cristo è vista da Agostino come espressione di somma libertà per lui e di speranza per l’umanità di non sottostare più alla condanna di dover morire. La morte del Signore non fu cioè frutto di un destino segnato, da capire all’interno del fatum pagano, ma frutto ed espressione di una libertà somma. Cristo infatti, per Agostino, non subì la morte, ma l’aspettò come aveva atteso il tempo della sua nascita tra gli uomini (cfr Gv 7,30). Al concetto « agostiniano » di redenzione è perciò non solo necessaria, ma inerente la componente libertà. Il valore degli atti umani si misura sulla dimensione della libertà che in Cristo fu somma. Il sangue versato da Cristo non va valutato sul piano meramente fisiologico, quasi esso abbia valore in quanto tale, bensì quale sangue versato, cioè di vita donata. È questo un primo elemento per comprendere il sangue legato a una redenzione, anzi la semantica stessa del « sangue sparso » di Cristo include in Agostino tale nozione. La morte cruenta del Figlio di Dio è pertanto da leggersi nella sua vita non come un epilogo di nascita-crescita-morte, bensì nell’ambito della missione che doveva compiere.
Da tale base Agostino fa derivare la speranza umana di non disperare più di dover vagare lontano da Dio, anche per coloro stessi che lo uccisero. Cristo infatti cancellò sulla croce la sentenza di morte che gravava sull’umanità: morrete nel vostro peccato (Gv 8, 24). Egli, facendone un’applicazione alla comunione eucaristica, si esprime così: (Cristo) non considerava che riceveva la morte da loro, ma che moriva per loro. È così grande il favore ad essi accordato con la morte di Cristo, da loro inflitta e per loro accettata, che nessuno deve disperare per la remissione dei propri peccati… Continuarono (coloro che l’uccisero) a disperare nella loro salvezza, finché non bevvero il sangue che avevano versato (In Johannis Evangelium tractatus, 32, 9)… (Cristo) li richiamò alla speranza… Ridonò la speranza a chi l’aveva perduta… perfino a chi aveva ucciso Cristo… molti credettero, ricevettero il sangue di Cristo come dono affinchè, bevendolo, ottenessero la liberazione invece che essere condannati per la colpa di averlo versato: chi potrà dunque disperare? (Ib., 38, 7). La speranza è per tutti perché Cristo è morto per tutti, come venne indicato nel titolo di re appeso sul legno della croce. Se non si può alterare – si chiede Agostino – ciò che Pilato ha scritto, si potrà alterare ciò che la Verità ha detto? E poi Cristo è re soltanto dei Giudei o anche di tutte le genti? È certamente re di tutte le genti… Cristo dunque è il re dei Giudei, ma dei Giudei circoncisi nel cuore, secondo lo spirito e non secondo la lettera; è il re di coloro che traggono la loro gloria non dagli uomini ma da Dio, che appartengono alla Gerusalemme che è libera, che è la nostra madre celeste (Ih., 117, 5; vedi anche sul significato di Cristo « Re dei Giudei »: ib., 51, 4 e 9; Enarra-tiones in psalmos, 59, 9).

2. « IL SANGUE SPARSO » E I SACRAMENTI
Il rapporto tra il sangue versato sulla croce, in particolare quello uscito dal costato di Cristo secondo il racconto di Gv 19, 34, e i sacramenti, è preso in considerazione da Agostino nella sua omelia 120 del Commento a Giovanni, da datarsi dopo il 416. Al centro della riflessione di Agostino vi è Cristo redentore in primo luogo, e quindi, in secondo luogo, la Chiesa e i sacramenti. Il sangue di Cristo, uscito dal suo costato, ferito dalla lancia del soldato romano, costituisce ora il punto di partenza per decifrare sia la Chiesa che i suoi sacramenti.
Nell’ottica antidonatista Agostino articolava così il suo discorso soteriologico: i sacramenti della Chiesa operano ciò che significano e indipendentemente da chi li pone. Essi infatti non sono dei segni falsi e hanno valore perché Cristo è presente nel ministero di chi li pone. Emerge in questo modo di ragionare la centralità della Chiesa e quella di Cristo attraverso la mediazione dei segni sacri della Chiesa, vale a dire dei sacramenti. Ora invece, nell’omelia 120 del Commento a Giovanni, emerge sovrana la centralità del sangue di Cristo, dal quale traggono valore e comprensione la Chiesa e i suoi sacramenti. Agostino vuol rilevare l’universalità di Cristo redentore e come ogni efficacia di tale redenzione trae origine dal sangue versato sulla croce.
Ascoltiamone prima il testo principale e quindi daremo qualche rilievo di natura ecclesiologica e sacramentaria. Nel costato di Cristo, scrive Agostino, fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa… Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell’acqua tempera il calice della salvezza e e insieme bevanda e lavacro… Il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c’è di più puro di questo sangue? Che cosa c’è di più salutare di questa ferita? (In lohannis, o. e., 120, 2)1.

La Chiesa, secondo questo testo, nasce dal costato aperto di Cristo come da una porta, simile a Eva uscita dal fianco di Adamo assopito. L’immagine di Chiesa che ne risulta non è quella di una società già formata che vive della redenzione e dei sacramenti datile da Cristo, perché giunga alla vita eterna. La Chiesa sono gli uomini che, toccati dal Cristo redentore, escono dal suo fianco. Quel fiotto di sangue, che fluisce dal costato di Cristo, è la Chiesa, cioè gli uomini che, passando attraverso quel fiotto di sangue e acqua, la costituiscono. I redenti perciò non dicono riferimento immediato alla Chiesa ma a Cristo e, passando attraverso di lui, la sua passione, il suo sangue, formano e generano la Chiesa. È lui il primo, la Chiesa nasce da lui2. La porta di salvezza degli uomini e quindi della stessa Chiesa è primieramente il costato di Cristo e non i sacramenti, che sono invece la mediazione nata da quel sangue.
Agostino, nella medesima omelia, indica anche la dimensione di comprensione di tale realtà. Essa è la fede rivelataci dalle Scritture che, in Cristo, trovano il loro compimento (cfr ìb., 120, 3). L’approfondimento della fede egli lo sviluppa in modo particolare relazionandolo al battesimo. La stessa acqua battesimale deriva la sua virtus di purificazione dalla parola della fede e ciò sia per il bambino che per l’adulto3.

3. « SANGUE SPARSO-REMISSIONE DEI PECCATI »
(LA II PENITENZA)
Quanto a un esame in Agostino del binomio « sangue sparso-remissione dei peccati », considerato non a sé ma quale testimonianza della vita ecclesiale della fine del sec. IV e la prima metà del sec. V, va anzitutto rilevato come lui, in questioni riguardanti i misteri cristiani, avesse un istinto teologico tale che gli consentiva di non isolare per settori gli aspetti più diversi, percepiva i « frammenti cristiani » sempre all’interno di un tutto, che decifrava nel Cristo redentore, unico mediatore (la filigrana delle Confessioni e della Città di Dio). Tutto ciò fu in lui particolarmente vero a proposito della remissione dei peccati che, al suo tempo, conosceva un triplice modo di perdono: il battesimo (dato semel), la preghiera del Padre nostro considerata battesimo quotidiano, la « seconda penitenza » che, nella linea battesimale, veniva data una sola volta in vita. Agostino, pur attestandosi sulla prassi tradizionale del semel, immise in essa elementi che consentirono di superare i limiti connaturali alla regola di poterne usufruire una sola volta4.
Agostino pone la fondazione teologica del perdono nella Chiesa in una triade di natura sua non separabile: « sangue di Cristo, Spirito Santo e Chiesa ».
Il « sangue di Cristo », formula equivalente di quella tradizionale « sangue sparso », costituisce la radice del tutto; lo Spirito Santo mette in atto il perdono, cioè, come si esprimeva già Clemente Alessandrino, il sangue di Cristo diviene sangue spirituale per gli uomini. Il perdono, in altri termini, è il frutto che gli uomini colgono dall’albero della redenzione. Ciò viene reso possibile nella Chiesa, « luogo dello Spirito » secondo la tradizione asiatica accolta da quella africana, ma anche mediazione ministeriale perché a lei, a tale scopo, sono state date le chiavi del regno dei deli5.
Nel sermone sulla trasmissione del simbolo (il 214, datato nella quaresima del 391), Agostino, prete da poco tempo, spiega l’articolo « credo nella remissione dei peccati », sintetizzando la questione nel modo seguente: La Chiesa del Dio vivo… ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, affinchè in essa, per mezzo del sangue di Cristo, operante lo Spirito Santo, ci sia la remissione dei peccati (Sermones, 214,11). È questo un principio teologico che tiene presente l’insieme degli elementi riguardanti la remissione dei peccati. Agostino infatti colloca il perdono nella terza parte del simbolo, rispettandone l’articolazione, che era costruita sullo Spirito Santo; il quale nella Chiesa opera la remissione dei peccati, ma lo riannoda al sangue di Cristo che ne è la radice. A proposito di alcuni che facevano una catechesi parziale al riguardo, egli si chiede: Niente sullo Spirito Santo, niente sulla santa Chiesa, niente sulla remissione dei peccati? (De fide et operibus, 9,14).
Una questione connessa con la remissione dei peccati, oggi molto sentita pastoralmente, e che anche teologicamente inizia a essere sottoposta a una più attenta riflessione, riguarda l’ampiezza concreta accordata ai cristiani nell’antichità in occasione di gravi fallimenti spirituali. Già al tempo di Cipria-nò correnti rigoriste all’interno della « Cattolica » non accordavano la pace agli adulteri impedendo loro, di conseguenza, di accedere alla penitenza. Si adduceva la ragione che il perdono non costituisse motivo d’incitamento al crimine piuttosto che di allontanamento. Tertulliano montanista aveva formulato la regola nel modo seguente: La Chiesa può condonare un delitto, ma io (il Paraclito) non lo farò, affinchè altri non pecchino ulteriormente (De pudicitia, 21).
Al tempo di Agostino, verso il 396, esistevano ancora alcuni che negavano alla Chiesa il potere di remissione di ogni peccato (cfr De agone christiano, 31, 33). Quanto all’estensione di tale perdono egli ne indica la fonte nel Cristo morente sulla croce il cui sangue versato per la remissione dei peccati… è insieme bevanda e lavacro (In lohannis, o. c., 120, 2), e nel donarsi dello Spirito Santo che opera ogni remissione6.
Il vescovo d’Ippona ebbe chiara l’idea che la causa della riconciliazione è sempre la medesima in ogni modalità penitenziale 7; sul piano pratico, tuttavia, non si nascondeva la difficoltà che paragonava all’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi.
Scrivendo all’amico Paolino di Noia si confidava: Che dire, Paolino, del problema se si debba punire o meno… occorre tener presente non solo la natura e il numero delle colpe, ma anche la forza d’animo con cui uno sopporta o rifiuta il castigo, affinchè ne ritragga vantaggio o almeno non ne ricavi uno svantaggio. Quanto è misterioso tutto ciò… Quanto a me ti confesso che mi succede di sbagliare ogni giorno. Anche quando pare doveroso giudicare, quale ansia, quale angoscia (Epistulae, 95, 3)!
Nei testi penitenziali agostiniani possiamo cogliere alcune linee fondamentali che trovano la loro giustificazione nell’unica causa della riconciliazione: « il sangue versato sulla croce ». Tali linee sono:
1. Nessun crimine è sottratto al perdono della Chiesa. Egli scrive: L’impudicizia, l’idolatria e l’omicidio vengono puniti con scomuniche finché si risanino per mezzo della penitenza la più umile (De fide et operibus, 19,34). Certamente quella penitenza sa di lutto. C’è una ferita grave: forse un adulterio, forse un omicidio, forse un sacrilegio. È una cosa grave, c’è una ferita grave, letale, mortifera, ma (c’è) anche un medico che può tutto (Sermones, 352, 2, 8).
2. La scomunica che s’infligge per determinati crimini non riveste un significato strettamente penale ma medicinale, essa è quindi tesa al ravvedimento e perciò può essere inflitta solo per un determinato tempo (cfr Sermones, 331): si ha pertanto sempre un legame tra la scomunica e la riconciliazione (cfr Epistulae, 265, 7).
3. Si tollera, anche se a malincuore, la situazione di chi non accetta la scomunica, che si comporta come se nulla fosse successo8; e di chi sia almeno disposto ad accettare una correzione alternativa a quella penitenziale pubblica (cfr Sermones, 82,3-7; Epistulae, 73,9; De fide et operibus, 26,48: quibusdam correptionum medicamentis).
Tale orientamento Agostino lo derivava da tre elementi presi nel loro insieme: a) l’autorità della Chiesa che ha sempre una finalità medicinale: la sua funzione è aiutare gli uomini a recuperarsi dai loro fallimenti; b) la misericordia di Dio verso l’uomo non conosce defettibilità, essa pertanto è nella Chiesa un elemento prioritario a ogni considerazione disciplinare (cfr Epistulae, 153, 3, 7), in modo particolare di fronte all’angoscia umana sotto l’impero del peccato; c) il cammino penitenziale di un credente coincide col suo cammino di fede, e questo si esperimenta come recupero della propria libertà perduta (cfr In lohannis, o. c., 41,10).
Agostino mise in pratica tali principi direttivi portando nell’ambito di una penitenza privata peccati che, secondo la tradizione, rientravano nell’iter penitenziale pubblico. In tal modo egli tenne fede alla prassi penitenziale pubblica che veniva contemplata semel, cioè una volta, ma mise anche le basi per essere perdonati e quindi non emarginati dalla comunità cristiana a motivo di nessun peccato, anche se ripetuto. La prassi della Chiesa raggiungeva così, di fatto, nel suo quotidiano, di godere del prezzo infinito del « sangue sparso » del Redentore. Se nei testi penitenziali a disposizione, per le ragioni che abbiamo visto, il binomio linguistico « sangue sparso-remissione dei peccati » non è presente in essi, sul piano della prassi esso, grazie anche all’azione pastorale e alla riflessione teologica di Agostino, ritrovava la sua unità inscin-dibile e originaria.

