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MT 13,44-52 – UN BREVIARIO DI SAPIENZA (anche Paolo)

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MT 13,44-52 – UN BREVIARIO DI SAPIENZA (anche Paolo)

Bibbia CEI Mt 13,44-52 [1]

1. La sapienza di Salomone
Le parole «saggezza» e «sapienza» hanno sempre interessato gli esseri umani, che si sono chiesti, dai filosofi fino alla gente più semplice: «In che cosa consiste l’essere saggi? Dove si trova la sapienza?». Nelle letture bibliche qui proposte, dall’Antico al Nuovo Testamento, abbiamo un piccolo vademecum per districarci in questo argomento, che è difficile per tutti.
Nel primo testo, Salomone, figlio di Davide e nuovo re d’Israele, nel giorno della sua consacrazione regale, così prega Dio nel Tempio: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al mio popolo, e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso?” (1 Re 3,9).
Ecco un sapiente! La sua preghiera dovrebbe essere ripetuta da chiunque abbia delle responsabilità di qualsiasi genere sugli altri: dal sindaco al capo di famiglia, dal medico al maestro di scuola, dal sindacalista al parroco del villaggio. Ma è raro che avvenga: quasi tutti credono che la sapienza sia come un diploma ricevuto insieme all’incarico. Perciò di sapienza in giro se ne vede poca.

2. La sapienza di Paolo
Il secondo testo del vademecum che ci conduce alla sapienza, è dell’apostolo Paolo, che scrive ai suoi discepoli della comunità cristiana di Roma, che Dio li ha “destinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli”, e che per questo li ha «giustificati», anzi li ha «glorificati» insieme al Figlio suo (Rm 8,28-30). [2]
La sapienza presentata da Paolo è certamente più alta di quella di Salomone. Dio non solo ascolta chi si rivolge a lui con umiltà di cuore, donandogli la capacità di distinguere il bene dal male, come afferma Salomone nella sua preghiera, ma è talmente ben disposto verso i suoi figli, che Egli ha resi «conformi all’immagine del Figlio suo» e perciò li considera già da adesso accanto a Lui nella gloria.
Qui siamo al vertice della sapienza, non una sapienza esoterica, cioè riservata a pochi, ma aperta a tutti. Ognuno di noi, senza speciali «cammini devozionali» o «tecniche di respirazione» o «di illuminazione», è già nel sublime, nella stessa posizione di Gesù davanti al Padre suo. Il cristiano non disprezza gli aneliti religiosi dei non cristiani, ma è convinto che ciò che gli altri cercano nel mistero dell’universo, egli lo ha già ricevuto da Dio attraverso Gesù Cristo.

3. Dio, apri la solitudine!
Il terzo testo del nostro Breviario di sapienza ci è dato dal vangelo secondo Matteo, in cui si legge: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Mt 13,44). [3] È questa una strepitosa conclusione del Breviario di sapienza, iniziato con il re Salomone e proseguito con l’apostolo Paolo.
Noi abbiamo a disposizione un tesoro nascosto, cioè delle energie spirituali, che ogni tanto emergono e, nel bel mezzo della nostra vita frammentata, ci rivelano la vera natura del nostro essere. La Bibbia dice, con un’immagine comprensibile a tutti, che Dio, nel creare l’essere umano, s’è chinato su di lui e gli ha soffiato dentro il suo spirito. La nostra nobiltà è tutta qui.
Gli esseri umani, anche coloro che si dichiarano scettici o miscredenti, hanno sempre aspirato ad entrare in comunione con il mondo invisibile. Il poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel 1959 per la letteratura, dice in una sua splendida poesia: «E dovremo dunque negarti, o Dio? / Dio del silenzio, apri la solitudine» (da «Thànathos athànatos»). Il poeta ha visto bene: solo Dio può aprire l’umana solitudine. Lo ha fatto attraverso Gesù. 1 – Come termini di confronto all’interno della Bibbia si leggano, per es., 1 Re 3,5.7-12; Rm 8,28-30.
2 – Nello scrivere che Gesù è «il primogenito di molti fratelli», S. Paolo intende insegnare che «il piano di Dio è la conformità di tutti i discepoli di Gesù all’immagine di Cristo, e definisce questo piano con il termine di «predestinazione», non nel senso che alcuni di loro siano chiamati ed altri no ad entrare in questo progetto, ma nel senso che l’attuazione concreta del piano divino dipende dalla libera risposta di ogni discepolo di Gesù alla chiamata divina. Questa interpretazione non è presente nel brano, ma corrisponde a quanto è dichiarato in tutta la sacra Scrittura, in cui Dio non impone mai nulla all’essere umano, per quanto attiene all’ordine morale e religioso.
3 – Il comportamento di chi trova un tesoro nel campo che non è suo, e poi vende tutto quello che ha per comprare quel campo all’insaputa del legittimo proprietario, è certamente immorale. Ma, come è stato spiegato nella nota del commento precedente, il fine di una parabola non è quello di spiegare o giustificare tutti gli elementi che la compongono, ma solo quello di insegnare una verità. In questa parabola di Mt 13, Gesù intende insegnare che il regno di Dio vale più di tutti i tesori della terra. Questo è esplicitato meglio nella piccola parabola della perla (v. 5).

SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI (1984) – H. U. v. Balthasar:

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SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI (1984)

MEETING DI RIMINI 1984

Mercoledì 29 agosto

Di fronte ad una folla di almeno quindicimila persone prende la parola von Balthasar, una delle più grandi figure della teologia contemporanea, che di recente ha ricevuto il premio « Paolo VI » dalle mani di Papa Wojtyla. Quello che segue è il testo integrale della sua relazione.

H. U. v. Balthasar:

Miei cari ascoltatori, il tema che mi avete riservato – Se Cristo non fosse più scandalo e follia per uomini e popoli – ha un titolo alquanto teatrale, sebbene esprima perfettamente il vostro intento. Il mio sarà quello di reinserirlo nel suo contesto biblico, così da renderlo pienamente comprensibile Scandalo è una parola del Vangelo e proviene senza dubbio dal Cristo stesso. Significa esattamente: trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche pietra d’inciampo, ostacolo che può fare inciampare e cadere. Follia è una parola usata da San Paolo per mettere in evidenza che la saggezza di Dio, manifestata soprattutto nella Croce del Signore, oltrepassa e contraddice ogni saggezza puramente umana e a quest’ultima può apparire come insipienza, come follia. Per capire bene bisogna aggiungere immediatamente la frase paolina: « la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 25).Prendiamo in esame, per prima, la parola scandalo che nel Nuovo Testamento appare 54 volte. Ci sono due tipi di scandalo: quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, coloro che credono nell’esistenza del peccato e ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. La libertà umana è minacciata dalla sua stessa debolezza: sventurati coloro che ne abusano. Ma c’è un altro scandalo, quello del Cristo stesso, soprattutto del Cristo crocifisso, scandalo inevitabile per l’intera ragione umana, scandalo voluto e istituito, del resto, da Dio stesso, poiché sta scritto: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in essa non sarà confuso » (Rom 9,33). Se Dio istituisce lo scandalo in Sion, dà immediatamente anche il modo di evitarlo: chi crede in lui – è il Cristo quello di cui si parla – non sarà confuso. Ma chi è colui che crede non solo per un pezzo di cammino, come la folla, come la maggior parte degli apostoli, ma fino alla fine scandalosa, come quelle poche donne, come Maria e il discepolo prediletto? Unicamente colui che aderisce fino in fondo. San Pietro ripete: « Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare…e chi pone su essa la sua fede non sarà confuso » (1 P 2,6), e aggiunge: « Essi vi inciampano perché non credono alla Parola » (1 P 2,8), perché credono solo finché piace loro e sembra loro ragionevole e non finché la Parola dura, e cioè fino all’ignominia della Croce, in cui tutta la saggezza e la potenza umana sembrano confuse, in cui sembra contraddetta ogni parola del Cristo stesso, in cui sembra spenta ogni speranza in lui, il Messia. Sarà necessario molto tempo, anche dopo la Resurrezione, perché questi discepoli si convincano che la loro fede era insufficiente: « l’annuncio delle donne sembra loro « puro vaneggiamento » (Luc 24,11), Gesù deve rimproverare loro la loro incredulità (Me 16,14). Ed eccoci al secondo termine. La follia. Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale. Noi siamo quei saggi e quei capaci ai quali, secondo le parole di Gesù, Dio ha nascosto il suo mistero; mentre i piccoli non distinguono ciò che comprendono ancora da ciò che non comprendo no più, ma procedono senza esitazione e ingoiano, per così dire, il boccone tutto in una volta. Secondo le parole del Cristo, essi sono i soli cui rivela tutta la sua sapienza misteriosa. Nelle categorie dei saggi e capaci insieme, Paolo include sia i Giudei sia i Pagani. I Giudei chiedono dei segni per credere, crederanno solo a ciò che avranno visto, l’apostolo Tommaso sarà l’ultimo nel Vangelo a reclamare la visione. I Greci sono in cerca della saggezza, anch’essi limitano il loro assenso a ciò che sembra loro saggio, la loro capacità di comprendere le cose intellettuali sarà la peggior pietra d’inciampo. Hanno una filosofia sottile ma chiusa, con un’allacciatura in alto, senza apertura ad una cosa che li supera. Se costruiscono un altare ad un Dio ignoto, è ancora dedicato ad una di quelle numerose ampio, io divinità incluse nel loro ben noto Olimpo. Aldilà non c’è che un ‘destino’ che non interessa più la sapienza, perché lui stesso non ne ha Tutto ciò è forse molto più vicino alla nostra epoca che non a quella di Gesù, sebbene il problema sia sempre lo stesso. Ma siamo progrediti molto in saggezza puramente umana, sia ampliando immensamente il campo delle nostre conoscenze cosmiche, psicologiche e sociologiche, sia riducendo dei problemi un tempo filosofici, e in un certo senso apertamente discutibili, in risultati acquisiti delle cosiddette ‘scienze umane’, sia semplicemente vietando – e questo è il positivismo – di porre il problema della causa ultima (problema considerato insolubile) per limitarsi alle questioni risolvibili dei rapporti intramondani. Al limite, possiamo allargare il campo di tali conoscenze ad un al di là che E morte do spiritismo e l’occultismo lo fanno a delle forze psicologiche non ancora ben note. I Russi, a partire dal loro materialismo, si ostinano a scoprire nuove armi da guerra, ma qualsiasi divenire autentico della scienza umana è escluso da queste ricerche. Ecco a che punto siamo, tutti insieme, Paesi dell’Est e paesi occidentali. All’Est predomina il materialismo, in Occidente il positivismo. E non crediate che questa evoluzione si arresti davanti alle porte della Chiesa. Oggi più che mai la Chiesa è minacciata da una lacerazione che la scinde fino in fondo in due campi che, girando entrambi intorno allo scandalo e alla follia divina, sono nocivi in ugual misura. Quello che è chiamato ‘progressismo’ è un aperto rifiuto dello scandalo, si deve adattare la dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo d’oggi. Certi esegeti delle due sponde dell’oceano vi si applicano eliminando come superate sia alcune parole di Cristo che alludono alla sua prossima resurrezione e morte, sia soprattutto, e qui si uniscono ad essi celebri teologi, il senso della Croce come sacrificio offerto al Padre ‘pro nobis’. Poiché Gesù non ha menzionato il senso salvifico della sua morte né per il popolo d’Israele, né per tutta l’umanità, questa interpretazione della Croce deve essere una pia invenzione della teologia tardiva (come si usa dire) di San Paolo e di San Giovanni. Piuttosto che un sacrificio vicario per il peccato del mondo, bisogna vedervi una testimonianza suprema dell’amore paterno che, essendo sempre infinito e incondizionato, non ha bisogno di essere riconciliato ed è del resto incapace di cambiamento. Non si tratta di un’ira divina che, per mezzo della Croce, dovrebbe cedere ad un amore ormai totale. Ma, noi rispondiamo, che strana follia di Dio, dimostrare la sua affezione per noi consegnando il suo Figlio eterno a quell’atroce supplizio, non per la remissione dei peccati, ma come prova del suo amore! Questo non è certo ciò che pensa il Nuovo Testamento e soprattutto la Lettera agli Ebrei. Lasciamo da parte tutte le teorie che vedono in Gesù solo una specie di profeta (lo si trova in molti libri ebraici contemporanei che reclamano Gesù per Israele), esse non vedono che il compimento dell’Antico Testamento è anche un rovesciamento (finita la Terra Santa! finito il popolo etnico: partite, andate nel mondo intero per annunciare la Buona Novella a tutti popoli! Da allora, come hanno sentito con immensa gioia i Padri de a Chiesa, il mondo intero è terra santa.). Lasciamo da parte anche tutte le chiese laterali e settarie che si riferiscono unicamente ad un Gesù storico, o ad una Bibbia letterale e che non vogliono accettare una presenza perpetua e attiva dello Spirito Santo di Gesù nella sua Chiesa santa, sacramentale e istituzionale, come la vuole Cristo che istituisce Pietro capo della sua Chiesa indefettibile e Maria Madre di tutta la comunità santa: il Cristo di costoro resterà astratto e inaccessibile oppure l’approccio con lui sarà pietistico, soggettivo e sdolcinato. Ma quest’ultima riflessione ci porta ad un nuovo aspetto dello scandalo e della follia divina: la Chiesa del Cristo partecipa intimamente a queste qualità, ma solo se professa una fede totale nella Croce salvifica del Signore. Una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Ma aggiungiamo una parola sulla tendenza contraria: il tradizionalismo. Esso non nega espressamente lo scandalo del Cristo e quello della sua Chiesa, ma il centro del suo interesse è altrove: nell’affermazione che non si deve toccare il deposito tramandato che per esso si esprime innanzitutto nella ‘lettera’: la ‘lettera’ della messa di Pio V, la ‘lettera’ dei Concili precedenti, il Vaticano II il quale, interpretando alcune verità secondo lo Spirito, avrebbe tradito la ‘lettera’ e sarebbe perciò inaccettabile. Questo è la negazione implicita della presenza di Cristo per mezzo atteggiamento dello Spirito nella Chiesa di tutti i tempi, quindi anche in quella d’oggi. Lo scisma rappresentato dal tradizionalismo estremo e antiromano non è che una nuova forma di un letteralismo sopraggiunto dopo ogni Concilio ecumenico importante, fin da Nicea e Calcedonia. E’ una forma di razionalismo che, invece di credere allo Spirito che regna nella Chiesa, si fida del proprio sapere, del proprio maggior sapere, e tradisce quindi la folle sapienza di Dio per aderire alla propria umana sapienza. Ma c’è un fenomeno affine di cui non vogliamo dimenticarci: ci si può fissare talmente e in modo unilaterale sul concetto di scandalo cristiano e di follia di Dio da farne una teoria inglobante che non lascia più spazio ad una sapienza divina al di là di questi concetti esprimono. Allora la follia divina diventa per me una cosa spiritualmente manipolabile, un metodo filosoficamente applicabile, una dialettica. E’ in questo modo che il Luteranesimo giunge a parlare di un Dio la cui sapienza ha necessariamente un aspetto diabolico, che la Bontà divina è al tempo stesso Collera divina, cosa che, alla fine, porterà al razionalismo dialettico di Hegel per il quale la Croce, il Venerdì Santo è, come egli dice, speculativa, cioè la legge stessa della ragione, che la si chiami umana o divina. La danza sacra che i filosofi di oggi fanno attorno all’hegelismo, ultima tappa della filosofia prima del materialismo e del positivismo, si rivela infeconda e sterile, gira solo attorno a se stessa, dimenticando sempre più il vero mistero: quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito. Nessuna sapienza umana può manipolare lo scandalo cristiano e la follia di Dio a proprio conto. Ed è proprio ciò che dobbiamo ricordare alle due Americhe, che quest’anno sono in particolare a tema del vostro Meeting, pero sebbene le loro ideologie siano ben diverse e in molti punti perfino opposte. L’America del Nord, che è in testa nelle ricerche tecniche, sociologiche e psicologiche tende ad erigere la ragione ad assoluto. Concederà un proprio posto al fenomeno religioso, in quanto atteggiamento umano privilegiato, ma non si curerà del lato oggettivo di questa o quella religione che si presenterà come rivelata, conoscerà una tolleranza senza limiti per tutte le forme, anche totalmente contrarie fra loro, di espressioni dogmatiche o quasi dogmatiche; e questo porterà alla convinzione che tutti quelli che credono in qualcosa di sacro saranno per i cristiani dei cristiani anonimi, gli come saranno, per esempio, per i buddisti dei buddisti anonimi. Sull’elenco telefonico di Los Angeles ci sono in fila pagine e pagine di Chiese di tutti i tipi i cui templi passano spesso da una setta all’altra. Un aspetto di scandalo, in questo, è una follia più umana che divina, una follia che non preoccupa nessuno; come in Italia sono stati soppressi i manicomi, così negli Stati Uniti si tollera con benevolenza ogni forma più o meno inoffensiva di credenza religiosa degli uomini. Si potrebbe dire che è preoccupante il fatto che nel Continente non ci possa essere persecuzione per una Chiesa che conservi, al suo centro, il vero scandalo cristiano. Il cristiano, purché si comporti in modo moralmente tollerabile per la società, sarà lasciata in pace. Il moralismo generale avrà partita vinta e la testimonianza cristiana, che per noi porta al martirio, gli sarà sottomessa come una specie al genere Certo, ci sarà la lotta delle razze (e non delle classi) e Martin Luter King, ottimo cristiano, sarà il martire di questa lotta, ma la sua morte sarà piuttosto la vittoria di una razza che di una religione. Nell’America del Sud incontriamo un razionalismo totalmente diverso. E’, e qui bisogna semplificare, la lotta fra due forme razionalistiche e politiche di comprensione del cristianesimo. Non vale la pena insistere sul cosiddetto cattolicesimo dei cosiddetti oppressori, che potrebbe quasi sempre ridursi a una forma di tradizionalismo H quale permette ad una classe dirigente l’espressione classica di una fede cattolica limitata alla recita di un Credo e alla pratica dei sacramenti. Da tutto questo, scandalo e follia sono esclusi. Mentre cattolicesimo e diritto politico sono intimamente congiunti. Il contrario di questo amalgama è più difficile da definire ed è noto come teologia della liberazione. Il problema è sapere in che senso si tratta di una teologia cristiana propriamente detta o di un movimento sociologico che si serve, a ragione o a torto, del Vangelo. Non metto assolutamente in dubbio la buona fede di molti, perfino della maggior parte di quei teologi che si riconoscono nella teologia della liberazione. Ma la domanda terribilmente scottante è un’altra: con che diritto si servono del Vangelo e del suo scandalo per fare politica? L’opzione per i poveri può essere detta centrale nell’atteggiamento di Gesù, ma vi vede Egli solo i materialmente poveri o tutti i poveri diavoli non piuttosto indigenti o ricchi che falliscono la loro entrata nel Regno dei Cieli? C’è, certamente, la difficoltà dei ricchi di passare per la cruna dell’ago, e la forza di testi simili. Ma non sono né la ricchezza né il potere politico che per Gesù separano il Regno in due campi. Il povero che non possiede alcun comfort in terra è più aperto alla Buona Novella del ricco pieno di preoccupazioni economiche. Ma bisogna forse aiutare il povero ad acquisire una parte di questo benessere? C’è, senza dubbio, un limite molto stretto fra miseria, che deve essere in tutti i casi soppressa, e povertà, che può essere una grazia che ci avvicina al Regno. Charles Péguy con molta ragione ci ha inculcato questa distinzione, egli non fa altro che seguire la parabola del Samaritano. Ed è la carità cristiana, essa sola, che ci deve animare a seguirlo, una carità che ispira una politica, ma che non si identifica con essa. Fra le due c’è una differenza livello. Due gesuiti francesi ce lo dicono sotto ogni punto di vista: P. Fracou che lavora in Cile e che ci ha dato quel libro dal titolo famoso: « Prima (di tutto) il Vangelo », cioè prima della politica. Esso ristabilisce lo scandalo della Croce unica di Cristo e vieta di confonderlo con quello della miseria umana. P. Pierre Ganne, mio vecchio amico durante gli studi teologici, che purtroppo è morto, nel suo nuovo libro sullo Spirito Santo ci inculca: concetto di Alleanza è che solo l’uomo libero è capace di stabilire dei rapporti veri, è l’uomo libero che diventa giusto e non l’uomo giusto che diventa libero. L’Esodo comincia con la liberazione; dopo, all’interno di questa liberazione (operata da Dio), si può chiedere al popolo di stabilire dei rapporti giusti. La decisione di giustizia parte dall’uomo; se il suo cuore è schiavo, egli non può avere il concetto di rapporti giusti guardate Lenin. Non ci sono esempi di rivoluzioni che non abbiano rafforzato il regime amministrativo e poliziesco. Non dimentichiamo che Satana si traveste da angelo di luce. Le nostre illusioni sono spesso a base di generosità. La libertà degli altri non è qualcosa che io scelgo. Non ne sono la fonte. La perversione del paternalismo porta a proclamare: Io scelgo il tuo benessere, la tua felicità. Ora, il mondo è pieno di questa pretesa, di scegliere la nostra felicità, è perfino un tema politico. In questo mondo il Vangelo è inintelligibile. Leggete tutto il libro, pubblicato da ‘Centurion’, 1984. La politicizzazione della carità è quindi un altro modo di pervertire la follia della Croce. Ma lasciamo ai latino-americani la loro chance di trovare nella loro situazione estremamente difficile l’equilibrio che permetta eli unire teologia e politica senza identificarle. Concludiamo ricordando che lo scandalo della Croce e la follia di Dio non sono affatto degli slogans a nostra disposizione. Entrambi i termini, il cui significato converge, non sono altro che l’espressione del fatto che la Sapienza divina ci supera infinitamente. San Paolo ce lo ripete in tutte le letture. Questa sapienza ci supera, ma non ci è sottratta. Avendo finito di inculcare il mistero della Croce, sofferta pro nobis, l’Apostolo continua: Aiuto sì, la sapienza che noi esponiamo fra i (cristiani diventati) perfetti Dio l’ha rivelata a noi per mezzo dello Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’uomo terreno non accoglie le cose proprie dello stato di Dio; per lui sono stoltezza e non le può capire, perché è grazie allo Spirito che si giudica. Ma l’uomo spirituale giudica tutte le cose, (perché) noi possediamo il pensiero di Cristo. Noi l’abbiamo, non come un possesso, ma sempre come dono. E questo dono ci è dato non per noi, ma per essere comunicato e questo dono liberatore si diffonde solo nella comunione. E la comunione che libera ed è la libertà, essa sola, che rende possibile la comunione. Ma noi non costruiamo né la libertà né la comunione. Entrambe e la loro unità sono pura grazia di Dio.

