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INNI SACRI : IL NATALE – DI ALESSANDRO MANZONI

INNI SACRI – IL NATALE
di Alessandro Manzoni

Qual masso che dal vertice
Di lunga erta montana,
Abbandonato all’impeto
Di rumorosa frana,
Per lo scheggiato calle
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;
Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
Né, per mutar di secoli,
Fia che riveda il sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà:
Tal si giaceva il misero
Figliol del fallo primo,
Dal dì che un’ineffabile
Ira promessa all’imo
D’ogni malor gravollo,
Donde il superbo collo
Più non potea levar.
Qual mai tra i nati all’odio
Quale era mai persona
Che al Santo inaccessibile
Potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
La preda sua strappar?
Ecco ci è nato un Pargolo,
Ci fu largito un Figlio:
Le avverse forze tremano
Al mover del suo ciglio:
All’uom la mano Ei porge,
Che si ravviva, e sorge
Oltre l’antico onor.
Dalle magioni eteree
Sporga una fonte, e scende
E nel borron de’ triboli
Vivida si distende:
Stillano mele i tronchi;
Dove copriano i bronchi,
Ivi germoglia il fior.
O Figlio, o Tu cui genera
L’Eterno, eterno seco;
Qual ti può dir de’ secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empiro
Non ti comprende il giro:
La tua parola il fe’.
E Tu degnasti assumere
Questa creata argilla?
Qual merto suo, qual grazia
A tanto onor sortilla?
Se in suo consiglio ascoso
Vince il perdon, pietoso
Immensamente Egli è.
Oggi Egli è nato: ad Efrata,
Vaticinato ostello,
Ascese un’alma Vergine,
La gloria d’Israello,
Grave di tal portato:
Da cui promise è nato,
Donde era atteso uscì.
La mira Madre in poveri.
Panni il Figliol compose,
E nell’umil presepio
Soavemente il pose;
E l’adorò: beata!
Innanzi al Dio prostrata
Che il puro sen le aprì.
L’Angel del cielo, agli uomini
Nunzio di tanta sorte,
Non de’ potenti volgesi
Alle vegliate porte;
Ma tra i pastor devoti,
Al duro mondo ignoti,
Subito in luce appar.
E intorno a lui per l’ampia
Notte calati a stuolo,
Mille celesti strinsero
Il fiammeggiante volo;
E accesi in dolce zelo,
Come si canta in cielo,
A Dio gloria cantar.
L’allegro inno seguirono,
Tornando al firmamento:
Tra le varcate nuvole
Allontanossi, e lento
Il suon sacrato ascese,
Fin che più nulla intese
La compagnia fedel.
Senza indugiar, cercarono
L’albergo poveretto
Que’ fortunati, e videro,
Siccome a lor fu detto,
Videro in panni avvolto,
In un presepe accolto,
Vagire il Re del Ciel.
Dormi, o Fanciul; non piangere;
Dormi, o Fanciul celeste:
Sovra il tuo capo stridere
Non osin le tempeste,
Use sull’empia terra,
Come cavalli in guerra,
Correr davanti a Te.
Dormi, o Celeste: i popoli
Chi nato sia non sanno;
Ma il dì verrà che nobile
Retaggio tuo saranno;
Che in quell’umil riposo,
Che nella polve ascoso,
Conosceranno il Re.

Publié dans:LETTERATURA, NATALE (QUALCOSA SUL) |on 14 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Il Papa: nel periodo d’Avvento, « raddrizzare » le proprie vie

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20632?l=italian

Il Papa: nel periodo d’Avvento, « raddrizzare » le proprie vie

Chiede nell’Angelus di lasciarsi guidare dalla parola di Dio

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 6 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica a mezzogiorno affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli e i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

In questa seconda domenica di Avvento, la liturgia propone il brano evangelico in cui san Luca, per così dire, prepara la scena su cui Gesù sta per apparire e iniziare la sua missione pubblica (cfr Lc 3,1-6). L’Evangelista punta il riflettore su Giovanni Battista, che del Messia fu il precursore, e traccia con grande precisione le coordinate spazio-temporali della sua predicazione. Scrive Luca: « Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto » (Lc 3,1-2). Due cose attirano la nostra attenzione. La prima è l’abbondanza di riferimenti a tutte le autorità politiche e religiose della Palestina nel 27/28 d.C. Evidentemente l’Evangelista vuole avvertire chi legge o ascolta che il Vangelo non è una leggenda, ma il racconto di una storia vera, che Gesù di Nazaret è un personaggio storico inserito in quel preciso contesto. Il secondo elemento degno di nota è che, dopo questa ampia introduzione storica, il soggetto diventa « la parola di Dio », presentata come una forza che scende dall’alto e si posa su Giovanni il Battista.