4. IL « SANGUE SPARSO » E LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
Nel Commento di Agostino al Vangelo di Giovanni c’è tutto un blocco di testi che legano insieme, nella figura unificatrice dell’agnello pasquale e di agnello di Dio, la Pasqua degli Ebrei, la Pasqua del Signore, la Pasqua dei cristiani, la celebrazione eucaristica come Pasqua, nel significato di redenzione degli uomini.
Ci si trova dinanzi a termini ed espressioni come « morte, spargere il sangue, redimere, mangiare la carne, bere il sangue, divenire membra di Cristo », che costituiscono un insie
me semantico difficilmente separabile perché conglobano, allo stesso tempo, il dato storico del sangue di Cristo versato sulla croce e quello della celebrazione della Pasqua ebraica, il dato misterico di partecipazione alla Pasqua del sangue versato da Cristo e il dato soteriologico per coloro che credendo vi partecipano.
L’agnello pasquale che viene immolato costituisce il legame tra i vari momenti e modalità di una comune azione redentrice: come anticipazione e figura di Cristo immolato sulla croce (il vero agnello pasquale) nell’agnello della Pasqua ebraica; come partecipazione all’immolazione del vero agnello pasquale nella celebrazione eucaristica dei cristiani. Prima di avvicinare un po’ più da vicino i testi che ci interessano, riteniamo necessario precisare la sintesi operata da Agostino nella comprensione della Pasqua. Egli venne a trovarsi alla fine di un dissidio tra gli asiani e gli occidentali nel celebrare la Pasqua. Ce ne parla Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, V, 23-25. Le comunità cristiane dell’Asia minore erano di tradizione giovannea e di estrazione giudaica, legate perciò alla continuità del giudaismo col cristianesimo. Ciò si espresse in modo particolare nel celebrare la data della Pasqua il 14 di Nisan, il venerdì dell’immolazione dell’agnello pasquale, tanto che tali comunità vennero chiamate comunità della Pasqua quartodecimana. Il significato della Pasqua ebraica, ritualizzato nell’immolazione e nella manducazione dell’agnello, era nell’aspettativa del passaggio di Jahveh in mezzo al popolo mentre celebrava la Pasqua, del realizzarsi di una notte di luce divenuta armai giorno perenne. I cristiani di estrazione giudaica videro il realizzarsi di tale aspettativa nella morte di Gesù, lui il vero agnello pasquale che, con la sua passione, celebrò la Pasqua. La sua morte è luce e vita per tutti, così come era la dimensione della Pasqua ebraica.
Per associarsi a tale mistero di vita e di luce bisognava celebrare la Pasqua del Signore, e questa era la celebrazione eucaristica dei cristiani. Il venerdì di Passione era pertanto, per le comunità asiane, la celebrazione del giorno di Pasqua, che è vita e luce per l’umanità. Papa Vittore interdisse agli asiani la celebrazione di Pasqua il 14 Nisan. I motivi non sono ancora del tutto chiari. Il vescovo di Roma impose la data della do
menica dopo il plenilunio di primavera. Questa era la tradizione ancorata ai sinottici, che pongono di domenica il giorno della risurrezione del Signore, visto appunto come vita e luce. Era la Pasqua vista come « passaggio » secondo l’etimologia ebraica della parola Pasqua; quella quartodecimana derivava invece il suo significato dal greco « paskein » (patire). Nella Pasqua, ancorata ai sinottici, è un « passaggio » che crea la vita, la novità cristiana; nella Pasqua quartodecimana è invece il soffrire stesso del Signore, la sua morte, il suo spargimento di sangue, la sua sofferenza che si traduce in vita per tutti gli uomini che sono, secondo la visione dello Pseudo-Barnaba, « una terra che soffre » (Pseudo-Barnaba, 6, 2)9.
Agostino mise insieme i due grandi filoni di comprensione della Pasqua nelle comunità cristiane antiche. Tale fusione l’abbiamo nel suo Commento al Vangelo di Giovanni. Essa, tenuta presente, getta molta luce nella comprensione del suo pensiero soteriologico che si articola nel legame tra la Pasqua del Signore e quella dei cristiani. La Pasqua del Signore è il suo immolarsi, simile all’agnello pasquale degli Ebrei, la sua morte, il « sangue sparso » del Signore; la Pasqua dei cristiani è la celebrazione della loro eucaristia dove si beve il sangue del Signore. Bere il sangue del Signore è, per Agostino, « sperare, non essere più lontano, è vivere ». Ascoltiamo direttamente qualche testo.
Quello più esteso e comprensivo si ha nell’omelia 55: Pasqua, fratelli, – egli spiega – non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice ‘paskein’, per cui si è creduto che Pasqua volesse dire passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l’ebraico, Pasqua vuoi dire ‘passaggio’, per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall’Egitto, passò il mar Rosso. Ora, però, quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento quando il Cristo come pecora viene immolato, e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall’eccidio in Egitto; e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall’instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno… Ecco la Pasqua, ecco il passaggio (In lohannis, o. c., 55,1)10.
Agostino, nel sottolineare il significato sacrificale redentivo della morte del Signore, in contesto di comprensione pasquale, usa il termine « immolare ». Nella linea della 1 Cor 5, 7 (Pascha nostrum immolatus est Christus) e nel contesto pasquale quartodecimano, traduce il pronuntiasse sententiam ‘Reus est mortis’ di Mt 26, 66 con pronuntiasse immolationem Domini Ofc.,117,2).
Il rapporto del sangue di Cristo con la Pasqua e con l’eucaristia Agostino lo sviluppa espressamente quando fa la trattazione sullo Ecce Agnus Dei di Gv 1, 35-36 nell’omelia settima. Egli, rilevata la singolarità dell’Agnello di Dio perché col suo sangue redime il mondo, ci dà il riferimento eucaristico oltre che nell’uso delle espressioni come « bere sangue », etc, nel racconto di un rito pagano, da lui riportatoci, che si celebrava in onore di Attis e di Cibele in coincidenza con l’equinozio di primavera conosciuto come « il giorno del sangue ». Tale rito consisteva nello strappare gli orecchini dai lobi auricolari di un donna. Lo strappo provocava un’uscita di sangue che, impregnando gli orecchini, li faceva aumentare di peso e quindi di prezzo. Al rito vi partecipavano, come è facile supporre, molte donne anche cristiane che, per l’occasione, disertavano la celebrazione eucaristica. Agostino, nella linea di un’antica tradizione apologetica, che vedeva i riti pagani come una scimmiottatura di quelli cristiani, giudica anche tale rito pagano un plagio della liturgia eucaristica durante la quale si offre il sangue dell’Agnello, il solo sangue versato capace di redenzione. E perché non si ponga il rito cristiano sulla medesima linea dei riti pagani, magici e superstiziosi, egli spiega il significato di fede del sangue versato dal Signore. Non è credere a un puro versare sangue, è cercare lui, è porre solo in lui le speranze del proprio destino. Ascoltiamo direttamente A-gostino (Ib.)\ Solo Cristo è l’agnello per eccellenza, è l’agnello di Dio perché in modo del tutto singolare solo col sangue di questo agnello gli uomini hanno potuto essere redenti (7,5)… Fratelli miei, se riconosciamo che il prezzo della nostra redenzione è il sangue dell’agnello, che dire di coloro che oggi celebrano la festa del sangue di non so quale donna?.. Se il sangue di una donna ha pesato tanto da inclinare il piatto della bilancia su cui stava l’oro, quale peso non avrà, per far pendere la bilancia dalla parte del mondo, il sangue dell’agnello per mezzo del quale il mondo è stato creato? … Quando venne il tempo della misericordia di Dio, venne l’Agnello… È davvero un grande spettacolo quello che si offre ai vostri occhi per tutta la terra… Ha cercato di scimmiottare questo rito quello spirito diabolico, il quale voleva che la sua immagine fosse acquistata a prezzo di sangue, perché sapeva che in definitiva il genere umano doveva essere redento col sangue prezioso (7, 6)… Non cercate dunque il Cristo in altro luogo, se non dove il Cristo ha voluto essere a voi annunziato; e proprio come ha voluto essere a voi annunziato, così ritenetelo e così incidetelo nel vostro cuore… Non ricorriamo agli stregoni, agli indovini, a rimedi inutili quando abbiamo mal di testa. Come volete, o fratelli, che non pianga per voi? Ogni giorno vedo queste cose; e che devo fare? Non sono dunque ancora riuscito a convincere i cristiani che bisogna riporre in Cristo ogni speranza? E se poi uno, al quale è stato applicato un rimedio superstizioso, muore (…), con quale coraggio si presenterà la sua anima davanti a Dio? … Riconosciamo dunque l’Agnello, o fratelli, e rendiamoci conto del prezzo che ha pagato per noi (7, 7).
In Agostino l’espressione « sangue versato » è spesso legata al verbo bere, per cui si ha « bere il sangue versato ». Egli intende tale espressione nell’accezione di partecipare alla redenzione di Cristo, ma l’immagine è presa dal rito eucaristico di bere al calice11. In Africa era anche comune dare da bere il sangue eucaristico perfino ai neonati, dopo il loro battesimo. Ciò lo si faceva per esprimere il diritto del battezzato (il fidelis) di ricevere l’eucaristia (cfr De peccatorum meritis et remissione, 1,24,34).

