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BENEDETTO XVI – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

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BENEDETTO XVI – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 4 gennaio 2006

Cantico cfr Col 1,3.12-20 Cristo fu generato prima di ogni creatura, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti Vespri – Mercoledì 4a settimana

1. In questa prima Udienza generale del nuovo anno ci soffermiamo a meditare il celebre inno cristologico contenuto nella Lettera ai Colossesi, che è quasi il solenne portale d’ingresso di questo ricco scritto paolino ed è anche un portale di ingresso in questo anno. L’Inno proposto alla nostra riflessione è incorniciato da un’ampia formula di ringraziamento (cfr vv. 3.12-14). Essa ci aiuta a creare l’atmosfera spirituale per vivere bene questi primi giorni del 2006, come pure il nostro cammino lungo l’intero arco del nuovo anno (cfr vv. 15-20). La lode dell’Apostolo e così la nostra sale a « Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 3), sorgente di quella salvezza che è descritta in negativo come « liberazione dal potere delle tenebre » (v. 13), cioè come « redenzione e remissione dei peccati » (v. 14). Essa è poi riproposta in positivo come « partecipazione alla sorte dei santi nella luce » (v. 12) e come ingresso « nel regno del Figlio diletto » (v. 13). 2. A questo punto si schiude il grande e denso Inno, che ha al centro il Cristo, del quale è esaltato il primato e l’opera sia nella creazione sia nella storia della redenzione (cfr vv. 15-20). Due sono, quindi, i movimenti del canto. Nel primo è presentato Cristo come il primogenito di tutta la creazione, Cristo, « generato prima di ogni creatura » (v. 15). Egli è, infatti, l’ »immagine del Dio invisibile », e questa espressione ha tutta la carica che l’ »icona » ha nella cultura d’Oriente: si sottolinea non tanto la somiglianza, ma l’intimità profonda col soggetto rappresentato. Cristo ripropone in mezzo a noi in modo visibile il « Dio invisibile ». In Lui vediamo il volto di Dio, attraverso la comune natura che li unisce. Cristo per questa sua altissima dignità precede « tutte le cose » non solo a causa della sua eternità, ma anche e soprattutto con la sua opera creatrice e provvidente: « per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… e tutte sussistono in lui » (vv. 16-17). Anzi, esse sono state create anche « in vista di lui » (v. 16). E così san Paolo ci indica una verità molto importante: la storia ha una meta, ha una direzione. La storia va verso l’umanità unita in Cristo, va così verso l’uomo perfetto, verso l’umanesimo perfetto. Con altre parole san Paolo ci dice: sì, c’è progresso nella storia. C’è – se vogliamo – una evoluzione della storia. Progresso è tutto ciò che ci avvicina a Cristo e ci avvicina così all’umanità unita, al vero umanesimo. E così, dentro queste indicazioni, si nasconde anche un imperativo per noi: lavorare per il progresso, cosa che vogliamo tutti. Possiamo farlo lavorando per l’avvicinamento degli uomini a Cristo; possiamo farlo conformandoci personalmente a Cristo, andando così nella linea del vero progresso. 3. Il secondo movimento dell’Inno (cfr Col 1, 18-20) è dominato dalla figura di Cristo salvatore all’interno della storia della salvezza. La sua opera si rivela innanzitutto nell’essere « capo del corpo, cioè della Chiesa » (v. 18): è questo l’orizzonte salvifico privilegiato nel quale si manifestano in pienezza la liberazione e la redenzione, la comunione vitale che intercorre tra il capo e le membra del corpo, ossia tra Cristo e i cristiani. Lo sguardo dell’Apostolo si protende alla meta ultima verso cui converge la storia: Cristo è « il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » (v. 18), è colui che dischiude le porte alla vita eterna, strappandoci dal limite della morte e del male. Ecco, infatti, quel pleroma, quella « pienezza » di vita e di grazia che è in Cristo stesso e che è a noi donata e comunicata (cfr v. 19). Con questa presenza vitale, che ci rende partecipi della divinità, siamo trasformati interiormente, riconciliati, rappacificati: è, questa, un’armonia di tutto l’essere redento nel quale ormai Dio sarà « tutto in tutti » (1Cor 15, 28) e vivere da cristiano vuol dire lasciarsi in questo modo interiormente trasformare verso la forma di Cristo. Si realizza la riconciliazione, la rappacificazione. 4. A questo mistero grandioso della redenzione dedichiamo ora uno sguardo contemplativo e lo facciamo con le parole di san Proclo di Costantinopoli, morto nel 446. Egli nella sua Prima omelia sulla Madre di Dio Maria ripropone il mistero della Redenzione come conseguenza dell’Incarnazione. Dio, infatti, ricorda il Vescovo, si è fatto uomo per salvarci e così strapparci dal potere delle tenebre e ricondurci nel regno del Figlio diletto, come ricorda questo inno della Lettera ai Colossesi. « Chi ci ha redento non è un puro uomo – osserva Proclo -: tutto il genere umano infatti era asservito al peccato; ma neppure era un Dio privo di natura umana: aveva infatti un corpo. Che, se non si fosse rivestito di me, non m’avrebbe salvato. Apparso nel seno della Vergine, Egli si vestì del condannato. Lì avvenne il tremendo commercio, diede lo spirito, prese la carne » (8: Testi mariani del primo millennio, I, Roma 1988, p. 561). Siamo, quindi, davanti all’opera di Dio, che ha compiuto la Redenzione proprio perché anche uomo. Egli è contemporaneamente il Figlio di Dio, salvatore ma è anche nostro fratello ed è con questa prossimità che Egli effonde in noi il dono divino.

È realmente il Dio con noi. Amen!

