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«LA GRAZIA DI DIO SALVATORE: LIBERA, BASTEVOLE, PER NOI NECESSARIA» (Govanni Battista Montini)

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«LA GRAZIA DI DIO SALVATORE: LIBERA, BASTEVOLE, PER NOI NECESSARIA»

Con queste parole Giovanni Battista Montini, negli appunti scritti da giovane sacerdote sulle Lettere di san Paolo, indica l’esperienza e il messaggio dell’Apostolo

di don Giacomo Tantardini

Ringrazio chi mi ha invitato in questa bella città di Ortona dove, nella Cattedrale, è custodito il corpo dell’apostolo Tommaso. Ringrazio sua eccellenza monsignor Ghidelli per la sua presenza a questo incontro. Io non ho competenza specifica per parlare di san Paolo. Quello che conosco di Paolo nasce semplicemente dalla lettura delle sue Lettere, in particolare da quella lettura che ne viene fatta nella santa messa e nella preghiera del breviario, e credo che questa sia la cosa più importante. Paolo VI in un discorso tenuto in un convegno di esegeti sulla risurrezione di Gesù, citando sant’Agostino, diceva che per comprendere la Scrittura «praecipue et maxime orent ut intelligant», la cosa «più importante e principale è pregare per capire». Così nella preghiera può essere donato di intuire l’esperienza che ha fatto Paolo, l’esperienza di essere amato da Gesù. Iniziando l’Anno paolino, papa Benedetto XVI ha detto che Paolo è un nulla amato da Gesù Cristo. «Io sono un nulla», dice Paolo stesso al termine della seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: «Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20). Così anche a noi, nella distanza infinita dall’apostolo, può accadere la stessa esperienza, la stessa comunione di grazia, perché è reale la comunione dei santi. Ed è questa identità di esperienza, l’esperienza di essere gratuitamente amati da Gesù Cristo, che fa rivivere le parole dell’apostolo, che può rendere Paolo così vicino, così prossimo, così amico, così familiare. Vorrei iniziare leggendo alcune frasi pronunciate da papa Benedetto durante l’Angelus di domenica 25 gennaio. Quest’anno, la festa della conversione di san Paolo è caduta di domenica, e il Papa, spiegando l’incontro di Saulo con Gesù sulla via di Damasco (anche nella messa di oggi lo abbiamo letto dagli Atti degli apostoli), ha detto queste parole che mi hanno sorpreso e confortato, e che ho riletto tante volte: «In quel momento [quando ha incontrato Gesù: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 5)] Saulo comprese che la sua salvezza [possiamo anche dire la sua felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il riverbero umano della Sua grazia è il piacere della Sua grazia] non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [mi ha molto colpito l’aggettivo buone. Opere buone. Il Papa ha voluto sottolineare che la salvezza non dipende dalle opere buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui, il persecutore [«Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto». L’altra parola che mi ha colpito è stata quel verbo al presente: «Era, ed è, risorto». Benedetto XVI, quest’anno, ha tenuto venti meditazioni su san Paolo durante le udienze del mercoledì. Una di queste meditazioni, forse la più bella, l’undicesima, tratta della fede di Paolo nella risurrezione del Signore. Commentando il capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, il Papa ha sottolineato che Paolo trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1Cor 15, 3), cioè «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5). La risurrezione di Gesù è un fatto accaduto in un momento preciso del tempo e Colui che è risuscitato, in quel preciso momento, è vivo ora, in questo momento. È risorto e quindi vivo nel presente. La conversione di Paolo, secondo il Papa, sta in questo passaggio. Il passaggio dal ritenere che la salvezza dipendeva dalle sue opere buone, compiute secondo la legge (la legge è la legge di Dio, la legge sono i dieci comandamenti di Dio), al riconoscere semplicemente che la salvezza era ed è la presenza di un Altro. Era ed è la presenza di Gesù. Sempre nell’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha aggiunto (e la cosa mi ha colpito anche perché il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che stimo molto e che posso dire amico di 30Giorni, ha sottolineato questo accenno del Papa) che non si potrebbe propriamente parlare di conversione di Paolo, perché Paolo già credeva nel Dio unico e vero ed era «irreprensibile» per quanto riguarda la legge di Dio. Lo dice lui stesso nella Lettera ai Filippesi (3, 6). La conversione di Paolo (e qui permettetemi di riprendere le parole che sant’Agostino usa per indicare la propria conversione) è semplicemente il passaggio dalla sua dedizione a Dio al riconoscimento di quello che Dio ha compiuto e compie in Gesù. Agostino così descrive la propria conversione: «Quando ho letto l’apostolo Paolo [e subito dopo – perché non basta neppure leggere le Scritture – aggiunge:] e quando la Tua mano ha curato la tristezza del mio cuore, allora ho compreso la differenza inter praesumptionem et confessionem / tra la dedizione e il riconoscimento». Praesumptio non indica inizialmente una cosa cattiva. Alla lunga decade in presunzione cattiva; ma inizialmente indica il tentativo dell’uomo di voler raggiungere l’ideale buono intuìto. La conversione cristiana è il passaggio da questo tentativo dell’uomo di compiere il bene (le opere buone, diceva papa Benedetto) al semplice riconoscimento della presenza di Gesù. Dalla praesumptio, dedizione, alla confessio, riconoscimento. La confessio, riconoscimento, è come quando il bambino dice: «Mamma». Come quando la mamma viene incontro al bambino e lui le dice: «Mamma». <I>La conversione di Paolo</I>, Caravaggio, Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma La conversione di Paolo, Caravaggio, Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma La conversione cristiana, per Agostino e per Paolo, è (permettetemi di usare questa immagine di don Giussani che, secondo me, non ha l’equivalente) il passaggio dall’entusiasmo della dedizione all’entusiasmo della bellezza; dall’entusiasmo della propria dedizione, che in sé è buono, all’entusiasmo destato da una presenza che attrae il cuore, una presenza che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere. Paolo non ha fatto nulla per incontrarLo. Il Suo gratuito venire incontro attua il passaggio dalla nostra dedizione alla bellezza della Sua presenza che per attrattiva si fa riconoscere. E tra dedizione e riconoscimento non c’è contraddizione. Giussani dice semplicemente che «l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza». È lo stesso termine che usa sant’Agostino quando descrive il rapporto tra la virtù degli uomini e i primi piccoli passi di chi pone la speranza nella grazia e nella misericordia di Dio. Potremmo anche dire che, quando accade di vivere per grazia l’esperienza stessa che Paolo ha vissuto, l’identica sua esperienza, nell’infinita distanza da lui, è come se tutte le parole cristiane, la parola fede, la parola salvezza, la parola chiesa, fossero trasparenti dell’iniziativa di Gesù Cristo. È Lui che desta la fede. La fede è opera Sua. È Lui che salva. È Sua iniziativa il donare la salvezza. È Lui che costruisce la Sua chiesa. «Aedificabo ecclesiam meam» (Mt 16, 18). Aedificabo è un futuro: «Edificherò la mia chiesa» sulla professione di fede di Pietro, sulla grazia della fede donata a Pietro (cfr. Mt 16, 18). È Lui che edifica personalmente, nel presente, la Sua chiesa su un Suo dono. Come è bello dire le parole cristiane più semplici, la parola fede, la parola speranza, la parola carità, e accorgersi che queste parole indicano un’iniziativa Sua, fanno intravvedere un gesto Suo, il Suo agire. Come è accaduto a santa Teresina di Gesù