5. CONCLUSIONI
A conclusione sulla comprensione della voce « sangue » in Agostino, in particolare nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, possiamo dire:
1. Tale voce era comune già prima di lui sotto l’espressione « il sangue versato », sanguis effusus, per indicare la redenzione venuta all’umanità dalla morte di Gesù Cristo.
2. Agostino, accanto a tale espressione, usa spesso l’altra: « bere il sangue versato », indicando con ciò la partecipazione dell’umanità alla redenzione di Cristo. Tale espressione riflette l’uso di partecipare all’eucaristia bevendo al calice oltre che mangiando il pane eucaristico.
3. La terminologia di « sangue versato » e di « bere il sangue » non vanno intesi in sé come dei riti recepiti nella loro materialità, essi sono legati all’intelligenza della fede.
Riguardo a Cristo che versò il sangue sulla croce, l’espressione va unita alla nozione di libertà, nell’accezione di libera donazione della sua vita per l’umanità; quanto agli uomini, « bere il sangue versato » ha il significato espresso dalla comprensione della Pasqua quartodecimana recepita da Agostino nella celebrazione eucaristica, come partecipazione al mistero di vita e di luce di Cristo e quindi di salvezza e di liberazione, dalle tenebre della disperazione di vivere e di morire, in cui si dibatte l’oscurità umana. Per evitare ogni equivoco di partecipare a un rito solo materialmente, alla maniera dei sacrifici pagani, fatto al più solo d’impressione psicologica, Agostino scrive al riguardo: Questo è quanto il Signore ci ha detto del suo corpo e del suo sangue. Ci ha promesso la vita eterna attraverso la partecipazione a questo dono. Perciò ha voluto farci intendere che davvero mangiano la sua carne e bevono il suo sangue coloro che rimangono in lui e nei quali egli rimane. Questo non capirono coloro che non credettero in lui e che, intendendo in senso carnale le cose spirituali, si scandalizzarono… Tutto ciò dunque, o dilettissimi, ci serva di lezione, affinchè non abbiamo a mangiare la carne e a bere il sangue di Cristo solo sacramentalmente, come fanno anche tanti cattivi cristiani; ma affinchè lo mangiamo e lo beviamo in modo da giungere alla partecipazione del suo Spirito e da rimanere nel corpo, senza scandalizzarci se molti di coloro che con noi mangiano la carne e bevono il sangue, ma solo esteriormente, saranno alla fine condannati (Ib., 27,11).

NOTE -l La purificazione, che deriva dal sangue versato sulla croce, viene sviluppata da Agostino nella categoria dell’umiltà. Questa esprime la totalità dell’accettazione della vita umana: vedi In lohannis Evangelium tractatus, 55, 7: Tutta la sua passione è la nostra purificazione… Tanto importante è per l’uomo l’umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio (= la lavanda dei piedi, Gv 13, 2-5). L’uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi… L’uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l’umiltà del redentore; In lohannis Evangelium, 119, 4: Noi siamo purificati dall’umiltà di Cristo: se egli non si fosse umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce, il suo sangue non sarebbe stato versato per la remissione dei peccati, cioè per la nostra purificazione. Sul sangue di Cristo che da all’acqua battesimale la virtus di generare i cristiani, vedi Sermones, 352, 3. – 2 La natura universale della Chiesa, sia perché diffusa su tutta la terra, sia perché la grazia circola in essa tutt’intera, è considerata da Agostino nel commento al c. 19, 23-24 di Giovanni sulle vesti divise in quattro parti e la tunica tirata a sorte (cfr In lohannis, o. e., 118,1-4). – 3 II battesimo è definito da Agostino nella linea della Lettera di Paolo agli Efesini 5, 18: Lavacrum aquae in verbo (cfr In lohannis, o. e., 15, 4; 80, 3). Nell’omelia 124, 5 abbiamo poi una delle sue migliori sintesi antipelagiane: Mediante la fede in lui, unita al lavacro di rigenerazione, siamo prosciolti da tutti i peccati, cioè dal peccato originale contratto mediante la generazione (soprattutto per liberarci da esso è stato istituito il sacramento di rigenerazione) e da tutti gli altri peccati che si commettono vivendo male. – 4 Epistulae, 153, 3, 7: Semel in Ecclesia concedatur; vedi anche C. Vogel, Le péché et la pénitence, Parigi 1961. – 5 Sermones, 214, 11: Inoltre onorate, amate, predicate ‘la santa Chiesa’… A beneficio del suo frumento… essa ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, e così in lei, per mezzo del sangue di Cristo, ad opera dello Spirito Santo, si ha ‘la remissione dei peccati’; Sermones, 295,2; Io. ep., 10,10. – 6 Agostino sviluppò molto l’azione dello Spirito Santo per la remissione dei peccati e non evitò la difficoltà « sul peccato irremissibile contro lo Spirito Santo » di cui parla Le 12, 10 (cfr Ad Romanos inchoata expositio, 21; Enchiridion ad Laurentium, 22, 83; Sermones, 71). – 7 De adulterinis coniu-giis, 1, 28, 35: La causa della riconciliazione di un penitente è la medesima di quella del battesimo qualora un penitente venga a trovarsi in pericolo di vita. -Sermones, 4, 32, 35: Non accade forse nella Chiesa che a uomini che la vogliono turbare, per necessità di pace, si tollera che siano ammessi dentro e ricevano i sacramenti comuni a tutti? E talvolta si sa che sono cattivi ma non possono essere riconosciuti tali, vale a dire non possono essere riconosciuti di doversi emendare, di venir degradati, esclusi, scomunicati. E se qualcuno insiste si corre il rischio che la Chiesa si laceri. A tanto viene costretto chi della Chiesa è pastore; Sermones, 351, 7: A questo altare… alla celebrazione dei misteri divini, possono accedere anche molti scellerati: Dio pazienta in questo tempo presente perché in quello futuro si stemperi la sua severità. – 9 Per un’informazione sull’argomento, vedi Ch. Mohrmann, « Pascha, Passio, Transitus », EL 66 (1952), 37-52; V. Grossi, « La Pasqua quartodeci mana e il significato della croce nel II secolo », Aug 16 (1976), 557-571; R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1978. – 10 Vedi anche In lohannis, o. e., 120, 3 al commento di Gv 19, 36-37: Non gli sarà spezzato un solo osso.. Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. -11 Ad esempio In lohannis, o. e., 31, 9: bevvero il sangue (di Cristo) da loro versato; nel n. 11 si parla della carne di Cristo che si mangia, divenendo membra di Cristo: Noi lo abbiamo conosciuto nella carne e tuttavia ci è stato concesso di mangiare la sua carne e di essere membra del suo corpo. Nell’omelia 26, 13-18 commenta Gv 6, 50-57 (« mangiare la sua carne, bere il suo sangue »), e ci viene riferito come l’uso di bere anche al calice, oltre che ricevere il corpo del Signore, era in alcuni luoghi quotidiano, in altri a tempi distanziati: // sacramento di questa realtà, cioè dell’unità del corpo e del sangue di Cristo, viene apparecchiato sulla mensa del Signore, in alcuni luoghi tutti i giorni, in altri con qualche giorno d’intervallo, e si riceve dalla mensa del Signore (ib., 15). La conclusione è nel tractatus 27, 11: sui manducatores et potatores carnis et sanguinis sui (= Domini).

CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

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MOMENTI DELLO SPIRITO / CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

Dolente, anche se rassegnata, tutta pena e proteste, la condanna di Dostojevski contro la prepotenza dei potenti che infierisce sui poveri e soprattutto sui bambini innocenti: l’ultimo Dostojevski è tutta una passione di trasfigurazione nella partecipazione a tanto innocente dolore che sembra sprofondare l’uomo nell’orrore dell’insignificante e dell’inutile. Il martirio dei Santi Innocenti diventa invece per il cattolico Péguy un poema e prodigio di amore[1]. Il martirio per Péguy, come per S. Caterina da Siena, è festa d’amore ed il martirio dei bimbi tenerelli, in braccio alle madri straziate, è tale ma in una cornice ben precisa: la celebrazione della purezza che domina la parte precedente del mirabile poema cristiano. Il tutto nel contesto di una robusta ecclesiologia che poggia sulla divinità del Figlio di Dio e sulla Comunione dei Santi nell’assemblea celestiale dell’Uomo-Dio, preceduto dai Profeti e seguito dai Santi.

Prologo[2] – Gesù predilige i bambini – è il Padre che parla: «È mio figlio che ha detto una volta: sinite parvulos venire ad me, – lasciate che i bambini vengano a me». E il Figlio di Dio l’aveva detto di alcuni bambini che stavano giocando i quali, presa appena la benedizione, lo lasciarono per tornare a giocare. Ma io dico, ma lo si fa dire ad ogni bambino che non ritornerà più a giocare…: «Se non nel mio Paradiso». E qui Péguy, con mirabile fantasia poetica descrive il funerale di un bambino preceduto dalla Croce, le donne piangono ma il celebrante canta il vecchio Salmo di David: Beati immacolati in via – Felici coloro che non si sono macchiati nella via.

L’applicazione ai Santi Innocenti. – Tali sono, passa a dire Péguy, i soli senza macchia, questi disgraziati bambini che i soldati di Erode massacrarono nelle braccia delle madri – O Santi Innocenti voi sarete dunque i soli – Santi Innocenti voi sarete dunque i puri – Santi Innocenti voi sarete dunque i bianchi e senza macchia. – Beati immaculati in via. Beati gli innocenti, quelli senza macchia nella via.

Ed ora il cerchio lirico teologico si allarga ed entra Cristo stesso a partecipare alla festa. Leggiamo, infatti: «Ego sum via, veritas et vita. – Io sono la via, la verità e la vita. – O Santi Innocenti non sarà detto che voi sarete e che voi siete i soli innocenti». Ma allora, si chiede Péguy con una luminosa digressione[3], che è di tutti gli altri Santi, di S. Francesco, di S. Luigi re dei Francesi, di tanti altri grandi Martiri e grandi Santi che hanno condotto tutta una vita di santità, che hanno riavuto – se fossero caduti – la bianchezza originaria di tutta la loro prima innocente infanzia: anche un foglio di carta imbrattato può tornare bianco, anche un pezzo di stoffa sporcato può tornare bianco. Ma un foglio smacchiato ed un tessuto ripulito non è né un foglio bianco né un tessuto bianco.

Ed è qui che si annunzia il trionfo e la gloria dei Santi Innocenti: «I più vicini a me saranno questi lattanti bianchi, che non hanno fatto nulla nella vita e nulla hanno fatto dell’esistenza se non di ricevere un buon colpo di sciabola. Intendo assestato nel momento buono», – segue la traduzione del terrificante racconto della venuta dei Magi, della fuga in Egitto e della Strage degli Innocenti – che la liturgia romana legge al Vangelo del 28 dicembre, Festa dei Santi Innocenti.

Il trionfo dei puri nel Giudizio universale vicino all’Agnello. – Infatti, quasi per una illuminazione mistica, Péguy trasferisce subito in cielo l’esito del martirio dei piccoli Innocenti, un esito che sarà il massimo trionfo di Cristo quando col Giudizio farà la chiusura definitiva della storia universale. Ed è ovviamente l’Apocalisse di Giovanni che gli offre quest’ultimo orizzonte escatologico, nel testo che la liturgia romana preconciliare leggeva all’Epistola del medesimo 28 dicembre: la glorificazione dei 144.000 che avevano sulla fronte scritto il Nome dell’Agnello e il Nome del suo Padre[4]. Nel suo commento poetico Péguy mette in rilievo non più lo strazio dell’evento, quanto lo splendore della purezza degli Innocenti:

a) …qui empti sunt de terra ch’egli traduce: «…furono tolti dalla terra»[5] nel senso che la terra non lasciò in loro traccia alcuna di materia, della sua pesantezza, della sua ingratitudine, della sua amarezza, del suo invecchiamento, dei suoi gusti « terrosi »… staccati come fiori col gambo e «seguono l’Agnello dovunque vada».

b) «…Hi empti sunt ex hominibus» = e furono tolti da mezzo degli uomini; «primitiae Deo et Agno» = primizie a Dio e all’Agnello; «et in ore eorum non est inventum mendacium» = e nella loro bocca non fu trovata menzogna». E Péguy commenta fra parentesi: «la menzogna dell’uomo, la menzogna adulta, la menzogna terrestre. La menzogna terrena. La menzogna terrosa».