COMMENTO A COR 5,17-21 DI MARIE-NOËLLE THABUT

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COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT, DIMANCHE 6 MARS 2016

DEUXIEME LECTURE – DEUXIÈME LETTRE DE SAINT PAUL AUX CORINTHIENS  5, 17-21

(traduzione Google dal francese)

La difficoltà di questo testo è che siamo in grado di comprendere i due modi. Tutto può giocare sulla frase che si trova al centro Dio « cancellata per tutti gli uomini a causa dei loro peccati. » Questo può significare due cose: o prima ipotesi, fin dall’inizio del mondo, Dio contato i peccati degli uomini. Ma nella sua grande misericordia, ha ancora accettato di eliminare questo account a causa del sacrificio di Gesù Cristo. Questo è chiamato « sostituzione ». Gesù sarebbe venuto al nostro sito il peso di questo conto troppo pesante. Oppure, seconda ipotesi, Dio non ha mai fatto alcun conto del peccato dell’uomo e Cristo è venuto nel mondo per dimostrarlo. Per mostrarci che Dio è sempre amore e perdono. Come già detto il Salmo 102/103 ben prima della venuta di Cristo, « Dio mette via da noi i nostri peccati. » Ora tutto il lavoro della rivelazione biblica è proprio quello di farci passare dal primo al secondo ipotesi. Quindi dovremo porci tre domande: prima Dio mantiene i conti con noi? In secondo luogo, si può parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo? In terzo luogo, se Dio non fa i conti con noi, se non possiamo parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo, quindi come capire quale testo di Paolo? In primo luogo, non tiene conto di Dio con noi? Un contabile Dio è un’idea che nasce spontaneamente in mente probabilmente perché siamo un po ‘noi stessi contabili contro gli altri? Questa idea è stato senza dubbio quello del popolo eletti per la prima storia dell’Alleanza; non c’è da stupirsi: per che l’uomo scopre Dio col suo vero volto, Dio deve essere rivelato a lui. E vediamo Domenica dopo Domenica, il lavoro della rivelazione biblica. Cominciamo con Abramo, Dio non ha mai parlato di peccato con lui; Le disse Alleanza promessa di benedizione, progenie: troviamo la parola « merito » da nessuna parte. Le note della Bibbia « Abramo ebbe fede nel Signore e gli fu accreditato come giustizia » (Genesi 15: 6). La fede, la fiducia è l’unica cosa che conta. Il nostro comportamento seguirà. Dio non è nei conti: questo non significa che ora possiamo fare nulla; manteniamo la nostra piena responsabilità nella costruzione del Regno. Oppure, ricordiamo le successive rivelazioni di Dio a Mosè, in particolare il « Signore misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia »; e poi David che ha scoperto (in occasione del suo peccato appunto) che il perdono di Dio precede anche il nostro pentimento. O quella magnifica frase in cui Isaia ci dice che Dio sarà sempre sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, proprio perché è solo il perdono per i peccatori. (Is 55: 6-8) Impossibile elencare tutto, ma l’Antico Testamento già capito che Dio è la compassione e il perdono e non dimenticare che il popolo di Israele, chiamato Dio « Padre » di fronte a noi. La favola di Jonas esempio è stato scritto solo per noi, non dimenticare che Dio è interessato al destino di questi pagani di Ninive, nemici ereditari del suo popolo. Seconda domanda, si può parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo? Ovviamente, Dio non tener conto, in modo da quindi non abbiamo nessun debito da pagare, non abbiamo bisogno di Gesù ci ha la precedenza; D’altra parte, quando i testi del Nuovo Testamento parla di Gesù, si parla di solidarietà, ma senza sostituzione; e inoltre, se qualcuno potesse fare per noi, dove sarebbe la nostra libertà? Gesù non agisce al posto nostro; non sostituisce noi; non è il nostro rappresentante; Gesù è il nostro fratello maggiore, il « primogenito », come dice Paolo, il nostro pioniere, egli apre la porta, va a nostra testa; si mescola con i peccatori che chiedono il battesimo di Giovanni; sulla Croce egli accetterà di morire a causa della odio per gli uomini: egli si avvicina a noi in modo che possiamo avvicinarci a lui. Terza domanda: ma allora, come capire il nostro testo Paolo oggi? Prima condanna, Dio non ha mai fatto alcun conto i peccati degli uomini; seconda convinzione, Cristo è venuto nel mondo per dimostrarlo. Come disse a Pilato: « Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità ». Vale a dire, per mostrarci che Dio è sempre amore e perdono. Quando Paolo dice « cancellati tutti gli uomini a causa dei loro peccati », cioè nella nostra testa che cancella idee sbagliate circa il nostro Dio commercialista. I rimbalzi domanda: perché Gesù è morto? Cristo è venuto a testimoniare questo Dio d’amore tra i suoi contemporanei; si asciugò il rifiuto di quella rivelazione; e ha accettato di morire per aver troppo audaci, sono stato troppo imbarazzante per le autorità di posto che conoscevano meglio di lui era Dio. Morì di questo orgoglio degli uomini che hanno trasformato in odio, senza grazie. Anche all’interno di questo sfogo di orgoglio, ha sofferto l’umiliazione; in odio, aveva solo parole di perdono. Questo è il vero volto di Dio, infine, esposto allo sguardo degli uomini. « Chi ha visto me ha visto il Padre » (disse a Filippo, Giovanni 14: 9). Si capisce meglio allora la frase: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio per noi il peccato umano identificato, in modo che per mezzo di lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. « Sul volto di Cristo sulla croce, contempliamo fino a che punto l’orrore del peccato umano; ma fino a che punto sarà la dolcezza e il perdono di Dio. E questo può anche contemplare la nostra conversione. « Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » già detto Zaccaria (Zc 12,10), tratto da San Giovanni (Gv 19, 37). Così i nostri cuori di pietra finalmente diventano cuori di carne, come dice Ezechiele, vale a dire, piena di dolcezza e di perdono di simile. Per ora rivolgersi a diventare i nostri ambasciatori per il messaggio.

