Archive pour la catégorie 'NATALE (QUALCOSA SUL)'

Papa Benedetto XVI : Maria, donna di fede, di speranza e di amore

dal sito: 

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=12/21/2008#

Papa Benedetto XVI
Lettera enciclica « Deus caritas est »

Maria, donna di fede, di speranza e di amore

I santi sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore. Tra i santi eccelle Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Nel Vangelo di Luca la troviamo impegnata in un servizio di carità alla cugina Elisabetta, presso la quale resta « circa tre mesi » (1, 56) per assisterla nella fase terminale della gravidanza. « Magnificat anima mea Dominum », dice in occasione di questa visita — « L’anima mia rende grande il Signore » — (Lc 1, 46), ed esprime con ciò tutto il programma della sua vita: non mettere se stessa al centro, ma fare spazio a Dio incontrato sia nella preghiera che nel servizio al prossimo — solo allora il mondo diventa buono.Maria è grande proprio perché non vuole rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere nient’altro che l’ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa di contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma solo mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza: solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di Israele, l’angelo può venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste promesse. Essa è una donna di fede: « Beata sei tu che hai creduto », le dice Elisabetta (cfr Lc 1, 45).

Santa Teresa Benedetta della Croce: Santa Teresa Benedetta della Croce

20 dicembre 2008, dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=12/20/2008#

Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d’Europa -Le nozze dell’Agnello

« Madre di tutti i viventi » (Gen 3,20)
«Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). Come Cristo in prima persona scese dal cielo sulla terra, anche la Chiesa, sua sposa, ha la sua origine nel cielo; essa è nata dalla grazia di Dio, è discesa con lo stesso Figlio di Dio e gli è indissolubilmente unita. È costruita con pietre vive (1 Pt 2,5); e il fondamento (Ef 2,20) è stato posto quando il Verbo di Dio ha assunto la natura umana nel seno della Vergine. In quell’istante si è stabilito, tra l’anima del divino Bambino e l’anima verginale di sua madre, il legame della più intima unione, che chiamamo unione nuziale.

Di nascosto al mondo intero, la Gerusalemme celeste era discesa sulla terra. Da questa prima unione nuziale dovevano nascere tutte le pietre che avrebbero costituito il potente edificio, tutte le anime che la grazia avrebbe svegliate alla vita. In questo modo la madre sposa doveva diventare la madre di tutti i viventi.

Terza predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa (Gal 4,4)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16587?l=italian

Terza predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa (Gal 4,4)

Alla presenza del Santo Padre e dei membri della Curia romana

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la terza predica d’Avvento pronunciata questo venerdì, nella Cappella « Redemptoris Mater », alla presenza di Benedetto XVI, da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia, sul tema: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Suo Figlio nato da donna » (Gal 4, 4).

ZENIT ha pubblicato i testi delle precedenti prediche di padre Cantalamessa il 5 e il 12 dicembre.  

* * *

1. Paolo e il dogma dell’incarnazione
Premettiamo, anche questa volta, il brano paolino sul quale intendiamo meditare:
“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4, 4-7).
Ascolteremo spesso questo brano nel tempo natalizio, a cominciare dai Primi Vespri della solennità del Natale. Diciamo anzi tutto qualcosa sulle implicazioni teologiche di questo testo. È il passo in cui si va più vicino, nel corpo paolino, all’idea di preesistenza e di incarnazione. L’idea di “invio” (“Dio mandò, exapesteilen, il suo Figlio”) è messa in parallelo con l’invio dello Spirito di cui si parla due versetti dopo e richiama ciò che nell’AT si dice dell’invio della Sapienza e del santo Spirito sul mondo da parte di Dio (Sap 9, 10.17). Questi accostamenti indicano che non si tratta di un invio “dalla terra”, come nel caso dei profeti, ma “dal cielo”.