c) «…sine macula enim sunt ante thronum Dei» – senza macchia infatti essi si trovano davanti al trono di Dio. Il commento non la cede alla più alta poesia teologica: «Questo, dice Dio, è il segreto della tenerezza e della grazia. Che è nell’infanzia stessa, nel punto di origine del bambino. Tale è quest’innocenza, questa bianchezza, questo cominciamento. Tale è questo segreto, questo favore della mia grazia». E mette, stupito anche lui ma non scandalizzato, l’impressione (fra parentesi!): («Questa giustizia ingiustificabile!»). Lungi dall’essere uno scandalo, la morte è per questi Innocenti un privilegio. Infatti, e qui Péguy riprende il versetto 3:

d) «Et cantabant quasi canticum novum ante sedem» che Péguy abbrevia: «nemo poterat dicere canticum» – nessuno poteva dire questo canto. Ed il commento insiste ripetendo: nessuno, nessuno… (nemo = personne). Nessuno: neanche Francesco, neanche San Luigi re, neanche i primi quattro testimoni Matteo, Marco, Luca e Giovanni…, neppure coloro che daranno la vita per la liberazione del S. Sepolcro. Nemo poterat dicere canticum, e fra parentesi il sorprendente ancora mirabile paradossale commento: «Tale è il loro esorbitante privilegio e il grande favore ingiusto – della mia grazia eternamente giusta». E Péguy continua: «non c’è martirio il più inaudito, il più atroce, il più spaventoso… che i credenti di tutti i tempi abbiano sofferto per Cristo… che valga il privilegio dei 140.000 bambini: privilegio eminente, esorbitante, privilegio unico, ingiusto. Giusto. Puramente grazioso, propriamente grazioso». E Péguy continua con una nuova variazione sullo stesso tema terminando con una notazione di tenerezza idillica, il conversare delle madri dei piccini quando ciascuna (come in tutti i paesi) dice: «È il mio il più bello!» E per essere belli, ad essi bastava saper poppare e dormire… quando avevano fame e sonno e di strillare quando volevano strillare: erano queste le loro grandi occupazioni. La conclusione è ormai pronta: «È così che essi trovarono – non solamente il regno di Dio e la vita eterna – ma soli di portarvi scritto sulla loro fronte il mio nome e il nome del mio Figlio e soli di cantarvi un cantico nuovo» (p. 449). La difficoltà degli scandalizzati è capovolta: la loro strage li pone, come la liturgia ha profondamente afferrato, nella posizione del più alto privilegio fra tutti i predestinati.

Le sette ragioni di privilegio degli Innocenti[6]: esse meritano almeno di essere elencate, tanta è la loro bellezza e profondità mistica.
La prima[7], è che essi mi piacciono, dice Dio e questo basti: una ragione che farebbe la gioia di un S. Tommaso d’Aquino[8].
La seconda, è che essi mi piacciono, dice Dio, e questo basti. Tale, aggiunge qui come alla prima, è la gerarchia delle mie grazie.
La terza, è che mi piace così, dice Dio, e questo basti. Ed insiste: «Tale è la gerarchia, tale è l’ordine, tale è l’ordinamento della mia grazia». E col tema della grazia Péguy ha già toccato il fondo del problema.
La quarta ragione è tutta poesia ed innocenza: cioè, dice Dio, essi non hanno nessuna piega alle labbra… nessuna d’ingratitudine e d’amarezza, questa ferita d’invecchiamento, questa piega di memoria che noi vediamo su tutte le labbra.
Con la quinta ragione anche Péguy non può evitare il cuore del dramma che ha tanto turbato gli autori precedenti. Egli non ignora, ma descrive con realismo lo strazio dei corpicini… abbandonati per le strade e considerati meno di agnelli, di capretti, di lattonzoli, abbandonati sul corpo delle loro madri. E qui Péguy entra nel vivo dello «scandalo»: «Durante questo tempo mio Figlio fuggiva (è sempre il Padre che parla). Bisogna dirlo: questo è grave. Furono presi per Lui. Furono massacrati per Lui. Al suo posto, solamente per causa sua, ma per Lui. Al suo posto»[9]. Ed ora, con maggiore rigore teologico: «In sua rappresentanza, per così dire. In sua sostituzione. Essendo come Lui. Essendo quasi altrettanti Lui. In rappresentanza, in sostituzione, al suo posto. Ora tutto questo è grave, dice Dio, tutto questo conta. Essi furono simili al mio Figlio e lo sostituirono…». Ecco l’unica interpretazione teologica che solo un grande poeta cristiano come Péguy ha saputo far scintillare dall’antica liturgia: i piccoli morti per Cristo, conclude Péguy, hanno acquistato così un credito con Dio.
La sesta ragione (di sapore kierkegaardiano)[10] e questo – mi si permetta di confessarlo – mi ha dato una particolare soddisfazione «è ch’essi erano contemporanei del mio Figlio. Della stessa età e nati nello stesso tempo. Proprio in questo stesso punto del tempo del Figlio. E questo ha procurato ad essi un amore specialissimo del Padre così ch’essi ebbero una speciale promozione, non soltanto una promozione di Giudei ma una promozione di uomini (tale era la nuova Legge), la promozione di Gesù Cristo…» compagni [perché martiri innocenti] della sua promozione.
La settima (ed ultima ragione che conclude ed è sulla linea della precedente) è «ch’essi erano simili al mio Figlio». Egli era simile a loro ed il poeta immagina che «i teneri infanti avanzino in schiera sullo stesso fronte di Cristo verso la sponda dell’eternità». Ed il poeta-teologo continua le sue riflessioni mescolando, con volute sempre nuove e più ardite, il mistero della vita di Cristo con il massacro dei piccoli, inermi, ignari martiri innocenti. Péguy, come invasato dalla visione apocalittica del trionfo finale dei suoi prediletti termina, con l’inno, ch’è tutto fulgori, di Prudenzio: «Salvete flores Martyrum – quos, lucis ipso in limine, – Christi insecutor sustulit, – ceu turbo nascentes rosas. E la seconda strofa: Vos prima Christi victima – Grex immolatorum tener, – Aram sub ipsam simplices – Palma et coronis luditis»[11].
La conclusione finale non può essere che la semplicità della gioia più alta: «Tale è il mio paradiso, dice Dio. Il mio paradiso è ciò che c’è di più semplice: un altare, e bimbi che giocano con le loro palme e le loro corone. E la « palma » – è l’ultimo tocco di tanta poesia – serve sempre loro apparentemente da bastoncino».
Così Péguy ha celebrato la gloria del «mistero dei Santi Innocenti» con la glorificazione fatta dalla liturgia cattolica: mistero di fede che arriva però fino alla gloria del Paradiso nelle folgorazioni dell’Apocalisse di Giovanni.
Certamente il mistero del male resta ancora: resta il «mistero dei Santi Innocenti» con tutta la rosa dei misteri, evocata qui dalla teologia lirica di Péguy. E il mistero, nessun mistero quand’è tale ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s’incontra con la finitezza dell’intelletto umano, «divarica» la coscienza come si è detto: o la ragione si rifiuta e cade nell’ateismo cioè nel buio dell’apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell’apertura della Verità incommutabile.
Il teismo, sia pure in vari modi, ha sempre accompagnato l’esercizio della coscienza umana, insidiata dall’ateismo. Le tante difficoltà restano (possiamo ammetterlo, contro una «teodicea» troppo a buon prezzo) se non del tutto nascoste, sempre misteriose soprattutto quando si studiano le convinzioni che l’uomo si è fatto sù Dio fuori della religione biblica. Ma il teismo non è assurdo, non è contraddittorio, non lascia l’uomo in balìa del divenire dei fenomeni e pertanto nell’indifferenza – è questo il momento cruciale per difendere la dignità di ogni uomo da ogni tirannia. Purtroppo la storia insegna che l’uomo preferisce alla libertà la schiavitù, che è la schiavitù del peccato secondo la Bibbia da cui ci ha liberato solo Cristo; è la schiavitù delle tenebre che gli uomini hanno preferito alla liberazione della luce. Ma il figlio di Dio che è il cristiano prega sempre perché «venga il regno di Dio» e che «Dio ci liberi dal male» (Matt. 5, 11 ss.).
Così il mistero dei Santi Innocenti che aveva scandalizzato gli atei A. Camus e Ivan Karamazov[12], come mistero del male invincibile e prova dell’inesistenza di Dio, diventa per il convertito Péguy il segno del trionfo dell’amore di Dio e l’aurora di speranza della nostra salvezza.

(1981)

IL SABATO SANTO E LA SPERANZA CRISTIANA

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IL SABATO SANTO E LA SPERANZA CRISTIANA

03/04/2010

Il sabato santo è giorno in cui la Chiesa non celebra l’eucaristia, ma “sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e morte” in attesa della celebrazione della “madre di tutte le veglie”, la Veglia pasquale.
Questo giorno è scandito unicamente dalla celebrazione della liturgia delle ore ed è particolarmente significativa al riguardo la seconda lettura dell’Ufficio delle letture, tratta da un’antica Omelia sul sabato santo (III secolo), in cui l’anonimo autore, con grande talento letterario e fervida immaginazione, descrive il dialogo tra Gesù, entrato nel regno dei morti, ed Adamo: “Oggi sulla terra c’è grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi….Svegliati, tu che dormi! Infatti io non ti ho creato perché rimanessi prigioniero dell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura”. L’evento qui descritto, la discesa agli inferi di Cristo, in cui alcuni padri della Chiesa hanno scorto il punto estremo della kenosi del Figlio di Dio, presuppone per una sua adeguata comprensione la fede nella resurrezione. Infatti – come ha scritto il teologo francese C. Duquoc – “la discesa agli inferi nel Credo apostolico non si separa dalla risurrezione, ma sottolinea al contrario la verità della vita nuova in Gesù poiché sottolinea la verità della sua morte”. Per Cristo dunque discendere agli inferi significa affrontare la morte sperando che questa sarà vinta dal Padre a vantaggio non solo del Figlio ma di tutta l’umanità, significa in altri termini “sperare contro ogni speranza che Dio affronterà l’irrimediabile”. Tale discesa “indica tanto la realtà della morte di Gesù quanto l’inaugurazione della sua vittoria sulla morte”. Difatti, proprio la “rappresentazione della discesa di Gesù nel regno della morte, non l’uscita dal sepolcro come in Occidente, è per le chiese orientali l’autentica icona pasquale. Nella discesa fra i morti e nella conseguente eliminazione di tutta la mancanza di relazioni dell’oscuro regno dei morti si manifesta, infatti, tutta la forza della potenza della risurrezione di Cristo. Anzi, per il grande teologo, Hans Urs von Balthasar questa discesa di Gesù nel regno della morte è addirittura il motivo più profondo della speranza universale. Il Figlio di Dio, essendo, infatti, penetrato proprio lì dove è il posto il peccatore, cioè nel luogo della mancanza di relazioni, della solitudine e della lontananza da Dio, abbraccia con il suo amore anche coloro che sono più lontani da Dio. In tal modo le pote degli inferi si spalancano, sono costrette ad aprirsi alla forza di Cristo che comunica una nuova vita e un nuovo futuro”(G. Greshake). Cristo ha sconfitto la morte mediante la sua morte che è essenzialmente solidarietà con la condizione dell’uomo fino alla condivisione del suo stato di morte. Secondo Karl Rahner “Gesù ha gustato il nostro stato di morte. Vi è disceso, ha toccato il fondo del nostro essere e si è sprofondato nel suo abisso incommensurabile. Poiché egli vi si lasciò andare abbandonandosi nelle mani del Padre suo, sperimentò l’ingresso nel mistero infinito di questo amore eterno come uno sprofondarsi in maniera anonima nelle tenebre della morte, nel vero stato di morte”. Da tale punto di vista il sabato santo è il giorno della speranza, poiché “confessare che Gesù è disceso agli inferi equivale a confessare un evento salvifico che illumina anche oggi la situazione dell’uomo davanti a Dio e lo distoglie dalla perdizione” (C. Duquoc). La liturgia bizantina invita in questo giorno al silenzio: “resti muto ogni mortale e stia con timore e tremore; non mediti alcunché di terreno”. Allora il sabato santo è per tutti noi un richiamo all’essenziale, alla contemplazione, fuggendo la chiacchiera quotidiana e l’affaccendamento mondano in cui non c’è posto per il silenzio dove rientrare in se stessi per consegnare la propria fragilità all’amore di Dio. Il sabato santo è traversato dalla domanda sul futuro, nel crollo di tutte le certezze, nell’apparente trionfo del male con la morte in croce di Gesù. Siamo dunque sollecitati in questo giorno ad una profonda riflessione sul senso del vivere e del morire. La morte è un evento che oggi si tende ad esorcizzare, a non prendere in considerazione. E’ la paura che spesso ci afferra di fronte alla percezione bruciante della finitudine umana, insuperabile dentro lo spazio della potenza manipolativa dispiegata dalla tecno-scienza e che si accompagna spesso all’incapacità di pensare un’ulteriorità rispetto all’ambito dell’empirico. Solo il mistero pasquale può aprire alla speranza, proprio quella speranza che in una società dominata dal mito dell’efficienza e in cui tutto è misurato sul metro del fare, del conseguire qualcosa, del produrre, è ritenuta inutile, vuota. Solo la fede nella risurrezione può illuminare le notti oscure della vita, la disperazione che finisce per sovrastarci quando ci scontriamo non solo con la caducità inscritta nella nostra carne ma anche con il male (politico, sociale, economico etc) che sembra dominare la scena del mondo. La disperazione mortale non può essere l’ultima parola sull’uomo, così come la violenza del potere non può essere il sigillo definitivo sul corso della storia. La memoria della Passione del Signore ci dona uno sguardo diverso sulle vicende umane, spingendoci alla solidarietà con gli uomini e i popoli crocifissi dall’impero del denaro e facendoci entrare nella loro passione fino al dono della vita, con la certezza che la notte del peccato è vinta dalla luce della Pasqua di Cristo e che il silenzio di Dio prelude alla Gloria della Parusia.
AMEDEO GUERRIERE