Domani ricorrerà la memoria liturgica di sant’Ambrogio, grande Vescovo di Milano. Attingo da lui un commento a questo testo evangelico: « Il Figlio di Dio – egli scrive -, prima di radunare la Chiesa, agisce anzitutto nel suo umile servo. Perciò dice bene san Luca che la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria nel deserto, perché la Chiesa non ha preso inizio dagli uomini, ma dalla Parola » (Espos. del Vangelo di Luca 2, 67). Ecco dunque il significato: la Parola di Dio è il soggetto che muove la storia, ispira i profeti, prepara la via del Messia, convoca la Chiesa. Gesù stesso è la Parola divina che si è fatta carne nel grembo verginale di Maria: in Lui Dio si è rivelato pienamente, ci ha detto e dato tutto, aprendoci i tesori della sua verità e della sua misericordia. Prosegue ancora sant’Ambrogio nel suo commento: « Discese dunque la Parola, affinché la terra, che prima era un deserto, producesse i suoi frutti per noi » (ibid.).

Cari amici, il fiore più bello germogliato dalla parola di Dio è la Vergine Maria. Lei è la primizia della Chiesa, giardino di Dio sulla terra. Ma, mentre Maria è l’Immacolata – così la celebreremo dopodomani -, la Chiesa ha continuamente bisogno di purificarsi, perché il peccato insidia tutti i suoi membri. Nella Chiesa è sempre in atto una lotta tra il deserto e il giardino, tra il peccato che inaridisce la terra e la grazia che la irriga perché produca frutti abbondanti di santità. Preghiamo dunque la Madre del Signore affinché ci aiuti, in questo tempo di Avvento, a « raddrizzare » le nostre vie, lasciandoci guidare dalla parola di Dio.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Domani si aprirà, a Copenhagen, la Conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici, con cui la comunità internazionale intende contrastare il fenomeno del riscaldamento globale. Auspico che i lavori aiuteranno ad individuare azioni rispettose della creazione e promotrici di uno sviluppo solidale, fondato sulla dignità della persona umana ed orientato al bene comune. La salvaguardia del creato postula l’adozione di stili di vita sobri e responsabili, soprattutto verso i poveri e le generazioni future. In questa prospettiva, per garantire pieno successo alla Conferenza, invito tutte le persone di buona volontà a rispettare le leggi poste da Dio nella natura e a riscoprire la dimensione morale della vita umana.

Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare l’ »Associazione nazionale famiglie numerose », che ha per motto « Più bimbi, più futuro ». Cari amici, prego per voi, perché la Provvidenza vi accompagni sempre in mezzo alle gioie e alle difficoltà, ed auspico che si sviluppino dovunque efficaci politiche di sostegno alle famiglie, specialmente a quelle con più figli. Saluto i fedeli provenienti da Bergamo, Bracciano e Catania, i ragazzi di Petosìno e quelli di Gràssina, l’Associazione Volontari per la Cooperazione Internazionale di Cesena e il gruppo dei « Cercatori del Graal ».

A tutti auguro una buona domenica.

VENERDÌ 4 DICEMBRE 2009 – I SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C

VENERDÌ 4 DICEMBRE 2009 – I SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C

SAN GIOVANNI DAMASCENO (mf)

UFFICIO DELLE LETTURE
(per l’Avvento)

Seconda Lettura
Dal «Proslògion» di sant’Anselmo, vescovo
(Cap. 1: Opera omnia, ed. Schmitt, Seckau-Edimburgo 12938, 1, 97-100)
 