L’idea della preesistenza di Cristo è implicita nei testi paolini in cui si parla di un ruolo di Cristo nella creazione del mondo (1 Cor 8,6; Col 1, 15-16) e quando Paolo dice che la roccia che seguiva il popolo nel deserto era Cristo (1 Cor 10,4). L’idea di incarnazione, a sua volta, è soggiacente nell’inno cristologico di Filippesi, 2: “Essendo nella forma di Dio spogliò se stesso, assumendo la forma di servo”.
Nonostante questo, bisogna ammettere che preesistenza e incarnazione in Paolo sono delle verità in gestazione, non ancora giunte alla piena formulazione. Il motivo è che il centro dell’interesse e il punto di partenza di tutto per lui è il mistero pasquale, cioè l’operato, più che la persona del Salvatore. Il contrario di Giovanni, per il quale il punto di partenza e l’epicentro dell’attenzione è proprio la preesistenza e l’incarnazione.
Si tratta di due “vie”, o percorsi diversi, nella scoperta di chi è Gesù Cristo: una, quella di Paolo, parte dall’umanità per giungere alla divinità, dalla carne per giungere allo Spirito, dalla storia di Cristo, per arrivare alla preesistenza di Cristo; l’altra, quella di Giovanni, segue il cammino inverso: parte dalla divinità del Verbo per giungere ad affermare la sua umanità, dalla sua esistenza nell’eternità per scendere alla sua esistenza nel tempo; una pone come cerniera tra le due fasi la risurrezione di Cristo, e l’altra vede il passaggio da uno stato all’altro nell’incarnazione.
Appena si passa all’epoca successiva, le due vie tendono a consolidarsi dando luogo a due modelli o archetipi e finalmente a due scuole cristologiche: la scuola antiochena che si richiama di preferenza a Paolo e la scuola alessandrina che si richiama di preferenza a Giovanni. Nessuno dei seguaci dell’una o dell’altra via ha coscienza di scegliere tra Paolo e Giovanni; ognuno è sicuro di averli entrambi dalla propria parte. Ciò è senz’altro vero; sta di fatto però che i due influssi rimangono ben visibili e distinguibili, come due fiumi che, pur confluendo insieme, continuano a distinguersi per il colore diverso delle rispettive acque.
Questa differenziazione si riflette per esempio nel modo diverso con cui viene interpretata, nelle due scuole, la kenosi di Cristo di Filippesi 2. Fino dal II-III secolo si delineano, di questo testo, due letture diverse che si ritrovano anche nell’esegesi moderna. Secondo la scuola alessandrina, il soggetto iniziale dell’inno è il Figlio di Dio preesistente nella forma di Dio. La kenosi perciò in questo caso sarebbe consistita nell’incarnazione, nel farsi uomo. Secondo l’interpretazione dominante nella scuola antiochena, il soggetto unico dell’inno dall’inizio alla fine è il Cristo storico, Gesù di Nazareth. In questo caso la kenosi, consisterebbe nell’abbassamento insito nel suo farsi servo, nel sottoporsi alla passione e alla morte.
La differenza tra le due scuole non è tanto che alcuni seguono Paolo e altri Giovanni, ma che alcuni interpretano Giovanni alla luce di Paolo e altri interpretano Paolo alla luce di Giovanni. La differenza è nello schema, o nella prospettiva di fondo, che si adotta per illustrare il mistero di Cristo. Nel confronto tra queste due scuole si può dire che si sono formate le linee portanti del dogma e della teologia della Chiesa, rimaste operanti fino ad oggi.