(Il Castello dell’anima, 31.03.09)

Publié dans:LITURGIA: SETTIMANA SANTA |on 29 mars, 2013 |Pas de commentaires »

SABATO SANTO – UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/qua/qua6/letSABpage.htm

SABATO SANTO  -  UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera agli Ebrei 4, 1-16

Affrettiamoci ad entrare nel riposo del Signore
Fratelli, dobbiamo temere che, mentre ancora rimane in vigore la promessa di entrare nel suo riposo, qualcuno di voi ne sia giudicato escluso. Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunziata una buona novella: purtroppo però ad essi la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti nella fede a quelli che avevano ascoltato. Infatti noi che abbiamo creduto possiamo entrare in quel riposo, secondo ciò che egli ha detto:
Sicché ho giurato nella mia ira:
Non entreranno nel mio riposo! (Sal 94, 11).
Questo, benché le opere di Dio fossero compiute fin dalla fondazione del mondo. Si dice infatti in qualche luogo a proposito del settimo giorno: E Dio si riposò nel settimo giorno da tutte le opere sue (Gen 2, 2). E ancora in questo passo: Non entreranno nel mio riposo! Poiché dunque risulta che alcuni debbono ancora entrare in quel riposo e quelli che per primi ricevettero la buona novella non entrarono a causa della loro disobbedienza, egli fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo in Davide dopo tanto tempo, come è stato già riferito:
Oggi, se udite la sua voce,
non indurite i vostri cuori! (Sal 94, 8).
Se Giosuè infatti li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato, in seguito, di un altro giorno. E’ dunque riservato ancora un riposo sabbatico per il popolo di Dio. Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie.
Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza. Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.
Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.

Seconda Lettura
Da un’antica «Omelia sul Sabato santo». (Pg 43, 439. 451. 462-463)

La discesa agli inferi del Signore
Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.
Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.
Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.
Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura.
Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.
Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.
Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.
Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Publié dans:LITURGIA: SETTIMANA SANTA |on 29 mars, 2013 |Pas de commentaires »

IL CENACOLO. ARCHEOLOGIA E STORIA

http://liturgiadomenicale.blogspot.it/2008/03/il-cenacolo-archeologia-e-storia.html

IL CENACOLO. ARCHEOLOGIA E STORIA

IL SANTO CENACOLO SUL MONTE SION

Quando l’imperatore Adriano visitò la città di Gerusalemme (130-131), secondo Epifanio (fine IV sec.), la trovò completamente rasa al suolo ?ad eccezione di alcune poche abitazioni e della chiesa di Dio, che era piccola, dove i discepoli, ritornando dal luogo dell’ascensione di Gesù al cielo, salirono al piano superiore?. Lo stesso autore parla anche di sette sinagoghe (luoghi di riunione per gli ebrei) di cui una sopravvisse fino al tempo del vescovo Massimo (333-348) e dell’imperatore Costantino (306-337). Nel seconda metà del IV sec. i cristiani sostituirono la piccola chiesa con una grande basilica chiamata ?la Santa Sion? e considerata ?Madre di tutte le chiese?, in quanto fondata dagli apostoli. In essa si conservava il trono di Giacomo, ?fratello del Signore? e primo vescovo di Gerusalemme, e la colonna della Flagellazione. Al ricordo delle apparizioni di Gesù Risorto e della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli si trova unito dal V sec. quello dell’Ultima Cena e, dal VII sec., quello della Dormizione (morte) di Maria. La chiesa della Santa Sion subì diverse distruzioni e restauri finché non venne ricostruita dalle fondamenta in epoca crociata (XII sec.) e ribattezzata col nome di ?Santa Maria in Monte Sion?. Dopo la demolizione del 1219, ordinata dal sultano, rimase in piedi soltanto la cappella del Cenacolo (medioevale) con la sottostante commemorativa Tomba di Davide (ritenuta da alcuni parte di un’antica sinagoga giudeo-cristiana).Nel 1335 i Francescani presero in carica il santuario, erigendo sul lato di sud un conventino il cui chiostro è ancora oggi visibile. In questo luogo ebbe principio la Custodia di Terra Santa, ufficialmente istituita con bolla papale nel 1342. Pur in mezzo a molte difficoltà il convento fu abitato fino al 1552, anno in cui l’autorità turca ordinò ai frati di trasferirsi all’interno delle mura cittadine. Il santuario restò nelle mani dei musulmani fino al 1948, quando subentrarono gli ebrei. Un terreno abbandonato, a ovest del Cenacolo, fu ottenuto dall’imperatore Guglielmo II di Germania nel 1898 e affidato ai Benedettini. La nuova chiesa, consacrata nel 1910, porta il titolo della Dormizione di Maria. Nel 1936, riadattata una vecchia casa araba, anche i Francescani poterono ritornare nelle immediate vicinanze del luogo santo. Il piccolo convento ha il titolo di S. Francesco al Cenacolo (famigliarmente Cenacolino). Eugenio Alliata ofm

Il Sion cristiano

La tradizione cristiana sull’autenticità dei santuari del Sion risale ben al di là del IV secolo. L’angolo sud-ovest della collina occidentale di Gerusalemme è indicato come il luogo del Santo Cenacolo, cioè il luogo dell’istituzione dell’Eucaristia, delle Apparizioni del Cristo risorto e della Discesa dello Spirito Santo.
Vista del Monte Sion
La sala superiore della casa, messa a disposizione del Maestro da un discepolo per la celebrazione della sua ultima Pasqua, divenne, dopo la Passione, rifugio e luogo di riunione per i discepoli. Il vescovo Epifanio, originario della Palestina (310-403), fondandosi su documenti del II secolo, scrive: « L’imperatore Adriano (durante il suo viaggio in Oriente, 138 d.C.) trovò Gerusalemme completamente rasa al suolo e il tempio di Dio calpestato, ad eccezione di alcune poche case e della chiesa di Dio, che era piccola, dove I discepoli erano saliti nella sala superiore al loro ritorno dal monte degli Olivi, quando il Signore fu assunto in cielo. Infatti si trovava costruita in quella parte del Sion che era stata risparmiata dalla distruzione, cioè una parte delle case sparse qua e là sul Sion e sette sinagoghe che sole rimasero al Sion, come tuguri. Una di esse rimase come una capanna nella vigna, come sta scritto, fino al tempo del vescovo Massimo (333-348 d.C.) e dell’imperatore Costantino (306-337 d.C.). » L’informazione offerta da Epifanio è storicamente fondata, perché il quartiere occidentale della città si trovava fuori del campo di operazioni militari durante la conquista di Gerusalemme nell’anno 70 dC, dal momento che l’attacco si sviluppò dal lato opposto della città. La comunità cristiana, che era fuggita a Pella nel 66 dC prima della rivolta ebraica e del susseguente assedio condotto dai Romani, dovette certamente ritornare sul luogo dove si era inizialmente costituita, attorno agli Apostoli, e dove, insieme con molte altre memorie, era conservata la cattedra del suo primo vescovo, S. Giacomo.
Gli edifici del Sion cristiano
Il Tempio ebraico dell’antica Sion era distrutto e la nuova Sion cristiana era nata. Per dirla con le parole di un apologista del tempo: “Esiste dunque una Sion spirituale, la Chiesa, nella quale è stato costituito come re da Dio Padre il Cristo” (Sant’Optato). I cristiani riconoscevano nelle parole di Isaia: “Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.” (Is 2,3) una profezia della loro chiesa attraverso la quale “Il vangelo del nostro Salvatore Gesù Cristo e le parole degli Apostoli sono diffusi a tutto il mondo” (Eusebio). La pellegrina Egeria descrive la liturgia che era celebrata “nella chiesa sul Monte Sion” in memoria delle apparizioni di Cristo dopo la sua Risurrezione e della Pentecoste. Restaurata prima da S. Massimo (331-349), la chiesa fu poi di nuovo ricostruita da un altro vescovo di Gerusalemme, Giovanni II (386-417). Da allora si chiamò la “Santa Sion” (Hagia Sion).
S. Stefano e il Re Davide sul Monte Sion
Fin dai tempi di Erode, la tradizione ebraica indicava su questa collina il luogo della fortezza conquistata da Davide, la fortezza del Sion. Anche i cristiani che vi erano stabiliti, dunque, si consideravano stabiliti sul Monte Sion. Un’altra memoria indelebilmente attaccata al Sion fu quella del protomartire S. Stefano. Nel 415 il suo corpo era stato trasferito al Sion finché l’imperatrice Eudocia non ebbe portato a compimento nel 460 la basilica costruita a nord di Gerusalemme, espressamente per accoglierne le reliquie.

Cenotafio al Sion che ricorda il Re Davide
Dopo la traslazione, il luogo fu ancora menzionato dai pellegrini come una tomba, e chiamata anche Tomba di Davide, da alcuni, facendo nascere così l’infelice leggenda che nei secoli XIV e XV fu una delle ragioni dell’espulsione dei cristiani da questo santuario.La tradizione che collega il Sion con la Tomba di Davide si rifà al testo biblico, soprattutto 1Re 2,10, che indica nella “Città di Davide” il luogo di sepoltura del Re. Anche S. Pietro, nel suo primo discorso dopo la Pentecoste (Acts 2,29) tenuto nel Cenacolo, proclama che la tomba di Davide “è ancora oggi fra noi”. È questa la ragione per cui la tomba di Davide è stata localizzata nel Sion Cristiano e la Chiesa di Gerusalemme ogni anno ne celebrava la memoria.La memoria di Davide è ancora oggi venerata dagli EbreiSecondo i pellegrini nella Basilica del Sion si trovavano: la colonna della Flagellazione, il corno per l’unzione dei Re e in particolare di Davide, la corona di spine, la lancia, le pietre usate nella lapidazione di S. Stefano, il calice adoperato dagli Apostoli, ecc.
Il Sion cristiano dai Crociati fino all’arrivo dei Francescani
Al loro arrivo a Gerusalemme, i Crociati ritrovarono l’area del Sion in rovina, ad eccezione dell’edificio a due piani che costituiva la cappella del Cenacolo. Lì presso Raimondo di Tolosa pose l’accampamento con lo scopo di proteggere il luogo dalle sortite dei nemici. Nello stesso luogo il Patriarca Dagoberto visse, per qualche tempo, fino alla coronazione di Baldovino I.I Crociati rialzarono sulle rovine della vecchia chiesa un monumento degno del titolo di Mater omnium Ecclesiarum (“Madre di tutte le Chiese”). L’edificio era diviso in tre navate. Nella navata settentrionale c’era un’edicoletta in memoria della Dormizione di Maria. Sul lato sud-ovest della navata centrale sorgeva il Cenacolo, composto di due cappelle sovrapposte ed ulteriormente suddiviso quasi a formare quattro luoghi distinti: due sotto e due sopra. Trenta gradini conducevano dalla sala bassa alla “Sala Alta”, dove l’Istituzione dell’Eucaristia e la Discesa dello Spirito Santo erano rappresentati in mosaico.

