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Miagola, pigola, vagisce…: Ecco Dio (Omelia)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16904.html

Omelia (25-12-2009) 
Paolo Curtaz
Ecco Dio

Miagola, pigola, vagisce con una flebile voce, come fanno i cuccioli d’uomo appena nati.
Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all’acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch’io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza.
Ecco Dio, dunque.

Ecco Dio
Siamo tutti spiazzati, ancora.
Ecco Dio.
Ecco com’è veramente.
Che ha a che vedere, questo neonato, con l’idea che siamo fatti di Lui? Che c’entra?
Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno.
Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta.
Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.

Ecco l’uomo
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell’Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell’essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.

Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.

Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce.
E un angelo appare loro. Per voi, dice. Una mangiatoia, dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, a capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.

A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea.
Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni.
Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.

A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.

Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.

Noi
Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa.
Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere.
Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera.
Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso per me, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe.
Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un’immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.

Maria guarda Gesù e pensa:
questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia
E coprire di baci.
Un Dio caldo
Che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira,
un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti
Che dipingerei Maria,
se fossi pittore.

Buon Natale, cercatori di Dio.
Lasciatevi trovare.

Gianfranco Ravasi: Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine»…

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

GIANFRANCO RAVASI
(« Avvenire », 16/12/’07)

Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
 
Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…

« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».

Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
 
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

DIO È LA NOSTRA GIOIA (nell’A.T., nel N.T.)

stralcio, è bello tutto il testo, dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/lagioia.html

DIO È LA NOSTRA GIOIA (nell’A.T., nel N.T.)

La gioia di Dio nell’Antico Testamento
L’AT è un preludio alla gioia cristiana. « Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio » (Is 61,10). Il pio israelita ha motivi molteplici per esultare nel suo Dio.

1 – Il primo motivo viene dall’alleanza per cui Israele è popolo eletto, scelto per un amore singolare, sicché sente Dio come il « suo Dio » e si sente popolo appartenente a Lui: « Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (Dt 7,6-8). « Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi, e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta » (Lv 26,11-13). Dio ama il suo popolo « di un amore eterno » (Ger 31,3) di un amore « forte come la morte » (Ct 8,6), di un amore tenerissimo come quello di una madre per il suo bambino (Is 49,15) e come quello di un padre verso il proprio figlio primogenito (Es 4,22). Da questa alleanza e da questo rapporto d’amore scaturisce la gioia. « Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano » (Sal 40,17). « Acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza… Varcate le sue porte con inni di grazie, e i suoi atri con canti di lode, lodatelo, benedite il suo nome; poiché buono è il Signore, eterna la sua misericordia, la sua fedeltà per ogni generazione » (Sal 100). Dio stesso chiede al suo popolo di essere gioioso: « Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza » (Ne 8,10). Il pio Israelita sente di conseguenza l’enorme gioia che gli viene dal suo Signore e prova un’estatica allegrezza, frutto della gioia di sentirsi amato.

2 – Un secondo motivo della gioia d’Israele è la potenza del suo Dio: « Tu sei il Signore, il Dio d’ogni potere e d’ogni forza e non c’è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele » (Gdt 9,14). Questa potenza si manifesta in tutta la storia del popolo eletto ed esso vi si abbandona, liberato da ogni paura e sicuro dell’aiuto divino. Perciò ne gioisce (Es 15; Sal 126).
La potenza di Dio creatore fa esultare di gioia le sue creature: « Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! » (Sal 92,5-6). I cantori ispirati del popolo eletto invitano tutta la creazione a partecipare al loro stato d’animo: « Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene » (Sal 96,11-13).
La potenza del Signore è anche potenza che protegge il suo popolo e provvede alle sue necessità: « Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero. Lo fece montare sulle alture della terra e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia; crema di mucca e latte di pecora insieme al grasso di agnelli, arieti di Basan e capri, fior di farina di frumento e sangue di uva, che bevvero spumeggiante » (Dt 32,10-14). Per questo motivo Israele deve avere la gioia che Dio esige come segno dell’amore corrisposto; altrimenti Dio metterà il suo popolo alla prova: « Poiché non avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa » (Dt 28,47-48).
La potenza di Dio è anche una potenza che salva dalla schiavitù d’Egitto e in tutti i momenti della storia successiva. L’amore salvante diviene un nuovo incitamento a gioire: « Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore » (Ab 3,18). Una salvezza che non solo afferra la storia, ma il cuore dell’uomo. Dio trasforma il loro cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 36,26) e così una nuova gioia nascerà in loro: « Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento » (Sal 4,8).
Infine la potenza di Dio è una potenza che perdona con innamorata longanimità: « Egli perdona tutte le tue colpe… Non ci tratta secondo i nostri peccati… Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di chi lo teme. Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Sal 103,3-14).
E la commozione di questa misericordia che perdona è nuovo motivo di gioia per Israele: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato… Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato… Rendimi la gioia di essere salvato » (Sal 51,1-14).