2. Nato da donna
Il relativo silenzio sull’incarnazione comporta, in Paolo, un silenzio quasi totale su Maria, la Madre del Verbo incarnato. L’inciso “nato da donna” (factum sub muliere) del nostro testo è l’allusione più esplicita che si ha a Maria nel corpo paolino. Essa è l’equivalente dell’altra espressione: “dal seme di David secondo la carne” “factum ex semine David secundum carnem” (Rom 1,3).
Per quanto scarna, però, questa affermazione dell’Apostolo è importantissima. Essa fu uno dei cardini nella lotta contro il docetismo gnostico, dal II secolo in poi. Dice infatti che Gesù non è un’apparizione celeste; grazie alla sua nascita da donna, egli è pienamente inserito nell’umanità e nella storia, “in tutto simile agli uomini” (Fil 2, 7). “Perché diciamo che Cristo è uomo, scrive Tertulliano, se non perché è nato da Maria che è una creatura umana?”[1]. A pensarci bene, “nato da donna” è più adatto a esprimere la vera umanità di Cristo che non il titolo “figlio dell’uomo”. In senso letterale, Gesù non è figlio dell’uomo, non avendo avuto per padre un uomo, mentre è realmente “figlio della donna”.
Il testo paolino sarà anche al centro del dibattito sul titolo di madre di Dio (theotokos) nelle dispute cristologiche posteriori, e questo spiega perché la liturgia ce lo farà ascoltare nella seconda lettura della messa della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, del primo Gennaio.
È da notare un particolare. Se Paolo avesse detto: “nato da Ma­ria “, si sarebbe trattato solo di un dettaglio biografico; avendo detto “nato da donna “, ha dato alla sua affermazione una por­tata universale e immensa. È la donna stessa, ogni donna, che è stata elevata, in Maria, a tale incredibile altezza. Maria è qui la donna per antonomasia.

3. “Che giova a me che Cristo sia nato da Maria?”

Noi meditiamo il testo paolino nell’imminenza del Natale e nello spirito della lectio divina. Non possiamo perciò indugiare troppo sul dato esegetico, ma dopo aver contemplato la verità teologica contenuta nel testo, dobbiamo trarre da esso spunti per la nostra vita spirituale, mettendo in luce il “per me” della parola di Dio.
Una frase di Origene, ripresa da sant’Agostino, san Bernardo, da Lutero e da altri, dice: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima? “. La maternità divina di Maria si realizza su due piani: su un piano fisico e su un piano spirituale. Maria è Madre di Dio non solo perché l’ha portato fisicamente nel grembo, ma anche perché l’ha concepito prima nel cuore, con la fede. Noi non possiamo, naturalmente, imitare Maria nel primo senso, generando di nuovo Cristo, ma possia­mo imitarla nel secondo senso, che è quello della fede. Gesù stesso iniziò questa applicazione alla Chiesa del titolo di “Madre di Cristo “, quando dichiarò: “Mia madre e miei fratel­li sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pra­tica” (Lc 8, 21; cf. Mc 3, 31 s; Mt 12, 49).
Nella tradizione, questa verità ha conosciuto due livelli di ap­plicazione complementari tra di loro, una di tipo pastorale e l’altra di tipo spirituale. In un caso, si vede realizzata questa maternità, nella Chiesa presa nel suo insieme, in quanto “sa­cramento universale di salvezza “; nell’altro, la si ve­de realizzata in ogni singola persona o anima che crede.
Uno scrittore del Medio Evo, il Beato Isacco della Stella, ha fatto una specie di sintesi di tutti questi motivi. In una omelia famosa che abbiamo letto nella Liturgia delle ore di sabato scorso, scrive: “Ma­ria e la Chiesa sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre, l’una e l’altra vergine… Per questo, nelle Scritture divinamente ispirate, ciò che si dice in modo uni­versale della Vergine Madre Chiesa, lo si intende in modo sin­golare della Vergine Madre Maria; e ciò che si dice in modo speciale di Maria lo si intende in senso generale della Vergine Madre Chiesa… Infine, ogni anima fedele, sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta anch’essa a suo modo vergine e feconda”.
Il Con­cilio Vaticano II si colloca nella prima prospettiva quando scrive: “La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio” .
Noi ci concentriamo sull’applicazione perso­nale ad ogni anima: “Ogni anima che crede, scrive sant’Ambrogio, concepisce e gene­ra il Verbo di Dio… Se secondo la carne una sola è la Madre di Cristo, secondo la fede, tutte le anime generano Cristo quando accolgono la parola di Dio” . Gli fa eco un altro Padre dall’orien­te: “Il Cristo nasce sempre misticamente nell’anima, prendendo carne da coloro che sono salvati e facendo dell’anima che lo genera una madre vergine” .
Come si di­venta, in concreto, madre di Gesù, ce lo ha indicato lui stesso nel vangelo: ascoltando la Parola e mettendola in pratica (cf. Lc 8,21; Mc 3, 31 s.; Mt 12,49). Ripen­siamo, per capire, a come divenne madre Maria: concependo Gesù e partorendolo. Nella Scrittura vediamo sottolineati questi due momenti: “Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio”, si legge in Isaia, e “Concepirai e darai alla luce un Figlio”, dice l’angelo a Maria.
Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, del­l’aborto. Essa avviene quando si concepisce una vita, ma non la si dà alla luce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo dell’aborto era l’unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all’opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Avviene nel caso di figli con­cepiti in provetta e immessi, in un secondo momento, nel seno di una donna, e nel caso dell’utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce, non vie­ne da lei, non è concepito “prima nel cuore che nel corpo “.
Purtroppo anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità di maternità incompleta. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Pa­rola, senza metterla in pratica, chi continua a fare un aborto spi­rituale dietro l’altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a me­tà strada; chi si comporta verso la Parola come l’osservatore frettoloso che guarda il suo volto nello specchio e poi se ne va dimenticando subito com’era (cf. Gc 1, 23-24). Insomma, chi ha la fede, ma non ha le opere.
Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall’abitudi­ne, dall’ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare. Insomma, chi ha le opere ma non ha la fede.
San Francesco d’Assisi ha una pa­rola che riassume, in positivo, in che consiste la vera maternità nei confronti di Cristo: “Sia­mo madri di Cristo – dice – quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio… Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa, avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore No­stro Gesù Cristo!” . Noi – vuol dire il santo – concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere san­te che lo manifestano al mondo.