La “Sala Alta” medioevale del Sion
Nella cappella inferiore, detta anche Galilea, si ricordava la Lavanda dei piedi e le Apparizioni di Cristo Risorto agli Apostoli. La basilica era servita dai Canonici Regolari di S. Agostino. È interessante che durante il periodo crociato nessun pellegrino ricorda mai la tomba di Davide. Solo nel 1167 Rabbi Abraham di Gerusalemme riferì a Beniamino di Tudela che 16 anni prima, in seguito al crollo di un muro, erano state scoperte ricche tombe ritenute per quelle di Davide e di Salomone. Il Patriarca Latino aveva richiamato questo Rabbi Abraham da Costantinopoli per esaminare i due testimoni che avevano scoperto le tombe. Ma questi, essendo a mala pena scampati la prima volta, si rifiutarono di ritornare sul posto, e il Patriarca decise di ricostruire di nuovo il muro che era caduto. Questa storia affonda le sue radici nella leggenda riferita da Giuseppe Flavio a proposito del Re Erode: “Tuttavia egli desiderava fare più approfondita ricerca e andare avanti, fino a incontrare i corpi medesimi di Davide e di Salomone, quando due dei suoi soldati furono uccisi da un fuoco che abbruciò coloro che stavano per entrare, secondo quello che è stato riferito” (Antich. XVI 7,1).Da questo si ricava che la popolazione locale continuava a tramandarsi la leggenda relativa alla Tomba di Davide. Quando Saladino prese Gerusalemme nel 1187, la basilica del Sion fu una delle poche che non furono distrutte o convertite in moschea. Fu invece affidata alle cure del clero Siriano locale. Durante questo periodo i pellegrini occidentali potevano visitare il Cenacolo e celebrare la S. Messa. Nel 1192 la basilica e il monastero appaiono circondati da un muro, ma nel 1219, per ordine di Melk el-Muazzen, l’edificio fu parzialmente demolito e in seguito completamente distrutto dai Kwarismiani nel 1244. Il pellegrino greco Perdicca nel 1260 ricorda la Tomba di Davide in basso. Nel 1294 il domenicano Ricoldo da Monte Croce descrive l’edificio ormai in rovina e trasformato parzialmente in moschea.
Per capire quello che dicono i pellegrini da qui in avanti è necessario ricordare che il nome Cenacolo era riservato alla parte ovest della restante cappella, dove l’istituzione dell’Eucaristia era ricordata. Sembra appunto che, mentre tutto il resto della basilica del Sion era in rovina, solo questa parte rimaneva ancora in piedi e così solo questa è menzionata dai pellegrini. Molti pellegrini nel primo quarto del XIV secolo descrivono il Santuario e tutti riferiscono la stessa cosa.
I Francescani al Monte Sion
Dopo le crociate, la provvidenza ha voluto che una nuova presenza cristiana avesse origine al Sion. Un frate della provincia francese di Aquitania, fra Roger Garin, arrivò a Gerusalemme nel 1333 e si fermò ad abitare nell’Ospizio di S. Giovanni nei pressi della chiesa del S. Sepolcro, dove erano ospitati i pellegrini e dove viveva una nobildonna siciliana di nome Margherita la quale era una grande benefattrice dei cristiani, potendosi giovare di una certa influenza presso i sultani dell’Egitto. Fra Roger, da parte sua, era rappresentante dei sovrani di Napoli, il re Roberto e la regina Sancia, nel difficile negoziato per il riscatto dei luoghi santi del Monte Sion.Secondo i documenti in lingua araba conservati nell’Archivio Storico della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme, il 15 maggio 1335 la cristiana “franca” Margherita acquistò dal Tesoro Pubblico una proprietà sul Monte Sion per mille denari d’oro. Il 19 settembre 1335, fra Roger comperò un terzo di questa proprietà da Margherita per 400 denari. Il primo febbraio 1337 fra Roger e altri frati, chiamati i Frati della Corda, comperarono un’altra proprietà, questa volta a loro nome, per 1400 denari. Da questo è evidente che fra Roger, per quel tempo risiedente oramai nel convento presso il Cenacolo, godeva di riconoscimento giuridico da parte delle autorità locali. È chiaro inoltre che il Cenacolo (Aliat Sahiun – la Sala Alta – hyperoon Sion), a giudicare dai limiti assegnati alla proprietà, non apparteneva più al Tesoro pubblico. Risulta dunque che fra il 1335 e il 1337 fra Roger ha acquistato il sito del Cenacolo. Due bolle papali del 1343 comunicarono al mondo cattolico che “in seguito a difficili negoziati e grandi spese” intervenute tra i Sovrani di Napoli e il Sultano d’Egitto Melek en-Naser Muhammed, i Francescani erano entrati in possesso del Cenacolo di Nostro Signore, della Cappella della Discesa dello Spirito Santo e della cappella delle Apparizioni di Gesù Risorto, e che attorno a questi luoghi la regina Sancha aveva costruito un convento per 12 frati e 3 persone secolari. Fu probabilmente nel 1336 che presero del luogo, poiché da quel momento i pellegrini trovano i frati nel loro convento, il superiore del quale portava il titolo, che rimane ancor oggi, di Guardiano del Monte Sion.

Il chiostro del primo convento francescano del Sion
Al loro ingresso i francescani preservarono il più possibile la situazione esistente prima del 1336. L’edificio è descritto come avente due piani, e ogni piano composto di due differenti parti. Piano terreno: Nella parte orientale (più alta dell’occidentale), a sinistra, in una piccola sala rettangolare si veneravano le tombe di Davide e di Salomone; a destra c’era invece la Cappella di S. Tommaso. La parte occidentale, scura e sotterranea era indicata come il luogo dove Cristo aveva tenuto con i suoi Apostoli gli ultimi discorsi; successivamente questo luogo divenne Cappella di S. Francesco e fu anche usata come dormitorio per i pellegrini. La memoria della Lavanda dei piedi fu trasferita invece ad un altare laterale nella sala superiore. Piano superiore: A occidente c’era la chiesa vera e propria dei frati, che era il Cenacolo, il luogo dell’Ultima Cena. Una scala nell’angolo sud-ovest la metteva in comunicazione con la cappella inferiore. La parte orientale o Cappella dello Spirito Santo è sempre mostrata come in rovina.I documenti mostrano di fatto che i frati ripararono la sola cappella del Cenacolo tanto che da parte di alcuni archeologi la sala attuale viene assegnata al XIV secolo, ricostruita probabilmente da artisti che i Francescani portarono da Cipro.

Il papa Paolo VI prega nel Cenacolo nel 1964
Per qualche ragione la Cappella dello Spirito Santo non era stata restaurata. Nel 1288 fra Ricoldo da Montecroce ricorda che parte del Cenacolo, cioè il luogo della Discesa dello Spirito Santo, era stato convertito in moschea. Il sultano predetto, favorevole ai frati, morì nel 1340, e un periodo difficile prese inizio, come mostra nel 1346 una lettera del papa Clemente VI a Pietro IV di Aragona. Il secondo Guardiano, fr. Nicolao, fu costretto a ricomperare nel 1346 una parte della proprietà già comprata nel 1337 da fr. Roger. C’erano sempre nuove difficoltà da superare e sappiamo da una lettera del tribuno Cola di Rienzo nel 1361 che lavori di restauro iniziati al tempo della regina Sancia si erano dovuti interrompere e non erano ancora giunti a termine nel 1361. Una donna di Firenze, Sofia degli Arcangeli, nel 1363 aprì un ospizio per pellegrini a nord del convento francescano. Col tempo, questo ospizio passò ai francescani e le donne che lo servivano divennero Terziarie.Quando nel 1365 Pietro I di Cipro attaccò Alessandria, il sultano si vendicò sui Cristiani e i Francescani del Monte Sion furono condotti a Damasco, dove morirono in prigione. La pace fu conclusa nel 1370 e giunsero nuovi frati dall’Occidente a prendere il loro posto sul Sion e nel S. Sepolcro. Seguì un periodo di tranquillità e, nel 1377, il Guardiano del Sion diventò indipendente dal Provinciale di Cipro e passò sotto le dipendenze immediate del Generale dell’ordine. A quel tempo i frati erano 20 e servivano il Monte Sion, il S. Sepolcro e Betlemme. Sebbene fossero proprietari dell’intero edificio, essi non poterono arrivare a ricostruire la Cappella della Discesa dello Spirito Santo, descritta dai pellegrini come una terrazza aperta. Fu a questo punto che iniziarono gli intrighi degli Ebrei per acquistare dai Musulmani la Cappella di Davide e stabilirvi una sinagoga. Né gli Ebrei né i Musulmani possedevano alcuna tradizione certa sulla Tomba di Davide. Nel 1383 l’ebreo Isaac Chelo di Aragona afferma che le tombe della Casa di Davide, che si trovavano sul Monte Sion, non sono conosciute oggi né da Ebrei né da Musulmani.
Il primo atto di usurpazione contro i Francescani
I Francescani furono privati della Cappella di Davide nel 1429. Questo fatto si compì attraverso un’alleanza tra Musulmani ed Ebrei, che investirono per la loro parte denaro con l’intenzione di trasformare questa cappella in Sinagoga. I frati furono sì cacciati fuori, ma il luogo, anziché essere trasformato in sinagoga, rimase invece nelle mani dei Musulmani. Questa usurpazione condusse a tutta una serie di rappresaglie in Europa contro gli Ebrei. Fu attraverso gli sforzi diplomatici di Venezia che le autorità locali restituirono il luogo ai Francescani nel seguente anno.Fra Giacomo Delfin (1434-1438) lavorò alacremente nel restauro dell’intero edificio. Il sultano Barsbay (1422-1438) si mostrò favorevole e, con l’aiuto delle Potenze Cattoliche e specialmente del Duca Filippo di Burgundia (1419-1467), fra Delfino potè terminare i restauri e ricostruire la Cappella dello Spirito Santo.

Uno dei Firmani (decreti sultaniali) che confermano i diritti dei Francescani
Purtroppo nel 1438 salì al potere il Sultano Jaqmaq (1438-1463) che ordinò la chiusura di tutte le chiese cristiane ed il trasferimento forzato al Cairo dei Frati del Monte Sion. le proteste del negus di Abissinia e le sue minacce di deviare l’acqua del Nilo calmarono il Sultano. Tra il 1439 e il 1446 si ottennero due firmani per una decorosa ricostruzione della cappella dello Spirito Santo. Il Duca Filippo provvide ancora il denaro.Mentre procedevano i lavori, nel 1462, arrivò l’ordine di abbattere tutte le nuove costruzioni e di riprendere nuovamente la Cappella di Davide. Gli ordini furono condotti a compimento con brutalità e persino le ossa dei frati sepolti presso il cenotafio di Davide furono dissotterrate. La Cappella di Davide fu, da quel momento, perduta definitivamente. I Frati ricostruirono ancora (nel 1462) la Cappella dello Spirito Santo, solo per essere (nel 1468) di nuovo distrutta dai Musulmani.