3 – Un terzo motivo di gioia per Israele è la presenza di Dio nel tempio e la sua legge. Dio stesso dice a Isaia: « Si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, e del suo popolo un gaudio » (Is 65,18). Gerusalemme infatti « è la gioia di tutta la terra » (Sal 48,3), è la città dell’arca dell’alleanza e del tempio, casa dell’Eterno, santa dimora di Dio che fa trasalire di gioia quanti la amano: « Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: « Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,10-14). Per gli ebrei non ci sarà più gioia senza Gerusalemme. E la tristezza della lontananza da essa è espressa meravigliosamente nel salmo 137.
Insieme con la gioia della città santa di Dio, scaturisce la gioia delle feste che in essa si celebrano (Sal 100). La festività religiosa che mette il popolo eletto in comunicazione particolare col suo Dio, sarà sempre tripudio di gioia: « Gioirai davanti al Signore tuo Dio tu, tuo figlio, tua figlia, il levita che sarà nelle tue città e l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te » (Dt 16,11).
Israele canta la sua gioia per la legge del Signore: « Beato l’uomo… che si compiace della legge del Signore e la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1,2). Il salmo 119 è un grandioso elogio della legge divina: « Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene » (v. 14); « Mia eredità per sempre i tuoi comandamenti, sono essi la gioia del mio cuore » (v. 111); « Io gioisco per la tua promessa, come uno che trova un grande tesoro » (v. 162); « Desidero la tua salvezza, Signore, e la tua legge è tutta la mia gioia » (v. 174).
Abbiamo accennati alcuni temi della gioia di Dio nell’AT. Giustamente il salmista parla del « Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4) e canta: « Con voci di gioia ti loderà la mia bocca… Esulto di gioia all’ombra delle tue ali » (Sal 63,6-8). Veramente davanti al volto di questo Dio il nostro gaudio deve risuonare costantemente: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto: esulta tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia trova la sua gloria » (Sal 89,16-17). È il Signore che ci indica la via della gioia piena e della dolcezza senza fine: « Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sal 16,11). Il timorato amante di Dio esorta tutti a lanciare grida di gioia all’Eterno: « Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con canti di gioia. Cantate inni al Signore con l’arpa, con l’arpa e con suono del corno acclamate davanti al re, il Signore. Frema il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene » (Sal 98,4-9).
Mirabile estasi di tutto Israele, del mondo e dei suoi abitanti per il Dio della gioia!

La gioia di Dio nel Nuovo Testamento
Quello che abbiamo contemplato nella storia d’Israele riguardo alla gioia, non è che l’ombra di ciò che è la gioia di Dio nella vita cristiana.
Questa nuova gioia di Dio ha questi luminosi capisaldi:

1 – L’alleanza dell’AT cede il posto alla nuova alleanza nel sangue di Cristo per cui Dio non stringe con noi solo un patto esterno, ma viene ad abitare dentro di noi. E questo Dio è ormai, con esplicita e piena rivelazione, il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, la Trinità che inabita nel cristiano. « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23). « Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Dio è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito… Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio… Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1Gv 4,12-16). « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? » (1Cor 6,19). « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16).
La nuova alleanza raggiunge così il più mirabile scambio dell’amore fra Dio e noi sulla terra, la più intensa presenza di Colui che amiamo in noi. In questa singolare presenza del nostro Bene infinito, l’esperienza dell’amore raggiunge termini meravigliosi e la gioia nuova che ne scaturisce è inesprimibile. A maggior ragione per il cristiano, rispetto al pio israelita, Dio è più decisamente il « suo Dio ». L’amore di Dio raggiunge la sua pienezza nel farci « partecipi della natura divina » (2Pt 1,4) e suoi figli adottivi (Gal 4,5) così che siamo chiamati e siamo veramente figli di Dio (1Gv 3,1). Nessuno più di noi ha conosciuto il cuore del Padre chino amorevolmente su di noi. Nessuno più di noi può conoscere la gioia profonda che nasce da un simile patto nuovo per cui Dio è in noi e noi in Dio. Perciò molto più a ragione che tutti i profeti e gli amici del Dio dell’AT, san Paolo può dirci: « Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi » (Fil 4,4).
L’immagine gioiosa del matrimonio usata nell’AT per esprimere la delicatezza e l’intimità d’amore fra Israele e Dio, acquista nel NT un valore più significativo e più consistente e introduce in forme impensate di intimità che fanno scaturire gioie inimmaginabili. Così si esprimono i mistici feriti dalla piaga d’amore del loro Dio che li abita e li trasforma. Quell’alleanza inaugurata nell’AT che dava tanta gioia a Israele, approda, nel NT, al suo termine definitivo. « Lo sposalizio di Dio con il genere umano si realizza nello stesso essere di Gesù allorché, incarnandosi, il Verbo si fa capo dell’umanità redenta… Il mistero dell’alleanza entrato nella storia imperfettamente attraverso l’AT, diventa perfetto con l’Incarnazione e la sua ultima conseguenza, la Croce » (Grelot).

2 – La gioia cristiana è ancora appoggiata alla potenza di Dio che nel NT manifesta le sue opere più meravigliose. La potenza divina, che ha assistito tutta la storia d’Israele, si manifesta maggiormente « nella pienezza dei tempi » quando la « liberazione » acquisisce il senso interiore e soprannaturale della redenzione attuata. Qui la nostra gioia scaturisce dal senso della trasformazione operata in noi da Dio per Cristo, con Cristo e in Cristo. Con tale trasformazione acquistiamo un modo nuovo di intendere e di sperimentare la potenza di Dio. Siamo diventati in Cristo una nuova creatura (2Cor 5,17), abbiamo rivestito l’uomo nuovo (Col 3,10): Dio che ci aveva così mirabilmente creati, ci ha « ricreati » ancora più mirabilmente. Di conseguenza abbiamo anche una nuova visione di tutta la creazione: « La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8,19-21). In tale visione delle cose c’è una nuova ragione per essere sempre pieni di gioia. La potenza di Dio attua il disegno di salvezza in Cristo e così il cristiano ha la gioia di sperimentare un amore che si piega verso di lui fino a risolvere il dramma doloroso e triste della solitudine dell’uomo: « È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col 1,13). Dio non ci libera solo da schiavitù esterne e da nemici esteriori, ma dal Maligno e dal peccato. E il Padre compie tutto questo mandando il Figlio, espressione massima dell’amore di Dio per noi: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Non c’è motivo più grande di questo per la nostra gioia: scoprire la tenerezza dell’amore di Dio rivelatosi a noi in Cristo.
Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto nel perdonare e nell’usare misericordia. L’incarnazione del Verbo è la misura più impensabile della volontà di perdono da parte di Dio. Il nome Gesù è un programma; significa « Dio salva »: « Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21).