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

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BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

1 Non voglio che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3 tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4 tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5 Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto. 6 Ora ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 10 Fratelli, non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. 11 Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12 Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

COMMENTO 1 Corinzi 10,1-6.10-12 Il pericolo dell’idolatria Uno dei problemi sottoposti a Paolo dai cristiani di Corinto era quello riguardante le carni sacrificate agli idoli (1Cor 8-10) Nella sua risposta l’apostolo, pur apprezzando la «conoscenza» di chi si ritiene libero di mangiare questo tipo di carne, sottolinea anzitutto l’esigenza di rispettare la coscienza dei fratelli più deboli, i quali credono che ciò non sia permesso (1Cor 8); come punto di riferimento presenta poi il suo esempio personale di dedizione totale ai fratelli (1Cor 9); ritornando al tema della sezione, egli mette in luce il pericolo dell’idolatria (1Cor 10,1-13) e infine viene alle direttive concrete (1Cor 10,14-33). La liturgia propone il testo in cui Paolo mette in luce il rischio di cadere nell’idolatria, sottolineando che esso può derivare anche da un comportamento troppo libero nel mangiare la carne sacrificata agli idoli, soprattutto quando questo gesto è collegato con il culto dei falsi dèi. Egli motiva questa affermazione con una riflessione sulla storia di Israele (vv. 1-6), ricavando poi da essa insegnamenti e ammonizioni (vv. 7-13). Il metodo a cui si ispira è quello giudaico del midrash, che gli permette di rileggere il passato in funzione della nuova situazione in cui si trovano i credenti in Cristo.

La storia di Israele (vv. 1-6). Al fine di mettere in guardia i corinzi, Paolo presenta anzitutto in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo la formula iniziale («Non voglio infatti che ignoriate, fratelli») con la quale sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire e al tempo stesso indica l’inizio di una nuova riflessione, Paolo prosegue: «I nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare» (vv. 1-2). L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede. Ora tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un «essere battezzati» (baptisthênai, essere immersi) nella nube e nel mare. L’idea che gli israeliti fossero immersi nella nuvola non è attestata nel libro dell’Esodo, dove si dice semplicemente che la nube li precedeva e li seguiva (cfr. Es 13,21); essa viene però suggerita nel Sal 105,9 («Dio stese una nube per proteggerli»), e in Sap 19,7 («Si vide la nube coprire d’ombra l’accampamento»). Nessun accenno all’immersione nel mare si trova invece nell’AT, dove si parla soltanto di un passaggio degli israeliti all’asciutto, dopo che le acque si erano ritirate (cfr. Es 14,29): bisogna dunque pensare che Paolo ha dato una sua interpretazione personale dell’esodo, o che conosceva una tradizione popolare andata perduta che esprimeva in quel modo gli eventi allora capitati. Tuttavia è chiaro che se egli descrive in questo modo gli eventi dell’esodo, lo fa perché appaia che i doni ricevuti dai padri sono un’anticipazione del battesimo cristiano. Questo battesimo simbolico si è verificato «in rapporto a (eis, verso) Mosè»: ciò vuol dire che l’immersione nella nube e nel mare significa la solidarietà con il condottiero dell’esodo; ciò richiama naturalmente il battesimo cristiano, che appunto era amministrato «in (eis) Cristo Gesù» (cfr. Rm 6,3). Il rapporto degli ebrei con Mosè prefigurava dunque l’incorporazione a Cristo effettuata nel battesimo cristiano e ne anticipava la realtà salvifica. Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale Paolo prosegue: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (vv. 3-4). Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche «pane del cielo» (Sal 78,24; cfr. Sap 16,20), nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (cfr. 1Cor 11,17-34). La bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6). Riprendendo una leggenda rabbinica (Tosefta Sukka 3,11), Paolo dice che questa roccia seguiva gli israeliti nel deserto. Inoltre, ispirandosi forse al fatto che essa era stata identificata da Filone di Alessandria con la Sapienza (Allegorie delle leggi 2,86), afferma che la roccia era il Cristo, da lui stesso già precedentemente designato come Sapienza di Dio (cfr. 1Cor 1,24.30): lo stesso Cristo dunque era già presente nell’esodo come fonte di salvezza per gli israeliti. L’esperienza della salvezza fatta da Israele non ha dunque nulla da invidiare a quella dei cristiani. «Ma, soggiunge Paolo, la maggior parte di loro non fu gradita a Dio, e perciò furono sterminati nel deserto» (v. 5). Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di collaborazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque insinuare che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (cfr. 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve. Dopo aver descritto l’esperienza degli ebrei, Paolo soggiunge: «Ora ciò avvenne come esempio (typos) per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono» (v. 6). Il termine greco typos significa impronta, e di conseguenza segno, figura, esempio. La continuità della storia della salvezza fa sì che gli errori del passato divengano esempio e figura di quanto può capitare anche ai credenti in Cristo, se non si dissociano dalla mentalità da cui Israele si è lasciato dominare. Il peccato da evitare è il desiderio egoistico proibito dal decalogo (Es 20,17), che ha spinto gli israeliti nel deserto a chiedere carne di cui sfamarsi (cfr. Nm 11,4.34): questo stesso desiderio potrebbe ora, anche per i corinzi, aprire la strada all’idolatria.