Lapide affissa nel cenacolo per ricordare l’espulsione dei Francescani
Avendo rimesso in piedi questo oratorio i Frati cambiarono tattica e, per riavere la Cappella di Davide, si rivolsero al Sultano dichiarando essere stato questo originariamente il loro cimitero, ma che alcuni Musulmani vi avevano eretto un mihrab immaginando che fosse la Tomba di Davide. Ma i giuristi dell’islam dichiararono che un santuario musulmano non poteva essere stato eretto in un cimitero. Tutta la questione fu riesaminata per ordine del Sultano. Le autorità locali, radunatesi sul posto, presero infine una decisione contraria ai Francescani cosicché, il giorno seguente (23 maggio 1490) i Cristiani si videro forzati a demolire tutte le nuove costruzioni (che comprendevano oltre la Cappella dello Spirito Santo anche l’Oratorio della Vergine Maria) e ad abbandonare il sito nelle mani dei Musulmani.
I Francescani cacciati dal Sion
La prossimità delle famiglie musulmane, messe là a custodia della Cappella dello Spirito Santo e di quella di Davide, rendeva la vita quasi impossibile i frati del Sion, che continuavano ad officiare la chiesa del Cenacolo, così come quella sotterranea di S. Francesco. Ogni giorno si presentava un nuovo, più grande problema e ai frati non ebbero alcunché da sperare nemmeno quando la Palestina passò ai Turchi Ottomani nel 1517.I Musulmani continuarono a disturbare i Frati e nel 1521 Solimano I intervenne per mettere uno stop alle loro tribolazioni. I Musulmani ricorsero allora ad un nuovo espediente. Essi chiesero al Mufti se non era buono e corretto che dei fedeli abitassero presso un santuario musulmano e se le liturgie cristiane non fossero invece una profanazione. Il Mufti fu d’accordo con loro e si fece un ricorso a Costantinopoli. L’ordine che uscì dalla Porta il 18 marzo 1523, indirizzato al Governatore di Damasco, fu di espulsione immediata per gli infedeli che dissacravano il luogo santo facendo le loro processioni, secondo la loro falsa fede, sopra la Tomba di Davide, degna piuttosto di essere venerata dai Musulmani. Il luogo doveva invece essere consegnato al latore dell’ordine lo Scheik Muhammad el-Ajami. Questo Ajami non presentò subito l’ordine che aveva portato con sé, ma provò invece se riusciva a venderlo a mercanti europei, che proteggevano i Francescani. Così i Francescani vennero a conoscenza di questo ordine e Venezia fece rimostranze presso la Sublime Porta, che acconsentì ad annullarlo. Pellegrini europei, tra i quali S. Ignazio di Loyola, al momento di imbarcarsi nell’ottobre del 1523, erano a conoscenza della revoca, ma prima che questa raggiungesse Damasco, il Governatore, Khurrem Pascia, aveva già provveduto all’espulsione nel gennaio del 1524. El-Ajami fece porre una lapide, che si può vedere a tutt’oggi nel Cenacolo, per commemorare l’evento. I Frati si trasferirono in una vicina abitazione, chiamata “il forno”, dove vivevano le Terziarie.Un nuovo ordine del 26 marzo 1526, rimise in possesso dei frati qualche stanza e la cappella sotto il Cenacolo. Tutti i tentativi fatti dalle Potenze Occidentali, specialmente Venezia e Francia, di rimediare a questa ingiustizia furono inefficaci.I Francescani vissero nel “forno” lì accanto fino al 1560, quando si trasferirono definitivamente nell’ex monastero giorgiano di El-Amud, ribattezzato di S. Salvatore, dove risiede il Superiore dei frati di Terra Santa, che mantiene fino ad oggi il titolo di Guardiano del Santo Monte Sion.

L’odierno “Cenacolino” Francescano sul Sion
La Sala Superiore del Cenacolo fu dunque trasformata in una moschea dedicata al Re Davide e l’accesso ai cristiani ne fu del tutto interdetto. Questa situazione durò fino alla fine del secolo XIX, quando questa Sala si riaprì parzialmente alle visite dei pellegrini cristiani. Rimase comunque esclusa la celebrazione della Eucaristia così come ogni altra forma di devozione. In seguito si permise ai Francescani di compiere alcune visite ufficiali il Giovedì santo e a Pentecoste, comunque senza la celebrazione dell’Eucaristia.Il 29 marzo 1936 i Francescani ritornarono ad abitare a pochi passi dal Cenacolo, dopo aver ricomperato il vecchio “forno” dalla famiglia Dajani (proprietaria anche del Cenacolo), trasformandolo in Convento di S. Francesco e Chiesa “ad Coenaculum”. È questa una piccola oasi di pace e serenità di fronte a un luogo pieno di così grandi eventi e travagliate vicende. L’intera area del Sion cristiano si trova dal 1948 nelle mani delle autorità ebraiche. Tutti gli edifici all’intorno sono stati occupati da scuole religiose ebraiche ed il cenotafio medioevale del Re Davide è diventato un luogo nazionale di pellegrinaggio del popolo ebraico.Comunque degno di menzione è il fatto che il profilo del Monte Sion Cristiano è dominato oggi dal monastero benedettino e dal santuario edificato nel luogo della Dormizione della Beata Vergine Maria. La chiesa, edificata sul modello di Aix la Chapelle, ricopre una cripta dove si ricorda la venerabile tradizione apocrifa della Morte di Maria avvenuta sul Monte Sion. Qui i pellegrini, dopo essersi inginocchiati davanti alla immagine della Madonna Dormiente, ripetono sottovoce le parole della “Salve Regina”.
Scavi archeologici
Veduta del Monte Sion
Nel 1951 l’archeologo israeliano J. Pinkerfeld ha potuto condurre degli scavi nell’area della Tomba di Davide. Sulla base di questi scavi appare che l’edificio sia stata una antica sinagoga. L’ipotesi del padre B. Bagatti che si dovesse trattare piuttosto di una “chiesa-sinagoga” si fonda sulle antichissime memorie cristiane relative alla “Chiesa degli Apostoli” di cui si è già detto sopra. Inoltre si sa che agli ebrei, in seguito alle due rivolte contro i Romani (66-70 e 132-135 dC), fu proibito l’accesso alla città di Gerusalemme. Al contrario i cristiani erano presenti in città e avevano anzi sul Sion il loro centro liturgico principale. Graffiti rinvenuti nello scavo di Pinkerfeld confermano questa presenza cristiana.Più limitati sondaggi furono operati dai padri B. Bagatti ed E. Alliata nell’area del Convento francescano (1981), e dal padre B. Pixner nell’area del Monastero benedettino della Dormizione (1986). Recenti restauri hanno portato alla luce sui muri del Cenacolo, e più ancora in quelli della Sala dello Spirito Santo numerose tracce relative alla presenza cristiana e al culto ivi praticato fin dall’epoca bizantina.

TRIDUO PASQUALE DELLA PASSIONE E RISURREZIONE DEL SIGNORE , VENERDÌ DELLA PASSIONE DEL SIGNORE – UFFICIO DELLE LETTURE

 http://www.maranatha.it/Ore/qua/qua6/letVENpage.htm

 LITURGIA DELLE ORE – UFFICIO DELLE LETTURE

TRIDUO PASQUALE DELLA PASSIONE E RISURREZIONE DEL SIGNORE
  VENERDÌ DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

UFFICIO DELLE LETTURE

INVITATORIO
V. Signore, apri le mie labbra
R. e la mia bocca proclami la tua lode.

Antifona
Venite, adoriamo Cristo il Figlio di Dio:
con il suo sangue ci ha redenti.

SALMO 94  Invito a lodare Dio
( Il Salmo 94 può essere sostituito dal salmo 99 o 66 o 23 )
Esortandovi a vicenda ogni giorno, finché dura « quest’oggi » (Eb 3,13).

Si enunzia e si ripete l’antifona.

Venite, applaudiamo al Signore, *
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, *
a lui acclamiamo con canti di gioia (Ant.).

Poiché grande Dio è il Signore, *
grande re sopra tutti gli dèi.
Nella sua mano sono gli abissi della terra, *
sono sue le vette dei monti.
Suo è il mare, egli l’ha fatto, *
le sue mani hanno plasmato la terra (Ant.).

Venite, prostràti adoriamo, *
in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo, *
il gregge che egli conduce (Ant.).

Ascoltate oggi la sua voce: †
« Non indurite il cuore, *
come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,

dove mi tentarono i vostri padri: *
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere (Ant.).

Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione †
e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato, *
non conoscono le mie vie;

perciò ho giurato nel mio sdegno: *
Non entreranno nel luogo del mio riposo » (Ant.).

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen (Ant.).

Inno
Creati per la gloria del tuo nome,
redenti dal tuo sangue sulla croce,
segnati dal sigillo del tuo Spirito,
noi t’invochiamo: salvaci, o Signore!

Tu spezza le catene della colpa,
proteggi i miti, libera gli oppressi
e conduci nel cielo ai quieti pascoli
il popolo che crede nel tuo amore.

Sia lode e onore a te, pastore buono,
luce radiosa dell’eterna luce,
che vivi con il Padre e il Santo Spirito
nei secoli dei secoli glorioso. Amen.

Oppure:
Pange, lingua, gloriósi
prœlium certáminis,
et super crucis trophæo
dic triúmphum nóbilem,
quáliter redémptor orbis
immolátus vicerit.

De parentis protoplásti
fraude factor cóndolens,
quando pomi noxiális
morte morsu córruit,
ipse lignum tunc notávit,
damna ligni ut sólveret.

Hoc opus nostræ salútis
ordo depopóscerat,
multifórmis perditóris
arte ut artem fálleret,
et medélam ferret inde,
hostis unde læserat.

Quando venit ergo sacri
plenitudo témporis,
missus est ab arce Patris
Natus, orbis, cónditor,
atque ventre virgináli
carne factus pródiit.

Lustra sex qui iam perácta
tempus implens córporis,
se volénte, natus ad hoc,
passióni déditus,
agnus in crucis levátur
immolándus stípite.

Æqua Patri Filióque,
ínclito Paráclito,
sempitérna sit beátæ
Trinitáti glória,
cuius alma nos redémit
atque servat grátia. Amen.

1^ Antifona
Insorgono i re della terra,
i potenti congiurano insieme
contro il Signore e contro il suo Cristo.

SALMO 2  
Perché le genti congiurano *
perché invano cospirano i popoli?

Insorgono i re della terra †
e i principi congiurano insieme *
contro il Signore e contro il suo Messia:

«Spezziamo le loro catene, *
gettiamo via i loro legami».

Se ne ride chi abita i cieli, *
li schernisce dall’alto il Signore.

Egli parla loro con ira, *
li spaventa nel suo sdegno:
«Io l’ho costituito mio sovrano *
sul Sion mio santo monte».

Annunzierò il decreto del Signore. †
Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, *
io oggi ti ho generato.

Chiedi a me, ti darò in possesso le genti *
e in dominio i confini della terra.
Le spezzerai con scettro di ferro, *
come vasi di argilla le frantumerai».

E ora, sovrani, siate saggi *
istruitevi, giudici della terra;
servite Dio con timore *
e con tremore esultate;

che non si sdegni *
e voi perdiate la via.
Improvvisa divampa la sua ira. *
Beato chi in lui si rifugia.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

1^ Antifona
Insorgono i re della terra,
i potenti congiurano insieme
contro il Signore e contro il suo Cristo.

2^ Antifona
Si dividono le mie vesti,
la mia tunica tirano a sorte.

SALMO 21, 2-23  
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? †
Tu sei lontano dalla mia salvezza»: *
sono le parole del mio lamento.

Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, *
grido di notte e non trovo riposo.

Eppure tu abiti la santa dimora, *
tu, lode di Israele.
In te hanno sperato i nostri padri, *
hanno sperato e tu li hai liberati;

a te gridarono e furono salvati, *
sperando in te non rimasero delusi.

Ma io sono verme, non uomo, *
infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo.

Mi scherniscono quelli che mi vedono, *
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si è affidato al Signore, lui lo scampi; *
lo liberi, se è suo amico».

Sei tu che mi hai tratto dal grembo, *
mi hai fatto riposare sul petto di mia madre.
Al mio nascere tu mi hai raccolto, *
dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.

Da me non stare lontano, †
poiché l’angoscia è vicina *
e nessuno mi aiuta.

Mi circondano tori numerosi, *
mi assediano tori di Basan.
Spalancano contro di me la loro bocca *
come leone che sbrana e ruggisce.

Come acqua sono versato, *
sono slogate tutte le mie ossa.
Il mio cuore è come cera, *
si fonde in mezzo alle mie viscere.