4. Le due feste di Gesù Bambino

San Bonaventura, discepolo e figlio del Poverello, ha raccolto e svilup­pato questo pensiero in un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù Bambino “. Nell’introduzione al libro, egli racconta co­me un giorno, mentre era in ritiro sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l’anima di Dio devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell’Al­tissimo, può spiritualmente concepire il benedetto Verbo e Fi­glio Unigenito del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa­dre nel suo tempio.
Di questi cinque momenti, o feste di Gesù Bambino, che l’a­nima deve rivivere, ci interessano soprattutto le prime due: il concepimento e la nascita. Per san Bonaventura, l’anima conce­pisce Gesù quando, scontenta della vita che conduce, stimolata da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac­candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondata spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova. È avvenuta la conce­zione di Cristo!
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen­to, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, l’anima mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin­ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Ma è necessario insistere su una cosa: questo proposito di vi­ta nuova deve tradursi, senza indugio, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. E uno dei tanti aborti spirituali. Non si celebrerà mai “la seconda festa “ di Ge­sù Bambino che è il Natale! È uno dei tanti rinvii che sono una delle ragioni principali per cui così pochi si fanno santi.
Se decidi di cambiare stile di vita ed entrare a far parte di quella categoria di poveri ed umili, che, come Maria, cercano so­lo di trovare grazia presso Dio, senza curarsi di piacere agli uomini, allora, scrive san Bonaventura, devi armarti di coraggio, perché ce ne sarà biso­gno. Dovrai affrontare due tipi di tentazione. Ti si presenteran­no dapprima gli uomini carnali del tuo ambiente a dirti: “È troppo arduo ciò che intraprendi; non ce la farai mai, ti mancheranno le forze, ne andrà di mezzo la tua salute; queste cose non si addicono al tuo stato, compro­metti il tuo buon nome e la dignità della tua carica… “.
Superato questo ostacolo, si presenteranno altri che hanno fama di essere e, forse, sono anche di fatto, persone pie religiose, ma che non credono veramente nella potenza di Dio e del suo Spirito. Que­ste ti diranno che, se cominci a vivere in questo modo – dando tanto spazio alla preghiera, evitando di prendere parte a pettegolezzi e a chiacchiere inutili, fa­cendo opere di carità -, sarai ritenuto presto un santo, un uomo devoto, spirituale, e poiché tu sai benissimo di non esserlo an­cora, finirai per ingannare la gente ed essere un ipocrita, atti­rando su di te la riprovazione di Dio che scruta i cuori.
A tutte queste ten­tazioni, bisogna rispondere con fede: “Non è divenuta troppo corta la mano del Signore da non poter salvare!” (Is 59, 1) e, quasi adirandoci con noi stessi, esclamare, come Agostino alla vigilia della sua conversione: “Se questi e queste ce la fanno, perché non anch’io? Si isti et istae, cur non ego? “