Il desiderio della contemplazione di Dio
Orsù, misero mortale, fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un pò i tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui.
Entra nell’intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, dì ora con tutto te stesso, dì ora a Dio: Cerco il tuo volto. «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26, 8).
Orsù dunque, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Ma tu certo abiti in una luce inaccessibile. E dov’è la luce inaccessibile, o come mi accosterò a essa? Chi mi condurrà, chi mi guiderà a essa si che in essa io possa vederti? Inoltre con quali segni, con quale volto ti cercherò? O Signore Dio mio, mai io ti vidi, non conosco il tuo volto.
Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da te, ma che a te appartiene? Che cosa farà il tuo servo tormentato dall’amore per te e gettato lontano dal tuo volto? Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto.
Signore, tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni, e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato.
Ma tu, Signore, fino a quando ti dimenticherai di noi, fino a quando distoglierai da noi il tuo sguardo? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai la tua faccia? Quando ti restituirai a noi?
Guarda, Signore, esaudisci, illuminaci, mostrati a noi. Ridonati a noi perché ne abbiamo bene: senza di te stiamo tanto male. Abbi pietà delle nostre fatiche, dei nostri sforzi verso di te: non valiamo nulla senza te.
Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoli e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti.

MEMORIA FACOLTATIVA DI SAN GIOVANNI DAMASCENO

DAGLI SCRITTI…
Dalla «Dichiarazione di fede» di san Giovanni Damasceno, dottore della Chiesa
Tu mi hai chiamato, Signore, a servire i tuoi discepoli
Tu, Signore, mi hai tratto dai fianchi di mio padre; tu mi hai formato nel grembo di mia madre; tu mi hai portato alla luce, nudo bambino, perché le leggi della nostra natura obbediscono costantemente ai tuoi precetti. Tu hai preparato con la benedizione dello Spirito Santo la mia creazione e la mia esistenza, non secondo volontà d’uomo o desiderio della carne, ma secondo la tua ineffabile grazia. Hai preparato la mia nascita con una preparazione che trascende le leggi della nostra natura, mi hai tratto alla luce adottandomi come figlio, mi hai iscritto fra i discepoli della tua Chiesa santa e immacolata.
Tu mi hai nutrito di latte spirituale, del latte delle tue divine parole. mi hai sostentato con il solido cibo del Corpo di Gesù Cristo nostro Dio, Unigenito tuo santissimo, e mi hai inebriato con il calice divino del suo Sangue vivificante, che egli ha effuso per la salvezza di tutto il mondo.
Tutto questo, Signore, perché ci hai amati e hai scelto come vittima, invece nostra, il tuo diletto Figlio unigenito per la nostra redenzione, ed egli accettò spontaneamente; senza resistere, anzi come uno che era destinato al sacrificio, quale agnello innocente si avviò alla morte da se stesso, perché, essendo Dio, si fece uomo e si sottomise, di propria volontà, facendosi «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 8).
E così, o Cristo mio Dio, tu hai umiliato te stesso per prendere sulle tue spalle me, pecorella smarrita, e farmi pascolare in pascolo verdeggiante e nutrirmi con le acque della retta dottrina per mezzo dei tuoi pastori, i quali, nutriti da te, han poi potuto pascere il tuo gregge eletto e nobile.
Ora, o Signore, tu mi hai chiamato per mezzo del tuo sacerdote a servire i tuoi discepoli. non so con quale disegno tu abbia fatto questo; tu solo lo sai. Tuttavia, Signore, alleggerisci il pesante fardello dei miei peccati, con i quali ho gravemente mancato; monda la mia mente e il mio cuore; guidami per la retta viva come una lampada luminosa; dammi una parola franca quando apro la bocca; donami una lingua chiara e spedita per mezzo della lingua di fuoco del tuo Spirito e la tua presenza sempre mi assista.
Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri, perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra, ma il tuo Spirito buono mi indirizzi sulla retta via perché le mie azioni siano secondo la tua volontà e lo siano veramente fino all’ultimo.
Tu poi, o nobile vertice di perfetta purità, o nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore; con essa si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri.

MARTEDÌ 1 DICEMBRE – I SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C

MARTEDÌ 1 DICEMBRE – I SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C

UFFICIO DELLE LETTURE

(postato per il Natale)

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Gregorio Nazianzeno, vescovo
(Disc. 45, 9. 22. 28; PG 36, 634-635. 654. 658-659. 662)