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA (anche Paolo)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/Gli%20Angelid.htm

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA (anche Paolo)

Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la sal­vezza? ». (Eb 1,14) « Benedite il Signore voi tutti suoi angeli, potenti ese­cutori dei suoi comandi, pronti al suono della sua parola. Benedite il Signore voi angeli suoi ministri, che fate il suo volere ». (Salmo 102, 20-21)

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA
La presenza e l’opera degli angeli compaiono in molti testi dell’Antico Testamento. I cherubini con le loro spade folgoranti custodiscono la via all’albero della vita, nel paradiso terrestre (cfr Gn 3,24). L’angelo del Signore ordina ad Agar di ritornare dalla sua signora e la salva dalla morte nel deserto (cfr Gn 16,7-12). Gli angeli liberano Lot, sua moglie e le sue due figlie dalla morte, a Sodoma (cfr Gn 19,15-22). Un ange­lo viene mandato davanti al servo di Abramo per gui­darlo e per fargli trovare una moglie per Isacco (cfr Gn 24,7). Giacobbe vede in sogno una scala che si erge fino in cielo, con angeli di Dio che vi salgono e scendono (cfr Gn 28,12). E più avanti questi angeli vanno incontro a Giacobbe (cfr Gn 32,2). « L’angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi giovinetti! », (Gn 48,16) esclama Giacobbe benedicendo i suoi figli prima di morire. Un angelo appare a Mosè in una fiamma di fuoco (cfr Es 3,2). Uangelo di Dio precede l’accampamento di Israele e lo protegge (cfr Es 14,19). « Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato » (Es 23,20). « Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco, il mio angelo ti precederà » (Es 3Z34); « Manderò da­vanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo… » (Es 33,2). L’asina di Balaam vede sulla strada un angelo con la spada sguainata in mano (cfr Nm 22,23). Quando il Signore apre gli occhi a Balaam anch’egli scorge l’angelo (cfr Nm 22,31). Un angelo incoraggia Gedeone e gli ordina di combattere i nemici del suo popolo. Gli promette di restare al suo fianco (cfr Gdc 6,16-22). Un angelo appare alla moglie di Manoach e le annun­cia la nascita di Sansone, nonostante la donna sia steri­le (cfr Gdc 13,3). Quando Davide pecca e sceglie come castigo la peste: « L’angelo ebbe stesa la mano su Geru­salemme per distruggerla… » (2 Sam 24,16) ma poi la riti­ra per ordine del Signore. Davide vede l’angelo che colpisce il popolo d’Israele e implora da Dio il perdo­no (cfr 2 Sam 24,17). L’angelo del Signore comunica a Elia la volontà di Jahvé (cfr 2 Re 1,3). L‘angelo del Signore colpì centottantacinquemila uomi­ni nell’accampamento degli Assiri. Quando i superstiti si svegliarono al mattino, li trovarono tutti morti (cfr 2 Re 19,35). Nei Salmi si citano spesso gli angeli (cfr Salmi 8;90; 148). Dio manda il suo angelo a chiudere la bocca dei leoni per non far morire Daniele (cfr Dn 6,23). Gli angeli com­paiono di frequente nella profezia di Zaccaria e il libro di Tobia ha come personaggio di primo piano l’angelo Raffaele; questi svolge un ruolo di protettore ammire­vole e dimostra come Dio manifesti il suo amore per l’uomo attraverso il ministero degli angeli.

GLI ANGELI NEL VANGELO
Troviamo spesso gli angeli nella vita e negli insegna­menti del Signore Gesù. L’angelo Gabriele appare a Zaccaria e gli annuncia la nascita del Battista (cfr Lc 1,11 e ss.). Ancora Gabriele annuncia a Maria, da parte di Dio, 1 incarnazione del Verbo in lei, per opera dello Spirito Santo (cfr Lc 1,26). Un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli spiega ciò che è accaduto a Maria, gli dice di non temere di rice­verla in casa, poiché il frutto del suo grembo è opera dello Spirito Santo (cfr Mt 1,20). Nella notte di Natale un angelo porta ai pastori il lieto annuncio della nascita del Salvatore (cfr Lc 2,9). L’angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe e gli ordina di ritornare in Israele col bambino e sua madre (cfr Mt 2, 19). Finite le tentazioni di Gesù nel deserto… « il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano » (Mt 4, 11). Durante il suo ministero Gesù parla degli angeli. Mentre spiega la parabola del grano e della zizzania, dice: « Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. il campo è il mondo. il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemi­co che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappre­senta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo, il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda! » (Mt 13,37-43). « Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni » (Mt 16,27). Quando si riferisce alla dignità dei bambini dice: « Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sem­pre la faccia del Padre mio che è nei cieli » (Mt 18, 10). Parlando della risurrezione dei morti, afferma: ‘Alla ri­surrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo » (Mt 2Z30). Nessuno conosce il giorno del ritorno del Signore, « neanche gli angeli del cielo » (Mt 24,36). Quando giu­dicherà tutti i popoli, verrà « con tutti i suoi angeli » (Mt 25,31 o cfr Lc 9,26; e 12, 8-9). Presentandoci davanti al Signore e ai suoi angeli, dun­que, saremo glorificati oppure rifiutati. Gli angeli par­tecipano alla gioia di Gesù per la conversione dei pec­catori (cfr Le 15,10). Nella parabola del ricco epulone troviamo un compito degli angeli molto importante, quello di portarci dal Signore nell’ora della nostra morte. « Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo » (Lc 16,22). Nel momento più difficile dell’agonia di Gesù nell’or­to degli Ulivi venne « un angelo dal cielo a confortar­lo » (Lc 22, 43). Il mattino della risurrezione appaiono di nuovo gli angeli, come già era accaduto nella notte di Natale (cfr Mt 28,2-7). I discepoli di Emmaus sentirono parlare di questa presenza angelica il giorno della risur­rezione (cfr Lc 24,22-23). A Betlemme gli angeli avevano recato la notizia che Gesù era nato, a Gerusalemme che era risuscitato. Gli angeli furono dunque incaricati di annunziare i due grandissimi avvenimenti: la nascita e la risurrezione del Salvatore. Maria Maddalena ha la fortuna di vedere « due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’al­tro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù ». E può anche ascoltare la loro voce (cfr Gv 20,12-13). Dopo l’ascensione, due angeli, sotto forma di uomini in bianche vesti, si presentano ai discepoli per dire loro « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » (At 1, 11).

GLI ANGELI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
Negli Atti viene narrata l’azione protettrice degli ange­li nei confronti degli apostoli e proprio a beneficio di tutti questi avviene il primo intervento (cfr At 5,12-21). Santo Stefano cita l’apparizione dell’angelo a Mosè (cfr At 7,30). « Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissan­do gli occhi su di lui, videro il suo volto [il volto di santo Stefano] come quello di un angelo » (At 6,15). Un angelo del Signore parlò a Filippo dicendo: ‘Alzati, e và verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza » (At 8,26). Filippo ubbidì e incon­trò ed evangelizzò l’Etiope, funzionario di Candace, regina di Etiopia. Un angelo appare al centurione Cornelio, gli dà la bella notizia che le sue preghiere e le sue elemosine sono arrivate a Dio, e gli ordina di mandare i suoi servi a cer­care Pietro per farlo venire lì, in quella casa (cfr At 10,3). Gli inviati raccontano a Pietro: Cornelio  » è stato avver­tito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli “ (At 10,22). Durante la persecuzione di Erode Agrippa, Pietro viene messo in prigione, ma, un angelo del Signore gli appar­ve e lo fece uscire dal carcere: « Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei » (cfr At 12,6-16). Poco tempo dopo, Erode, colpito « improvvisamente » da « un angelo del Signore », « roso dai vermi, spirò » (At 12,23). In viaggio verso Roma, Paolo e i suoi compagni in peri­colo di morte a causa di una fortissima burrasca, rice­vono l’aiuto salvifico di un angelo (cfr At 27,21-24).

GLI ANGELI NELLE LETTERE DI SAN PAOLO E DI ALTRI APOSTOLI
Numerosissimi sono i passi in cui si parla di angeli nelle lettere di san Paolo e negli scritti degli altri apo­stoli. Nella Prima lettera ai Corinzi San Paolo dice che siamo venuti per essere « spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini » (1 Cor 4,9); che giudicheremo gli angeli (cfr 1 Cor 6,3); e che la donna deve portare « un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli » (1 Cor 11,10). Nella seconda Lettera ai Corinzi li avverte che « anche Satana si maschera da angelo di luce » (2 Cor 11,14). Nella Lettera ai Galati considera la superiorità degli an­geli (cfr Gai 1,8) e afferma che la legge ‘fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore » (Gal 3,19). Nella Lettera ai Colossesi, l’Apostolo enumera le di­verse gerarchie angeliche e sottolinea la loro dipenden­za da Cristo, nel quale tutte le creature sussistono (cfr Col 1,16 e 2,10). Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi ripete la dottrina del Signore sulla sua seconda venuta in compagnia degli angeli (cfr 2 Ts 1,6-7). Nella Prima lettera a Timoteo dice che « è grande il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu an­nunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria » (1 Tm 3,16). E poi ammonisce il suo disce­polo con queste parole: « Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favo­ritismo » (1 Tm 5,21). San Pietro aveva sperimentato personalmente l’azione protettrice degli angeli. Così ne parla nella sua Prima lettera: « E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo » (1 Pt 1,12 e cfr 3,21-22). Nella Seconda lettera parla degli angeli decaduti e non perdonati, così come si legge anche nella lettera di San Giuda. Ma è nella lettera agli Ebrei che troviamo riferimenti abbondanti all’esistenza e all’azione angelica. Il primo argomento di questa lettera è la supremazia di Gesù su tutti gli esseri creati (cfr Eb 1,4). La grazia specialissima che lega gli angeli a Cristo è il dono dello Spirito Santo loro concesso. È, infatti, lo Spirito stesso di Dio, il legame che unisce angeli e uo­mini con il Padre e con il Figlio. Il collegamento degli angeli con Cristo, il loro ordinamento a lui come crea­tore e Signore, si manifesta a noi uomini, soprattutto nei servigi con cui essi accompagnano in terra l’opera salvifica del Figlio di Dio. Attraverso il loro servizio gli angeli fanno sperimenta­re al Figlio di Dio fattosi uomo che egli non è solo, ma che il Padre è con lui (cfr Gv 16,32). Per gli apostoli e i discepoli, invece, la parola degli angeli li conferma nella fede che il regno di Dio si è avvicinato in Gesù Cristo. L’autore della lettera agli Ebrei ci invita a perseverare nella fede e porta come esempio il comportamento de­gli angeli (cfr Eb 2,2-3). Ci parla anche dell’incalcolabile numero degli angeli: « Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli… » (Eb 12, 22). E, infine, dice una cosa che dovremmo tenere sempre presente quando incontriamo un fratello bisognoso: « Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo » (Eb 13,2).

GLI ANGELI NELL’APOCALISSE
Nessun testo è più ricco di questo, nel descrivere il numero incalcolabile degli angeli e la loro funzione glorificatrice di Cristo, il Salvatore di tutti. « Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti » (Ap 7,1). ‘Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliar­di e i quattro esseri viventi, si inchinarono profonda­mente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di gra­zie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen’ « (Ap 7,11-12). Gli angeli suonano la tromba e scatenano piaghe e ca­stighi per i malvagi. Il capitolo 12 ci descrive la grande battaglia che ha luo­go in cielo tra Michele e i suoi angeli da una parte, e Satana e il suo esercito dall’altra (cfr Ap 12,7-12). Chi adora la bestia sarà torturato « con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello » (Ap 14,10). Nella visione del Paradiso l’autore contempla « le dodi­ci porte » della città e su di esse « i dodici angeli » (Ap 21,12). Nell’epilogo Giovanni sente: « Queste parole sono cer­te e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve » (Ap 2, 26). « Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le aveva mostrate » (Ap 2,28). « Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese » (Ap 22,16).