5. Maria ha detto Sì

L’esempio della Madre di Dio ci suggerisce cosa fare in concreto per imprimere alla nostra vita spirituale questo nuovo slancio, per concepire e far nascere davvero Gesù in noi in questo Natale. Maria disse un Sì deciso e pieno a Dio. Si insiste molto sul Fiat di Maria, su Maria come “la Vergine del fiat”. Ma Maria non parlava latino e perciò non disse fiat; non disse neppure genoito che è la parola che troviamo, a quel punto, nel testo greco di Luca, perché non parlava greco.
Se è lecito cer­care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que­sta deve essere stata la parola “amen “. Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si leggeva una volta “fiat, fiat “, ora nella nuova versione dai testi originali si legge: Amen, Amen. Lo stesso per la parola greca: ogni volta che nella Bibbia dei Settanta si legge in quei medesimi salmi génoito, génoito, l’originale ebraico porta: Amen, amen!
Con l’“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro­la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf. Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: “Così parla l’Amen…” (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui, aggiunge Paolo, che ogni “amen “ pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). 
In quasi tutte le lingue umane la parola che esprime il consenso è un monosillabo: sì, ja, yes, oui, tag… La più corta parola del vocabolario, ma quella con cui sia gli sposi che i consacrati decidono della loro vita per sempre. Anche nel rito della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale c’è infatti un momento in cui viene pronunciato un sì.
C’è una sfumatura nell’Amen di Maria che è importante raccogliere. Nelle lingue moderne noi usiamo del verbo il modo indicativo per indicare una cosa accaduta o che accadrà, il modo condizionale per indicare qualcosa che potrebbe accadere a certe condizioni e così via; il greco conosce un modo particolare che si chiama l’ottativo. È un modo che si usa quando si vuole esprimere desiderio o impazienza che una certa cosa accada. Ora il verbo usato da Luca, genoito, è proprio in tale modo!
San Paolo dice che “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Chiediamole che ci ottenga la grazia di dire a Dio un gioioso e rinnovato Sì e così concepire e dare alla luce anche noi, in questo Natale, il Figlio suo Gesù Cristo.

 Tertulliano, De carne Christi, 5,6 (CC,2, p. 881).

 Origene, Commento al vangelo di Luca, 22,3 (SCh, 87, p. 302).

 Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863 s.).

 Lumen gentium 64.

S. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 26 (CSEL 32,4, p.55).

 S. Massimo Confessore, Commento al Padre nostro (PG 90, 889).

 S. Francesco d’Assisi, Lettera ai fedeli, 1 (Fonti Francescane, n. 178).

 S. Bonaventura, Le cinque feste di Gesù Bambino, prologo (ed. Quaracchi 1949, pp. 207 ss.).

 S. Agostino, Confessioni, VIII,8,19.

Origene : « Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole »

per il giorno 19 dicembre 2008, dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=12/19/2008#

Origene (circa 185-253), sacerdote e teologo
Commento al vangelo di Giovanni, 2, 193s ; SC 120, 339

« Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole »

In noi, la voce e la parola sono due cose diverse; la voce infatti può farsi sentire senza portare senso, cioè senza parola; e la parola può ugualmente essere trasmessa allo spirito senza voce, come nel percorso del nostro pensiero. Allo stesso modo, poiché il Salvatore è Parola…, Giovanni differisce da lui, essendo voce mentre Cristo è Parola. Questo risponde Giovanni a coloro che gli chiedono chi egli sia: «Io sono voce di uno che grida nel deserto ‘Preparate la via del Signore» (Gv 1,23).Forse per questo motivo, perché cioè ha dubitato della nascita di questa voce che avrebbe dovuto rivelare la Parola di Dio, Zaccaria perse la voce, mentre la ritrovò quando nacque questa voce che è il precursore della Parola (Lc 1,64). Infatti perché lo spirito possa afferrare la parola designata dalla voce, occorre ascoltare la voce. Anche per questo motivo, con la data di nascita Giovanni è più vecchio di Cristo; percepiamo infatti la voce prima della parola. In questi termini Giovanni indica Cristo, perché con una voce la Parola è manifestata. Cristo è anche battezzato da Giovanni, che confessa di avere bisogno di essere battezzato da lui (Mt 3,14)… In breve, quando Giovanni designa Cristo, un uomo designa Dio, Salvatore incorporeo; una voce designa la Parola…

Nativity celebrated in the monastery of Greccio, Benozzo Gozzoli

Nativity celebrated in the monastery of Greccio, Benozzo Gozzoli dans immagini sacre gozzoli5

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Publié dans:immagini sacre, NATALE (QUALCOSA SUL) |on 19 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Padre Marco Adinolfi : Natale con Francesco

Natale con San Francesco

Marco Adinolfi ofm

Francesco d’Assisi, non c’è dubbio, è il santo del presepe. Ecco come uno dei suoi più antichi biografi, Tommaso da Celano, narra la scena, svoltasi nella valle reatina, a Greccio, nella notte del 25 dicembre 1223.

« C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: « Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello ». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.

E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.

Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.

Il Santo è li estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.

Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava « il Bambino di Betlemme », e quel nome « Betlemme » lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva « Bambino di Betlemme » o « Gesù », passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.

Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Banibinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia ».

Francesco d’Assisi è il santo del presepe. Ma non già di un presepe che è semplice teoria cangiante di frulli d’ali angeliche e di belati di pecorelle, di ingenui pastori adoranti e di solenni magi che si avviano in fantasmagorico corteo alla grotta del neonato re dei giudei. Per Francesco il presepe non si esaurisce nel ritmare i sogni innocenti dei bimbi o i rimpianti nostalgici degli adulti. Il presepe è per lui la drammatizzazione dell’amore che spinse il Figlio di Dio a farsi figlio dell’uomo a costo anche di venire al mondo e di vagire tra ragnatele e fieno e alito pesante di animali.

Il santo di Greccio, del resto, è anche il santo della Verna, che rivive nelle sue carni con le stimmate la passione redentrice di Cristo crocifisso.

Ma la spiritualità del Poverello d’Assisi non si restringe nei limiti sia pure amplissimi di Betlemme e del Calvario. Si dilata negli spazi senza confini della vita trinitaria di Dio. E adora Cristo proprio nel posto che il Padre gli ha assegnato nella storia della salvezza.

Giovanni Paolo II 3 gennaio 2001: Rallegriamoci nel Signore, esultiamo di gioia santa…

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20010103_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 3 gennaio 2001 

1. « Rallegriamoci nel Signore, esultiamo di gioia santa: la salvezza è apparsa nel mondo, alleluia ». E’ con queste parole che la liturgia ci invita oggi a restare immersi nella « gioia santa » del Natale. All’inizio di un nuovo anno, questa esortazione ci orienta a viverlo interamente nella luce di Cristo, la cui salvezza è apparsa nel mondo per tutti gli uomini.