O meraviglioso scambio!
Il Verbo stesso di Dio, colui che è prima del tempo, l’invisibile, l’incomprensibile, colui che è al di fuori della materia, il Principio che ha origine dal Principio, la Luce che nasce dalla Luce, la fonte della vita e della immortalità, l’espressione dell’archetipo divino, il sigillo che non conosce mutamenti, l’immagine invariata e autentica di Dio, colui che è termine del Padre e sua Parola, viene in aiuto alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell’uomo. Assume un corpo per salvare il corpo e per amore della mia anima accetta di unirsi ad un’anima dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile. Ecco perché è divenuto uomo in tutto come noi, tranne che nel peccato. Fu concepito dalla Vergine, già santificata dallo Spirito Santo nell’anima e nel corpo per l’onore del suo Figlio e la gloria della verginità.
Dio, in un certo senso, assumendo l’umanità, la completò quando riunì nella sua persona due realtà distanti fra loro, cioè la natura umana e la natura divina. Questa conferì la divinità e quella la ricevette.
Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza.
Oh sovrabbondante ricchezza della divina bontà!
Ma che cosa significa per noi questo grande mistero? Ecco: io ho ricevuto l’immagine di Dio, ma non l’ho saputa conservare intatta. Allora egli assume la mia condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine e per dare a me, mortale, la sua immortalità.
Era certo conveniente che la natura umana fosse santificata mediante la natura umana assunta da Dio. Così egli con la sua forza vinse la potenza demoniaca, ci ridonò la libertà e ci ricondusse alla casa paterna per la mediazione del Figlio suo. Fu Cristo che ci meritò tutti questi beni e tutto operò per la gloria del Padre.
Il buon pastore, che ha dato la sua vita per le sue pecore, cerca la pecora smarrita, sui monti e sui colli sui quali si offrivano sacrifici agli idoli. Trovatala se la pone su quelle medesime spalle, che avrebbero portato il legno della croce, e la riporta alla vita dell’eternità.
Dopo la prima incerta luce del Precursore, viene la Luce stessa, che è tutto fulgore. Dopo la voce, viene la Parola, dopo l’amico dello Sposo, viene lo Sposo stesso.
Il Signore viene dopo colui che gli preparò un popolo scelto e predispose gli uomini alla effusione dello Spirito Santo mediante la purificazione nell’acqua.
Dio si fece uomo e morì perché noi ricevessimo la vita. Così siamo risuscitati con lui perché con lui siamo morti, siamo stati glorificati perché con lui siamo risuscitati.

Responsorio   Gal 4, 4-5; Ef 2, 4; Rm 8, 3
R. Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, * per riscattare coloro che erano sotto la legge.
V. Nel suo grande amore per noi, Dio ha mandato il proprio Figlio fatto uomo, simile a noi peccatori,
R. per riscattare coloro che erano sotto la legge
.

Chiesa di Milano, Cammineranno le genti alla tua luce…tempo di Natale

dal sito:

http://www.chiesadimilano.it/or/ADMI/esy/objects/docs/1472208/TEMPO_DI_NATALE.doc

CHIESA DI MILANO

CAMMINERANNO LE GENTI ALLA TUA LUCE

PROFEZIA E MEMORIA CREDENTE

Percorso tematico sulle Letture delle solennità e delle domeniche del tempo di Natale

Parole di giudizio e parole di consolazione si alternano nei 66 capitoli del libro di Isaia. Il giudizio di Dio, nella rivelazione attestata nella Bibbia, non ha altro scopo che la salvezza dell’uomo. Dio, nel suo amore eterno per Israele e nella sua sollecitudine paterna per tutte le genti, vuole renderli consapevoli del loro accecamento, con la forza appassionata, e talora veemente, della parola profetica. Il libro di Isaia non oppone mai frontalmente Israele e le genti: sia all’uno che alle altre sono di volta in volta rivolte parole che denunciano la loro cecità, la loro incapacità a comprendere, al di là della trama di superficie della storia, le vie di Dio diverse da quelle dell’uomo, ma soprattutto a comprendere che la storia non procede mai senza Dio. È sotto il segno dell’insensibilità, della durezza di cuore di Israele che si apre il libro (Is 1, 3 e 6, 9-10):

Udite, o cieli, ascolta, o terra,
così parla il Signore:
« Ho allevato e fatto crescere figli,
ma essi si sono ribellati contro di me.
Il bue conosce il suo proprietario
e l’asino la greppia del suo padrone,
ma Israele non conosce,
il mio popolo non comprende ».

Va’ e riferisci a questo popolo:
« Ascoltate pure, ma non comprenderete,
osservate pure, ma non conoscerete ».
Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi,
e non veda con gli occhi
né oda con gli orecchi
né comprenda con il cuore
né si converta in modo da essere guarito.