Ammonizioni (vv.10-12). Gli eventi che hanno contrassegnato la liberazione di Israele non sono solo figure della salvezza già attuata da Cristo e trasmessa attraverso i sacramenti, ma rappresentano anche severe ammonizioni perché i cristiani non commettano gli stessi peccati di cui si sono macchiati i loro progenitori nella fede. Paolo ne menziona quattro, di cui i prime tre sono omessi nel brano liturgico: l’idolatria, la fornicazione e la tentazione di Dio e la mormorazione. All’idolatria, di cui è un esempio l’adorazione del vitello d’oro, si riferisce la frase: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi» (v. 7; cfr. Es 32,6): in realtà è proprio l’idolatria il peccato più grave in cui i corinzi potrebbero cadere mangiando carni sacrificate agli idoli. La fornicazione (porneia) è collegata con l’episodio del culto di Baal-Peor, raccontato nel libro dei Numeri, che ha provocato lo sterminio di ventitremila persone (v. 8; cfr. Nm 25,1-9). La tentazione di Dio si rifà alla richiesta di cibo nel deserto, a cui fa seguita come punizione la morsicatura da parte dei serpenti (v. 9; cfr. Nm 21,5-6). Infine, e qui riprende il testo liturgico, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: «Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore» (v. 10). La mormorazione è collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio (v. 10; cfr. Nm 17,6-15). Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato nel v. 6, commentando: «Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio (typikôs), e sono state scritte per nostro ammonimento (nouthesian), di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi» (v. 11). Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. «Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (v. 12). La tentazione resta, ma il credente ha il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere esente da cadute. L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dalla liturgia, con la quale intende incoraggiare i suoi corrispondenti: non li ancora ha sorpresi nessuna tentazione che non sia semplicemente «umana», cioè proporzionata alle loro forze; Dio è fedele e non permette che essi siano tentati con una intensità che supera le loro forze ma, con la tentazione, dà anche il modo di uscirne e la forza per superarla (v. 13). La grazia di Dio è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.

Linee interpretative Nel c. 8 Paolo aveva dato al problema delle carni sacrificate agli idoli una soluzione improntata da un lato alla libertà e dall’altro al rispetto della coscienza, sia la propria, che deve essere seguita quando proibisce qualcosa come peccaminoso, sia quella degli altri, quando si comportano conformemente ad essa. Il riferimento alla coscienza propria e altrui rappresenta il vero e unico limite della propria libertà. Tuttavia esiste anche l’obbligo, sottolineato in questo brano, di non porre gesti che in se stessi possono avere conseguenze dannose per chi li compie, anche se ciò a prima vista non appare. In questa luce deve essere considerata la partecipazione ad atti di culto veri e propri nell’ambito sociale in cui i cristiani vivevano. Rifacendosi all’esempio degli israeliti Paolo mette in luce come, in certe circostanze, il mangiare la carne sacrificata agli idoli può comportare il rischio di cadere, contrariamente alle proprie intenzioni, nel peccato stesso di idolatria. È bene comunicare alla vita dei propri concittadini, ma vi sono dei limiti che non è conveniente oltrepassare. Confidare troppo nelle proprie forze significa tentare Dio, e questo, insieme alla fornicazione e alla mormorazione, è già un peccato che può separare da lui. La tentazione di lasciarsi coinvolgere nell’idolatria diffusa nel proprio ambiente era forte, ma Paolo sottolinea che Dio, permettendo la tentazione, dà anche la possibilità di resisterle. Al tempo di Paolo questa direttiva esigeva dai cristiani un forte isolamento dal resto della società proprio in quei momenti di culto o di festa nei quali era più facile e spontaneo solidarizzare. In pratica però si trattava di sganciarsi da una mentalità “idolatrica” che pervadeva i più disparati settori della società: non solo quindi l’ambito più specificamente religioso, ma anche quelli dell’economia e della politica, che più in profondità erano espressione di un’idolatria pratica, consistente nell’ingiustizia e nello sfruttamento dell’altro. Il farsi tutto a tutti, di cui Paolo aveva parlato appena prima, ha dunque dei confini che non si possono valicare. Se il credente nella vita sociale è disposto ad adeguarsi senza riserve all’idolatria del consumismo, del potere e dei soldi, la sua fede si riduce a una semplice etichetta, che non trasforma in profondità la sua esistenza, e che quindi rappresenta una formalità inutile. >

EBREI 9,24-28; 10,19-23 – TESTO E COMMENTO BIBLICO

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EBREI 9,24-28; 10,19-23 – TESTO E COMMENTO BIBLICO

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola, ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero in pienezza di fede, con il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.