Bambino: «Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me». Noi sacerdoti, la seconda settimana dopo Pasqua, abbiamo letto nel breviario, dall’Apocalisse, le lettere che Gesù invia alle sette chiese. In una di queste lettere Gesù dice: «Non hai rinnegato la mia fede» (Ap 2, 13). La mia fede. È la fede di Gesù. «Gratia facit fidem». Come è semplice e bella questa espressione di san Tommaso d’Aquino! È la grazia che crea la fede. È Lui che si fa riconoscere. «Nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio» (Gv 6, 44.65), dice Gesù. E sant’Agostino commenta: «Nemo venit nisi tractus / Nessuno viene [a Gesù], se non è attirato». È Sua iniziativa la fede. È Sua iniziativa la salvezza. È Sua iniziativa la Sua chiesa. Permettetemi di raccontarvi uno dei miei primi incontri con don Giussani. L’occasione mi è stata data dal fatto che a Venegono, nel mio seminario, ho conosciuto Angelo Scola, l’attuale patriarca di Venezia. È stato lui a farmi incontrare don Giussani. Ricordo ancora quell’incontro a Milano. Giussani parlava a un gruppo di giovani. A un certo punto chiese: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Che cosa, adesso, ci mette in rapporto con Gesù Cristo?». Alcuni risposero: «La chiesa», «la comunità», «la nostra amicizia», eccetera. Alla fine di tutti questi interventi, Giussani ripeté la domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo?», e poi diede lui stesso la risposta: «Il fatto che è risorto». Questa cosa non la dimenticherò più! «Il fatto che è risorto». Perché se non fosse risorto, se non fosse vivo, la chiesa sarebbe un’istituzione meramente umana, come tante altre. Un peso in più. Tutte le cose meramente umane alla fine diventano un peso. «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Il fatto che è risorto». La chiesa è la visibilità di Lui vivo. «La chiesa non ha altra vita», dice il Credo del popolo di Dio di Paolo VI, «se non quella della Sua grazia». Non ha altro inizio, momento per momento, che l’attrattiva Sua, l’attrattiva della Sua grazia. La chiesa è il termine visibile del gesto di Gesù vivo che incontra il cuore e lo attrae. Leggere san Paolo, vivendo per grazia quello che Paolo ha compreso (come dice il Papa) nella sua conversione, rende tutte le parole cristiane trasparenti di Lui, di Gesù Cristo, dona a tutte le parole cristiane questa leggerezza. Altrimenti diventano pesanti. Se la fede fosse un’iniziativa nostra, saremmo finiti. Siccome è un’iniziativa Sua, è possibile sempre il rinnovarsi del Suo dono. E quindi è possibile sempre ricominciare. È un’iniziativa Sua, in ogni istante. «Gratia facit fidem… quamdiu fides durat». È stata una cosa molto bella che nel 1999 la Commissione teologica di studio tra la Chiesa cattolica e i luterani, valorizzando proprio questa frase di san Tommaso d’Aquino, ha riconosciuto che tra la teologia di Lutero sulla giustificazione per la fede e aspetti essenziali della dottrina dogmatica del Concilio di Trento nel decreto De iustificatione c’è una sorprendente identità. San Tommaso d’Aquino dunque dice che «la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia, ma in ogni istante in cui dura». E aggiunge questa osservazione bellissima: ci vuole la stessa attrattiva di grazia, lo stesso tesoro di grazia, sia per far rimanere nella fede, adesso, noi che crediamo, sia per far passare una persona (se ci fosse qui uno che non crede) dalla non fede alla fede. Ho detto questo solo per dire che la conversione di Paolo, come di ogni cristiano, si attua nel passaggio dall’iniziativa dell’uomo all’iniziativa di Gesù, allo stupore dell’iniziativa di Gesù, alla confessio supplex. Com’era bello, nella messa in latino, quando, prima del Sanctus, si diceva sempre: «Supplici confessione / Con riconoscimento che domanda». Perché non si può riconoscere una presenza che ti ama se non domandando che essa continui a volerti bene. Ora, tre suggerimenti.