LA GIOIA CRISTIANA (anche Paolo)

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LA GIOIA CRISTIANA

(Pedron Lino)

Indice:
Dobbiamo rivestirci della gioia cristiana
Dov’è e che cosa è la gioia cristiana
Dio è la nostra gioia
La gioia cristiana
La gioia cristiana dono dello Spirito
Conclusione

DOBBIAMO RIVESTIRCI DELLA GIOIA CRISTIANA
La gioia è il dono che il cristianesimo ha fatto al mondo. Tutto il nostro essere è fatto per la gioia. « Non si può trovare uno che non voglia essere felice » (s. Agostino). « Norma suprema di condotta, criterio discriminante del bene e del male è la felicità: uno fa bene quando tende alla felicità, fa male quando tende a metterla in pericolo; ha diritto a tutto ciò che è necessario per arrivare alla felicità ed ha il dovere di fare tutto quello che occorre a tale scopo » (G. B. Guzzetti). Ma c’è anche un falso modo di intendere la gioia. « Non è certo che tutti vogliano essere felici; poiché chi non vuole avere gioia di Te, che sei la sola felicità, non vuole la felicità » (s. Agostino).
Nonostante le deviazioni possibili e facili per l’uomo storico, la gioia è richiesta dalla natura stessa dell’uomo, è un suo bisogno, è un suo diritto.
Quel che è vero per ogni uomo lo è a maggior ragione per il cristiano. Egli deve avere la sua tipica gioia, ed essa è per lui un dovere. Deve cercarla con impegno senza darsi per vinto finché non l’abbia trovata.
Il dovere della gioia nelle Scritture
« Possa tu avere molta gioia! » è il saluto rivolto dall’angelo a Tobia (Tb 5,11). E il Siracide aggiunge: « Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri. La gioia del cuore è la vita per l’uomo, l’allegria di un uomo è lunga vita! (Sir 30,22-23). « Dio ama chi dona con gioia » (Sir 35,11; 2Cor 9,7).
Gesù insiste molto sulla gioia: « Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15,11). Prega per i suoi discepoli « perché abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia » (Gv 17,13). Si premura di assicurarli che la loro tristezza per la sua passione e morte si cambierà in gioia quando lo vedranno risuscitato e glorioso: « Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia… Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (Gv 16,20-23). Li esorta a pregare il Padre per provare la gioia di essere esauditi: « Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena » (Gv 16,24). Gesù si esprime con tenerezza e con forza perché chi lo segue comprenda che la proposta di vita cristiana, che passa attraverso la croce, ha come sfondo e traguardo la gioia. È terribilmente falsa la presentazione del cristianesimo come « nemico della gioia » (Anatole France) o « maledizione della vita » (Nietzsche). San Paolo esorta i cristiani a conservare sempre e ovunque la gioia: « Fratelli miei, state lieti nel Signore » (Fil 3,1); « Rallegratevi nel Signore; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini » (Fil 4,4-5); « Il regno di Dio… è giustizia, pace, e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17), E l’apostolo giustifica questa sua insistenza sulla gioia del cristiano appellandosi proprio alla volontà di Dio: « State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
Il cristiano deve essere gioioso perché lo Spirito di Dio produce in lui la gioia: « Il frutto dello Spirito è amore, gioia… » (Gal 5,22). Illuminata dalla parola di Dio e dalla sua grazia, la vita dei cristiani diventa una festa: essi sono davvero la Pasqua del mondo.
La tradizione del pensiero cristiano
Gli Atti degli apostoli descrivono così i primi cristiani: « Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo » (At 2,46-47).
Tra i primi testi cristiani, il Pastore di Erma ci regala questa stupenda pagina: « Caccia da te la tristezza perché è sorella del dubbio e dell’ira. Tu sei un uomo senza discernimento se non giungi a capire che la tristezza è la più malvagia di tutte le passioni e dannosissima ai servi di Dio: essa rovina l’uomo e caccia da lui lo Spirito Santo… Armati di gioia, che è sempre grata ed accetta a Dio, e deliziati in essa. L’uomo allegro fa il bene, pensa il bene ed evita più che può la tristezza. L’uomo triste, invece, opera sempre il male, prima di tutto perché contrista lo Spirito Santo, fonte all’uomo non di mestizia ma di gioia: in secondo luogo perché tralasciando di pregare e di lodare il Signore, commette una colpa… Purificati, dunque da questa nefanda tristezza e vivrai in Dio. E vivranno in Dio quanti allontanano la tristezza e si rivestono di ogni gioia » (Pastore di Erma. Decimo precetto).
San’Ignazio di Antiochia in viaggio verso Roma dove morì martire nel 107 d. C. scrive ai Romani: « È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in Lui… Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio… Potessi gioire delle bestie per me preparate e mi auguro che mi si avventino subito ».
Il vescovo san Policarpo (+155) nell’affrontare il martirio « era pieno di coraggio e allegrezza e il suo volto splendeva di gioia » (Martirio di Policarpo. XII, 1).
I Padri del deserto e i dottori della Chiesa d’Oriente ponevano come ottavo vizio capitale la tristezza peccaminosa che è l’opposto della gioia cristiana.
San Nilo l’Antico scriveva: « La dolcezza dello spirito nasce dalla gioia mentre la tristezza è come la bocca del leone che divora l’uomo malinconico » (Detti dei padri del deserto).
La gioia è dunque un dovere per il cristiano: « È necessario che chiunque voglia progredire abbia la gioia spirituale » (s. Tommaso d’Aquino). Perciò è certo che il cristiano deve cercare la sua gioia, deve possederla. Nel fare questo non solo non pecca, ma compie giustamente la volontà di Dio. E appare nel mondo come l’uomo veramente realizzato mentre egli stesso si accorge quanto sia beata la sua condizione paragonata a quella di coloro che si dibattono disperatamente nella condizione del non-senso della vita.

DOV’È E CHE COS’È LA GIOIA CRISTIANA
La gioia dell’amore di Dio
« La gioia è causata dall’amore » (s. Tommaso d’Aquino). Gioia e amore camminano insieme. Chi non ama non può essere gioioso. La gioia è assente dove sono presenti l’egoismo e l’odio. La disperazione nasce dall’assenza dell’amore.
La gioia cristiana è una ridondanza dell’amore di Dio: non è una virtù distinta dall’amore, ma è un’effetto dell’amore. Questa precisazione non è inutile, ma indispensabile e fondamentale perché ci svela il motivo del fatto che molti cercano la gioia e non la trovano. Essi la cercano invano perché pensano che essa sia reperibile per se stessa. La gioia non ha consistenza in se stessa: ha la sua sorgente nell’amore, è un raggio dell’amore. E la sorgente dell’amore è Dio: « Dio è amore » (1Gv 4,8).
La gioia spirituale
« La gioia piena non è carnale, ma spirituale » (s. Agostino). Tutto ciò è verissimo perché la gioia cristiana è una gioia di Dio, una gioia che è frutto dello Spirito di Dio che abita in noi (Gal 5,22). Tuttavia la gioia cristiana afferra, promuove, illumina e intensifica le diverse gioie dell’uomo. Così si hanno le gioie della verità, del cuore, della bellezza, dei ricordi, delle attese, ecc. La gioia spirituale ha un riverbero esteriore che illumina tutto l’essere umano, lo rende amabile e affascinante. Fa del cristiano un bagliore visibile della Bellezza invisibile, una manifestazione concreta dell’uomo risolto in positiva armonia, e una attrazione sicura per tutti coloro che ancora camminano nel buio della tristezza e dell’inquietudine.

DIO È LA NOSTRA GIOIA
La gioia di Dio nell’Antico Testamento
L’AT è un preludio alla gioia cristiana. « Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio » (Is 61,10). Il pio israelita ha motivi molteplici per esultare nel suo Dio.
1 – Il primo motivo viene dall’alleanza per cui Israele è popolo eletto, scelto per un amore singolare, sicché sente Dio come il « suo Dio » e si sente popolo appartenente a Lui: « Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (Dt 7,6-8). « Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi, e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta » (Lv 26,11-13). Dio ama il suo popolo « di un amore eterno » (Ger 31,3) di un amore « forte come la morte » (Ct 8,6), di un amore tenerissimo come quello di una madre per il suo bambino (Is 49,15) e come quello di un padre verso il proprio figlio primogenito (Es 4,22). Da questa alleanza e da questo rapporto d’amore scaturisce la gioia. « Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano » (Sal 40,17). « Acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza… Varcate le sue porte con inni di grazie, e i suoi atri con canti di lode, lodatelo, benedite il suo nome; poiché buono è il Signore, eterna la sua misericordia, la sua fedeltà per ogni generazione » (Sal 100). Dio stesso chiede al suo popolo di essere gioioso: « Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza » (Ne 8,10). Il pio Israelita sente di conseguenza l’enorme gioia che gli viene dal suo Signore e prova un’estatica allegrezza, frutto della gioia di sentirsi amato.
2 – Un secondo motivo della gioia d’Israele è la potenza del suo Dio: « Tu sei il Signore, il Dio d’ogni potere e d’ogni forza e non c’è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele » (Gdt 9,14). Questa potenza si manifesta in tutta la storia del popolo eletto ed esso vi si abbandona, liberato da ogni paura e sicuro dell’aiuto divino. Perciò ne gioisce (Es 15; Sal 126).
La potenza di Dio creatore fa esultare di gioia le sue creature: « Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! » (Sal 92,5-6). I cantori ispirati del popolo eletto invitano tutta la creazione a partecipare al loro stato d’animo: « Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene » (Sal 96,11-13).
La potenza del Signore è anche potenza che protegge il suo popolo e provvede alle sue necessità: « Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero. Lo fece montare sulle alture della terra e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia; crema di mucca e latte di pecora insieme al grasso di agnelli, arieti di Basan e capri, fior di farina di frumento e sangue di uva, che bevvero spumeggiante » (Dt 32,10-14). Per questo motivo Israele deve avere la gioia che Dio esige come segno dell’amore corrisposto; altrimenti Dio metterà il suo popolo alla prova: « Poiché non avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa » (Dt 28,47-48).
La potenza di Dio è anche una potenza che salva dalla schiavitù d’Egitto e in tutti i momenti della storia successiva. L’amore salvante diviene un nuovo incitamento a gioire: « Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore » (Ab 3,18). Una salvezza che non solo afferra la storia, ma il cuore dell’uomo. Dio trasforma il loro cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 36,26) e così una nuova gioia nascerà in loro: « Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento » (Sal 4,8).
Infine la potenza di Dio è una potenza che perdona con innamorata longanimità: « Egli perdona tutte le tue colpe… Non ci tratta secondo i nostri peccati… Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di chi lo teme. Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Sal 103,3-14).
E la commozione di questa misericordia che perdona è nuovo motivo di gioia per Israele: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato… Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato… Rendimi la gioia di essere salvato » (Sal 51,1-14).
3 – Un terzo motivo di gioia per Israele è la presenza di Dio nel tempio e la sua legge. Dio stesso dice a Isaia: « Si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, e del suo popolo un gaudio » (Is 65,18). Gerusalemme infatti « è la gioia di tutta la terra » (Sal 48,3), è la città dell’arca dell’alleanza e del tempio, casa dell’Eterno, santa dimora di Dio che fa trasalire di gioia quanti la amano: « Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: « Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,10-14). Per gli ebrei non ci sarà più gioia senza Gerusalemme. E la tristezza della lontananza da essa è espressa meravigliosamente nel salmo 137.
Insieme con la gioia della città santa di Dio, scaturisce la gioia delle feste che in essa si celebrano (Sal 100). La festività religiosa che mette il popolo eletto in comunicazione particolare col suo Dio, sarà sempre tripudio di gioia: « Gioirai davanti al Signore tuo Dio tu, tuo figlio, tua figlia, il levita che sarà nelle tue città e l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te » (Dt 16,11).
Israele canta la sua gioia per la legge del Signore: « Beato l’uomo… che si compiace della legge del Signore e la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1,2). Il salmo 119 è un grandioso elogio della legge divina: « Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene » (v. 14); « Mia eredità per sempre i tuoi comandamenti, sono essi la gioia del mio cuore » (v. 111); « Io gioisco per la tua promessa, come uno che trova un grande tesoro » (v. 162); « Desidero la tua salvezza, Signore, e la tua legge è tutta la mia gioia » (v. 174).
Abbiamo accennati alcuni temi della gioia di Dio nell’AT. Giustamente il salmista parla del « Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4) e canta: « Con voci di gioia ti loderà la mia bocca… Esulto di gioia all’ombra delle tue ali » (Sal 63,6-8). Veramente davanti al volto di questo Dio il nostro gaudio deve risuonare costantemente: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto: esulta tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia trova la sua gloria » (Sal 89,16-17). È il Signore che ci indica la via della gioia piena e della dolcezza senza fine: « Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sal 16,11). Il timorato amante di Dio esorta tutti a lanciare grida di gioia all’Eterno: « Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con canti di gioia. Cantate inni al Signore con l’arpa, con l’arpa e con suono del corno acclamate davanti al re, il Signore. Frema il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene » (Sal 98,4-9).
Mirabile estasi di tutto Israele, del mondo e dei suoi abitanti per il Dio della gioia!
La gioia di Dio nel Nuovo Testamento
Quello che abbiamo contemplato nella storia d’Israele riguardo alla gioia, non è che l’ombra di ciò che è la gioia di Dio nella vita cristiana.
Questa nuova gioia di Dio ha questi luminosi capisaldi:
1 – L’alleanza dell’AT cede il posto alla nuova alleanza nel sangue di Cristo per cui Dio non stringe con noi solo un patto esterno, ma viene ad abitare dentro di noi. E questo Dio è ormai, con esplicita e piena rivelazione, il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, la Trinità che inabita nel cristiano. « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23). « Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Dio è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito… Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio… Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1Gv 4,12-16). « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? » (1Cor 6,19). « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16).
La nuova alleanza raggiunge così il più mirabile scambio dell’amore fra Dio e noi sulla terra, la più intensa presenza di Colui che amiamo in noi. In questa singolare presenza del nostro Bene infinito, l’esperienza dell’amore raggiunge termini meravigliosi e la gioia nuova che ne scaturisce è inesprimibile. A maggior ragione per il cristiano, rispetto al pio israelita, Dio è più decisamente il « suo Dio ». L’amore di Dio raggiunge la sua pienezza nel farci « partecipi della natura divina » (2Pt 1,4) e suoi figli adottivi (Gal 4,5) così che siamo chiamati e siamo veramente figli di Dio (1Gv 3,1). Nessuno più di noi ha conosciuto il cuore del Padre chino amorevolmente su di noi. Nessuno più di noi può conoscere la gioia profonda che nasce da un simile patto nuovo per cui Dio è in noi e noi in Dio. Perciò molto più a ragione che tutti i profeti e gli amici del Dio dell’AT, san Paolo può dirci: « Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi » (Fil 4,4).
L’immagine gioiosa del matrimonio usata nell’AT per esprimere la delicatezza e l’intimità d’amore fra Israele e Dio, acquista nel NT un valore più significativo e più consistente e introduce in forme impensate di intimità che fanno scaturire gioie inimmaginabili. Così si esprimono i mistici feriti dalla piaga d’amore del loro Dio che li abita e li trasforma. Quell’alleanza inaugurata nell’AT che dava tanta gioia a Israele, approda, nel NT, al suo termine definitivo. « Lo sposalizio di Dio con il genere umano si realizza nello stesso essere di Gesù allorché, incarnandosi, il Verbo si fa capo dell’umanità redenta… Il mistero dell’alleanza entrato nella storia imperfettamente attraverso l’AT, diventa perfetto con l’Incarnazione e la sua ultima conseguenza, la Croce » (Grelot).
2 – La gioia cristiana è ancora appoggiata alla potenza di Dio che nel NT manifesta le sue opere più meravigliose. La potenza divina, che ha assistito tutta la storia d’Israele, si manifesta maggiormente « nella pienezza dei tempi » quando la « liberazione » acquisisce il senso interiore e soprannaturale della redenzione attuata. Qui la nostra gioia scaturisce dal senso della trasformazione operata in noi da Dio per Cristo, con Cristo e in Cristo. Con tale trasformazione acquistiamo un modo nuovo di intendere e di sperimentare la potenza di Dio. Siamo diventati in Cristo una nuova creatura (2Cor 5,17), abbiamo rivestito l’uomo nuovo (Col 3,10): Dio che ci aveva così mirabilmente creati, ci ha « ricreati » ancora più mirabilmente. Di conseguenza abbiamo anche una nuova visione di tutta la creazione: « La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8,19-21). In tale visione delle cose c’è una nuova ragione per essere sempre pieni di gioia. La potenza di Dio attua il disegno di salvezza in Cristo e così il cristiano ha la gioia di sperimentare un amore che si piega verso di lui fino a risolvere il dramma doloroso e triste della solitudine dell’uomo: « È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col 1,13). Dio non ci libera solo da schiavitù esterne e da nemici esteriori, ma dal Maligno e dal peccato. E il Padre compie tutto questo mandando il Figlio, espressione massima dell’amore di Dio per noi: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Non c’è motivo più grande di questo per la nostra gioia: scoprire la tenerezza dell’amore di Dio rivelatosi a noi in Cristo.
Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto nel perdonare e nell’usare misericordia. L’incarnazione del Verbo è la misura più impensabile della volontà di perdono da parte di Dio. Il nome Gesù è un programma; significa « Dio salva »: « Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21).
3 – La gioia del NT ha infine la sua beatificante novità nella nuova presenza di Dio-Amore in noi. Il tempio di Dio non è più Gerusalemme, ma l’uomo dove Egli abita, in comunione di amore con lui. La nostra gioia è più reale, più intima, più estasiante: « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16). La prova più alta dell’amore di Dio sulla terra sta in questa misteriosa, ma reale inabitazione. Dice s. Agostino, commentando la Scrittura: « Siate giocondi, o giusti. Già, forse, i fedeli udendo: siate giocondi, pensando ai conviti, preparano i bicchieri, aspettano il momento di coronarsi di rose… Stai attento a quel che segue: nel Signore… Tu aspetti la primavera per far allegria; la tua gioia è nel Signore, egli è sempre con te, e non in una sola stagione; lo hai di notte, lo hai di giorno… da lui ti verrà sempre la gioia ». E ancora: « E la nostra società sia con Dio Padre, e in Gesù Cristo Figlio di Lui. E questo, dice san Giovanni, ve lo scriviamo, affinché la vostra gioia sia piena. Dice che la gioia sia piena in quella società, in quella carità, in quella unità ». E infine: La vita beata è proprio questa: godere tendendo a Te, godere di Te, godere a causa di Te; questo e non altro. Quelli che credono che ce ne sia un’altra, vanno dietro ad un’altra gioia e non a quella vera. Ed anche allora la loro volontà sta attaccata ad una certa immagine di gioia ».
Sull’antica legge perfezionata, spunta come culmine della novità cristiana, il comandamento nuovo: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34). Il NT è tutto investito dall’amore, respira nell’amore e nell’amore si risolve. Il frutto immediato della presenza di Dio nei giusti è, insieme all’amore, la gioia (Gal 5,22). Di conseguenza si capisce la novità della gioia della festa nel nuovo culto di Dio dopo la redenzione. La gioia non nasce più da un tempio di pietre, ma nel comunicare con l’innamorante mistero della morte e risurrezione di Cristo, con la Pasqua eucaristica, con il giubilo universale per la salvezza, con Dio Trinità, tutto amore, beatitudine e sollecitudine per l’uomo, contemplato in terra attraverso la fede. Dio è veramente « il Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4). Lo cercheremo allora, costantemente, con l’atteggiamento dei salmi: « Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo » (Sal 9,3). « Esulterò di gioia per la tua grazia » (Sal 31,8).