COMMENTO
Ebrei 9,24-28; 10,19-23
L’efficacia del sacerdozio di Cristo
Il brano è situato nella parte centrale dello scritto in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo (Eb 5,11 – 10,39). Il centro di questa sezione consiste nella proclamazione di Cristo come Sommo sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11). Essa è preceduta da un invito all’attenzione e alla generosità (5,12-6,20) e da un approfondimento su Gesù sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek (7,1-28). Per illustrare la perfezione di questo sacerdozio, esso viene confrontato con quello antico, terrestre prefigurativo (8,1-6), espressione di un’alleanza imperfetta e provvisoria (8,7-13) e dotato di istituzioni inefficaci (9,1-10). Il sacerdozio di Gesù invece comporta nuove istituzioni da lui rese efficaci (9,11-14), una nuova alleanza capace di operare la purificazione (9,15-23) e un nuovo culto che apre l’accesso al santuario celeste (9,24-28), causa di salvezza eterna (10,1-18). Questa sezione termina con un invito alla fedeltà e all’impegno (10,19-39)
Il testo proposto dalla liturgia è preso dal brano che descrive efficacia del sacerdozio di Cristo in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste; ad esso è aggiunta una parte dell’esortazione finale.
Ingresso di Cristo nel «santuario» celeste (9,24-28)
Nella prima parte del brano liturgico (vv. 24-26) la «perfezione» del sacrificio di Cristo viene identificata nel fatto che egli ha avuto accesso a Dio nel santuario «celeste». Ispirandosi a Es 25,9, l’autore dello scritto ritiene infatti che il vero santuario si trovi in cielo, dove risiede Dio, mentre il Santo dei santi, cioè la parte più sacra del tempio di Gerusalemme, ne era solo una «figura». Inoltre egli afferma che Cristo ha offerto non il sangue degli animali, ma se stesso a Dio «una volta sola, alla pienezza dei tempi». Siccome egli è il Figlio, incaricato di portare a compimento il piano salvifico di Dio (cfr. 4,8), la sua offerta volontaria ha avuto un’efficacia infinita, eliminando una volta per tutte i peccati. Ciò gli toglie la necessità di entrare nel santuario ogni anno, come era costretto a fare l’antico sommo sacerdote.
Infine l’accesso definitivo al Padre consente a Cristo di essere continuamente «presente» al suo cospetto «in nostro favore». Proprio per questo il suo sacerdozio è ancora in funzione: Cristo non solo ci ha salvato, ma continua a salvarci. L’autore ribadisce in forma ancora più sintetica quanto in precedenza aveva già detto contrapponendo il sacerdozio di Cristo a quello levitico: «Quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,23-25).
L’affermazione riguardante il carattere unico e definitivo del sacrificio di Cristo viene poi ribadita mediante un’analogia ripresa dall’esperienza umana (vv. 27-28). La morte, strettamente collegata con il «giudizio», è presentata qui come un evento definitivo in quanto, da una parte, chiude l’esperienza terrena dell’uomo e, dall’altra, rappresenta il momento cruciale in cui viene fatta una valutazione inappellabile della vita ormai conclusa. Secondo l’autore tutto ciò si verifica, a un livello più alto, in Cristo: la sua morte è definitiva soprattutto perché comporta la liberazione di tutti gli uomini dal peccato. E appunto per questo quando «apparirà una seconda volta» per il giudizio, la sua venuta non avrà più a che fare con il peccato. Il suo «giudizio» servirà solo a separare coloro che «lo aspettano per la loro salvezza» da coloro che l’hanno respinto. Implicitamente dunque si mettono in guardia i credenti dal trascurare la «salvezza» che egli ha offerto loro «una volta per tutte». In seguito l’autore li avvertirà che, se peccheranno dopo aver ricevuto la verità, rimarrà loro solo «una terribile attesa del giudizio» (10,27): infatti «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (10,31). La salvezza, guadagnata a così caro prezzo da Cristo, è troppo grande perché possa essere sottovalutata o respinta.
L’ingresso dei credenti (10,19-23)
Nell’esortazione finale della sezione centrale della lettera l’autore ritorna sul messaggio enunciato poco prima e ne tira le conseguenze per i lettori. Egli sottolinea che Gesù, sommo sacerdote, è giunto realmente al cospetto di Dio mediante il suo sangue. Il suo ingresso ha avuto luogo attraverso il velo, che rappresenta simbolicamente la sua carne. Così facendo ha aperto la strada ai credenti, perché possano, guidati da lui, presentarsi di fronte a Dio e diventare pienamente partecipi dei beni promessi. Questo ingresso per i credenti in Cristo richiede un fede intensa e una purificazione interiore che deriva da un bagno purificatore che si identifica con il battesimo. Inoltre è richiesta una speranza che non vacilla, perché si basa su uno che per definizione è fedele, cioè Dio. In questa prospettiva il sacerdozio di Cristo diventa la premessa di un sacerdozio esteso a tutti i credenti, che a loro volta lo eserciteranno in favore di tutti gli uomini.

Linee interpretative
L’autore non elabora le sue intuizioni in chiave dottrinale, ma guida i suoi lettori a toccare con mano l’efficacia dell’agire sacerdotale di Cristo, confrontandolo con il culto del tempio che, in quanto prefigurativo e ripetitivo, appare ormai inefficace. L’agire sacerdotale di Cristo culmina sulla croce, dove egli offre in sacrificio non il «sangue di capri o di tori», ma il «proprio sangue» (9,11-19), sotto l’impulso di «uno spirito eterno» (9,19), che è lo spirito dell’amore. L’offerta di Cristo è pienamente efficace, perché in essa si fondono il dono di Dio all’umanità e la risposta umana ispirata dalla fede. Proprio a causa della sua capacità di rappacificare definitivamente, «una volta per sempre», l’uomo con Dio, l’offerta sacrificale di Cristo non può essere che unica; essa si differenzia quindi radicalmente dai sacrifici della prima alleanza, i quali con la loro ripetitività dimostravano di non raggiungere lo scopo per cui erano fatti. L’espressione «una volta per sempre» (9,12.26.27.28) sottolinea efficacemente la ricchezza che è propria di ciò che ha valore « definitivo », e quindi non è reiterabile.
Il sacrificio unico e definitivo di Cristo è collegato con l’idea di una nuova «alleanza», la quale viene conclusa in forza del suo sangue versato sulla croce. Questa alleanza, proprio perché nasce dall’amore e tende a creare una risposta di amore, viene descritta sulla falsariga di quella annunziata dal profeta Geremia, le cui parole sono ricordate a più riprese nel corso della lettera (Ger 31,31-34; cfr. Eb 8,6-13; 10,15-18). Cristo appare così come il «mediatore» di una migliore alleanza, la quale si distingue dalla precedente in quanto le sue leggi sono scritte non su tavole di pietra, ma nel «cuore» vivo degli uomini, e come tale esige la santità del cuore e della vita.
L’efficacia del sacrificio di Cristo è descritta, ad analogia di quanto era compiuto dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione, come un solenne ingresso nel santuario celeste. Con questa potente immagine l’autore mostra come Cristo, con il suo sacrificio, ha annullato la distanza che separa l’uomo dal Dio inaccessibile e santissimo; così facendo egli ha realizzato il desiderio più profondo dell’uomo che, pur essendo confinato nella sua realtà terrestre e peccaminosa, anela ad essere liberato dai suoi limiti, per potersi ricongiungere con l’infinito da cui deriva. In forza della mediazione sacerdotale di Cristo questa possibilità è offerta a tutti e per sempre.
A motivo del suo ingresso nel cielo, al cospetto di Dio, Cristo continua ad esercitare un sacerdozio «celeste»: è chiaro che questo non consiste nell’offrire a Dio nuovi sacrifici, ma semplicemente nel prolungare all’infinito gli «effetti» salvifici dell’unico sacrificio della croce. Il sacerdozio di Cristo trova il suo necessario adempimento nella vita di fede dei credenti: «Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (cfr. Eb 13,15). È questo, anche se l’autore non usa l’espressione, il «sacerdozio regale» che abilita i cristiani a «offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» (cfr. 1Pt 2,5). L’unico sacerdozio di Cristo non esclude nella comunità dei credenti la presenza di doni spirituali e di ministeri (cfr. Ef 4,11-13), ma esige che siano esercitati in una dimensione sacerdotale analoga alla sua, cioè in spirito di totale e gratuita offerta di sé a Dio e ai fratelli.