1. «… nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato…» Leggiamo Galati 1, 15 in cui Paolo stesso descrive il passaggio dalla sua iniziativa all’iniziativa di Dio. «Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… [c’è un mistero da cui nasce la grazia della fede ed è la scelta di Dio, l’elezione di Dio. Non possiamo giudicare noi questo mistero: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16)] … quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia [com’è bello questo mi chiamò con la sua grazia! Non basta la voce, neppure la voce di Gesù, se l’attrattiva di Gesù non tocca il cuore. È la Sua grazia, è la Sua attrattiva che commuove il cuore] si compiacque di rivelare a me suo Figlio…». Si degnò di mostrarmi Suo Figlio. Questa è la conversione di Paolo. Colui che mi ha scelto e mi ha chiamato con la Sua grazia mi ha fatto riconoscere Suo Figlio. Galati 2, 20: «Questa vita che vivo nella carne [nella condizione umana, segnata dal peccato originale, anche dopo il battesimo. Il battesimo toglie il peccato, ma lascia la fragilità che proviene dal peccato e che inclina al peccato], io la vivo nella fede del Figlio di Dio [nel riconoscimento del Figlio di Dio], che mi ha amato e ha dato sé stesso per me». Vi leggo come papa Benedetto XVI ha commentato questa frase: «La sua fede [la fede di Paolo] è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale […] Cristo ha affrontato la morte […] per amore di lui – di Paolo – e, come Risorto, lo ama tuttora. […] La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore». La fede nasce dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore di Paolo. La fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore. Permettetemi di leggervi una frase che ho scoperto andando a Cascia a pregare santa Rita (santa Rita era sposata e aveva due figli. Il marito viene ucciso e lei perdona pubblicamente l’assassino e domanda che i suoi due figli non vendichino il padre. Poi entra nel monastero delle monache agostiniane di Cascia). La frase che vi leggo è di un beato monaco agostiniano il cui scritto sulla passione di Gesù era conosciuto da santa Rita: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Mi sembra che queste parole indichino da dove provenga la carità e che cosa sia la carità. L’amicizia è una virtù, è il vertice delle virtù. San Tommaso d’Aquino dice che la carità è amicizia. Ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità. Viene prima l’essere amati (cfr. 1Gv 4, 19). Per amare bisogna prima essere amati. Bisogna prima essere contenti di essere amati. Sant’Agostino, in quel brano stupendo in cui, paragonando tra loro gli apostoli Pietro e Giovanni, si domanda chi sia più buono tra i due, risponde che più buono è Pietro, tanto è vero che a Gesù che gli domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15), Pietro risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21, 15). Quindi Pietro è più buono di Giovanni. Confrontando la condizione di Pietro, che vuole bene di più a Gesù, con la condizione di Giovanni, che è più amato da Gesù, Agostino dice: «Facile responderem meliorem Petrum, feliciorem Ioannem / È facile per me rispondere che Pietro è più buono [perché vuole più bene a Gesù] ma Giovanni è più felice [perché è amato di più da Gesù]». L’essere felice dipende dall’essere amato. Non dipende neppure dal nostro povero amore. Pietro è più buono perché vuole più bene a Gesù, ma Giovanni è più felice perché è più amato da Gesù. Il Papa dice che la fede di Paolo è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore e così questa stessa fede, proprio perché è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore, desta ed è anche il povero amore di Paolo a Gesù. Questa attrattiva amorosa di Gesù, rendendo lieto il cuore di Paolo, desta anche il povero amore di Paolo a Gesù, povero come quello di Pietro. Papa Benedetto, in un’udienza del mercoledì, commentando la domanda di Gesù a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?», ha insistito sulla differenza dei verbi greci che Gesù e Pietro usano. Gesù usa un verbo che indica un amore totalizzante («… mi ami tu?»). Pietro usa un verbo che esprime il povero amore umano («tu sai che ti voglio bene»). «Ti voglio bene così come è possibile a un povero uomo». Allora, la terza volta (è bellissimo come il Papa descrive questo!), Gesù si adegua al povero amore umano di Pietro e gli chiede semplicemente se gli vuole bene, così come un povero uomo può volere bene. Leggo ora 1 Corinzi 15, 8 e seguenti. Anche qui Paolo descrive l’incontro con Gesù sulla via di Damasco: «In seguito, ultimo fra tutti…». Come è bello questo ultimo fra tutti! Nella liturgia ambrosiana il sacerdote che celebra la messa dice: «Nobis quoque minimis et peccatoribus». Nella liturgia romana dice solo: «Nobis quoque peccatoribus». Nella liturgia ambrosiana colui che celebra la santa messa, che sia il vescovo oppure l’ultimo prete, dice: «Anche a noi che siamo i più piccoli e peccatori». Così Paolo dice di essere l’ultimo, il più piccolo. «In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me».

2. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù Paolo è sempre sospeso all’iniziativa della grazia. E questa è una delle cose più impressionanti per chi legge le sue Lettere. Non solo l’inizio è grazia, non solo l’inizio è iniziativa di Gesù. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù, momento per momento. Come è nella realtà per ciascuno di noi. Ma l’esperienza di Paolo, da questo punto di vista, è di una drammaticità e di una bellezza uniche. Vi leggo un brano, che già nel mio seminario mi confortava tanto, dalla seconda Lettera ai Corinzi, 12, 7 e seguenti. Allora mi colpivano le parole, ora il cammino della vita, per Sua grazia e Sua rinnovata misericordia, ha donato realtà a quelle parole. La seconda Lettera ai Corinzi per me è la Lettera più bella perché è quella in cui Paolo – lo dice lui stesso – apre tutto il suo cuore (2Cor 6, 11). È la Lettera in cui Paolo di fronte alla «dolcezza e mitezza di Cristo» (2Cor 10, 1) descrive quello che lui è, l’inermità che lui è, la fragilità che lui è. «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia [comunque si legga questa “spina nella carne”, questa fragilità, questa tentazione, Paolo dice così]. A causa di questo [a causa di questa sofferenza] per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me [che allontanasse questa sofferenza, questa tentazione, questa fragilità]. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”». La Sua forza si manifesta pienamente nella debolezza. Permettetemi di fare una piccola correzione a una frase che ho letto prima in un pannello della mostra su san Paolo. Non avrei scritto che Paolo è «orgoglioso della sua debolezza». Non si può essere orgogliosi della propria debolezza. Sant’Ireneo, commentando questo brano della seconda Lettera ai Corinzi, e avendo presente la gnosi (uno degli elementi essenziali dell’eresia gnostica è la non distinzione tra il bene e il male, fino a porre, ed Hegel lo teorizza, il male in Dio e da Dio), è attentissimo a distinguere la debolezza dalla grazia. La debolezza rende evidente la grazia. La debolezza, quando viene abbracciata, rende più evidente l’essere abbracciati. Ma il positivo è l’essere abbracciati, non la debolezza. Nella debolezza, che è la condizione umana, l’essere abbracciati gratuitamente da Gesù è più evidente. Quando un bambino è ammalato, la mamma e il papà è come se gli volessero più bene, ma non è un valore l’essere ammalato del bambino. È che quella debolezza rende più evidente l’essere amato. In un tempo in cui la gnosi culturalmente è egemone nella mentalità del mondo e tante volte anche nella Chiesa del Signore, come è importante questa distinzione! La debolezza non è in sé stessa un bene. La debolezza rende più evidente l’essere abbracciati quando si è abbracciati, l’essere amati quando si è amati. Rende più evidente la gratuità dell’essere amati. Il peccato è peccato e il peccato mortale merita l’inferno, come dice il Catechismo. Ma quando Gesù, dopo essere stato tradito, guardò Pietro (Lc 22, 61), quello sguardo rese più evidente l’amore di Gesù al povero Pietro. «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». La debolezza è la condizione perché la Sua potenza si riveli con più evidenza a tutti.