LA GIOIA CRISTIANA
La gioia attraverso Cristo
La gioia cristiana, per essere tale, deve passare attraverso Gesù Cristo. La gioia di Dio si ottiene per la mediazione del Verbo incarnato: egli è la strada della nostra gioia. È lui che ci fa conoscere più pienamente Dio; è lui che ci permette di gioire della verità; è lui che ci comunica la vita divina. L’incarnazione è la più grande rivelazione del mistero di Dio nascosto e invisibile. Così la gioia dell’invisibile Dio passa per la gioia di Cristo, Dio fatto uomo e visibile ai nostri occhi. « Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14); « Noi abbiamo udito, noi abbiamo veduto con i nostri occhi, noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita, » (1Gv 1,1). È attraverso l’umanità del Verbo incarnato che proviamo il giubilo della gloria divina manifestata a noi. Per arrivare alla contemplazione di Dio-Trinità dobbiamo passare attraverso la contemplazione insistente dell’umanità di Gesù salvatore e delle sue santissime piaghe.
Gesù Cristo è veramente la strada obbligata della gioia cristiana.
a nostra gioia da Cristo
È veramente meraviglioso vedere come Cristo genera in noi la sua gioia e come questa si espande dentro di noi: essa è immediatamente sentita come qualcosa che promana da Lui. Ricordiamo alcune testimonianze esplicite per capirlo. La prima epifania gioiosa del Cristo la si ha quando il saluto di Maria, che porta il Salvatore nel suo seno, raggiunge Elisabetta: Giovanni Battista esulta di gioia nel seno di lei (Lc 1,44).
Alla natività di Cristo l’angelo annunzia ai pastori « una grande gioia » (Lc 2,10). Quando i Magi vedono nuovamente la stella che li conduce a Cristo « provano una grandissima gioia » (Mt 2,10). Zaccheo riceve Gesù nella sua casa « pieno di gioia » (Lc 19,6). Nel giorno dell’ingresso messianico in Gerusalemme « tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto » (Lc 19,37). E questi sono solamente alcuni degli episodi di gioia suscitata dalla presenza di Cristo nel vangelo. Ma vogliamo segnalare distintamente le principali ragioni che costituiscono la trama essenziale della nostra gioia riguardo al Redentore divino, seguendo i misteri della sua vita sul dettato della rivelazione.
1 – C’è la gioia dell’attesa. Gli annunzi profetici del Salvatore sono carichi di parole gioiose e di trasalimenti di felicità. « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda… Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine » (Is 9,1-6; cfr. Mt 4,14-15 e liturgia del Natale). « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro di asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra » (Zc 9,9-10; cfr Mt 21,1-7). Ma la gioia profetica è stata preceduta già dalla gioia dei patriarchi. E lo dirà Gesù stesso: « Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò » (Gv 8,56).
2 – C’è la gioia dell’Incarnazione e del Natale. Annunziata dall’angelo (Lc 2,10), scoperta dai pastori (Lc 2, 20) e dai magi (Mt 2,10), manifestata dal vecchio Simeone e dalla profetessa Anna (Lc 2,25-38). La gioia per la venuta di Cristo ha una molteplice motivazione. È innanzitutto la gioia per l’opera più grande compiuta da Dio: l’unione della natura divina e della natura umana nell’unica persona del Figlio di Dio. Per questo mirabile mistero san Giovanni Crisostomo ha detto: « Colui che è, viene nel mondo, colui che è, diventa ciò che non era: essendo Dio, infatti, ecco che si fa uomo, ma non cessa per questo di essere Dio, si fa uomo senza che la divinità subisca mutamento, né è da credere che egli essendo uomo, sia diventato Dio per successive approssimazioni. Si è fatto carne restando ciò che era: il Verbo, e senza che la sua propria natura si sia modificata ». Come non essere nella gioia profonda considerando questo singolarissimo avvenimento a cui ha preso parte tutta la santissima Trinità, mostrando un amore infinito? Questo avvenimento è il centro di tutta l’opera di Dio, ci fa vedere Dio con noi, che diventa uno di noi; rende visibile l’Amore e la Verità; esso realizza le nozze del Verbo con la natura umana, con l’umanità. Dice sant’Agostino: « Nel seno della Vergine si sono uniti lo sposo e la sposa, il Verbo e la carne, perché il Verbo è lo sposo e la carne umana la sposa, e queste nature formano un solo Figlio di Dio, un solo e medesimo figlio dell’uomo… Quando il Figlio di Dio è uscito come uno sposo dal letto nuziale, ossia dal seno verginale di Maria, era già unito con una ineffabile alleanza alla natura umana ». Per questo i Padri della Chiesa dicono che nell’incarnazione « c’era in Cristo Gesù tutta l’umanità » (s. Cirillo di Alessandria) e che egli « assume in sé tutta la natura umana » (s. Ilario) per portarla tutta al Calvario (s. Cipriano), risuscitarla (s. Gregorio di Nissa) e salvarla. L’incarnazione del Verbo è una specie di concorporazione di tutti gli uomini in Cristo (s. Ilario): l’inizio del corpo mistico di Cristo nel quale tutti gli uomini sono invitati ad entrare come membra vive. Il tema dello sposalizio, già espresso nell’AT tra Dio-sposo e Israele-sposa, nell’Incarnazione diventa una realtà piena e definitiva: Dio si unisce in modo indissolubile ed eterno all’umanità. Dio e gli uomini si uniscono per sempre nella buona e nella cattiva sorte, nella morte e nella vita. È avvenuto un mirabile scambio: « Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio » (s. Agostino). In questo ammirabile scambio avvenuto nell’incarnazione noi vi troviamo l’enorme nostro bene realizzato nella esaltazione della natura umana. La gioia del Natale scaturisce dalla contemplazione dell’inizio del nostro stupendo destino di redenti e del nostro ritorno al paradiso. « In questo giorno è stata piantata sulla terra la condizione dei cittadini celesti, gli angeli entrano in comunione con gli uomini, i quali si intrattengono senza timore con gli angeli. Ciò perché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito al cielo. Ormai non c’è più separazione fra cielo e terra, tra angeli ed esseri umani » (s. Giovanni Crisostomo). La liturgia bizantina esclama: « O mondo, alla notizia (del parto verginale di Maria) canta e danza: con gli angeli e i pastori glorifica Colui che ha voluto mostrarsi bambino, il Dio di prima dei secoli ».
Gioia dell’amore, gioia dell’unione, altissime tenerezze del gaudio sovrabbondante e luminosissimo!
3 – C’è la gioia pasquale. Essa tocca i vertici più alti e scoppia definitivamente nella risurrezione, completamento indispensabile alla morte del Signore e alla nostra salvezza. I vangeli sprizzano il fuoco beatificante della gioia che passa dagli angeli a Maria Maddalena, agli apostoli, ai discepoli di Emmaus. Sulla fede sconcertata di tutti i suoi, Gesù getta la luce della sua vita gloriosa, li illumina e li rallegra. « Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli » (Mt 28,8). « I discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20).
La risurrezione dimostra la divinità di Cristo ed è spiegazione luminosa e fondamento incrollabile della nostra fede in lui e della nostra novità cristiana. Questo è il Cristo di cui siamo testimoni nel nostro tempo.
Nella notte di pasqua la chiesa esprime la sua gioia con il canto dell’ « Exultet », dove cielo e terra, angeli e uomini, sono chiamati ad esultare per la vittoria del re: « Esultino i cori degli angeli del cielo; si celebrino nel gaudio i misteri divini e la tromba della salvezza annunci la vittoria del re. Si rallegri anche la terra… goda pure la madre Chiesa… » È l’impeto del gaudio pasquale.
4 – C’è la gioia dell’Ascensione e della Pentecoste. Dopo il fatto dell’ascensione « essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia » (Lc 24,52). Salendo al cielo e sedendo alla destra del Padre, Cristo è costituito Signore degli angeli, degli uomini e dell’universo intero. Un uomo, uno di noi è assiso alla destra del Padre, in piena uguaglianza con lui ed è Signore come lui. Gesù prima di lasciarci ci ha fatto una promessa: « Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi porterò con me, perché siate anche voi dove sono io » (Gv 14,2-3). Scrive Paolo: « Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù » (Ef 2,4-7).
A quale altezza e perfezione Dio ha condotto l’uomo e il mondo intero! Quanto è avvenuto al Redentore è modello e premessa di quanto accadrà a noi e all’universo.
La gioia dell’Ascensione si fa preludio della gioia della Pentecoste. Gesù aveva detto: « È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò » (Gv 16,7). Ci soffermeremo subito nelle pagine seguenti a parlare più diffusamente della gioia cristiana, dono dello Spirito. Qui ci basta ricordare che la Pentecoste, che è la pienezza della pasqua, inaugura nella chiesa e in noi, la gioia dello Spirito Santo.
La gioia cristiana
La radice della gioia di Cristo è entrata in noi col battesimo e la confermazione e cresce quanto più viviamo del suo amore e cresciamo in Lui. L’apostolo Paolo ci ammaestra a fare tutto con Gesù: « Tutto quello che fate in parole e opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre » (Col 3,17). Dobbiamo compenetrarci in Lui fino a poter dire con tutta verità: « Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20); « Per me vivere è Cristo e morire un guadagno » (Fil 1,21). Perché questo accada bisogna fare le scelte coraggiose dell’apostolo: « Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso » (1Cor 2,2); « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui… E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti » (Fil 3,7-11). E quando né tribolazione, né angoscia, né fame, né nudità, né spada, né morte, né vita, né alcunché di creato ci separeranno dall’amore di Cristo (Rm 8,35-38), allora la gioia sarà perfetta.
Così il cristiano si espande in Gesù e canta la tenerezza gioiosa di sentirsi posseduto da lui.
Di conseguenza si comprende come il motivo più profondo della tristezza dell’uomo è non conoscere Cristo, e soprattutto separarsi da lui e combatterlo. Nel vangelo c’è una dimostrazione violenta della tenebra amara di chi non vuole riconoscere il Redentore. È quella dei farisei che sono una terra d’ombra, un punto di oscurità, un cumulo di livore, di amarezza, di disperato affanno. Come per essi, così per tutti i contraddittori di Gesù, uscire da Lui « Luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9) è trovare sempre tristissima notte, senza alba e senza sole.

LA GIOIA CRISTIANA DONO DELLO SPIRITO
Gioia e amore sono due termini che si richiamano sempre. Ed è perciò che nella gioia cristiana ha parte determinante lo Spirito Santo, lo Spirito dell’Amore. Essa è un dono di Lui: « Frutto dello Spirito è… la gioia » (Gal 5,22). Per questo gli Atti dicono che « i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (At 13,52), e san Paolo scrive che i Tessalonicesi « avevano accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione » (1Ts 1,6), perché « il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17). Tutto questo non è parola sonante, ma esatta realtà. « Lo Spirito Santo non è oscuro o mesto: Egli è la gioia dell’amore. L’esistenza stessa dello Spirito Santo proclama la forza della gioia d’amore e l’inesauribile eternità di questa gioia » (Galot). Lo Spirito Santo Amore ha in sé la fonte della gioia. E siccome ci è stato dato come dono supremo dell’amore del Padre e del Figlio, è sempre attraverso di lui che, in definitiva, passa la gioia di Cristo e di Dio.
Lo Spirito d’amore e di santificazione
L’AT ci annunzia la promessa di Dio che vuole espandere il suo Spirito: « Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio » (Ez 36,26-28).
« L’ equivalenza che la profezia mette tra Spirito e cuore ci fa capire meglio ciò che è l’effusione dello Spirito divino. Quando Dio vuol mettere il suo Spirito negli uomini, si può dire che Egli vuol donare loro il suo proprio cuore, rimpiazzare il loro cuore con il Suo, o rifare loro un cuore ad immagine del Suo. Lo Spirito Santo è il cuore di Dio. Il cuore divino del Padre e del Figlio che comunicandosi agli uomini forma in essi un cuore nuovo » (Galot). Lo Spirito Santo è il cuore di Dio che diventa il cuore dell’uomo. È l’Amore che ci investe, ci trasforma e ci fa amare come Lui ama: da questa sinfonia di amore nasce la gioia. Lo Spirito Santo è l’anello di congiunzione dello straordinario scambio d’amore fra Dio e noi. La gioia cristiana dell’amore è perciò marcata dall’azione dello Spirito Santo. « L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5). Di conseguenza lo Spirito Santo ci rende « spirituali » e « santi ». È l’ospite divino che opera in noi affinché « Dio sia tutto in tutti » (1Cor 15,28). È l’ospite dolce dell’anima che la unisce sempre più a Cristo. È Lui « che attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8,16) perché « tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rm 8, 14). Noi siamo il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in noi (1Cor 3,17). Dio ci ha scelti per la salvezza attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità (2Ts 2,13). Lo Spirito è il principio della nostra vita divina: siamo stati generati da Dio (Gv 1,13) nascendo dall’acqua e dallo Spirito (Gv 3,5). Siamo stati lavati, santificati e giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio (1Cor 6,11). È infatti lo Spirito che trasforma le nostre persone e produce in noi la risurrezione e la vita eterna. « Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi » (Rm 8,11). È Lui « che viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili; e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio » (Rm 8,26-27).
Diceva Origene: « Se chi crede è munito della forza dello Spirito Santo, è certo che ha sempre la pienezza della gioia e della pace ».

Conclusione
« State sempre lieti…: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
La gioia è un nostro dovere di uomini e di cristiani.
È la testimonianza più credibile e avvincente. La gioia che emana dal cristiano non può essere un fatto eccezionale, come un abito che si indossa nelle feste solenni: deve essere un fatto quotidiano, feriale, perché Dio, nostra gioia, è con noi e dentro di noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

LA PASSIONE DI GESÙ CRISTO NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://passiochristi.altervista.org/pass_40_passione_AT2.htm

LA PASSIONE DI GESÙ CRISTO NELL’ANTICO TESTAMENTO

(ho lasciato la grafica come è nel testo originale – più o meno – anche allunga un po’ il post)

(Seconda parte)

• L’agnello pasquale
• Il legno gettato nella fonte
• La verga di Mosè
• Il capro Azazel
• Il serpente di bronzo
• La corda rossa di Raab

Introduzione

Padre Marcello Spagnolo, passionista, nel­ l’introduzione del suo « Dall’Eden al Golgota », scrive : « Dio, da grande artista qual è, ha preso nelle mani il mondo, come il vasaio prende in mono un pezzo di creta; ha preso l’umanità, con tutta la sua storia, e sulla creta del mondo e nella storia dell’umanità ha tracciato i segni che ha voluto.
Inoltre ha parlato. Ha parlato per bocca dei suoi profeti.
Coi segni tracciati e con le parole dei profeti — il tutto consegnato nelle sacre scritture — Dio si è compiaciuto di abbozzare la trama delle cose future, specialmente di quelle riguardanti il suo Figliuolo ».
Nella trama delle cose future riguardanti il suo Figlio, Dio-Padre abbozzò, in modo particolare, tutto ciò che riguardava la passione e morte di Gesù.
Infatti nostro Signore, parlando della sua passione e morte, si appellava sempre alla sacra scrittura:
« Ecco che noi saliamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quanto fu scritto dai profeti intorno al Figlio dell’uomo » (1).
« Come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così? », cioè la sua cattu­ ra nel Getsemani ( 2 ).
« O stolti e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno detto! Non doveva forse il Cri­sto patire tali cose e così entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava loro in tutte le Scritture le cose che si riferivano a lui » ( 3 ).
Per poter leggere nella Bibbia la storia an­ ticipata della passione e morte di Gesù Cristo si richiedono in noi tre disposizioni :
• credere che la sacra scrittura è un libro divino che ha per autore principale Dio;
• confessare che tutto è manifesto allo sguardo di Dio: il passato, il presente e il futuro;
• ritenere che nulla si opera nel mondo — sia di piccolo come di grande — che non sia voluto o permesso da Dio ( 4 ).

(1) Lc, XVIII, 31.
(2) Mt., XXVI, 54.
(3) Lc, XXIV, 25-27.
(4) Padre Marcello Spagnolo, o.c.

Con queste disposizioni interne, sostenute dalla preghiera, fatta prima, durante e dopo la lettura della Bibbia, la storia della passione e morte di Gesù in croce ci apparirà evidente in tutto il Vecchio Testamento.
Continuiamo in questa seconda lettura a vedere le figure bibliche della redenzione umana.