3 – La gioia del NT ha infine la sua beatificante novità nella nuova presenza di Dio-Amore in noi. Il tempio di Dio non è più Gerusalemme, ma l’uomo dove Egli abita, in comunione di amore con lui. La nostra gioia è più reale, più intima, più estasiante: « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16). La prova più alta dell’amore di Dio sulla terra sta in questa misteriosa, ma reale inabitazione. Dice s. Agostino, commentando la Scrittura: « Siate giocondi, o giusti. Già, forse, i fedeli udendo: siate giocondi, pensando ai conviti, preparano i bicchieri, aspettano il momento di coronarsi di rose… Stai attento a quel che segue: nel Signore… Tu aspetti la primavera per far allegria; la tua gioia è nel Signore, egli è sempre con te, e non in una sola stagione; lo hai di notte, lo hai di giorno… da lui ti verrà sempre la gioia ». E ancora: « E la nostra società sia con Dio Padre, e in Gesù Cristo Figlio di Lui. E questo, dice san Giovanni, ve lo scriviamo, affinché la vostra gioia sia piena. Dice che la gioia sia piena in quella società, in quella carità, in quella unità ». E infine: La vita beata è proprio questa: godere tendendo a Te, godere di Te, godere a causa di Te; questo e non altro. Quelli che credono che ce ne sia un’altra, vanno dietro ad un’altra gioia e non a quella vera. Ed anche allora la loro volontà sta attaccata ad una certa immagine di gioia ».
Sull’antica legge perfezionata, spunta come culmine della novità cristiana, il comandamento nuovo: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34). Il NT è tutto investito dall’amore, respira nell’amore e nell’amore si risolve. Il frutto immediato della presenza di Dio nei giusti è, insieme all’amore, la gioia (Gal 5,22). Di conseguenza si capisce la novità della gioia della festa nel nuovo culto di Dio dopo la redenzione. La gioia non nasce più da un tempio di pietre, ma nel comunicare con l’innamorante mistero della morte e risurrezione di Cristo, con la Pasqua eucaristica, con il giubilo universale per la salvezza, con Dio Trinità, tutto amore, beatitudine e sollecitudine per l’uomo, contemplato in terra attraverso la fede. Dio è veramente « il Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4). Lo cercheremo allora, costantemente, con l’atteggiamento dei salmi: « Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo » (Sal 9,3). « Esulterò di gioia per la tua grazia » (Sal 31,8).

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Papa Bendetto, Ospedale Romano, 1 domenica di Avvento 2007 – tema della speranza

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20071202_ospedale-smom_it.html

VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
ALL’OSPEDALE ROMANO « SAN GIOVANNI BATTISTA »
DEL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

I Domenica di Avvento, 2 dicembre 2007

Cari fratelli e sorelle!

« Andiamo con gioia incontro al Signore ». Queste parole, che abbiamo ripetuto nel ritornello del Salmo responsoriale, interpretano bene i sentimenti che occupano il nostro cuore quest’oggi, prima domenica di Avvento. La ragione per cui possiamo andare avanti con gioia, come ci ha esortato a fare l’apostolo Paolo, sta nel fatto che è ormai vicina la nostra salvezza. Il Signore viene! Con questa consapevolezza intraprendiamo l’itinerario dell’Avvento, preparandoci a celebrare con fede l’evento straordinario del Natale del Signore. Durante le prossime settimane, giorno dopo giorno, la liturgia offrirà alla nostra riflessione testi dell’Antico Testamento, che richiamano quel vivo e costante desiderio che tenne desta nel popolo ebraico l’attesa della venuta del Messia. Vigili nella preghiera, cerchiamo anche noi di preparare il nostro cuore ad accogliere il Salvatore che verrà a mostrarci la sua misericordia e a donarci la sua salvezza.

Proprio perché tempo di attesa, l’Avvento è tempo di speranza ed alla speranza cristiana ho voluto dedicare la mia seconda Enciclica presentata l’altro ieri ufficialmente: essa inizia con le parole rivolte da san Paolo ai cristiani di Roma: « Spe salvi facti sumus – nella speranza siamo stati salvati » (8,24). Nell’Enciclica scrivo tra l’altro che « noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere » (n. 31). La certezza che solo Dio può essere la nostra salda speranza animi tutti noi, raccolti stamane in questa casa nella quale si lotta contro la malattia, sorretti dalla solidarietà. E vorrei profittare della mia visita al vostro ospedale, gestito dall’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta, per consegnare idealmente l’Enciclica alla comunità cristiana di Roma e, in particolare, a coloro che, come voi, sono a diretto contatto con la sofferenza e la malattia. È un testo che vi invito ad approfondire, per trovarvi le ragioni di quella « speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: … anche un presente faticoso » (n. 1).

Cari fratelli e sorelle, « il Dio della speranza che ci riempie di ogni gioia e pace nella fede per la potenza dello Spirito Santo, sia con tutti voi! ». Con quest’augurio che il sacerdote rivolge all’assemblea all’inizio della Santa Messa, vi saluto cordialmente. Saluto, in primo luogo, il Cardinale Vicario Camillo Ruini e il Cardinale Pio Laghi, Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, i Presuli e i sacerdoti presenti, i cappellani e le suore che qui prestano il loro servizio. Saluto con deferenza Sua Altezza Eminentissima Frà Andrew Bertie, Principe e Gran maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta, che ringrazio per i sentimenti espressi a nome della Direzione, del personale amministrativo, sanitario e infermieristico e di quanti prestano in diversi modi la loro opera nell’ospedale. Estendo il mio saluto alle distinte Autorità, con un particolare pensiero per il Dirigente sanitario, come anche per il Rappresentante dei malati, ai quali va il mio ringraziamento per le parole che mi hanno rivolto all’inizio della Celebrazione.