3. Il Vangelo che Paolo trasmette Due brevi cenni sull’annuncio di Paolo. Che cosa annuncia Paolo? Innanzitutto quello che lui, a sua volta, ha ricevuto. Come è bello! Paolo non inventa nulla, annuncia quello che, a sua volta, ha ricevuto. Vi leggo 1 Corinzi 15, 1 e seguenti. Questi versetti racchiudono tutto l’annuncio di Paolo. Tutto l’annuncio di Gesù Cristo. «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Paolo annuncia la testimonianza di Gesù. «La testimonianza di Dio» (1Cor 2, 1). La testimonianza che Dio ha dato col risuscitare Gesù dai morti. La testimonianza che Gesù Cristo ha dato di essere risorto col mostrarsi ai discepoli. Fa parte dell’essenza dell’annuncio cristiano il rendersi visibile del Risorto ai testimoni che Lui sceglie. Se non si fosse reso visibile ai testimoni, se non avesse dato Lui stesso testimonianza di essere risorto, la testimonianza degli apostoli sarebbe stata una loro invenzione. Heinrich Schlier, che, secondo me, è il più grande esegeta che la Chiesa abbia avuto nel secolo scorso, come insiste su questo fatto! È Gesù che, rendendosi visibile, dà testimonianza di Sé stesso. È Gesù che, rendendosi visibile agli apostoli, facendosi toccare e mangiando con loro, testimonia della realtà della Sua risurrezione: «Tommaso, guarda e metti la tua mano» (cfr. Gv 20, 27). «Visus est, tactus est et manducavit. Ipse certe erat / Fu visto, fu toccato, mangiò. Era proprio Lui», dice sant’Agostino in un discorso contro gli gnostici, commentando l’apparizione di Gesù risorto agli apostoli dal Vangelo di Luca (Lc 24, 36-49). È Gesù che, rendendosi visibile, testimonia di essere risorto, di essere vivo. La testimonianza degli apostoli è un riflesso della Sua testimonianza. Com’è importante questo! La luce della Chiesa è solo una luce riflessa. «Lumen gentium cum sit Christus / È Cristo la luce delle genti». La Chiesa riflette questa Sua luce come in uno specchio. Una delle frasi più belle di Paolo, che mi è così cara, dice: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo, come in uno specchio, la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine [il riflesso di Gesù è efficace: cambia la vita], di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18). Paolo annuncia ciò che ha ricevuto, ciò che Gesù Cristo stesso ha testimoniato ai Suoi apostoli. Un secondo cenno riguardo all’annuncio di Paolo. Anche questa cosa bellissima si legge nella prima Lettera ai Corinzi, 2, 1 e seguenti. L’annuncio di Gesù porta in sé la prova della sua verità. Non si tratta di dimostrare noi che Gesù è vivo. È Gesù stesso che mostrandosi, operando, dimostra di essere vivo. Altrimenti, aumentiamo il dubbio, nostro e degli altri. È Gesù che, agendo, e quindi mostrandosi, dimostra di essere vivo. La dimostrazione della verità del cristianesimo è l’agire e il mostrarsi di Gesù nel presente. Schlier dice questo con un’espressione bellissima: «Il kerygma e i doni, il kerygma e i miracoli formano un tutt’uno». E Paolo lo dice più semplicemente che non il grande esegeta: «Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio [la testimonianza che Dio ha donato] con sublimità di parola e di sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza [come è bello questo!] e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza [non voleva lui dimostrare che Gesù era reale], ma sulla manifestazione dello Spirito [cioè sul fatto che Gesù risorto si manifesta] e della sua potenza [sul Suo agire, sul Suo manifestarsi], perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2, 1-5). La fede può essere fondata solo sulla potenza di Dio, cioè sull’agire di Gesù, sul manifestarsi di Gesù. Non si vince la paura della morte (cfr. Eb 2, 15) con gli argomenti di sapienza, con i nostri discorsi. La paura della morte è vinta quando Gesù, agendo nel presente, si fa riconoscere vivo. Gesù si dimostra reale, vivo, quando si mostra. Quando mostra la Sua azione, quando mostra la Sua potenza. «Con una prova totalmente Sua», scrive Schlier, che si sperimenta «come realtà tangibile».