I. L’agnello pasquale
Dio aveva comandato agli israeliti molti sacrifici in suo onore; soprattutto il sacrificio quotidiano di due agnelli : « Ogni giorno, in perpetuo, sacrificherai sull’altare due agnelli d’un anno, uno la mattina ed uno la sera » ( 5 ).
Ma, una volta all’anno, Dio dispose che, a Pasqua, tutte le famiglie immolassero un agnello in memoria della loro liberazione dalla schiavitù dei faraoni d’Egitto. L’immolazione era fatta nell’atrio interno del tempio, dal capofamiglia.

(5) Esodo, XXIX, 38.

1. L’agnello pasquale, simbolo dell’Agnello divino
Gli israeliti vedevano in quell’agnello pasquale l’immagine del futuro Messia.
Il profeta Isaia lo vide e lo descrisse: «È stato menato a morte come una pecorella, come un agnel­ lo che non apre bocca » (6). « Manda, o Signore, l’Agnello dominatore della terra » (7).
San Giovanni Battista, additando Gesù alle turbe, esclamò: « Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo » ( 8 ).
Tutti i santi padri videro nell’agnello pasqua­ le degli ebrei raffigurato Gesù crocifisso.
L’abate Ruperto dice: « Gesù fece il suo ingresso in Gerusalemme il giorno dieci di Nisan. Per quel giorno era comandato ai capi dì famiglia d’Israele di prendere ciascuno e mettere da parte l’agnello che doveva servire per la Pasqua. E così Gesù Cristo osservò anche questo particolare, separandosi e mettendosi fin da quel giorno a disposizione dei suoi immolatori » (9′).

(6) Isaia, LIII, 7.
(7) Isaia, XVI, 1.
(8) Gv., I, 29.

(9) Presso Giacomo Finto, 1 V., t. III, 2.

Lo scrittore cristiano Lattanzio (sec. III-IV) scrive : « Quando i primogeniti degli egiziani in una notte perirono, i soli ebrei restarono incolumi nel segno del sangue. Non perche il sangue di un animale avesse in se tanta virtù, da dare la salute agli uomini, ma perché era immagine delle cose future. L’agnello candido e senza macchia era infatti Cristo, innocente, giusto e santo, il quale immolato dai giudei, è divenuto salute a quanti segnano la loro fronte col segno del sangue, col segno della croce, strumento del suo martirio » ( 10 ).
L’abate Ruperto dichiara : « L’agnello, che in figura di te (o Gesù) fu ucciso in Egitto, redense nel suo sangue quel popolo… o meglio, tu, o Signore, agnello dominatore, lo redimesti con redenzione figurativa, mediante l’immolazione dell’agnello; tu che ora hai redento noi a Dio, da te stesso nel tuo proprio sangue, ed in modo che il tuo sangue, sparso per noi, preso dal sacramento del battesimo, s’imprima in forma dì croce sulle nostre fronti » (11).
San Pietro apostolo afferma : « Vivete con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio; ben sapendo… che siete stati riscattati… col prezioso sangue di Cristo, dell’Agnello immacolato e incontaminato » ( 12 ).
San Paolo apostolo dice: « La nostra Pasqua — ossia il nostro agnello — Cristo, è stato immolato » (13).

2. Conclusione
Presso gli ebrei, l’agnello pasquale, dopo di essere stato sacrificio, doveva divenire cibo conviviale. Tutti dovevano mangiare a questo convito. Chi non avesse mangiato l’agnello, era anatematizzato, scomunicato.

(10) Divinarum Institutionum libri septem, I, IV, e. 26; ML, 6, 530.
(11) In Apocalypsìm, 1, IV, e. 5; ML, 169, 933.
(12) 1, I, 17-19.
(13) 1 Corinti, V, 7.

L’Agnello divino, dopo d’essersi immolato sulla croce per la nostra salvezza, volle trasformarsi in cibo nell’Eucaristia; comandò che ognuno di noi dovesse accostarsi a lui e mangiare di esso : « In verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo, e non berrete il suo sangue, non avrete la vita eterna. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (14).
Dunque mangiamo spesso la carne del divin Agnello, divenuto nostro cibo nell’Eucaristia, e saremo da Gesù risuscitati nell’ultimo giorno per partecipare, in oielo, della sua gloria.

II. Il legno gettato nella fonte

Narra la Bibbia: « Mosè condusse via Israele dal Mar Rosso, e giunse al deserto di Sur. Camminaro­ no tre giorni nel deserto senza trovare acqua. Poi vennero in Mara; ma non poterono bere di quell’acqua, perché era amara. Mosè pregò il Signore. Il Signore gli mostrò un certo legno, capace di far addolcire le acque. Mosè prese quel legno, lo gettò nella fontana, e le acque divennero dolci » ( 15 ).

(14) Gv., VI, 54-55.
(15) Esodo, XV, 22-25.

1. Quel legno era simbolo della croce di Gesù
I santi padri affermano che quel legno me­ raviglioso, indicato da Dio a Mosè, era tipo della santa croce di Gesù Cristo, la quale, col suo contatto, rende dolce ogni cosa.
Rabano Mauro scrive : « Che le acque amare al contatto del legno si addolciscano, è indizio che la amarezza delle genti doveva un giorno cambiarsi in dolcezza per virtù del legno della santa croce » ( 16 ).
L’abate Ruperto afferma: « Il legno che il Signore mostrò a Mosè, e che mostrava per sua grazia anche a noi, è il legno della santa e vivifica croce. Mettere il legno nelle acque amare per renderle dolci, è applicare il sacramento della passione del Signore alla lettera della legge. Il che quanto sia dolce, lo conosce solo chi meritò di sperimentarlo; chi bevve, egli lo sa» (17).
Cornelio A Lapide: « Che cosa viene significato dall’acqua amara se non l’amarezza delle avversità? Tale amarezza, allorché vi si getti dentro il legno della Croce, vale a dire, si consideri la passione del dolce Gesù, sembrerà nulla, messa al confronto con ciò che l’Uomo-Dio e Mediatore degli uomini Gesù Cristo, ha sofferto per noi » ( 18 ).
San Cirillo dice: «Se tu prendi tuo cibo e bevan­ da dal mistero della Croce, ti avvedrai come quel legno, che presso Mara diede in figura dolce sapore,

(16) Comment., In Esodo, 1. II; ML, 108, 76.
(17) In Esodo, 1. III; ML, 167, 655.
(18) Comment., In Esodo, h. 1.

2. Conclusione
Si disputa presso gli esegeti se quel legno, gettato da Mosè nelle acque, avesse natural­mente o no la virtù di rendere dolce l’amaro. Tutti però sono concordi nell’ammettere che la passione di Gesù ha per se stessa la pro­ prietà di addolcire le amarezze della vita. « È questa la gloria e la grazia della Croce, prefigurata nel legno di Mara » ( 20 ).
Il poeta Venanzio Fortunato cantava : « Dolce ferro e dolce legno reggono un dolce peso ».
San Paolo della croce, giovanetto, soleva abbeverarsi di fiele, di vero fiele, ogni venerdì; ed il fiele gli sembrava delizioso. Egli però faceva prima, quello che fece Mosè; vi gettava dentro un legno, il legno della Croce; pensava cioè a quel fiele che fu dato a bere a Gesù nella passione, e mandava giù i sorsi, tanto più dolci quanto più amari ( 21 ).
Cari lettori, imitiamo san Paolo della croce nel pensare alle pene di Gesù durante la sua passione e morte, e, a sua imitazione, trovere­ mo dolce ciò che umanamente è amaro.

(19) A Lapide.
(20) Sant’Agostino, ML, 34, 616.
(21) Padre Marcello Spagnolo c.p., o.c.

III. La verga di Mosè
Narra la Bibbia che gli amaleciti assalirono Israele in Rafidin. Mosè disse a Giosuè: « Scegliti degli uomini ed esci a combattere contro gli amaleciti. Domani io sarò sulla cima del colle, tenendo in mano la verga dì Dio » ( 22 ).
Giosuè eseguì l’ordine e combattè contro gli amaleciti, mentre Mosè, Aronne e Ur stavano in cima al colle. Ora, finché Mosè teneva le mani alzate, vinceva Israele; ma se le abbassava un poco, vinceva Amalec.
Si noti : Giosuè combatteva e vinceva ; ma la vittoria era legata intimamente all’opera di Mosè, che prestava sul colle con le baccia aperte, reggendo la verga di Dio.

1. La verga di Mosè, simbolo della croce di Gesù
La verga di Mosè era simbolo della Croce del Calvario : essa sconfisse l’inferno, restando sempre segnale di vittoria, visione terribile a tutti i nemici della nostra eterna salute.

(22) Esodo, XVII, 8 e ss.

San Cirillo scrive : « Mosè, nell’aprire le braccia rappresentava Colui che fu per noi crocifìsso. Si rendeva manifesta, sotto la figura, la virtù della realtà: come, mentre il servo apriva le braccia, cadeva Amalec, così, quando stese le mani il Signore, fu sbaragliato l’esercito di satana » ( 23 ).
In tutti i segni prodigiosi compiuti da Mosè, sempre, quantunque non sempre espressamente notato, Dio comanda di « prendere la verga, sollevare la verga, tendere la verga, percuotere con la verga ».
Cornelio A Lapide dice: « Sembra che Mosè alzasse e tendesse le mani unite insieme, in modo che una palma abbracciasse l’altra, quella con cui teneva la verga. Non avrebbe infatti potuto con una sola mano tenere a lungo sollevata in alto la verga, la quale, per essere verga di pastore, doveva essere abbastanza grande… La verga simboleggiava la croce di Cristo; ma in quanto strumento di vittoria, segnale di trionfo » ( 24 ).
L’abate Wolpero afferma: « Veramente mirabile e gloriosa fu in quella cavalleria (il popolo d’Israele) la presenza della verga, con la quale Dio operò i prodigi e i segni della sua potenza. Non fu forse ben figurata in quella verga la croce di Cristo, unica speranza nostra, compendio della nostra salute? » ( 25 ).

(23) Questiones, In Ex., MG, 80, 259.
(24) In Exodum, h. 1.
(25) Comment., In antica Cant., 1. 1; ML, 195, 1061.

2. Conclusione
La Chiesa nei suoi uffici, nelle ordinazioni, nei sacramenti, nei misteri fa sempre precede
re il mirabile segno della croce. Niente di ratificato, niente di santo, se non sia confermato con la « prelibazione » della santa croce di Cristo.
In Mosè sul colle con le braccia alzate e con nelle mani la verga, è adombrata l’esaltazione della santa Croce, cioè Cristo sul Calvario, circondato di gloria e di maestà, con a lato la croce santa.
Sotto il monte Calvario: il correre precipitoso, confuso dei anemici di Cristo, cioè l’inferno con tutte le aberrazioni dell’idolatria, fremente e fuggente di frone al vessillo vincitore di Cristo.
Sulle schiere, miste nella spaventosa rotta le parole che la Chiesa canta in una delle sue belle antifone:
« Ecco la croce del Signore (di cui la verga di Mo­ sè fu un simbolo), fuggite davanti ad essa, o nemici tutti!
Il leone della tribù di Giuda, che è radice di David, ha vinto! ».
Cari lettori, non mettiamoci nel numero dei nemici della croce di Gesù; ma collochiamoci sotto di essa, come pulcini sotto le ali della chioccia, e saremo difesi da ogni pericolo, sem­ pre vincitori contro le battaglie di satana e dei suoi alleati.

IV. Il capro Azazel
Narra la Bibbia che Dio comandò a Mosè che il popolo d’Israele ogni anno doveva essere purificato dai peccati commessi nel corso dell’anno. Quel giorno era chiamato « il giorno delle espiazioni ».
In quel giorno venivano portati al sommo sacerdote due animali: un vitello ed un ariete per il sommo sacerdote ed il ceto sacerdotale e levitico; due capri ed un ariete per il popolo.
Il sommo pontefice si accostava all’altare, e dei due capri ne destinava uno a Dio e uno ad Azazel, cioè a satana. Il vitello e il capro destinati a Dio venivano immolati a Dio stesso in espiazione dei peccati dei sacerdoti.
Il « capro destinato ad Azazel » non veniva immolato. Esso veniva condotto davanti al sommo sacerdote, rappresentante del popolo. Questi imponeva le mani sul capo dell’animale, e a nome di tutto il popolo, faceva la confessione delle iniquità, delitti e peccati d’Israele, e li scaricava, imprecando, sul capo della bestia. Un uomo, a ciò preparato, prendeva con sé il capro, carico di tutti i peccati d’Israele, e lo menava nel deserto per consegnarlo ad Azazel, vale a dire a satana, padre del peccato.
Cancellati col sangue i peccati, portati per giunta lontano nel deserto, Israele si sentiva ormai libero dal peso opprimente. Si rallegrava e rendeva grazie a Dio ( 26 ).

(26) Levitico, XVI, 1-33.

1. Il capro AzazeI, figura di Gesù crocifisso
I santi padri e molti scrittori ecclesiastici affermano :
• che il sommo sacerdote, che entra nel sancta sanctorum, è Gesù che penetra nei cieli e si presenta al divin Padre per esercitare il suo eterno sacerdozio ;
• che il sangue del capro con cui si purifica il Santissimo, simboleggia il s-angue di Gesù, che muore innocente per purificare le nostre anime;
• che il bruciare delle vittime fuori degli alloggiamenti raffigura Gesù Cristo che consuma il suo sacrificio fuori della porta di Gerusalemme;.
• che il capro destinato ad AzazeI raffigura Gesù in quanto prende il posto dei peccatori, si carica dei peccati di tutto il mondo e li espia abbandonandosi alla potestà delle tenebre.

2. Alcune testimonianze
San Paolo apostolo, dice : « Se il sangue di capri…, sparso su quelli che sono immondi, li santifica rispettò al procurare la purità della carne; quanto più il sangue di Cristo… purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte » (27).

(27) Ebrei, IX, 13-14.

Lo stesso apostolo osserva: «La legge mosaica costituisce sacerdoti uomini soggetti ad ogni debolezza; Gesù, no. Egli non è un uomo semplice, un uomo soggetto a debolezze. Egli è il figlio che è perfetto in eterno. E tale era il sommo sacerdote che a noi con­ veniva, santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, elevato al di sopra dei cieli » ( 28 ).
Sempre il medesimo apostolo: « I corpi delle vittime, il cui sangue, portato nel santuario, si offre dal sacerdote per i peccati, sono bruciati fuori del campo. Perciò anche Gesù, per santificare col suo sangue il popolo, soffrì fuori della porta » ( 29 ), « portando la sua confusione » ( 30 ), cioè la croce che è oggetto di disprezzo ai superbi figli del tempio e della città deicida;, strumento invece ammirabile di sapienza e di virtù per ogni cristiano vero.
Il profeta Isaia confessa : « Noi tutti, a guisa di pe­ corelle smarrite, ci eravamo sviati, ciascuno aveva declinato per la sua strada e il Signore fece ricade­ re su di lui (Gesù Cristo) le iniquità di tutti » ( 31 ).
San Pietro apostolo predicava : « Egli stesso, Gesù, ha portato i nostri peccati nel suo corpo sopra del legno » ( 32 )- « Cristo è morto per i nostri peccati, egli giusto per gli ingiusti » ( 33 ).
San Giovanni evangelista esclama: « Voi sapete che egli (Gesù) è apparso per togliere i nostri peccati; mentre in lui non c’è peccato » ( 34 ).

(28) Ebrei, VII, 28 e ss.
(29) Ebrei, XIII, 11, e ss.
(30) Ebrei, XIII, 13.
(31) Isaia, LIII, 6.
(32) 1 Pietro, II, 24.
(33) 1 Pietro, III, 18.
(34) 1 Gv., III, 5.

3. Conclusione
Padre Marco Sales, commentando il passo dei due capri che Israele offriva l’uno a Dio e l’altro ad Azazel per espiare i suoi peccati, dice : « Questi due capri non formavano che un solo sacrifìcio per i peccati: il primo, che era immolato, espiava i peccati; il secondo, che era mandato nel deserto, portava lungi dal popolo di Dio i peccati ».
Ora la diversa sorte dei due capri rappresentava un diverso aspetto del sacrificio di Gesù, per merito del quale si cancellano i peccati degli uomini.
Nella sua passione e morte Gesù è offerto a Dio Padre, al quale ci riconcilia mediante l’effusione del suo sangue innocentissimo. E nella stessa passione Egli è dato quasi in balìa di satana, onde scontasse quanto vi era di satanico nei peccati che aveva preso sopra di sé;, per cui giustamente, al principio della stessa passione, Gesù potè dire, rivolto ai ministri di satana: « Questa è l’ora vostra e la potenza delle tenebre » ( 35 ), cioè: Questo è il tempo nel quale a voi e al principe delle tenebre è permesso di fare tutto quello che vorrete contro di me.
Compiuta l’espiazione e portati lontano dal capro nel deserto i peccati del popolo, Israele tripudiava e ringraziava la misericordia di Dio.
Con quanta maggior ragione dovremmo rallegrarci noi cristiani e ringraziare Gesù che ha voluto prendere sopra di sé tutti i nostri pec­cati, espiarli e restituire a noi il diritto della figliolanza divina.
All’Agnello immacolato, al Dio crocifisso sia dato da noi tutti il dovuto onore e gloria.

(35) Lc, XXII, 53.