2CORINZI 5,17-21 – COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=2%20Corinzi%205,18-21;%206,1-2

2CORINZI 5,17-21 – COMMENTO

Fratelli, 17 se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. 18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19 È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.

COMMENTO
2 Corinzi 5,18-21; 6,1-2

Il ministero della riconciliazione
All’interno della prima parte della lettera (cc. 1-7), nella quale Paolo ricorda le incomprensioni che avevano offuscato il suo rapporto con la comunità e la riconciliazione avvenuta, si situa una prima sezione apologetica (2Cor 2,14-7,4). In essa si possono distinguere quattro parti: 1) il ministero della nuova alleanza (2,14-4,6); 2) tribolazioni e speranze dell’apostolo (4,7-5,10); 3) l’annunzio della riconciliazione (5,11-6,10); 4) conclusione (6,11-7,4). Nella terza parte di questa sezione Paolo si presenta come apostolo spinto dall’amore di Cristo a compiere la sua opera di evangelizzazione (5,11-17); poi prosegue mettendo in luce la sua opera a favore della riconciliazione (5,18-6,2) e infine descrive il suo comportamento apostolico (6,3-10). Il testo liturgico riporta il brano centrale di questa parte della sezione. In essa Paolo si presenta anzitutto come ministro della riconciliazione offerta da Dio (5,18-20), spiega poi il ruolo di Cristo (5,21) e infine invita i suoi lettori ad accogliere il dono di Dio (6,1-2).

La riconciliazione (5,18-20)
L’amore di Cristo che spinge Paolo nell’opera dell’evangelizzazione (cfr. v. 14) fa parte di un grande processo di riconciliazione: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (v. 18). Il soggetto di questa frase è il pronome indefinito «tutto questo» (ta panta tutte le cose). Esso si riferisce al contesto letterario precedente (vv. 14-17), in cui Paolo ha evocato sinteticamente la morte e la risurrezione di Cristo, definendo gli effetti salvifici universali di tale evento in termini di « nuova creazione » (cfr. v. 17). Tutta l’opera salvifica di Dio viene presentata come una riconciliazione, di cui il protagonista non è Paolo, ma Dio stesso. Paolo è solo un intermediario, al quale è stato affidato il «ministero» (diakonia) della riconciliazione, cioè il compito di rendere attuale ed efficace questo dono divino per i suoi ascoltatori.
L’origine divina della riconciliazione viene ribadita nel versetto successivo: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» (v. 19). Normalmente è il colpevole che prende l’iniziativa di riconciliarsi con chi ha offeso; qui invece è l’offeso che fa il primo passo per riconciliare a sé colui che ha sbagliato. Egli lo fa per mezzo di Cristo «non imputando (logizô) agli uomini le loro colpe (paraptômata)» In un altro contesto Paolo parla della tolleranza e pazienza di Dio (Rm 2,4), che si è esercitata precisamente nei confronti dei peccati passati (3,25-26). In altre parole Dio non ha punito le colpe degli uomini perché intendeva perdonarli per mezzo di Cristo. Perciò ha affidato a Paolo la «parola» (logon) della riconciliazione: è con la parola dunque che egli svolge il suo servizio all’opera divina della riconciliazione. Egli riprende questo concetto sottolineando: «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (v. 20). L’apostolo è un ambasciatore, un porta parola, attraverso il quale è Dio stesso che esorta. Il suo compito consiste esclusivamente nel far sì che i suoi ascoltatori si lascino riconciliare (katallagête, all’aoristo passivo) con Dio: ad essi dunque non spetta prendere l’iniziativa, ma si richiede che accettino il dono di Dio, affinché porti frutto in loro: è questo il ruolo per eccellenza della fede.

Il ruolo di Cristo (v. 21)
Nei versetti precedenti Paolo aveva accennato al ruolo di Cristo in quanto primo intermediario della riconciliazione offerta da Dio. Ora spiega come egli ha assolto il suo compito: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (v. 21). La salvezza si è dunque verificata mediante uno scambio. Dio «fece peccato» (hamartian epoiesen) precisamente il Cristo, il quale «non conobbe peccato», cioè non fece mai l’esperienza del male morale. Ma agendo così nei suoi confronti, Dio è intervenuto a favore degli uomini (hyper hêmôn, per noi, a nostro favore), come Paolo spesso ripete nel suo epistolario; è così che gli esseri umani hanno ricevuto in dono la possibilità di diventare giusti davanti a Dio. Certamente Cristo non commise alcun peccato.
Cristo dunque è diventato «peccato» perché, avendo assunto integralmente la condizione umana, ha sperimentato in sé non solo la fragilità, le prove, le tentazioni di ogni uomo, ma anche le conseguenze negative del peccato umano. In Rm 8,3 Paolo preciserà che Dio ha inviato il Figlio non con la «carne di peccato» né con il «peccato» in quanto tale, ma «in somiglianza di carne di peccato» (en homoiômati sarkos hamartias). Di conseguenza la giustizia di Dio passa agli uomini non solo «per mezzo di Cristo» (dia Christou, 5,18b), ma anche «in lui» (en autôi, v. 21c; cfr. v. 19a: en Christôi). È «in» Cristo, diventato solidale con i peccatori, che si attua la salvezza divina, che conseguentemente si estende a tutti coloro che credono in lui. Paolo non intende quindi l’intervento salvifico di Dio mediante Cristo nei termini di una «espiazione vicaria», in forza della quale egli prenderebbe su di sé la pena dovuta ai peccatori, ma come una solidarietà che Dio instaura con Cristo e per mezzo suo estende ai peccatori.