La Parola di Dio incontra il rifiuto dell’uomo che si riduce ad essere senza memoria, ossia a dimenticare le testimonianze che Dio gli ha offerto del suo amore e della sua fedeltà. Allora gli avvenimenti della storia costituiscono per lui un immenso e angosciante enigma.
Il libro di Isaia ha alimentato lungo il corso dei secoli la memoria credente di Israele, educandolo ad attendere, nella notte debolmente rischiarata della storia, la consolazione dei tempi messianici. Ogni lettore di questo libro, anche il lettore cristiano, è invitato all’intelligenza che nasce dalla memoria e alla resistenza della fede che suscita la perseveranza paziente della speranza.
Due volte il libro evoca la figura di colui che veglia nella notte (21, 11-12 e 62, 6):

Oracolo su Duma.

Mi gridano da Seir:
« Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte? ».
La sentinella risponde:
« Viene il mattino, poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite! ».

Sulle tue mura, Gerusalemme,
ho posto sentinelle;
per tutto il giorno e tutta la notte
non taceranno mai.
Voi, che risvegliate il ricordo del Signore,
non concedetevi riposo
né a lui date riposo,
finché non abbia ristabilito Gerusalemme
e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra.

La figura di colui che veglia nella notte è evocata dai pastori che vegliavano tutta la notte, da Simeone che, secondo un’espressione isaiana, aspettava la consolazione d’Israele e soprattutto da Maria che alimentava la sua memoria credente, confrontando silenziosamente gli eventi quotidiani con la parola delle Scritture (Lc 2, 8.25.19.51):

Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.

Esplicite o allusive, le citazioni del libro di Isaia sono assai abbondanti negli scritti del Nuovo Testamento. Citare, nella mentalità della prima comunità cristiana, è molto più che cercare una conferma nei testi delle Scritture. Citare significa scavare nelle Scritture per scoprire il senso di ciò che è stato scritto alla luce di un nuovo evento e, nel contempo, interpretare un evento nuovo alla luce della Parola attestata nelle Scritture.

Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
(Lettura Is 9, Natale del Signore, Messa nel giorno)

L’annuncio profetico, proclamato nella celebrazione del Natale del Signore, allarga i propri orizzonti dalla liberazione delle terre del Nord di Israele, occupate dai pagani dopo l’invasione assira (VIII secolo), dal giogo dell’oppressore all’annientamento di ogni strumento di guerra e all’instaurazione di un regno di pace universale. Questo annuncio è associato alla figura di un bambino che, secondo l’usanza proveniente dall’Egitto, viene incoronato con l’attribuzione di quattro titoli grandiosi. Ma l’oracolo va oltre il giovane Ezechia, figlio del re Acaz, probabile primo destinatario di questa promessa, poiché le prospettive che evocano l’instaurazione di una pace cosmica trascendono ogni dimensione di un futuro vicino.
L’intenzione di Dio è chiara: Egli interviene nella storia di Israele e, mediante Israele, nella storia dell’umanità per indicare la strada da percorrere verso quella sapienza che conduce alla pace. E, infatti, il risultato della Parola accolta viene espresso con questa immagine:

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
(Lettura Is 2, Natale del Signore, Messa nella notte)

Ma la pace è un dono da accogliere con l’impegno a trasformare gli strumenti di guerra in strumenti di lavoro, quindi in strumenti di relazioni umane. Nonostante i discorsi che spesso si sono fatti sulle guerre difensive, resta evidente al buon senso, che non si lascia irretire da subdoli ragionamenti, che le guerre si fanno per prevalere sull’altro, considerato un nemico, per eliminarlo. Potranno cambiare le motivazioni e le forme, ma la logica intrinsecamente perversa rimane identica.
Qui, invece, si tratta di convertire questi strumenti di guerra in strumenti di lavoro, in mezzi relazionali, perché il lavoro tende a trasformare rispettosamente la terra, quando non soggiace a logiche di violenza: i vomeri e le falci, propri del mondo agricolo, evocano la fatica rispettosa, necessaria perché la terra produca frutti da condividere con altri.

Il riferimento al già e al non ancora è presente anche nella tradizione ebraica che, guardando al futuro, distingue tra i giorni del messia e il mondo che viene.
Nell’attesa del mondo futuro, vissuta nella speranza dei tempi messianici o nella consapevolezza dei tempi messianici già iniziati, rispettivamente ebrei e cristiani sono chiamati a camminare insieme, guidati dalla Parola di Dio, per costruire sentieri di pace: alla scuola delle Scritture e, per i cristiani, della loro interpretazione autorevole fatta da Gesù.