V. Il serpente di bronzo
Narra la Bibbia che il popolo israelita, mentre s’in­ camminava verso il mar Rosso, il golfo elanitico, giunto ad Edom, seppe che il principe di questo paese non gli concedeva il passaggio attraverso il proprio territorio.
Allora Israele cercò di procedere attorno ad Edom. Il cammino però si allungò di molto ed il popolo, stanco del cammino e della fatica, cominciò a mormorare contro Dio e il suo servo Mosè : « Perché ci facesti venir via dall’Egitto per farci morire nel deserto? Non c’è pane, non c’è acqua, e questo cibo insipido (la manna caduta dal cielo, la quale conteneva ogni sapore) ci nausea ».
Il Signore, adirato per le mormorazioni e le ingratitudini del suo popolo, mandò contro Israele serpenti dal morso velenoso.
Vedendo le piaghe che quei serpenti producevano e come molti ne morivano, vennero a Mosè e dissero: « Abbiamo peccato parlando male contro il Signore e te. Prega Iddio che allontani da noi questi serpenti ».
Mosè pregò ;, e il Signore gli disse : « Fa’ un serpente di bronzo e mettilo come segnale: chi, colpito dalla piaga, guarderà a quello, vivrà ».
Mosè obbedì. Fece fare un serpente di bronzo : lo mise come segnale : e guardandolo, i percossi dalla piaga risanavano ( 36 ).

(36) Numeri, XXI, 1-9. 30.

1. Il serpente, simbolo del Crocifisso
Che cosa significava quel serpente di bronzo? Significava Gesù Cristo sull’alto della croce.
Nostro Signore un giorno disse : « Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così è necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo; affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna » (37).
San Massimo, afferma: « Il serpente morde, con morso letale, gli israeliti; il serpente, li sana. Il peccato da morte agli uomini; il peccato — cioè l’Innocenza che assume su di sé i peccati — restituisce la la vita » ( 38 ).
Sant’Agostino si domanda: « Chi è il serpente esaltato? È la morte del Signore in croce. Dal serpente venne la morte, perciò nell’effigie del serpente è figurata la morte. Il morso dei serpenti è. letale, la morte del Signore è vitale » ( 39 ).
Dice lo Spirito Santo: « Chi guardava, non per ciò che vedeva era salvo, ma per te, che sei il Salvatore di tutti » ( 40 ).
Un giorno Gesù Cristo, ponendo se stesso di fronte al serpente, disse : « È necessario che il Figlio dell’uomo sia levato in alto, affinchè tutti quelli che guardano a lui, vivano ».
San Cirillo alessandrino esclama : « Guarderemo il Cristo se rettamente intenderemo il suo mistero e fermamente vi crederemo » ( 41 ).

(37) Gv., Ili, 14.
(38) Omelìa, XLIX; ML, 57, 340.
(39) Trattato, In Gv., ML, 35, 1439.
(40) Sapienza, XVI, 7.
(41) In Rum. liber., ML, 69, 639.

Sant’Agostino osserva : « Come coloro che miravano il serpente non morivano per i morsi dei serpenti, così quelli che mirano con fede la morte di Cristo, vengono guariti dai morsi dei peccati. Quelli però (gli israeliti) guarivano dalla morte per una vita temporale, Gesù invece dice: perche abbiano la vita eterna. Questa è infatti la differenza tra l’immagine e la realtà: l’immagine conferiva la vita temporale, la realtà conferisce la vita eterna » ( 42 ).

2. Conclusione
Qual è la conclusione?
Ce la da sant’Ambrogio: « Frequentiamo il Calvario per guardare il Cristo che pende dalla croce per la salvezza del mondo, giacché questo è salutare » ( 43 ).
Sant’Agostino aggiunge: « Per guarire dal peccato miriamo, o fratelli, Cristo crocifisso » ( 44 ).
San Bernardo (Pseudo) ci esorta: « Ogni qualvolta ci sentiamo feriti dalla tentazione, corriamo alla Croce, accostiamoci a quel trono, una volta ignominioso ed ora sommamente glorioso, e, fissando con fede, speranza e amore il piissimo Liberatore, chiediamo, per la morte del nostro santissimo Serpente, che provocò la morte dell’antico serpente, di essere liberati dai mostri dei serpenti, e lo saremo » ( 45 ).

(42) Trattato, In Gv., I, s.c.
(43) De XLII mansionibus filiorum Israel;
ML, 17, 35.(44) In Gv., I.
(45) Vitis mystica, e. XLV; ML, 184, 730.

VI. La corda rossa di Raab
La sacra scrittura narra questo fatto: Raab, donna di Gerico, fu l’unica donna, che, insieme ai suoi, scampò all’eccidio, allorché questa città cadde nelle mani di Giosuè.
Giosuè, prima di entrare nel paese di Gerico, mandò due dei suoi, perché esplorassero il territorio. Costoro andarono a Gerico, ove dimorava Raab, e Raab li accolse in casa sua e li pose in salvo dalle insidie del principe di Gerico.
Prima però di lasciarli partire, Raab disse ai nunzi: «Promettetemi nel nome del Signore, che la stessa misericordia da me usata verso di voi, voi la userete verso la casa di mio padre, e mi darete un segnale sicuro che salverete mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle e tutto ciò che loro appartiene, e ci scamperete dalla morte ».
Gli esploratori lo promisero e le diedero il segnale richiesto: « Mettete alla finestra una corda di color rosso vivo. Ciò sarà condizione indispensabile. Saremo esenti da ogni responsabilità, se non metterete alla finestra il segno di questa cordicella scarlatta » ( 46 ).
Tale segno era ordinato a far distinguere agli israeliani la casa di Raab dalle altre.
(46) Giosuè, II, 18.

1. Il color rosso simbolo del Crocifìsso
Molti Padri, in quell’umile segno convenzionale color di sangue, vedono simboleggiata la passione di Gesù, e nella casa di Raab, la Chiesa, conservatrice di quel sangue incorruttibile.
Sant’Ambrogio: « Sollevando in alto i segni della fede, i vessilli della passione del Signore, legò il ros­ so alla finestra, perche fiorisse l’immagine di quel sangue che doveva redimere il mondo » ( 47 ).
Sant’Agostino: « A Raab fu detto che mettesse lo scarlatto alla finestra, vale a dire che avesse in fron­ te il segno del sangue di Gesù Cristo. Si salvò e simboleggiò la Chiesa delle nazioni » ( 48 ).
San Giovanni Crisostomo: « Raab è figura della Chiesa, la quale, impaniata una volta nella fornicazione dei demoni (ossia nell’idolatria), ha ora ricevuto gli esploratori di Cristo, i santi apostoli, mandati non da Gesù, figlio di Nave, ma da Gesù, il vero Salvatore » ( 49 ).
Origene, parlando del segnale rosso, afferma : « È il segnale di Cristo, segno di redenzione nella casa di Raab, ossia nella Chiesa » ( 50 ).

(47) A Lapide, h. 1.
(48) De poenitentia, omelia VII; MG, 49, 330.
(49) A Lapide, h. 1.
(50) Omelia IV, A Lapide, h. 1.

Strabone Walfrido scrive: « Raab pose la porpora nella sua casa, per salvarsi nell’eccidio della città. La porpora portava espressa in sé la forma del sangue. Conosceva bene essa che per nessuno vi è salute se non nel sangue di Cristo… Viene impartito il comando :  » Si salveranno tutti quelli che saranno trovati nella tua casa… ». Dunque chi vuoi salvarsi venga in questa casa, dove il sangue di Cristo è posto in segno di redenzione » ( 51 ).

2. Conclusione
Qual è la conclusione?
Ce la da Cornelio A Lapide: « Raab conobbe — parte per i miracoli ed i prodigi, parte per divina illuminazione — che gli idoli dei cananei erano falsi; che solo il Dio degli ebrei era l’unico e vero Dio. Credette in lui. sperò, amò, e, pentita dei propri peccati, ne domandò perdono. Perciò fu giustificata… Vogliamo cercare la causa meritoria di tanti beni impartiti ad una peccatrice? Noi troveremo questa causa nella passione del futuro Redentore: la Passione simboleggiata nella corda dal color rosso- sangue ».
Necessarie sono la fede, le buone opere e la promessa. Ma senza la passione di Gesù, nulla vale. Raab ebbe grande fede nel vero Dio; acolse, con grade carità, gli esploratori; ebbe da essi la promessa della salvezza. Ma non dovette dimenticare — sotto pena di morte — di mettere il rosso alla finestra.
Cari lettori, ciò che valse per Raab peccatrice, vale per tutti i redenti.
Teniamo scolpito nella mente il pensiero di san Fulgenzio di Ruspe : « La fune purpurea simboleggiava il mistero del sangue di Cristo.
Chiunque, col divino aiuto, custodisce la sua fede e confessa contro i pagani e gli eretici, di essere stato redento dal sangue di Gesù Cristo, appende tale fune alla finestra della sua casa » ( 52 ).

(51) Glossa ordinaria, h. 1.
(52) De remissione peccaiorum, ì. 1; ML, 65, 545.

 

IL CREATO NELLA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

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IL CREATO NELLA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

(SONO 9 CAPITOLETTI)

1. Introduzione: due difficoltà
Nel trattare questo tema, incontro almeno due difficoltà.
1.1. La prima è quella di rischiare di dire ciò che è già emerso nel primo incontro, il cui titolo era “Il valore del creato secondo la Parola di Dio”.
Il rischio è forte perché le linee guida del modo in cui il cristiano si mette in relazione con il creato sono proprio date dalla Scrittura. Non potrebbe essere altrimenti!
Quindi, necessariamente, il problema deve essere affrontato a partire e ritornando sulla Parola di Dio. Il posto che il creato ha nella vita spirituale del cristiano può essere scoperto solo a partire dall’incontro del credente con la Parola di Dio. Essa è il luogo teologico principale che può gettare la luce per indicare strade di una possibile risposta alla nostra domanda.
Quale Parola di Dio? Il cristiano è colui il quale crede a Cristo. Perciò è proprio al NT che dobbiamo guardare come luogo “specificatamente” cristiano. E’ qui, nel NT, che emerge il tratto caratteristico della concezione cristiana della vita e quindi anche del creato. L’AT ha valore in quanto può essere illuminato dal NT, che ne è il compimento.
In connessione alla Parola di Dio, ci sono altri “luoghi” che possono informarci e dirci qualcosa sul rapporto del cristiano con il creato. Uno di questi è la tradizione della Chiesa, nella sua molteplice ricchezza, fatta di riflessione teologica, di spiritualità e dell’insegnamento autorevole del magistero.
Potrebbero istruirci su questo punto, anche l’arte, la produzione letteraria, la devozione popolare… ma il discorso ci porterebbe molto lontano.
1.2. La seconda difficoltà è che una seppur semplice presentazione di quello che il cristianesimo ha prodotto ed ha vissuto a riguardo del nostro tema si presenta come cimento difficilissimo. Si corre il rischio di dire cose “ovvie”, oppure cose che possono essere errate.
Il sottoscritto confessa di non aver una preparazione specifica sull’argomento.
Quello che dirò è una mia personale valutazione, che ho fatto a partire da alcuni suggerimenti di don Giampiero Zago e di un testo di G. Panteghini, “Il gemito della creazione”, EMP, Padova 1990. Utile ci è parso anche il testo di B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, EP, Roma, 1981, vol. III, pp. 213-263.

2. Il dato più rilevante
Dando una rapida scorsa alla storia della teologia e alla storia della spiritualità cristiana, sembra emergere un dato. Il ruolo del creato nella vita spirituale del cristiano, precedentemente alla nostra epoca (gli ultimi 40 anni, per intenderci), non sembra essere stato preso in considerazione “esplicitamente”.
Dall’epoca dei Padri della Chiesa, fino al Medioevo e poi nell’età moderna, composizioni “esplicite” di carattere teologico e spirituale sul significato del creato per il cristiano non sembra che ve ne siano. Se ne è parlato, ma in forma “indiretta”. Anche i pronunciamenti del Magistero non sembrano essersi occupati di questo rapporto.
Mi sembra importante richiamare la sottolineatura su “esplicitamente”. Se leggiamo una qualsiasi opera di un Padre della Chiesa o un Commentario medioevale, sicuramente vi troviamo riferimenti al creato ed al rapporto tra il credente ed il creato.
Ma non si trovano trattazioni esplicite – salvo meliore iudicio – su questo argomento, come invece si trovano trattazioni esplicite sui sacramenti, sulla preghiera, sulla vita monastica…
Un lavoro che resta da fare (a meno che non sia già fatto ed io non ne sia a conoscenza) è ripercorrere la tradizione cristiana e leggere nella produzione letteraria “il non esplicito”. Sicuramente emergerebbe una concezione cristiana del rapporto uomo-creato nelle varie epoche. Forse potremmo anche fare delle sorprendenti scoperte!
Possiamo dire che il problema “ecologico” nelle epoche che ci hanno preceduto non c’era. C’erano altri problemi, altre tematiche. Ma non quello del rapporto uomo-creato, segnato dalle ansie e dalle preoccupazioni, che contraddistinguono momento attuale. Fino a cinquant’anni fa, una serie di incontri come questa non avrebbe avuto alcun significato. Disastri ecologici – come la diga del Vajont o Porto Marghera – non erano neppure pensabili nelle epoche che ci hanno preceduto.
Va detto che da sempre l’uomo interagisce in forma più o meno distruttiva nei confronti della natura. Non c’è mai stata un’età d’oro nei rapporti tra uomo e natura. Un esempio: la distruzione dei boschi del Cansiglio da parte della Serenissima Repubblica e la deviazione dei fiumi che sfociavano sulla Laguna (Brenta, Piave). Ma dobbiamo riconoscere che erano interventi limitati e frutto di un’azione pluriennale. Ora possiamo deviare un fiume o distruggere un bosco in tempi molto più brevi: imparagonabilmente più brevi!
Nel passato, il rapporto uomo-creato non era sentito come “problema”, perché l’uomo non aveva la possibilità di distruggere la natura come l’abbiamo noi ora.
Il rapporto uomo-creato lo sentiamo come problema perché ci rendiamo conto di essere andati un po’ in là.
Comprendiamo di non saper più gestire le enormi possibilità tecniche che sono a nostra disposizione.
“Ora” il rapporto si fa problema: se sono un cristiano, come mi devo mettere in relazione con la natura? Che senso ha per me il creato? Un tempo, non era così.

3. Ragioni teologiche e filosofiche
Abbiamo detto che dai testi e dalla riflessione del passato, il creato sembra non essere preso in considerazione in modo esplicito nella trattazione teologica, spirituale e magisteriale. Non se ne parla molto, insomma. Al di là degli eventi contingenti (assenza di gravi disastri ecologici), possiamo chiederci come mai?
Potremmo forse individuare alcune motivazioni di carattere teologico e filosofico che possono aver contribuito a questo silenzio.
3.1. Pende sulla teologia latina una certa impostazione, di matrice agostiniana, secondo la quale la storia della salvezza è vista principalmente come un problema tra l’uomo e Dio. Il dramma della storia della salvezza è legato con doppio filo al peccato dell’uomo. Dio con la redenzione operata dal suo figlio riapre la strada all’uomo della riconciliazione.
Con una parola difficile è una storia “amartiocentrica”: si mette al centro il peccato dell’uomo e la sua redenzione, senza coinvolgere il creato.
Il creato funge piuttosto da palcoscenico, mentre gli attori del dramma sono l’uomo e Dio. Il palcoscenico, dopo che il dramma è stato consumato, si smonta. Non ha un ruolo significativo, bensì accessorio.
3.2. Ha influito su questa polarizzazione Dio-uomo (con la conseguente marginalizzazione del creato) la questione “ariana”. Nel V secolo per “staccare” Gesù dal creato e sottolineare la sua trascendenza si è marginalizzata – o comunque non si è presa in cospicua considerazione – la tematica del creato, che avrebbe potuto far riassorbire Cristo sul versante delle creature.
Ario diceva infatti che Gesù non era Dio, bensì una sorta di intermediario tra Dio e il mondo: una “supercreatura”, ma separata da Dio e collocata più decisamente sul versante del creato. Contro questa riduzione del mistero di Cristo la Chiesa ha reagito sottolineando la trascendenza di Cristo rispetto al creato e quindi “sottacendo” la relazione tra Cristo e il mondo. Relazione che è affermata (come vedremo) dai testi biblici.
3.3. Un altro aspetto che contraddistingue la tradizione cristiana dei primi secoli è il dialogo e lo scambio con il pensiero greco, che guardava con sospetto alla materia. Per la filosofia greca (almeno quella di derivazione platonica, che di più ha trovato accoglienza nel pensiero cristiano delle origini) divina è l’anima: essa è chiamata alla vita e all’immortalità. Il corpo e la materia sono imperfezione: il corpo, in particolare, è concepito come tomba dell’anima (Platone).
3.4. Col passare dei secoli si sviluppa in epoca medievale la mentalità “simbolica”. Secondo questa mentalità, la natura è concepita come ciò che significa, indica e rimanda ad un’altra realtà.
La natura non è colta in quanto realtà ricca di senso in sé, ma in quanto realtà che mette in relazione con Dio: allude, evoca, simboleggia, dà indizi che ci fanno salire a Dio. La natura è vista come segno dell’opera di Dio: non ci si sofferma su di essa in quanto natura, ma in essa in quanto simbolo, che rimanda a qualcosa di ulteriore.
3.5. Una certa modalità di intendere la vita spirituale come distacco dal mondo della natura per entrare nella soprannatura. In certi mistici, in una spiritualità anche recente, si è guardato con sospetto al corpo e alla natura, intesi come luogo di tentazione e di peccato. Il vero credente era chiamato a “disprezzare il mondo” (a patto di capire bene che cosa si intenda per mondo, perché anche Gesù parla di un mondo dal quale prendere le distanze).
Questi aspetti, tra loro disomogenei, non esauriscono duemila anni di Cristianesimo, tuttavia dicono una direzione che è stata intrapresa. Senza dubbio non è l’unica, ma certamente una che è stata vissuta in modalità diverse dai cristiani dell’occidente.