Ma il saluto più affettuoso è per voi, cari malati e per i vostri familiari, che con voi condividono ansie e speranze. Il Papa vi è spiritualmente vicino e vi assicura la sua quotidiana preghiera; vi invita a trovare in Gesù sostegno e conforto e a non perdere mai la fiducia. La liturgia dell’Avvento ci ripeterà lungo le prossime settimane di non stancarci d’invocarlo; ci esorterà ad andargli incontro, sapendo che Egli stesso costantemente viene a visitarci. Nella prova e nella malattia Dio ci visita misteriosamente e, se ci abbandoniamo alla sua volontà, possiamo sperimentare la potenza del suo amore. Gli ospedali e le case di cura, proprio perché abitati da persone provate dal dolore, possono diventare luoghi privilegiati dove testimoniare l’amore cristiano che alimenta la speranza e suscita propositi di fraterna solidarietà. Nella Colletta abbiamo così pregato: « O Dio, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene ». Sì! Apriamo il cuore ad ogni persona, specialmente se in difficoltà, perché facendo del bene a quanti sono nel bisogno ci disponiamo ad accogliere Gesù che in essi viene a visitarci.

E’ quanto voi, cari fratelli e sorelle, cercate di fare in quest’ospedale dove al centro delle preoccupazioni di tutti sta l’accoglienza amorevole e qualificata dei pazienti, la tutela della loro dignità e l’impegno a migliorarne la qualità della vita. La Chiesa, attraverso i secoli, si è resa particolarmente « prossima » a coloro che soffrono. Di questo spirito s’è fatto partecipe il vostro benemerito Sovrano Militare Ordine di Malta, che fin dagli inizi si è dedicato all’assistenza dei pellegrini in Terra Santa mediante un Ospizio-Infermeria. Mentre perseguiva il fine della difesa della cristianità, il Sovrano Ordine di Malta si prodigava nel curare i malati, specialmente quelli poveri ed emarginati. Testimonianza di quest’amore fraterno è anche quest’ospedale che, sorto intorno agli anni 70 del secolo scorso, è diventato oggi un presidio di alto livello tecnologico e una casa di solidarietà, dove accanto al personale sanitario operano con generosa dedizione numerosi volontari.

Cari Cavalieri del Sovrano Militare Ordine di Malta, cari medici, infermieri e quanti qui lavorate, voi tutti siete chiamati a rendere un importante servizio agli ammalati e alla società, un servizio che esige abnegazione e spirito di sacrificio. In ogni malato, chiunque esso sia, sappiate riconoscere e servire Cristo stesso; fategli percepire, con i vostri gesti e le vostre parole, i segni del suo amore misericordioso. Per compiere bene questa « missione », cercate, come ci ricorda san Paolo nella seconda Lettura, di « indossare le armi della luce » (Rm 13, 12), che sono la Parola di Dio, i doni dello Spirito, la grazia dei Sacramenti, le virtù teologali e cardinali; lottate contro il male ed abbandonate il peccato che rende tenebrosa la nostra esistenza. All’inizio di un nuovo anno liturgico, rinnoviamo i nostri buoni propositi di vita evangelica. « E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno » (Rm 13,11), esorta l’Apostolo; è tempo cioè di convertirsi, di destarsi dal letargo del peccato, per disporsi fiduciosi ad accogliere « il Signore che viene ». Per questo, l’Avvento è tempo di preghiera e di vigile attesa.

Alla « vigilanza », che tra l’altro è la parola chiave di tutto questo periodo liturgico, ci esorta la pagina evangelica proclamata poco fa: « Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà » (Mt 24,42). Gesù, che nel Natale è venuto tra noi e tornerà glorioso alla fine dei tempi, non si stanca di visitarci continuamente, negli eventi di ogni giorno. Ci chiede e ci avverte di attenderlo vegliando, poiché la sua venuta non può essere programmata o pronosticata, ma sarà improvvisa e imprevedibile. Solo chi è desto non è colto alla sprovvista. Che non vi succeda, Egli avverte, quel che avvenne al tempo di Noè, quando gli uomini mangiavano e bevevano spensieratamente, e furono colti impreparati dal diluvio (cfr Mt 24,37-38). Che cosa il Signore vuole farci comprendere con questo ammonimento, se non che non dobbiamo lasciarci assorbire dalle realtà e preoccupazioni materiali sino al punto da restarne irretiti?