La prima comunità cristiana, con marcata ironia, sottolinea il contrasto tra l’imperatore romano Cesare Augusto, che vuole contare gli abitanti di tutto l’impero per far risaltare il suo dominio universale, e il bambino avvolto in fasce e posto in una mangiatoia perché non c’era luogo più adatto per collocarlo:

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: « Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia ».
(Vangelo Lc 2, Natale del Signore, Messa nel giorno)

Non Cesare Augusto, ma Gesù, figlio di Maria, reca all’umanità la salvezza: essa non è il prodotto di strategie umane, sempre basate sulla violenza e sull’oppressione dei più deboli, ma un dono che viene sulla terra dall’alto dei cieli. Gesù, nella sinagoga di Nàzaret, interpreta, alla luce di un testo che si trova nel rotolo di Isaia, la sua missione nel mondo: essa consiste nel portare ai poveri il lieto annuncio, proclamando la liberazione degli oppressi e l’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Allora cominciò a dire loro: « Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato ».
(Vangelo Lc 4, Domenica dopo l’Ottava del Natale del Signore)

Nella venuta di Gesù l’autore della lettera agli Ebrei vede la continuità dell’iniziativa di Dio nei confronti dell’umanità realizzata in un modo che supera ogni attesa umana: Gesùi, infatti, è il Figlio, colui che irradia nelle tenebre del mondo la gloria di Dio stesso:

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
(Epistola Eb 1, Natale del Signore, Messa nel giorno)

Nelle Scritture la gloria è la rivelazione della presenza dell’invisibile Dio e del suo agire nella storia. Nella vita di Gesù si manifesta e si rende presente il mistero di Dio: il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria. Perciò, a conclusione dell’inno che costituisce il prologo del suo vangelo, Giovanni presenta Gesù, il Verbo fatto carne, come colui che con tutta la sua vita e, soprattutto, con la sua Pasqua, narra il mistero di Dio stesso. Nella carne di Gesù, ossia nella sua umanità, nei suoi gesti [segni] e nelle sue parole, si è manifestata la gloria di Dio e la pienezza di vita [vita eterna] che Lui solo può donare.

E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità….
(Vangelo Gv 1, Natale del Signore, Messa nella notte e Domenica  nell’Ottava del Natale)

La celebrazione dell’Epifania è l’approdo del cammino iniziato con l’Avvento. Alla luce dell’orizzonte universale, oltre che escatologico, degli annunci isaiani, che leggono la difficile ricostruzione di Gerusalemme, dopo il tempo dell’esilio, come l’aurora che lascia presagire un futuro inondato dallo splendore della gloria di Dio e capace di attrarre la moltitudine dispersa dei suoi figli e delle sue figlie, la prima comunità cristiana di origine giudaica, che ormai si è aperta alle genti, interpreta la figura di Gesù e i tempi messianici con lui iniziati:

Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra,
nebbia fitta avvolge i popoli;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno le genti alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
(Lettura Is 60, Epifania del Signore)

Attraverso alcuni racconti, densi di allusioni bibliche, in particolare la venuta dei magi da oriente e il battesimo nel fiume Giordano, Gesù è presentato come colui che, attraverso i cieli squarciati, manifesta il mistero ineffabilmente luminoso di Dio in modo unico e sorprendente, come colui che riunisce i lontani e i vicini in un solo uomo nuovo:

Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: « Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento ».
(Vangelo Mc 1, Battesimo del Signore-Anno B)

Egli infatti è la nostra pace…
Così egli ha abolito la Legge….
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo…
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,
e pace a coloro che erano vicini.
Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri,
al Padre in un solo Spirito.
(Epistola Ef 2, Battesimo del Signore)

La figura di Maria, icona di ogni discepolo di Gesù, ci conduce a contemplare l’evento dell’Incarnazione alla luce delle Scritture:

Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: « Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere ». Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
(Vangelo Lc 2, Natale del Signore, Messa all’aurora e Ottava del Natale, Circoncisione del Signore)

Maria custodisce la memoria degli eventi vissuti e li interpreta alla luce delle Scritture per scoprire in essi la trama del disegno di Dio. Nelle Scritture, infatti, è attestata la memoria della fedeltà affidabile di Dio che si concede solo a chi decide di affidarsi a Lui con la decisione, mai scontata e perciò sempre in ricerca, della fede.