E’ arido come un coccio il mio palato, †
la mia lingua si è incollata alla gola, *
su polvere di morte mi hai deposto.

Un branco di cani mi circonda, *
mi assedia una banda di malvagi;
hanno forato le mie mani e i miei piedi, *
posso contare tutte le mie ossa.

Essi mi guardano, mi osservano: †
si dividono le mie vesti, *
sul mio vestito gettano la sorte.

Ma tu, Signore, non stare lontano, *
mia forza, accorri in mio aiuto.
Scampami dalla spada, *
dalle unghie del cane la mia vita.

Salvami dalla bocca del leone *
e dalle corna dei bufali.
Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, *
ti loderò in mezzo all’assemblea.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

2^ Antifona
Si dividono le mie vesti,
la mia tunica tirano a sorte.

3^ Antifona
Mi aggrediscono con furore
quelli che mi cercavano a morte.

SALMO 37
Signore, non castigarmi nel tuo sdegno, *
non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto, *
su di me è scesa la tua mano.

Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano, *
nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo, *
come carico pesante mi hanno oppresso.

Putride e fetide sono le mie piaghe *
a causa della mia stoltezza.
Sono curvo e accasciato, *
triste mi aggiro tutto il giorno.

I miei fianchi sono torturati,*
in me non c’è nulla di sano.
Afflitto e sfinito all’estremo, *
ruggisco per il fremito del mio cuore.

Signore, davanti a te ogni mio desiderio *
e il mio gemito a te non è nascosto.

Palpita il mio cuore, †
la forza mi abbandona, *
si spegne la luce dei miei occhi.

Amici e compagni
si scostano dalle mie piaghe, *
i miei vicini stanno a distanza.

Tende lacci chi attenta alla mia vita, †
trama insidie chi cerca la mia rovina *
e tutto il giorno medita inganni.

Io, come un sordo, non ascolto †
e come un muto non apro la bocca; *
sono come un uomo
che non sente e non risponde.

In te spero, Signore; *
tu mi risponderai, Signore Dio mio.

Ho detto: «Di me non godano,
contro di me non si vantino *
quando il mio piede vacilla».

Poiché io sto per cadere *
e ho sempre dinanzi la mia pena.
Ecco, confesso la mia colpa, *
sono in ansia per il mio peccato.

I miei nemici sono vivi e forti, *
troppi mi odiano senza motivo,
mi pagano il bene col male, *
mi accusano perché cerco il bene.

Non abbandonarmi, Signore, *
Dio mio, da me non stare lontano;
accorri in mio aiuto, *
Signore, mia salvezza.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

3^ Antifona
Mi aggrediscono con furore
quelli che mi cercavano a morte.

Versetto
V. Falsi testimoni si alzarono contro di me:
R. l’empietà mentiva a se stessa.

Prima Lettura
Dalla lettera agli Ebrei 9, 11-28

Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, entrò una volta per sempre nel santuario, con il proprio sangue
Fratelli, Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa. Dove infatti c’è un testamento, è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive. Per questo neanche la prima alleanza fu inaugurata senza sangue. Infatti dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il popolo da Mosè, secondo la legge, questi, preso il sangue dei vitelli e dei capri con acqua, lana scarlatta e issopo, ne asperse il libro stesso e tutto il popolo, dicendo: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio ha stabilito per voi (Es 24, 8). Alla stessa maniera asperse con il sangue anche la Tenda e tutti gli arredi del culto. Secondo la legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono.
Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificati con tali mezzi; le realtà celesti poi dovevano esserlo con sacrifici superiori a questi. Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

Responsorio    Cfr. Is 53, 7. 8. 5. 12
R. Era come agnello condotto al macello; maltrattato, non aprì bocca; fu percosso a morte* per dare la salvezza al suo popolo.
V. Ha consegnato se stesso alla morte, ed è stato annoverato fra gli empi,
R. per dare la salvezza al suo popolo.

Seconda Lettura
Dalle «Catechesi» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Catech. 3, 13-19; SC 50, 174-177)

La forza del sangue di Cristo
Vuoi conoscere la forza del sangue di Cristo? Richiamiamone la figura, scorrendo le pagine dell’Antico Testamento.
«Immolate, dice Mosè, un agnello di un anno e col suo sangue segnate le porte» (Es 12, 1-14). Cosa dici, Mosè? Quando mai il sangue di un agnello ha salvato l’uomo ragionevole? Certamente, sembra rispondere, non perché è sangue, ma perché è immagine del sangue del Signore. Molto più di allora il nemico passerà senza nuocere se vedrà sui battenti non il sangue dell’antico simbolo, ma quello della nuova realtà, vivo e splendente sulle labbra dei fedeli, sulla porta del tempio di Cristo.
Se vuoi comprendere ancor più profondamente la forza di questo sangue, considera da dove cominciò a scorrere e da quale sorgente scaturì. Fu versato sulla croce e sgorgò dal costato del Signore. A Gesù morto e ancora appeso alla croce, racconta il vangelo, s’avvicinò un soldato che gli aprì con un colpo di lancia il costato: ne uscì acqua e sangue. L’una simbolo del Battesimo, l’altro dell’Eucaristia. Il soldato aprì il costato: dischiuse il tempio sacro, dove ho scoperto un tesoro e dove ho la gioia di trovare splendide ricchezze. La stessa cosa accade per l’Agnello: i Giudei sgozzarono la vittima ed io godo la salvezza, frutto di quel sacrificio.
E uscì dal fianco sangue ed acqua (cfr. Gv 19, 34). Carissimo, non passare troppo facilmente sopra a questo mistero. Ho ancora un altro significato mistico da spiegarti. Ho detto che quell’acqua e quel sangue sono simbolo del battesimo e dell’Eucaristia. Ora la Chiesa è nata da questi due sacramenti, da questo bagno di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito santo per mezzo del Battesimo e dell’Eucaristia. E i simboli del Battesimo e dell’Eucaristia sono usciti dal costato. Quindi è dal suo costato che Cristo ha formato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu formata Eva.
Per questo Mosè, parlando del primo uomo, usa l’espressione: «ossa delle mie ossa, carne dalla mia carne» (Gn 2, 23), per indicarci il costato del Signore. Similmente come Dio formò la donna dal fianco di Adamo, così Cristo ci ha donato l’acqua e il sangue dal suo costato per formare la Chiesa. E come il fianco di Adamo fu toccato da Dio durante il sonno, così Cristo ci ha dato il sangue e l’acqua durante il sonno della sua morte.
Vedete in che modo Cristo unì a sé la sua Sposa, vedete con quale cibo ci nutre. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio col proprio latte, così il Cristo nutre costantemente col suo sangue coloro che ha rigenerato.

Responsorio   Cfr. 1 Pt 1, 18-19; Ef 2, 18; 1 Gv 1, 7
R. Non a prezzo di cose corruttibili, come argento e oro, foste liberati; ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia. * Per mezzo di lui possiamo presentarci al Padre in un solo Spirito.
V. Il sangue di Gesù, Figlio di Dio, ci purifica da ogni peccato;
R. per mezzo di lui possiamo presentarci al Padre in un solo Spirito.

Orazione
Guarda con amore, Padre, questa tua famiglia, per la quale il Signore nostro Gesù Cristo non esitò a consegnarsi nelle mani dei nemici e a subire il supplizio della croce. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

R. Amen.
Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

IL GIOVEDÌ SANTO, ULTIMA ALBA DI QUARESIMA, PRIMO TRAMONTO DEL TRIDUO PASQUALE (SECONDA PARTE)

http://www.zenit.org/it/articles/il-giovedi-santo-ultima-alba-di-quaresima-primo-tramonto-del-triduo-pasquale-seconda-parte

IL GIOVEDÌ SANTO, ULTIMA ALBA DI QUARESIMA, PRIMO TRAMONTO DEL TRIDUO PASQUALE (SECONDA PARTE)

UNA RIFLESSIONE SULLE PREGHIERE E SULLA LITURGIA DEL GIOVEDÌ DELLA SETTIMANA SANTA

ROMA, 26 MARZO 2013 (ZENIT.ORG) PADRE GIUSEPPE MIDILI, O.CARM.

Dal grande mistero della Santa Cena scaturisce pienezza di carità e di vita. Il riferimento è certamente al gesto della lavanda dei piedi, che la liturgia propone di compiere simbolicamente in questo giorno. Papa Giovanni Paolo II, commentando la pericope evangelica di Gv 13, coglie il nesso tra la lavanda e la partecipazione alla mensa eucaristica: «Al termine della lavanda dei piedi Gesù ci invita ad imitarlo: Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi (Gv 13,15).
Stabilisce in tal modo un’intima correlazione tra l’Eucaristia, sacramento del suo dono sacrificale, e il comandamento dell’amore, che ci impegna ad accogliere e servire i fratelli. Non si può disgiungere la partecipazione alla mensa del Signore dal dovere di amare il prossimo. Ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia, anche noi pronunciamo il nostro “Amen” davanti al Corpo e al Sangue del Signore.
E’ l’amore l’eredità più preziosa che Egli lascia a quanti chiama alla sua sequela. E’ il suo amore, condiviso dai suoi discepoli, che questa sera viene offerto all’intera umanità.» (Giovanni Paolo II, Omelia della Messa in Cena Domini, 28 marzo 2002). Il prefazio, in cui si dice comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria, è espressione del rapporto tra Eucarestia e comandamento dell’amore.
Il testo del canto di offertorio, Dov’è carità e amore, lì c’è Dio, accompagna l’offerta dei doni per i poveri, insieme al pane ed al vino che diventeranno cibo e bevanda per la comunità radunata. Dio è presente e si manifesta lì dove la vita quotidiana esprime un amore profondo verso il prossimo. Il binomio pienezza di carità e di vita, cui si accenna nella colletta, è riferimento alla pienezza dell’amore, che si esprime quando permea tutta la vita dei credenti.
In questo senso «Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Il «comandamento» dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere «comandato» perché prima è donato» (Benedetto XVI, Deus Caritas est, 14).
Ecco il motivo per cui pane e vino si portano all’altare insieme ai doni per i poveri: l’Eucarestia è il dono che Cristo fa alla sua Chiesa, mentre le chiede di essere imitato nel lavare i piedi e nel donare la vita.
Un’ultima riflessione, sul significato dell’adorazione eucaristica, che conclude questa celebrazione: Le rubriche prevedono che dopo alcuni istanti di adorazione in silenzio tutti genuflettono e tornano in sacrestia… Nessun rito di conclusione, nessuna orazione, solo il silenzio di tutta la Chiesa di fronte al grande mistero dell’Eucarestia. Per comprendere meglio il significato di un tempo prolungato di adorazione, proposto alla comunità ecclesiale, basta leggere l’esortazione di papa Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, al n. 66: «L’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucarestia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso colui che riceviamo. L’atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto si è fatto nella celebrazione liturgica stessa». Già Agostino infatti aveva detto: «nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata» (Esposizioni sui Salmi 98, 9).
Mentre il sole volge alla fine del suo corso e la luce del tramonto cede il posto alla tenebra, i colori del crepuscolo risplendono sulla comunità radunata nel cenacolo antico e nuovo: l’ora è giunta. Radunati intorno all’altare per celebrare la Santa Cena, inebriati dal profumo del balsamo che sale dal Sacro Crisma, contempliamo nell’Eucarestia il nostro Salvatore, che lava i nostri piedi ed offre la sua vita. Non teme il tradimento del nostro peccato, come non esitò di fronte a quello di Giuda, si dona pienamente e totalmente: tutto se stesso per noi, per sempre, perché Egli è l’Amore incondizionato. Nel silenzio della Chiesa, muta di fronte ad un gesto così alto di donazione, nessuna parola. L’attenzione è tutta verso quel tabernacolo in cui è presente l’Amato e la mente torna alle parole di Didaché: «Come questo pane spezzato era disperso sui monti e, raccolto, è divenuto uno, così la tua Chiesa sia raccolta dalle estremità della terra nel tuo regno» (IX, 4).

Publié dans:LITURGIA: SETTIMANA SANTA |on 27 mars, 2013 |Pas de commentaires »
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