« Vegliate dunque… ». Ascoltiamo l’invito di Gesù nel Vangelo e prepariamoci a rivivere con fede il mistero della nascita del Redentore, che ha riempito l’universo di gioia; prepariamoci ad accogliere il Signore nel suo incessante venirci incontro negli eventi della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; prepariamoci ad incontrarlo nell’ultima sua definitiva venuta. Il suo passaggio è sempre fonte di pace e, se la sofferenza, retaggio dell’umana natura, diventa talora quasi insopportabile, con l’avvento del Salvatore « la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode » (Enc. Spe salvi, 37). Confortati da questa parola, proseguiamo la Celebrazione eucaristica, invocando sui malati, sui familiari e su quanti lavorano in quest’ospedale e sull’intero Ordine dei Cavalieri di Malta la materna protezione di Maria, Vergine dell’attesa e della speranza. 

VENERDÌ 18 DICEMBRE 2009 – III SETTIMANA DI AVVENTO – Anno C

VENERDÌ 18 DICEMBRE 2009 – III SETTIMANA DI AVVENTO – Anno C

UFFICIO DELLE LETTURE

(lo metto per il Natale)

Seconda Lettura
Dalla «Lettera a Diognèto»  (Cap. 8, 5 – 9, 6; Funk 1, 325-327)

Dio rivelò il suo amore per mezzo del Figlio
Nessun uomo in verità ha mai visto Dio né lo ha fatto conoscere, ma egli stesso si è rivelato. E si è rivelato nella fede, alla quale soltanto è concesso di vedere Dio. Infatti Dio, Signore e Creatore dell’universo, colui che ha dato origine ad ogni cosa e tutto ha disposto secondo un ordine, non solo ama gli uomini, ma è anche longanime. Ed egli fu sempre così, lo è ancora e lo sarà: amorevole, buono, tollerante, fedele; lui solo è davvero buono. E avendo egli concepito nel cuore un disegno grande e ineffabile, lo comunica al solo suo Figlio.
Per tutto il tempo dunque in cui conservava e custodiva nel mistero il suo piano sapiente, sembrava che ci trascurasse e non si desse pensiero di noi; ma quando per mezzo del suo Figlio prediletto rivelò e rese noto ciò che era stato preparato dall’inizio, tutto insieme egli ci offrì: godere dei suoi benefici e contemplarli e capirli. Chi di noi si sarebbe aspettati tutti questi favori?
Dopo aver tutto disposto dentro di sé assieme al Figlio, permise che noi fino al tempo anzidetto rimanessimo in balia d’istinti disordinati e fossimo trascinati fuori della retta via dai piaceri e dalle cupidigie, seguendo il nostro arbitrio. Certamente non si compiaceva dei nostri peccati, ma li sopportava; neppure poteva approvare quel tempo d’iniquità, ma preparava l’era attuale di giustizia, perché, riconoscendoci in quel tempo chiaramente indegni della vita a motivo delle nostre opere, ne diventassimo degni in forza della sua misericordia, e perché, dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza.
Quando poi giunse al colmo la nostra ingiustizia e fu ormai chiaro che le sovrastava, come mercede, solo la punizione e la morte, ed era arrivato il tempo prestabilito da Dio per rivelare il suo amore e la sua potenza (o immensa bontà e amore di Dio!), egli non ci prese in odio, né ci respinse, né si vendicò. Anzi ci sopportò con pazienza. Nella sua misericordia prese sopra di sé i nostri peccati. Diede spontaneamente il suo Figlio come prezzo del nostro riscatto: il santo, per gli empi, l’innocente per i malvagi, il giusto per gli iniqui, l’incorruttibile per i corruttibili, l’immortale per i mortali. Che cosa avrebbe potuto cancellare le nostre colpe, se non la sua giustizia? Come avremmo potuto noi traviati ed empi ritrovare la giustizia se non nel Figlio unico di Dio?
O dolce scambio, o ineffabile creazione, o imprevedibile ricchezza di benefici: l’ingiustizia di molti veniva perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo toglieva l’empietà di molti!