Esortazione (6,1-2)
Dopo aver messo in luce l’opera di Dio in Cristo, di cui egli è l’araldo, Paolo attua il suo compito direttamente con i destinatari della sua lettera: «E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (v. 1). Proprio in quanto collaboratore di Dio Paolo esorta i corinzi di far sì che il dono divino non cada su una terra sterile che non produce alcun frutto. Certo l’iniziativa è di Dio, ma la parte dell’uomo è insostituibile: neppure Dio può scavalcare la libertà umana. A sostegno di questo invito l’apostolo fa ricorso alle Scritture: «Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (v. 2). Il testo biblico di cui egli si serve è ricavato dal Deuteroisaia, che in appendice al secondo carme del Servo di JHWH, dice che Dio lo ha ascoltato e lo ha aiutato nel tempo della misericordia e della salvezza, cioè gli ha dato la possibilità di impegnarsi fino in fondo per la liberazione degli esuli che si trovano in Mesopotamia, guidandoli efficacemente sulla via della conversione e del ritorno nella loro terra (Is 49,8). Paolo commenta quindi che il momento favorevole nel quale si attua la salvezza è proprio questo, contrassegnato dalla morte di Cristo per noi.

Linee interpretative
La salvezza è vista da Paolo come una grande opera di riconciliazione che coinvolge tutta l’umanità peccatrice. Il soggetto dei diversi aspetti dell’azione salvifica è Dio Padre (ho Theos), anche se Egli non è sempre il soggetto grammaticale di ogni frase di questa unità letteraria. Infatti nel v. 18a si dice che l’intervento salvifico viene interamente da Dio (ek tou Theou, da Dio). Nel v. 20a il verbo principale presbeuomen («fungiamo da ambasciatori») ha per soggetto gli apostoli, ma il soggetto divino è ripreso nella frase subordinata immediatamente successiva: «Come se Dio esortasse per mezzo di noi » (v. 20b). Infine, nel v. 20bc («(Vi) preghiamo per Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!»), l’imperativo aoristo passivo katallagête indica che i protagonisti della riconciliazione non sono i corinzi (soggetto grammaticale), perché, in realtà, è sempre Dio che interviene attraverso gli apostoli per consentire la riconciliazione degli uomini con sé. Costoro, comunque, non rimangono meramente passivi di fronte all’azione divina, come lascia intendere il carattere esortativo della frase: « Lasciatevi riconciliare con Dio! ».
Dio ha offerto agli uomini la possibilità di riconciliarsi con sé «per mezzo di Cristo» (v. 18b). Più precisamente, la riconciliazione con Dio è avvenuta grazie alla morte di Cristo, menzionata in modo esplicito nei vv. 14-15 ed evocata in maniera implicita nel v. 18b. Cristo è morto solidale con tutti gli uomini e a loro favore (cfr. 2Cor 5,14-15a). Perciò, Cristo ora «vive per (la) potenza» (13,4b) del « Dio che risuscita i morti » (1,9c). È questo il primo passo della riconciliazione, in quanto Gesù ha vissuto fino in fondo il suo dono d’amore al Padre, partecipando pienamente all’esistenza umana, e lottando per la liberazione da tutti i mali che, separando gli uomini tra di loro, li separano anche da Dio. Nell’umanità di Gesù Cristo si è realizzato quindi un processo che dal peccato ha fatto sgorgare la giustizia, e il primo a beneficiarne è stato Gesù stesso. La sua umanità è trasformata in un’umanità gloriosa e spirituale, che, attraverso il suo Spirito, continua ad agire nella storia umana e, in particolare, nella Chiesa. In questo senso, «il Signore è lo Spirito» (3,17a), che dona la vita a tutti i credenti (cfr. 1Cor 15,45), avendoli resi giusti «in» se stesso (2Cor 5,21c). Di conseguenza, ne beneficiano anche gli altri esseri umani che aderiscono a lui nella fede, attuata nel battesimo.
Nulla dunque è più estraneo alla mentalità di Paolo dell’immagine di un Dio arbitrario e ingiusto, che, per salvare dei peccatori, ha sacrificato un giusto, il quale, per di più, è il Figlio suo. Al contrario Dio ha gradito fino in fondo il cammino di solidarietà di Cristo, il giusto per eccellenza, con tutta l’umanità, e gli ha conferito il compito di trasformare in creature nuove tutti coloro che aderiscono a lui. Lui solo è capace, con il suo esempio, di smuovere un’umanità corrotta e divisa. Perciò la riconciliazione con Dio, che Paolo mette qui in primo piano, comporta inevitabilmente anche una riconciliazione tra persone che in Cristo trovano la loro unità. Anzi è proprio questa unità che manifesta la riconciliazione con Dio e ne mostra lr potenzialità nella storia umana.