4. Segni di recupero
Qui tracceremo in modo molto sommario alcuni segni di un recupero del tema. Crediamo che resti da dire e da riscoprire molto di più di quello che noi diciamo ora. La tradizione deve essere senza dubbio molto più ricca.
4.1. La riscoperta del pensiero aristotelico (XIII secolo) ha avviato la teologia ad una comprensione più reale (meno simbolica) del creato. In questo senso spicca la figura di san Tommaso.
Il suo contributo potremmo sbrigativamente riassumerlo nel superamento (o ridimensionamento) della visione simbolica, tipica del medioevo.
Egli recupera in concetto di “Dio creatore”. La creazione non è un atto compiuto una volta per tutte, ma Dio in quanto creatore, continua ad esserlo e continua a sostenere la creazione con la sua potenza: creazione continua.
Dio è la “causa prima”, che sorregge tutto il mondo. Su questa base, si collocano le “cause seconde”, che si attuano secondo una propria ed autonoma regolamentazione. La natura, in quanto tale e nella sua realtà, ha una legge (lex naturalis) che è stata posta da Dio e dà alle cose stesse una propria legittima indipendenza.
Questa stessa legge interna alla natura permette all’uomo di risalire a Lui (la cinque vie: gnoseologia) e di comprendere la sua volontà (la legge naturale: morale).
La concezione tomista della realtà permette una rivalutazione sostanziale della creazione in quanto tale, non semplicemente in quanto simbolo.
4.2. Un posto del tutto speciale, ma – dobbiamo confessare – anche del tutto unico è quello di san Francesco (XII sec.). Unico, nel senso che pochi alludono al tema del rapporto tra creato e uomo, come ha fatto lui. Bisogna riconoscerlo. La sua unicità è una prova del fatto che questo tema nella tradizione cristiano è rimasto in parte disatteso.
4.3. Altri segni di un recupero della tematica del rapporto uomo-creato ci sono dati da alcune piste delle teologia contemporanea (XX secolo). La teologia delle realtà terrene (Thills); la teologia del lavoro (Chenu); Theilard de Chardin; la teologia politica (Metz, Moltmann); la teologia della liberazione… Potremmo dire che il problema (ecologia) è posto come noi oggi lo intendiamo solo a partire dal XX seclo.
4.4. Anche il Magistero recente segnala un ravvivato interesse per il tema della salvaguardia del creato e per l’importanza del creato nella vita spirituale del credente.
I documenti più noti: GS, Octagesima Adveniens (1971), Redemptor Hominis nn. 8. 15. 18 (1979), Laborem exercens nn. 4-5 (1981), SRS n. 34 (1987), Centesimus Annus n. 37 (1990).
Due documenti dell’episcopato tedesco: Futuro della creazione e futuro dell’umanità (1981); Assumersi la responsabilità della creazione (1985).
I Documenti comuni delle Chiesa cristiane: in particolare l’Assemblea di tutte le chiese cristiane tenutasi a Basilea (1989) e la Charta ecumenica del 2001.
Ricordiamo infine il Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1990 di Giovanni Paolo II.

5. Perché la tradizione cristiana non si è occupata del rapporto uomo-creato?
Senza colpevolizzare nessuno e senza giudicare un tempo passato con la sensibilità di oggi, il problema semplicemente non era sentito o non era sentito come lo sentiamo noi oggi. La situazione era diversa dalla nostra. Noi oggi sentiamo un po’ ogni cosa come “problema”: pregare, credere, avere dei figli, accettare noi stessi, il nostro compito nel mondo… Un tempo il rapporto con la vita stessa era più “spontaneo”, immediato: non c’era il bisogno di tematizzare (verbalizzare) ogni cosa.
Va detto che se prendiamo in esame le opere d’arte della cristianità, forse emerge un rapporto più complesso con la natura, in cui emergono tratti per noi superati e inattuali: la natura matrigna e la natura come forza da dominare (perché sfugge al controllo).

6. Il creato nella vita del cristiano: linee per una risposta “spirituale”
6.1. Lo stupore di fronte alla maestosità (salmo 8)?
Questo è un atteggiamento di tutti. Credenti o meno. Quante volte abbiamo sentito dire dello stupore di fronte alla bellezza del creato?
Il creato ci apre ad una dimensione misteriosa. C’è qualcosa di più grande di noi. E’ qualcosa di buono e bello, che ci sovrasta e dinanzi al quale noi siamo piccola cosa: “che cosa è l’uomo perché te ne curi?”. Il creato è vissuto come suscitazione del mistero: come una esperienza che ci apre al mistero. L’AT, non solo lui, è pieno di testimonianze della grandezza e maestosità del creato.
Ma questo non è ancora proprio del cristiano: non è specifico della fede cristiana. Tuttavia è un passo, un primo passo, che può condurre alla fede. Il cristiano non può accontentarsi di questo generico richiamo alla fede. La creazione è qualcosa di più. Ma che cosa?

6.2. Dove guardare per rispondere alla nostra domanda?
Lo specifico cristiano traspare dal NT. Per rispondere alla nostra domanda è necessaria una analisi dell’atteggiamento di Gesù e degli apostoli nei vangeli e negli scritti del NT.
Gesù ed i discepoli non dicono “esplicitamente” come debba comportarsi il cristiano nei confronti del creato. Tuttavia, indirettamente, ci possono aiutare.
Da un lato, si deve riconoscere una sostanziale continuità tra NT ed AT (il creato fonte di mistero, opera di Dio, opera buona di Dio, dato all’uomo perché egli lo custodisca…). In questo senso il creato viene “desacralizzato”: non è una realtà sacra in quanto tale, bensì è luogo dell’agire umano, affidato all’uomo da Dio, l’unica realtà “sacra”.
Dall’altro, il NT suggerisce l’idea di una solidarietà tra uomo e creato molto più forte dell’AT. Il creato infatti non è una realtà che si “sgonfia” alla fine del mondo, ma è chiamata a partecipare alla redenzione di Cristo.

Gesù non è un vegetariano: mangia carne e pesci… I suoi discepoli non si fermano nemmeno alle pratiche igieniche e cultuali degli ebrei, suscitando scandalo. Ciò lascia emergere una sostanziale libertà del cristiano nell’uso dei beni della terra, che però non significa prevaricazione, abuso o disprezzo.
Ma proviamo a mettere in luce alcuni dettagli.

7. Il NT ed il creato
7. 1. Incarnazione
Dio assume la natura umana ed entra nello spazio e nel tempo del creato. Il creato è capace di accogliere Dio. La materia, il creato, la carne sono una realtà diversa da Dio, ma non in opposizione a Lui (contro il manicheismo, il docetismo, l’eresia albigese e càtara). Dio può assumere una natura umana e perciò essa è buona. Non semplicemente perché Dio lo dice (“vide che era cosa buona”), ma perché egli stesso si fa carne.
Questa è una novità tipicamente cristiana. La sapienza dell’AT arriva a dire della bontà del creato, perché Dio ne è il creatore (Gn 1-3).
Ma che Dio si incarni in questa realtà buona, è solo il NT a dirlo. Solo il NT afferma che la natura è una realtà così buona, che persino Dio si “degna” di assumere.
Questa affermazione, nuova rispetto all’AT, è sconvolgente anche per il pensiero greco, che vedeva nella materia l’imperfezione e la mutevolezza: il divenire. Un Dio che si fa uomo?!?
L’incarnazione porta ad una decisiva rivalutazione della “carne” come strumento del Verbo. Nell’umanità del Verbo, vertice della creazione, la materia diviene segno e veicolo della stessa autocomunicazione divina (Rahner). Attraverso la natura umana, Dio comunica la sua realtà all’uomo. Ma anche compie la redenzione dell’umanità.

Gv 1, 14
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Fil 2, 1-11
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
6 il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
7 ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
9 Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

7.2. Creazione e Redenzione
Il creato è opera di Dio in Gesù Cristo. Precisamente: tutto il creato è stato posto in essere da Dio guardando al Cristo. E’ Cristo il modello a cui Dio ha guardato nella creazione del mondo. Potremmo dire che c’è una struttura “cristica” che connota tutta la creazione: non solo l’uomo, ma tutta la realtà porta in sé l’orma di Cristo.
Quale Cristo? Non semplicemente la seconda persona della Trinità, il Figlio di Dio, ma il Figlio di Dio fatto uomo: Gesù Cristo incarnato e redentore. Dio Padre ha creato l’universo per mezzo dello Spirito guardando al Figlio suo, Gesù Cristo, nella prospettiva dell’incarnazione.

Gesù Cristo è:
- la causa “strumentale” della creazione: “per mezzo di lui”;
- la causa “finale” della creazione: “in vista di lui”;
- egli continua a “sostenere” la creazione con la sua potenza: “sussistere in lui” (creazione continua);
- la causa “strumentale” della redenzione: “per mezzo di lui” sono state rappacificate le cose visibili e invisibili. Non solo l’uomo, ma tutta la creazione partecipa alla redenzione operata da Cristo.
In Cristo Gesù si saldano creazione e redenzione. Non c’è stata una creazione dall’inizio, secondo un certo progetto, e poi, siccome il piano di Dio ha fallito, Dio ha cambiato programma (redenzione).
Ma dall’inizio Dio Padre ha pensato alla creazione guardando al Figlio incarnato. La creazione è stata fatta pensando all’incarnazione del Figlio. Per questo essa poteva “strutturalmente” accogliere la natura di Dio. Essa era stata fatta appositamente capace di ospitare il divino. La redenzione non è un “cambio” del programma, ma la continuazione dell’unico piano di Dio in una realtà che l’uomo ha sconvolto con il peccato originale.
L’AT parla di creazione del mondo da parte di Dio, ma non di una creazione in Cristo. Si parla della “sapienza”: una potenza di Dio, per mezzo della quale egli ha creato il mondo. Per noi quella “sapienza” è il Figlio di Dio. Per gli ebrei è una delle “forze” di Dio e la creazione non è stata fatta in previsione dell’incarnazione di Dio.

1 Cor 8, 5-6
E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui.

Giov 1:1-3
1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

Colossesi 1, 15-20
15 Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
16 poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
17 Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
18 Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
19 Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
20 e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Eb 1, 1-4
Eb 1:1 Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, 2 in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.
3 Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, 4 ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Ef 1, 3-12
3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei
cieli, in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella
carità,
5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
6 secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati
secondo la ricchezza della sua grazia.
8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua
volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui
prestabilito
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
essendo stati predestinati secondo il piano di colui
che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria,
noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.

- Il creato permette all’uomo di riconoscere Dio. Questo ci è testimoniato da Rm 1, 18-25:
18 In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19 poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21 essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22 Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23 e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
24 Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, 25 poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.
- Che il creato stesso sia chiamato a far parte della redenzione dell’uomo viene ribadito anche da Rm 8, 17-22: il gemito della creazione.
18 Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
19 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
- La bontà del creato. Ogni cosa che esiste è buona. Contro ogni concezione che disprezza la terra: cfr. At 11 (Pt che mangia animali “immondi”).

7.3. Il creato nelle parole e nelle opere di Gesù
Gesù nella sua vita terrena usa spesso la terminologia dell’uomo comune per esprimere le verità divine e compie gesti utilizzando oggetti e forme presi dalla realtà in cui vive. Egli si serve delle realtà creaturali con molta semplicità ed immediatezza.

a) le parabole
Gesù si serve di fatti ed eventi del creato per dire il rapporto del credente con Dio. La natura è capace di esprimere qualcosa della vita spirituale del credente. Essa ci può istruire a volte su temi marginali, altre volte su temi centrali. Alcuni esempi:

Il tema della semina:
- la parabola del seminatore: i diversi terreni che è l’uomo (Mt 13, 4 e parr.)
- il regno di Dio e il seme: l’agire nascosto del regno di Dio (Mc 4, 26)
- il seme che porta frutto se muore: la resurrezione di Cristo (Gv 12, 24)
- il grano buono e la gramigna: la pazienza di Dio (Mt 13, 24)
- l’albero che non porta frutto: la pazienza di Dio (Lc 13, 6)

Il tema della vigna:
- I vignaioli omicidi (Mt 21, 28 ss.)
- La vite ed i tralci (Gv 15, 1 ss.)
- Gli operai dell’ultima ora (Mt 20, 1 ss.)

Gli uccelli del cielo e i fiori dei campi (Mt 6, 25-34): la provvidenza di Dio.
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Questo è un testo istruttivo, perché dice che la provvidenza di Dio non si preoccupa in modo esclusivo dell’uomo, ma ha a cuore la realtà di tutto il creato.
Il tema della provvidenza di Dio nei confronti di tutte le creature è caro anche alla tradizione biblica dell’AT: cfr. salmi 103, Gb 38 e ss.
Dio ha creato tutta la realtà e non la abbandona a se stessa o all’ingiuria dell’uomo. Continua a prendersene cura. Dio ama il creato che ha posto in essere.
Il NT sottolinea questa verità perché afferma che anche esso è chiamato alla redenzione: anche il creato ha un “futuro” in Dio. Non è un semplice palcoscenico per le vicende dell’uomo.

b) i miracoli
Essi manifestano la Signoria di Gesù su una natura che è ancora segnata dal dolore e dalla carenza, bisognosa anch’essa di essere redenta.
Gesù si manifesta Signore della natura, perché è capace di modificarla. Egli agisce sulla natura con l’obiettivo del “segno”, cioè egli intende mostrare che è Dio.
Agisce a partire dalla natura (dalla realtà che c’è) e dalla fede dei presenti. Il miracolo ha senso lì dove c’è disponibilità a mettere a disposizione quello che si è e a credere in lui.
Il miracolo svela la natura “liberata” grazie all’intervento di Gesù. La natura viene liberata dal giogo della sofferenza e del dolore, che spesso la contraddistingue. Questo (quello di Gesù) allora è il tempo “messianico”: quello che Dio desiderava per l’uomo e quello che sarà alla fine.
Come Gesù stesso afferma in Luca 7, 18-23.
18 Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi 19 e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». 20 Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?». 21 In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22 Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. 23 E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!».

Alcuni esempi:
- le guarigioni
- la tempesta sedata (Mt 8, 24)
- i morti richiamati alla vita (Gv 11; Mt 9, 20)
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 15)

c) la resurrezione di Gesù
Essa è la vittoria di Dio su una natura votata alla morte e con la resurrezione si chiarifica il significato stesso della morte. La morte è “passaggio” dallo stato presente a quello definitivo, non più il muto accesso al silenzio delle Scheol.
La resurrezione è una trasformazione che non tocca solo l’anima, ma che coinvolge in modo unitario corpo e anima. Cristo risorto non è un fantasma ma un corpo glorificato, che porta i segni della passione e che si ferma a mangiare con i discepoli (Gv 20-21 ed i racconti postpasquali).

d) l’ascensione di Gesù
Con la sua ascensione una parte del creato si trova già presso Dio. Una parte della natura umana e della creazione si trovano presso Dio. Questo significa glorificazione della corporeità umana: glorificazione della natura e del creato. Nell’incarnazione Dio entra nel mondo, il divino entra nell’umano. Con l’ascensione è l’umano che entra nel divino, nella santa Trinità e svela il destino della corporeità umana e con essa di tutto il creato. Il creato – anch’esso – ha un futuro in Dio (cfr. Lc 24 e At 1).

8. Considerazioni conclusive a partire da san Francesco
San Francesco si presenta come il la figura più istruttiva e più originale della spiritualità cristiana nel rapporto con il creato. Non ci sono – o almeno non mi pare di averle incontrato – altre figure che pongano così in rilievo la bontà della creazione. Dobbiamo dire che quanto Francesco dice è tanto più francescano quanto più è cristiano. Egli non aggiunge nulla alla fede cristiana: “esplicita” una attenzione che è già presente “in nuce” nel NT e nella storia della tradizione.
Il merito comunque è notevole, perché allarga l’angolo di visuale (non solo l’uomo e Dio, ma anche le creature) e infonde un senso di letizia e di riconciliazione all’uomo con la natura.
Mi pare che l’apporto più originale di Francesco è l’attribuzione della qualità della “fraternità” alle cose del creato. “Fratello” non è solo il mio prossimo (uomo o donna), ma – ovviamente cogliendo una diversità di intensità – “fratelli” sono anche le cose e gli animali.
Il suo Cantico è una testimonianza (non l’unica nella sua vita) di questo atteggiamento. La novità sta nel guardare alle cose con uno sguardo “carico di affetto”. Non si tratta di oggetti da prendere e usare a nostro piacimento (utor). Bensì di creature “buone”, che vengono da Dio e che sono poste in essere perché l’uomo ne usufruisca (fruor), rispettandole e custodendole.
La bontà del creato non è vista semplicemente perché io lo usi e lo mangi. Il creato non è “buono” esclusivamente in vista dell’utilizzo dell’uomo. Esse sono “buone” perché sono nostri compagni di viaggio, con una identità ed un significato proprio, che è stato loro donato da Dio.
Compagni di viaggio, dal momento che questo creato – come abbiamo già detto – non è destinato alla distruzione, bensì alla partecipazione al Regno di Dio ed alla gloria della Gerusalemme celeste. La salvezza infatti è cosmica ed universale. Questa terra è destinata a diventare dimora del regno attraverso una trasfigurazione di essa: “cieli nuovi e terra nuova”.
San Francesco ci invita ad un profondo rispetto del creato, perché esso vale in sé. Perché c’è una relazione di amicizia tra cose e uomini. Perché la strumentalizzazione del creato esprime una mentalità manipolatrice, tendenzialmente egoista e senza dubbio in antitesi con quella del Poverello d’Assisi (povertà). Perché l’abuso (ma questo Francesco ancora non lo sapeva) può originare gravi disordini e danneggiare i più poveri.
La terra è di Dio. Siamo chiamati a vivere in essa come inquilini e stranieri. La terra che Dio ha dato all’uomo è da condividere con gli animali e le piante, perché c’è una comunione di co-creature che va riscoperta.