Termino con le parole di Giovanni Battista Montini, nei suoi appunti sulle Lettere di san Paolo, scritti a Roma quando era giovane sacerdote, tra il 1929 e il 1933: «Nessuno più di lui [Paolo] ha sentito l’insufficienza umana e ha riconosciuto ed esaltato l’azione libera, da sé sola bastevole, necessaria per noi, della grazia di Dio Salvatore». È bellissimo! Libera: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Da sé sola bastevole: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12, 9). Necessaria per noi: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5). E Montini aggiunge una frase, commovente se si pensa anche alle umiliazioni ricevute: «Egli [Paolo] ha sentito il fastidio della sua presenza “contemptibilis” [disprezzabile]». «Praesentia corporis infirma [scrive nella seconda Lettera ai Corinzi, 10, 10] / La presenza fisica è debole / et sermo contemptibilis / e la parola è da disprezzare». «Egli ha sentito il fastidio della sua presenza contemptibilis. Ha provato desolanti depressioni di spirito». Un’espressione di questa umanità così debole di Paolo si trova nella seconda Lettera ai Corinzi, 2, 12: «Giunto pertanto a Troade per annunciare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore [quindi gli era possibile annunciare il Vangelo di Cristo], non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedandomi da loro, partii per la Macedonia». Paolo non ha neanche la forza di annunciare il Vangelo, se non ha il conforto della grazia del Signore che brilla riflessa sul volto di una persona cara. Cara semplicemente per questo riflesso di grazia. E poi continua (2Cor 7, 5 e seguenti): «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne [la nostra debole umanità] non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro». Com’è vero! «La Chiesa vive», dice la Lumen gentium, «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Sant’Agostino, nel brano del De civitate Dei da cui è tratta questa frase, scrive che le persecuzioni del mondo provengono innanzitutto dall’interno della Chiesa. Anche perché le persecuzioni del mondo sono innanzitutto i nostri poveri peccati che fanno soffrire il cuore di chi è amato da Gesù e vuole bene a Gesù. Continua Paolo: «Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi». Paolo che a Troade non aveva avuto la forza di annunciare il Vangelo, quando arriva Tito è confortato anche perché Tito gli parla dell’affetto che le persone di Corinto hanno per lui. «A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito» (2Cor 7, 13). Perché non basta ricordare l’affetto di persone lontane, se chi ne parla non è lui stesso lieto, contento nel presente. Quando vado a pregare sulla tomba di Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, in ginocchio, ripeto sempre un inno: «Pressi malorum pondere, te, Paule, adimus supplices / Oppressi dal peso di tante contrarietà [innanzitutto dei nostri poveri peccati] veniamo a te, Paolo, supplici / […] quos insecutor oderas defensor inde amplecteris / [...] quelli che tu quando eri persecutore hai odiato, adesso come difensore li abbracci». In questo abbraccio, in questo essere amati da Gesù, anche attraverso gli amici di Gesù, possiamo ripetere: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Grazie.