BENEDETTO XVI – (PER LA SECONDA LETTURA 1COR 15, 20.26-28)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081105_it.html

BENEDETTO XVI – (PER LA SECONDA LETTURA 1COR 15, 20.26-28)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 novembre 2008

SAN PAOLO (11). L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) – così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.
E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

 

SECONDA LETTURA – ROMANI 12: 1-2 – MARIE NOËLLE THABUT

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut/

LES COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT

(traduzione Google, il link è al testo francese)

SECONDA LETTURA – Romani 12: 1-2

« Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio »: che meravigliosa introduzione al tema; finora, alla fine, Paolo ha parlato di questo, « la tenerezza di Dio ». I primi undici capitoli della lettera ai Romani trattare questioni apparentemente dottrinali; i grandi temi della teologia di Paolo è stato discorsi lunghi e profondi: la forza della grazia, l’universalità del peccato, la giustificazione per fede, il mistero pasquale, l’azione dello Spirito, la salvezza promessa e dato a tutti. . Ma tutto si riduce a questo singolo argomento, la tenerezza di Dio
Ora, come in tutte le sue lettere, Paolo prende i suoi lettori alle conseguenze del suo insegnamento, per la scoperta di questa immensa tenerezza di Dio può solo distruggere, o meglio ora irrigare tutte le nostre vite. « Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio … ». Cosa dirà ora è in stretta connessione con quello che ha scritto finora, soprattutto nelle ultime righe dell’ultimo capitolo; Vi ricordo di poche parole: « Dio vuole avere pietà di tutti … » e subito dopo l’inno di ringraziamento che leggiamo Domenica scorsa: « Quanto in profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Le sue decisioni sono insondabili le sue vie sono imperscrutabili!  »
Così Paolo dice, non vi è alcuna esitazione: che Dio ha tanto sorprendente con la sua tenerezza e desiderio di salvare tutta l’umanità, senza eccezione, la sua incredibile potenza del perdono, una risposta è possibile: il abbandono e fiducia; dare tutta la nostra vita, tutta la nostra persona in questa realtà sconvolgente, offriamo a Dio in noi per fare il suo lavoro. « Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, che è lì per la vera adorazione. « Sappiamo che la parola » sacrificio – sacrum facere « significa » rendere sacro « ; potrebbe quindi tradurre: « Vi esorto a fare la vostra gente nella vostra vita, qualcosa di sacro, qualcosa di divino.  »
Peter dice il contrario, affermando con forza che questo è possibile: « La potenza divina ci ha donato tutto ciò che è necessario per la vita e la pietà in facendoci sapere Colui che ci ha chiamati con la sua gloria e opere virtuose. Per loro, la proprietà del prezzo più alto che ci avevano promesso che ci hanno dato, in modo che attraverso di essi si entra in comunione con la natura divina. « (2 Pietro 1: 3-4). Siamo invitati a l’approccio già espresso dal Salmo 40 (39): «Volevi nessun sacrificio, nessun sacrificio, mi hai un corpo; non volevi per l’olocausto e vittima, così ho detto qui io vengo « (Salmo 40: 7-8). Siamo in linea con l’insegnamento del profeta Michea: « Lui ti ha mostrato, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore richiede da te: nient’altro che rispettare la legge, amore gentilezza , e camminare umilmente con il tuo Dio. . « (Michea 6, 8)
prendo il testo: « Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio questo è vero culto per voi », dice san Paolo, secondo nostra traduzione; ma se esaminiamo alcune delle parole che usa, vediamo che la parola « reale » nel nostro testo traduce la parola greca « logikos », come definito in conformità con la ragione, la logica: è « logico « ti comporti bene, dice Paolo, questo è coerente con ciò che Dio ha fatto per te, dire il contrario è semplicemente il risultato della nostra scoperta della tenerezza di Dio. Questo atteggiamento è la risposta logica al lavoro di Dio per noi. Non ci sono gesti esteriori, ma un culto che ci impegna veramente, totalmente, che ci rende la profondità (la parola « logikos » in greco ha anche quel senso): Paolo trascorrerà il resto della lettera i Romani ad oggi la natura dell’impegno cristiano: ciascuno secondo i suoi doni e le qualità, è invitato a prendere il suo posto nella missione della Chiesa, che è al servizio di tutti gli uomini. Questo impegno è la partecipazione attiva alla « volontà di Dio » che « che tutti gli uomini siano salvati, vale a dire, venire a conoscenza della verità » (come dice Paolo altrove, nella prima lettera ai . Timoteo (1 Tim 2, 4)
Questo probabilmente richiede che noi accettiamo ogni giorno per « trasformarci rinnovando il nostro pensiero a discernere ciò che è la volontà di Dio, ciò che è buono, che è in grado di accontentare lui Questo è perfetto. « Accetto » rinnovare il nostro pensiero « è per noi, a volte una vera conversione. perché troppo spesso » i nostri pensieri non sono quelli di Dio, ma secondo gli uomini « , come criticato Gesù a Pietro a Cesarea di Filippo (Mt 16, 23:. nostro Vangelo di questa Domenica) Ma lo Spirito è stato dato a noi per infondere in noi il rinnovamento: « Ci porterà a tutta la verità, » abbiamo Gesù ha promesso la scorsa notte (Gv 16, 13).
Ciò richiede anche che accettiamo di non « prendere conformatevi a questo mondo », che è forse la cosa più difficile da fare, per il tempo romani Paolo, come per noi. La vera libertà è quello di spianare la nostra strada, quali che siano le sirene della moda; . Paul è piuttosto lamentato nei primi capitoli, che i suoi interlocutori sono fuori luogo
Amare il mondo senza essere schiavi di comportamento mondano richiede vigilanza in ogni momento: ha senso se, come dice san Paolo, quando ci si bagna nella tenerezza di Dio; ma sappiamo tutti che non è facile! Gesù sapeva meglio di noi; e non è un caso che proprio l’oggetto della sua preghiera per i suoi discepoli nella notte scorsa: « Io non vi chiedo di ritirarsi dal mondo, ma per tenerli dal maligno. « (Gv 17, 15).

 

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