A tutti coloro che, alla luce dall’evento dell’Incarnazione, accolgono l’invito a precorrere questo cammino condotti dalle Scritture, sono rivolte le parole di benedizione che i sacerdoti di Israele proclamavano sulla comunità riunita in preghiera e che noi possiamo condividere, in quanto chiamati a partecipare all’eredità di Israele in Gesù, splendore del volto di Dio che brilla sull’umanità:

Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace.
(Lettura Nm 6, Ottava del Natale, Circoncisione del Signore)

Giovanni Paolo II: Quando venne la pienezza del tempo… » (cfr Gal 4,4). (1 gennaio 1998)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1998/documents/hf_jp-ii_hom_01011998_it.html

GIOVANNI PAOLO II
OMELIA

1° gennaio 1998  

1. « Quando venne la pienezza del tempo… » (cfr Gal 4,4).

Queste parole della Lettera di san Paolo ai Galati corrispondono molto bene al carattere dell’odierna celebrazione. Siamo all’inizio del nuovo Anno. Secondo il calendario civile, oggi è il primo giorno del 1998; secondo quello liturgico, celebriamo la solennità di Maria Santissima, Madre di Dio.

A partire dalla tradizione cristiana, si è diffuso nel mondo l’uso di contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo. Dunque, in questo giorno la dimensione laica e quella ecclesiale s’incontrano per fare festa. Mentre la Chiesa celebra l’Ottava del Natale del Signore, il mondo civile festeggia il primo giorno di un nuovo anno solare. Proprio in questo modo, di anno in anno, si manifesta gradualmente quella « pienezza del tempo » di cui parla l’Apostolo: è una sequenza che avanza nei secoli e nei millenni in modo progressivo e che avrà il suo definitivo compimento alla fine del mondo.

2. Celebriamo l’Ottava del Natale del Signore. Durante otto giorni abbiamo rivissuto nella liturgia il grande evento della nascita di Gesù, seguendo il racconto che ci viene offerto dai Vangeli. Quest’oggi san Luca ci ripropone la scena del Natale a Betlemme nei suoi tratti essenziali. L’odierna narrazione è, infatti, più sintetica rispetto a quella proclamata nella notte di Natale. Essa viene a confermare e, in un certo senso, a completare il testo della Lettera ai Galati. Scrive l’Apostolo: « … quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; se poi figlio, sei anche erede per volontà di Dio » (Gal 4,4-7).

Questo stupendo testo di san Paolo esprime perfettamente quella che si può definire « la teologia del Natale del Signore ». E’ una teologia simile a quella proposta dall’evangelista Giovanni, il quale nel Prologo al quarto Vangelo scrive: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi… A quanti… l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio » (Gv 1,14.12). San Paolo esprime la stessa verità ma, possiamo dire, in un certo senso la completa. Questo è il grande annuncio che risuona nell’odierna liturgia: l’uomo diventa figlio adottivo di Dio grazie alla nascita dello stesso Figlio di Dio. L’uomo riceve tale figliolanza per opera dello Spirito Santo – lo Spirito del Figlio -, che Dio ha mandato nei nostri cuori. E’ grazie al dono dello Spirito Santo che possiamo dire: Abbà, Padre! Così san Paolo cerca di spiegare in che cosa consista e come si esprima la nostra figliolanza adottiva nei confronti di Dio.

3. Aiutati nella nostra riflessione teologica sul Natale del Signore da san Paolo e dall’apostolo Giovanni, comprendiamo meglio perché noi siamo soliti contare gli anni in riferimento alla nascita di Cristo. La storia si articola in secoli e millenni « prima » e « dopo » Cristo, poiché l’evento di Betlemme rappresenta la fondamentale misura del tempo umano. E’ la nascita di Gesù il centro del tempo. La Notte Santa è diventata il punto di riferimento essenziale per gli anni, i secoli e i millenni nei quali si sviluppa l’azione salvifica di Dio.