Il tempo natalizio ripropone, in effetti, all’attenzione dei cristiani il mistero di Gesù e la sua opera di salvezza. Dinanzi al presepe la Chiesa adora l’augusto mistero dell’Incarnazione: il Bimbo che vagisce tra le braccia di Maria è il Verbo eterno che si è inserito nel tempo ed ha assunto la natura umana ferita dal peccato, per incorporarla a sé e redimerla. Ogni realtà umana, ogni vicenda temporale assume così risonanze eterne: nella persona del Verbo incarnato la creazione viene meravigliosamente sublimata.

Scrive Sant’Agostino: « Dio si fece uomo perché l’uomo diventasse Dio ». Tra cielo e terra si è definitivamente stabilito un ponte: nell’Uomo-Dio l’umanità ritrova la via del Cielo. Il Figlio di Maria è Mediatore universale, Pontefice sommo. Ogni atto di questo Bimbo è un mistero destinato a rivelare l’abissale benevolenza di Dio.

2. Nella grotta di Betlemme si esprime con disarmante semplicità l’amore infinito che Dio ha per ogni essere umano. Contempliamo nel presepe il Dio fatto uomo per noi.

San Francesco d’Assisi ebbe l’idea di riproporre questo messaggio attraverso il presepe vivente a Greccio, il 25 dicembre del 1223. Narra il suo biografo, Tommaso da Celano, che egli era raggiante di letizia, perché in quella scena commovente risplendeva la semplicità evangelica, si lodava la povertà e si raccomandava l’umiltà. Il biografo termina osservando che « dopo quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia » (cfr Vita prima, cap. XXX, 86, 479).

L’intuizione di Francesco è sorprendente: il Presepe non solo è una nuova Betlemme, perché ne rievoca l’evento storico e ne attualizza il messaggio, ma è anche un’occasione di consolazione e di gioia: è il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza. Osserva ancora Tommaso da Celano che quella notte di Natale era chiara come il pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali (cfr ivi, 85, 469).

3. Nel Presepe si celebra l’alleanza tra Dio e l’uomo, tra la terra e il cielo. Betlemme, luogo della gioia, diventa anche scuola di bontà, perché lì si manifestano la misericordia e l’amore che legano Dio ai suoi figli. Lì si attesta visibilmente la fraternità che deve vincolare quanti nella fede sono fratelli, perché figli dell’unico Padre celeste. In questo spazio di comunione, Betlemme risplende come la casa ove tutti possono trovare nutrimento – etimologicamente il nome significa casa del pane -, e si annuncia già, in un certo modo, il mistero pasquale dell’Eucaristia.

A Betlemme, quasi come su un simbolico altare, si celebra già la Vita che non muore e agli uomini di ogni tempo viene come dato da pregustare il cibo dell’immortalità, che è « pane dei pellegrini, vero pane dei figli » (Sequenza del Corpus Domini). Soltanto il Redentore, nato a Betlemme, può colmare le attese più profonde del cuore umano e lenirne le sofferenze e le ferite.

4. Nella grotta di Betlemme contempliamo Maria, che ha dato alla luce il Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo. « Donna docile alla voce dello Spirito, donna del silenzio e dell’ascolto, donna di speranza, che seppe accogliere come Abramo la volontà di Dio «sperando contro ogni speranza» (Rm 4, 18) » (Tertio millennio adveniente, 48), la Madonna risplende come modello per quanti si affidano con tutto il cuore alle promesse di Dio.

Insieme a Lei e a Giuseppe restiamo in adorazione dinanzi alla culla di Betlemme, mentre si leva verso il cielo la nostra implorante invocazione: « Fa’ splendere il tuo volto e salvaci, Signore! ».

Confortati dal dono della nascita del Salvatore, intensifichiamo il nostro impegno in questi ultimi giorni dell’Anno Santo. Apriamo il cuore a Cristo, unica e universale via che porta a Dio. Potremo così proseguire nel nuovo anno con salda fiducia. Ci sostenga in questo cammino la potente intercessione di Maria, Vergine fedele, testimone silenziosa del mistero di Betlemme.

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