MERCOLEDÌ 16 DICEMBRE 2009 – III SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C –

MERCOLEDÌ 16 DICEMBRE 2009 – III SETTIMANA DI AVVENTO – ANNO C –

UFFICIO DELLE LETTURE 

(lo metto per il Natale)

Seconda Lettura
Dal trattato «Contro le eresie» di sant’Ireneo, vescovo
(Lib 4, 20, 4-5; Sc 100, 634-640)

Alle venuta di Cristo, Dio sarà visto dagli uomini
Uno è il Signore che nel Verbo e nella Sapienza tutto ha creato e disposto.
Questo è il Verbo di Dio, il Signore nostro Gesù Cristo, che nella pienezza dei tempi si è fatto uomo tra gli uomini per unire la fine con il loro principio, cioè l’uomo a Dio.
Ecco perché i profeti, dotati dal Verbo stesso del loro carisma, hanno preannunziato l’incarnazione di colui che avrebbe operato la comunione perfetta fra Dio e l’uomo secondo il piano eterno di amore del Padre. Fin dall’inizio della storia il Verbo aveva annunziato che gli uomini avrebbero visto Dio e che Dio avrebbe vissuto insieme ad essi nel mondo, e avrebbe parlato con loro e sarebbe stato accanto all’uomo da lui creato per salvarlo, per lasciarsi raggiungere da lui, per liberarlo dalle mani dei suoi persecutori (cfr. Lc 1, 71), cioè dagli spiriti di corruzione e di peccato. Dio avrebbe fatto sì che noi potessimo servirlo in santità e giustizia per tutti i nostri giorni (cfr. Lc 1, 74-75). Così l’uomo, unito allo Spirito di Dio, sarebbe entrato nella gloria del Padre.
I profeti annunziarono in anticipo che Dio sarebbe stato visto dagli uomini, conformemente alle parole del Signore: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Certo nella realtà della sua grandezza e della sua gloria ineffabile nessuno potrà vedere Dio e vivere (cfr. Es 33, 20). Il Padre infatti è inaccessibile. Ma nel suo amore, nella sua bontà e nella sua potenza è giunto fino a concedere a coloro che lo amano il privilegio di poterlo vedere. Ed è proprio questo che annunziavano i profeti, poiché «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18, 27). L’uomo infatti con le sue sole forze non può vedere Dio. Ma se Dio lo vuole, nell’abisso della sua volontà, si lascia vedere da chi vuole, quando vuole e come vuole.
Dio ha potere su tutti e su ogni cosa. Si rese un tempo accessibile in visione profetica per mezzo del suo Spirito, si lascia vedere ora mediante il suo Figlio, dando l’adozione a figli. Sarà visto, infine, nel regno dei cieli nella pienezza della sua paternità. Lo Spirito infatti prepara gli uomini nel Figlio. Il Figlio li conduce al Padre. Il Padre dona l’incorruttibilità e la vita eterna che derivano dalla visione di Dio per coloro che lo vedono. Come coloro che vedono la luce sono nella luce, e partecipano al suo splendore e ne colgono la chiarezza, così coloro che vedono Dio, sono in Dio e ricevono il suo splendore. Lo splendore di Dio dona la vita: la ricevono coloro che vedono Dio.

Verso il Natale con San Paolo : « Propter nos homines et propter nostram salutem. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo » (2008)

dal sito:

http://www.pontifex.roma.it/index.php/editoriale/il-fatto/956-verso-il-natale-con-san-paolo-propter-nos-homines-et-propter-nostram-salutem-per-noi-uomini-e-per-la-nostra-salvezza-discese-dal-cielo

Verso il Natale con San Paolo : « Propter nos homines et propter nostram salutem. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo »

Lunedì 22 Dicembre 2008 01:00

Ho quasi l’impressione che ci siamo dimenticati dell’Anno Paolino! L’anno giubilare dedicato all’Apostolo delle Genti sta scorrendo molto alla chetichella. Mi auguro che – almeno a livello personale – si profitti di questo felice occasione per leggere, almeno, gli Scritti di Paolo di Tarso. Nel contesto dell’Anno Paolino prepariamoci alla Natività con le riflessioni del grande Apostolo. Ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: « La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento di tale portata che Dio lo ha voluto preparare nel corso dei secoli. Riti e sacrifici, figure e simboli della « prima Alleanza » (Eb 9,15), li fa convergere tutti verso Cristo; lo annunzia per bocca dei profeti che si succedono in Israele; risveglia inoltre nel cuore dei pagani l’oscura attesa di tale venuta ». La liturgia dell’Avvento ci ha accompagnati con la lettura del profeta Isaia: in lui, più che in altri profeti risuona l’eco della grande speranza …

… che conforta il popolo eletto durante i difficili secoli della sua storia. L’Avvento celebra « il Dio della speranza » (Rm 15, 13) e fa vivere la gioia speranza (cf Rm 8, 24-25).

Questa speranza prende corpo nell’ « avvenimento unico e totalmente singolare » (CCC 464) che san Paolo proclama dicendo: « Dio ha inviato suo Figlio » (Ga 4, 4). E’ questa la Buona Novella: Dio ha visitato il suo popolo, ha compiuto le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza; lo ha fatto superando ogni più rosea aspettativa: ha inviato il suo Figlio amato. (cf CCC 422).

Tuttavia, per « formargli un corpo » Dio Padre ha chiesto la libera cooperazione di una creatura. Maria è stata invitata a concepire colui nel quale abiterà « corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2, 9). In Maria si è inaugurata « la pienezza del tempo » : « quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli ». (Gal 4, 4-5).

L’Avvento ha posto felicemente in evidenza la relazione e la cooperazione di Maria nel mistero della redenzione. La solennità dell’Immacolata fa parte del mistero che celebriamo. Non è un’aggiunta, ma una collocazione liturgica assai provvida. Maria Immacolata è il prototipo della umanità redenta, il frutto più splendido della venuta redentrice di Cristo. Dio ha chiesto che Maria, come ha cantato il prefazio della solennità « fosse inizio e immagine della Chiesa, sposa di Cristo, senza macchia e senza ruga ».

Nel suo purissimo grembo Dio ha « assunto una natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza ». (CCC 461). Nella lettera ai Filippesi (cf Fil2, 6-11) - »uno dei testi più elevati di tutto il Nuovo Testamento », come ha detto Benedetto XVI nel Udienza del 22.10.2008, – San Paolo canta il mistero dell’Incarnazione: « Cristo Gesù … il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce ». (Filip 2, 5-8).

L’Apostolo delle Genti ci rivela in queste parole l’orientamento pasquale del mistero della Incarnazione. Il Figlio di Dio prende corpo per offrirsi al Padre in sacrificio. La Lettera agli Ebrei pone sulle labbra dello stesso Cristo alcune parole del Salmo 40 che esprimono il carattere redentivo della Incarnazione: « Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà ».

Betlemme e Gerusalemme sono unite nel disegno salvifico di Dio Padre, nel mistero redentore del Figlio, nella virtù feconda dello Spirito Santo.

Perché questa obbedienza? Perché questa umiliazione? Perché questa sofferenza?

Le risposte le troviamo nel credo: « Propter nos homines et propter nostram salutem: per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo ».

« Gesù è disceso dal cielo per farvi risalire lassù a pieno diritto l’uomo, e, rendendolo figlio nel Figlio, per restituirlo alla dignità perduta col peccato. È venuto per portare a compimento il piano originario dell’Alleanza. L’Incarnazione conferisce per sempre all’uomo la sua straordinaria, unica, ineffabile dignità ». (Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 25.3.1981)

Tutto ciò che fa, pensa e predica San Paolo è centrato sulla offerta generosa di Gesù nella Incarnazione e nella croce fino al punto di costituire la motivazione più intima e profonda della sua vita.

Nella lettera ai Galati dichiara: « … Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20).

La sua fede è l’esperienza di essere amato da Gesù Cristo; l’impatto dell’amore di Dio nel suo cuore.

Così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.

Che l’esempio e la dottrina dell’Apostolo Paolo ci facciano « comprendere con tutti i santi l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo » (Ef 3,18) manifestato a Betlemme.

di Mons. Tommaso Stenico

 

Publié dans:NATALE (QUALCOSA SUL) |on 15 décembre, 2009 |Pas de commentaires »
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