La venuta di Cristo nel mondo è importante dal punto di vista della storia dell’uomo, ma è ancor più importante dal punto di vista della salvezza dell’uomo. Gesù di Nazaret ha accettato di sottomettersi al limite del tempo e lo ha aperto una volta per sempre alla prospettiva dell’eternità. Attraverso la sua vita, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione, Cristo ha rivelato in modo inequivocabile che l’uomo non è un’esistenza « orientata verso la morte » e destinata ad esaurirsi in essa. L’uomo esiste non « per la morte », ma « per l’immortalità ». Grazie all’odierna liturgia, questa fondamentale verità sull’eterno destino dell’uomo viene riproposta all’inizio di ogni nuovo Anno. Vengono in tal modo posti in luce il valore e la giusta dimensione di ogni epoca, come pure del tempo che scorre inesorabile.

4. In questa prospettiva del valore e del senso del tempo umano, su cui si proietta la luce della fede, la Chiesa pone l’inizio del nuovo Anno sotto il segno della preghiera per la pace. Mentre auguro che l’intera umanità possa camminare in modo più deciso e concorde sulle vie della giustizia e della riconciliazione, sono lieto di salutare gli illustri Signori Ambasciatori presso la Santa Sede presenti a questa solenne celebrazione. Rivolgo un cordiale pensiero al caro Cardinale Roger Etchegaray, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ed a tutti i Collaboratori di tale Dicastero, a cui è affidato il compito specifico di testimoniare la preoccupazione del Papa e della Sede Apostolica per le varie situazioni di tensione e di guerra, nonché la costante sollecitudine che la Chiesa nutre per la costruzione di un mondo più giusto e fraterno.

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno ho voluto soffermarmi su un tema che mi sta particolarmente a cuore: lo stretto legame che unisce la promozione della giustizia e la costruzione della pace. In realtà – come recita il tema scelto per questa giornata – « Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti ». Rivolgendomi ai Capi di Stato ed a tutte le persone di buona volontà, ho sottolineato come la ricerca della pace non possa prescindere dall’impegno per l’attuazione della giustizia. E’ una responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. « Giustizia e pace non sono concetti astratti o ideali lontani; sono valori insiti, come patrimonio comune, nel cuore di ogni persona. Individui, famiglie, comunità, nazioni, tutti sono chiamati a vivere nella giustizia e ad operare per la pace. Nessuno può dispensarsi da questa responsabilità » (n. 1).

La Vergine Santissima, che in questo primo giorno dell’anno invochiamo col titolo di « Madre di Dio », rivolga il suo sguardo di amore sul mondo intero. Grazie alla sua materna intercessione, possano gli uomini di tutti i Continenti sentirsi più fratelli e disporre il cuore ad accogliere il suo Figlio Gesù. E’ Cristo l’autentica pace che riconcilia l’uomo con l’uomo e l’intera umanità con Dio.

5. « Dio ci benedica con la luce del suo volto » (Sal. resp.). La storia della salvezza è scandita dalla benedizione di Dio sul creato, sull’umanità, sul popolo dei credenti. Questa benedizione viene continuamente ripresa e confermata nello sviluppo degli eventi salvifici. Fin dal Libro della Genesi vediamo come Dio, via via che si susseguono i giorni della creazione, benedica tutto ciò che ha creato. In modo particolare, Egli benedice l’uomo fatto a propria immagine e somiglianza (cfr Gn 1,1-2,4).

Quest’oggi, primo giorno dell’anno, la liturgia rinnova, in un certo senso, la benedizione del Creatore che segna fin dall’inizio la storia dell’uomo, riprendendo le parole di Mosè: « Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace » (Nm 6,24-26).

E’ una benedizione per l’anno che sta iniziando e per noi, che ci avviamo a vivere un’ulteriore frazione di tempo, dono prezioso di Dio. La Chiesa, quasi immedesimandosi con la mano provvidente di Dio Padre, inaugura questo nuovo Anno con una speciale benedizione, diretta ad ogni persona. Essa dice: Il Signore ti benedica e ti custodisca!

Sì, riempia Iddio i nostri giorni di frutti di bene. Conceda al mondo intero di vivere nella giustizia e nella pace!

Amen!

G. Florovskij : L’Incarnazione e la Redenzione

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/incarnflorovsky.htm

L’Incarnazione e la Redenzione 

G. Florovskij

            “Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…

            L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).

            “Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.

            Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.

            Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.

            “A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?… Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?… Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?…”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.

            La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.

G. Florovskij

Da “Creation and Redemption”, 1976, Nordland Publisking compagny, 95-104. trad. T. Ch.
In “Messaggero Ortodosso”, n. dicembre-gennaio Roma 1981-1982, 14-25. 

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