9. Uno spunto critico
- Il limite di questo discorso è la sovradeterminazione del creato rispetto all’uomo. Cioè, molto semplicemente, che l’uomo ami di più la natura dell’uomo. Questo non è cristiano!
L’amore per le creature – questo Francesco ce lo testimonia – è una delle vie che può aiutarci ad amare di più il prossimo e Dio. L’amore per la natura non esclude o mette “in secondo piano” il fratello, a volte molto più scomodo e fastidioso di un simpatico cagnolino.
Infine, amore per la natura non significa fermare qualsiasi intervento sulla natura (fruor). C’è un’opera di umanizzazione della natura che è necessario e legittimo, per renderla degna della dimora dell’uomo. Umanizzare la natura infatti non vuole necessariamente distruggerla. L’intervento dell’uomo può essere benefico per l’uomo e per la natura. La natura, in relazione al peccato dell’uomo, è segnata da una ambiguità. Il cristiano è chiamato a liberare se stesso, ma anche la natura, da questa ambiguità (madre o matrigna). In questo modo egli continua l’opera creatrice di Dio Padre e l’azione redentrice di Cristo.

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA – di GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/fa_oggi00/1099f_o/1099fo39.htm

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA

Il dolore umano resta invalicabile. La ragione ne comprende alcuni aspetti, ma non tutti i varchi le sono aperti. La Bibbia insegna che la sofferenza dell’uomo è un mistero che fa parte di un piano trascendentale, del quale possiamo intuire la coerenza generale. Un’ampia porzione del male, diffuso nel mondo, è riconducibile alla libertà e quindi al comportamento di chi possiede il libero arbitrio. Il dolore dell’umanità costringe ciascun uomo a porsi un forte interrogativo sull’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie messe in atto a danno di altre persone. Al contrario, sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il suo dolore, significa continuare l’opera di Cristo.

BIBBIA E SOFFERENZA

LA ROCCIA DA SCALARE

di GIANFRANCO RAVASI
(biblista)

«Perché soffro? È questa la roccia dell’ateismo». La famosa battuta del dramma La morte di Danton (1835) di George Buchner, uno dei più intensi scrittori dell’Ottocento tedesco, riassume in modo folgorante uno dei due approdi antitetici a cui conduce l’esperienza del dolore, in particolare del dolore innocente. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov ove Dostoevskij s’interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza?».
Per millenni l’umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l’antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del « Papiro di Berlino 3024″ (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’ »ateismo » che fa leva sul proprio dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (capitolo 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». »
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella ragione tenebrosa della sofferenza personale che si celebrano le apostasie, come affermava il pensatore agnostico francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella teodicea a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un Dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste). Si è appellato alla cosiddetta « teoria della retribuzione », per altro ben attestata anche nella Bibbia, come vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore francese Albert Camus osservava: «C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahmanesimo indiano per il quale il male è solo maya, cioè « illusione ». In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività.

Giobbe, l’impaziente
La cittadella fortificata del dolore, comunque, rimane non del tutto valicabile dalla ragione umana, anche se in essa possono aprirsi brecce e varchi. Il suo centro ultimo, come insegna la Bibbia che ora interrogheremo su questo tema, può essere chiuso e non necessariamente nell’assurdo, ma anche nel « mistero » di un progetto metarazionale e trascendente del quale possiamo al massimo intuirne una coerenza generale. C’è, però, un dato preliminare rilevante: un’ampia porzione del male diffuso nel mondo è riconducibile alla libertà e quindi al peccato dell’uomo. È, allora, necessario partire con l’esame di coscienza ideale che è proposto da Genesi 2-3 ove è protagonista appunto ha-adam, in ebraico « l’uomo » di tutti i tempi e di tutte le regioni del mondo. Al progetto di armonia con Dio, con la natura e con il suo simile, descritto come desiderio del Creatore nel capitolo 2, egli, nella sua libertà, decide di opporre un progetto alternativo di alienazione, violenza, sopraffazione, imperialismo (si vedano il capitolo 3 e la storia successiva di Caino, del diluvio e di Babele).
Il dolore dell’umanità, allora, in molti casi, prima di appellare al mistero dell’agire divino, deve trasformarsi in un atto di accusa che l’uomo lancia contro il proprio agire immorale. Prima di gridare a Dio protestando perché lascia morire di fame o senza cure molti bambini o ne fa nascere altri deformi, l’uomo deve interrogare il suo egoismo, le sue prevaricazioni, la sua politica, le sue oppressioni e ingiustizie, la sua scienza distruttrice.
Detto questo, bisogna però riconoscere che c’è – per usare un’espressione del commento a « Giobbe » del filosofo francese Philippe Nemo – un « eccesso di male » che deborda dall’azione e dalla responsabilità umana. È appunto il « libro di Giobbe » a porre sul tappeto questa interrogazione per ragioni strettamente teologiche, cioè per scoprire il vero volto di Dio. Infatti, il testo di Giobbe – equivocato come simbolo di pazienza (cfr. Gc 5,11) – è una ricerca lacerante della genuina realtà divina che nel dolore appare in modo scandalosamente sconcertante: «La rabbia di Dio mi perseguita per dilaniarmi, contro di me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi. Ero sereno e lui mi ha stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb 16,9.12-14). Dio, quando si ha la pelle torturata dal dolore, non è visto come un padre, ma come un imperatore trionfatore, come un arciere sadico che trafigge l’uomo senza pietà. In quei momenti l’unica preghiera è solo una domanda di tregua: «Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). «Inghiottire la saliva» è un curioso modo orientale per indicare un istante di respiro e di tregua.
Per l’uomo tormentato dalla sofferenza l’unico spiraglio liberatore sembra essere la morte: «Se devo sperare, è solo l’Ade la mia casa, nelle tenebre stenderò il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: Padre mio sei tu! Ai vermi: Madre mia, sorelle mie!» (17,13-14). Giobbe nel dolore si spoglia di qualsiasi appoggio umano e spirituale. Il suo itinerario è quello della fede pura e nuda, priva di facili appoggi, lontana dagli schemi freddi che gli amici teologi gli oppongono per spiegare il mistero del male. Ed è proprio attraverso la povertà assoluta del soffrire che Giobbe giunge al vero Dio. Verso di lui l’uomo apre un’offensiva processuale per farlo deporre in un’ideale assise giudiziaria perché giustifichi il suo strano infierire sull’uomo: «Ecco qui la mia firma. L’Onnipotente mi risponda! Il mio Rivale scriva il suo protocollo! Sono pronto a rendergli conto di tutti i miei passi; come un principe, mi presento davanti a lui» (31,35.37).
E sorprendentemente Dio accetta di fare la sua deposizione, imboccando la via del dialogo. Il Signore pronunzia due discorsi monumentali, che sono anche le pagine poeticamente più alte del libro. Da quelle strofe grandiose emerge il mondo delle meraviglie cosmiche (terra, mare, astri, costellazioni, aurore, leoni, ibis, gazzelle, struzzi, bufali, cavalli, camosci), ma anche tutta la sfera delle energie caotiche e negative che attentano allo splendore della creazione, energie personificate nei due mostri simbolici Behemot e Leviatan (capitoli 38-41). Giobbe è un pellegrino stupito tra questi misteri, di cui egli non sa sondare che qualche particella microscopica mentre Dio li percorre totalmente con la sua onniscienza e onnipotenza.
Giobbe, allora, comprende che, accanto alla piccola logica dell’uomo che riesce solo a comprendere e a sistemare piccoli frammenti della realtà e che quindi ha ragione di trovarsi a disagio di fronte al male, esiste un grande e superiore « progetto » di Dio, infinitamente più completo e invalicabile ai nostri piccoli schemi. Questo progetto divino è capace di collocare al suo interno anche gli aspetti che a noi risultano debordanti o inutili o dannosi. Gli amici di Giobbe si illudevano, come molti « consolatori », di conoscere questo progetto identificandolo con le loro facili spiegazioni teologiche, soprattutto con la già menzionata teoria della retribuzione per cui ogni dolore è generato da una colpa. Ma la realtà li smentiva, come smentiva anche Giobbe, quando credeva che non esistesse nessuna via per sistemare la sofferenza nell’arco della storia della salvezza. Il dolore non è, quindi, spiegato a Giobbe ma, incontrando il vero Dio, Giobbe comprende che il Dio infinito e sapiente potrà inquadrarlo nel suo supremo disegno di salvezza. Solo così Giobbe si abbandona alla mano divina.

Una teologia del dolore
Con Giobbe, dunque, si passa da un’antropologia della sofferenza a una vera e propria teologia. Egli è fermamente convinto che, proprio perché « mistero » terribile e supremo, la realtà del dolore non può essere « razionalizzata », addomesticata attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ’esah, una « razionalità » da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto. E Giobbe, allora, resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce « logicamente » la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la sua autentica fede.
In questa stessa linea nettamente teologica – che corre accanto a quella più « filosofica » della retribuzione, della sofferenza come catarsi e pedagogia dell’uomo (così l’ultimo amico di Giobbe, Elihu), del limite creaturale (Qohelet) – si colloca la figura del Servo sofferente del Signore cantato da Isaia in quattro carmi (capitoli 42; 49; 50; 53), figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo. Noi seguiremo ora il fondamentale quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Egli nasce come un virgulto in un deserto solitario, ma cresce e si configura come un essere «disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire». Ma quella sofferenza non è frutto della punizione di una colpa, come insegnava la citata tesi della retribuzione legata al binomio « delitto-castigo ». È il peccato degli altri che viene espiato da quel giusto. Il suo dolore è salutare per noi tutti, dà salvezza e pace, genera in noi pentimento e perdono.

Crocifisso, mosaico. Basilica di San Marco (Ve).
«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (versetti 4-5). La sua donazione è totale e docile come quella dell’agnello sacrificale che vede irrompere su di sé la spada del sacerdote. E ciò che attende il Servo è ormai la morte e la sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è buttato nella fossa dei perversi, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (versetto 9). Ma la morte non è la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva. Ora il Servo giusto contempla la luce, si sazia nella dolcezza della gloria che è il vedere Dio. «Il giusto mio servo giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità» (versetto 11). La cornice conclusiva del carme ribalta la vicenda e presenta l’innocenza del Servo, la cui sofferenza espiatrice ha liberato gli uomini peccatori.
La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio. Per questa pagina del Secondo Isaia, allora, il dolore ha in sé una forza insospettata, una fecondità straordinaria che aiuta il compiersi della storia della salvezza. Per vie misteriose il soffrire unisce intimamente a Dio e produce al tempo stesso solidarietà salvifica coi fratelli. Apparentemente la sofferenza sembra una maledizione, in realtà essa diventa un principio di vita, come avviene per i dolori del parto (cfr. Gv 16,21).

La compagnia di Cristo
Una delle grandi figure della letteratura spirituale e filosofica del ’900 è stata certamente Simone Weil, una donna di straordinaria intensità umana, di origine israelitica, impegnata nel mondo sociale e politico, vissuta lungamente in contatto con l’esperienza cristiana e autrice di opere folgoranti. In uno di questi suoi scritti la Weil osserva: «La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa, in quale epoca, non importa in quale Paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità». Queste parole ci invitano a portare il nostro viaggio all’interno del pianeta oscuro del dolore « secondo le Scritture », fino all’ultima tappa della Bibbia, quella del Nuovo Testamento.
Durante la sua vita terrena Cristo ha messo al centro della sua attenzione proprio il mistero del dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in compagnia di malati. C’è stato un teologo, René Latourelle, che ha scritto: «Eliminare i miracoli di Gesù dai vangeli sarebbe come immaginare l’Amleto di Shakespeare senza Amleto». E i miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari autopromozionali, destinati a sollecitare applausi e successi (quante volte Gesù impone il silenzio al malato guarito!), ma piuttosto orientati a liberare l’uomo dal male e dal dolore.
Emblematico di questa vicinanza del Cristo ai sofferenti è il suo atteggiamento nei confronti dei lebbrosi. Essi erano non solo dei malati ma degli scomunicati. Secondo le prescrizioni ufficiali della legge biblica dovevano vivere ai margini delle città, isolati dal loro passato e da ogni affetto; dovevano segnalare la loro presenza qualora sulla loro strada si fosse presentata una persona sana (Lv 14). La lebbra, infatti, era considerata – secondo la teologia « retribuzionistica » dell’Antico Testamento – frutto di una colpa gravissima di cui diventava punizione ed espiazione. Gesù, invece, spazzando via tutte queste remore, non solo si avvia sulla strada di questi « appestati », ma… Ascoltiamo la narrazione di Marco (1,41-42): «Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì».
Di fronte a un morbo, che oggi potremmo comparare al grande incubo dell’Aids, Gesù non si lascia coinvolgere in sofismi religiosi, non si fa tentare da preoccupazioni artificiose di autodifesa come fanno certi cristiani benpensanti, ma è pronto subito a condividere, a curare, ad amare. E, così, davanti a Gesù sfilano poveri, malati, angosciati, persone colpite da mali morali, fisici, sociali e psichici. Per tutti egli ha una parola e un gesto di speranza, proponendo così alla sua Chiesa di essere sempre accanto a chi soffre, anzi di considerare questi «fratelli più piccoli» la realtà più preziosa del Regno di Dio.
Possiamo, allora, dire che in Gesù è Dio stesso che viene incontro all’umanità sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva, destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. Nel ritratto della Gerusalemme celeste, simbolo del mondo che Cristo ha inaugurato e che noi dobbiamo collaborare a costruire, l’Apocalisse ci offre questo profilo: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,3-4).
Cristo, però, sperimenta non solo all’esterno, ma anche in se stesso la forza tenebrosa del dolore. Egli piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro; egli sa che «deve molto soffrire ed essere respinto e poi venire ucciso» (Mc 8,31). E soprattutto egli entra nella passione che è un itinerario continuo di sofferenze, è la « via dolorosa », la « via crucis » per eccellenza. È un’esperienza condotta nella solitudine, anche degli amici più cari («Non siete stati capaci di vegliare una sola ora?»), nel silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), nella lotta fisica dell’agonia (il sudore di sangue), nelle torture (flagellazione e incoronazione di spine), nella crocifissione, nella catastrofe finale della morte.
Un personaggio di un film di Bergman, il sagrestano di Luci d’inverno, al pastore in crisi di fede ricorda la scena della sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». Eppure era proprio passando attraverso il dolore e la morte, qualità « impossibili » a Dio, che Cristo diventava veramente uno di noi e poteva liberare e salvare attraverso la sua divinità la nostra miseria, il nostro limite, il nostro male.
In questa luce il dolore diventa il segno supremo d’amore e di fraternità del Cristo nei confronti dell’uomo. Non per nulla egli aveva ripetuto durante la sua vita terrena: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È illuminante, al riguardo, quanto scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg ove sarebbe stato, di lì a poco, impiccato: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza». La frase è certamente paradossale, ma coglie una dimensione fondamentale dell’Incarnazione: Cristo ci aiuta, capisce il nostro dolore, lo può fare perché l’ha incontrato e l’ha vissuto come noi. E questa solidarietà del Figlio di Dio è efficace e liberatrice.
In tale luce è comprensibile la dichiarazione di Paolo: «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Anzi, l’apostolo può scrivere questa frase sorprendente: «Io gioisco nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Questa dichiarazione non va intesa, ovviamente, nel senso che la passione di Cristo sia incompleta o che possa mancare qualcosa alla sua croce: la morte e la risurrezione di Gesù sono, infatti, l’evento definitivo della salvezza. Il credente soffre in comunione con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa, e anche il suo dolore acquista valore redentivo: la redenzione, infatti, pur compiuta nella morte e nella gloria di Cristo, si distende nel tempo e nello spazio dell’umanità.

Le lacrime nell’otre di Dio
Al termine di questo lungo viaggio nella galleria oscura della sofferenza, facciamo risuonare le Beatitudini di Cristo. Esse sembrano una voce lontana dal groviglio della vita, delle paure e delle sofferenze: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati… Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Mt 5,4; Lc 6,21). Queste parole, però, non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza». Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili. Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé.
Ma, proprio perché egli è il Figlio di Dio, attraverso il dolore e la morte, ha lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. L’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza. L’esperienza del dolore può essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci costringe e ci soffoca.

D. Bonhoeffer con dei ragazzi (1932).
L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro del nulla e del non-senso, ma la liberazione definitiva del male, come ci ricorda l’Apocalisse (21,4). Ora, durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nell’otre suo le lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Sal 56,9). Ci è, quindi, solidale e compagno di strada, in attesa di condurci verso la nuova creazione che redime ogni male. Noi non dobbiamo «avere speranza in Cristo soltanto in questa vita», perché, come osserva Paolo, «saremmo da compiangere più di tutti gli uomini»; dobbiamo, invece, sperare nella meta della storia, segnata già dalla Pasqua di Cristo: là «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,19.28).
Tutti coloro che, durante l’itinerario della storia, curano i malati e sono vicini a chi soffre non fanno che anticipare la meta del Regno di Dio, la costruiscono con le loro mani, accanto alle mani decisive di Dio. Sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il dolore, è una continuazione dell’opera di Cristo ed è un’anticipazione della liberazione offerta dal Regno. Tergere le lacrime dagli occhi dei sofferenti è compiere lo stesso gesto che Dio riserverà alla fine del tempo (Is 25,8; Ap 21,4). È in questa luce che a tutti costoro è riservata la citata benedizione di Cristo re: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Gianfranco Ravasi

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