Il teologo di Alessandria definì il corpus paulinum come un “trattato di architettura”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19022?l=italian

Origene e il “saggio architetto”

Il teologo di Alessandria definì il corpus paulinum come un “trattato di architettura”

ROMA, domenica, 19 luglio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’articolo apparso sul tredicesimo numero di Paulus (luglio 2009), dedicato al tema “Paolo l’architetto”.

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Nella primitiva letteratura cristiana il tema della chiesa come edificio in cantiere ha avuto una particolare fortuna e diffusione. Basti pensare alla terza visione contenuta nel Pastore di Erma: la costruzione di una torre sulle acque, con ogni specie di pietre, e alla spiegazione teologica che la “Signora” – cioè la Chiesa – dà a Erma: «Ascolta perché mai la torre viene edificata sulle acque: la vostra vita fu salvata e sarà salvata con l’acqua. Tuttavia le vere fondamenta sono la parola del Nome onnipotente e l’invisibile potenza del Signore» (n. 11). Uno degli autori che maggiormente valorizzerà e tematizzerà questa immagine è certamente Origene, come è stato dimostrato in un lavoro di Carlo L. Rossetti («Sei diventato Tempio di Dio», Gregoriana, Roma 1998). Non c’è passo dell’Antico o del Nuovo Testamento in cui si parli di tempio, di casa o anche di tenda o di abitazione, che l’Alessandrino non rilegga in senso spirituale ed ecclesiale. A fare la parte da gigante, su questo argomento, è chiaramente san Paolo. In un frammento su 1Corinzi 3, giunto a noi in greco, Origene caratterizza con questi termini programmatici l’intero corpus dell’Apostolo: «Paolo non solo ha gettato le basi delle chiese come un abile architetto, ma ha scritto come un trattato di architettura: come l’architetto debba costruire la casa, come debbano essere l’episcopo, i presbiteri, i diaconi e il resto della massa della Chiesa. Tutte queste indicazioni erano come un trattato di architettura» (Frammento 15 su 1 Cor 3,10, ed. C. Jenkins). Anche quando i testi sono presi dal Pentateuco, dai Salmi, dai Profeti o dai Vangeli, san Paolo è chiamato in causa, direttamente o indirettamente, come «saggio architetto» (1Cor 3,10). Commentando, nel libro di Giosuè, il passo che descrive la costruzione dell’altare al Dio d’Israele sul monte Ebal (Gs 8,30-31), Origene, che intanto svolge la funzione di presbitero e predicatore nella Chiesa di Cesarea (negli anni successivi al 231 d.C.) offre questo meraviglioso sviluppo omiletico: «Vediamo quale significato abbiano tutte queste realtà e quale elemento edificante assuma per noi la presente lettura […]. Come nel caso delle pietre terrestri sappiamo che si bada a porre per prime, a fondamenta, quelle più solide e resistenti, perché si possa affidare e far poggiare su di esse il peso di tutto quanto l’edificio, mentre le altre pietre che vengono dopo, un po’ più piccole, le si dispone in ordine vicino a quelle che sono a fondamento; quelle poi che sono ancora un po’ più piccole le si collocano un po’ più in alto rispetto alle fondamenta e, infine, valutando quelle pietre che sono meno resistenti, le si mette sulla parte più alta e vicine alla sommità stessa del tetto: allo stesso modo devi pure intendere ora che avviene con le pietre vive: alcune sono a fondamento del nostro edificio spirituale». A questo punto, ecco il richiamo a Paolo: «Quali sono queste pietre poste sulle fondamenta? Sono gli apostoli e i profeti. Così, infatti, dice Paolo nel suo insegnamento: “Edificato sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare il Signore nostro Gesù Cristo” (Ef 2,20), per prepararti più risolutamente, tu che ascolti, alla costruzione di questo edificio, per essere una pietra più vicina al fondamento, sappi che è proprio Cristo il fondamento di questo edificio che siamo ora. Così infatti dice l’apostolo Paolo: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi è stato posto, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11). Beati dunque coloro che hanno costruito, su questo fondamento tanto nobile, edifici religiosi e santi!» (Omelie su Giosuè IX, 1).

Cristo, pietra spirituale

Altro riferimento alle pietre, nelle stesse Omelie su Giosuè, avviene nello spiegare il senso della seconda circoncisione a cui il successore di Mosè sottopone i figli di Israele, usando coltelli di pietra. Vista la difficoltà ad ammettere il senso letterale del testo biblico (se uno è già stato circonciso una volta, «non ha più ciò che si potrebbe togliere la seconda volta»), il predicatore propone una lettura spirituale ispirata a Paolo: «Come l’Apostolo disse: “bevevano da una pietra spirituale che li accompagnava e quella pietra era il Cristo” (1Cor 10,4), così anche noi possiamo analogamente affermare: vennero circoncisi con “una pietra spirituale che li accompagnava e quella pietra era Cristo”. Se uno infatti non si è purificato con la seconda circoncisione per mezzo del vangelo, non può lasciare l’obbrobrio dell’Egitto, cioè la seduzione dei vizi della carne» (Omelia V, 5). Una volta precisato che nel cammino cristiano la seconda circoncisione equivale al battesimo, «lavacro di rigenerazione» (Tt 3,5), Origene ricorda che il corpo dei fedeli è diventato edificio sacro, quello che Paolo chiama «tempio di Dio» (1Cor 6,19). Un peccato d’impudicizia, oltre che peccato come tale, è profanazione della dimora di Dio. Quale grande responsabilità implica tale sacrilegio! «Quanto è grande tale progresso, tanto è terribile la decadenza e irrimediabile la caduta. Perciò se un giorno ti eccita l’attrattiva di un desiderio perverso, ricordati di quello che stai ascoltando adesso, affronta l’avversario che proviene da te stesso, cioè dal tuo cuore, e resistigli con queste parole: non mi appartengo, sono stato “comprato a caro prezzo, col sangue di Cristo” (1Pt 1,18s). [...] Digli pure: sono diventato tempio di Dio, non mi è consentito introdurre in esso alcunché di impuro, non ho il diritto di violare il tempio di Dio (Ap 21,27). Ma aggiungi pure che chi si dà alla fornicazione pecca contro il proprio corpo. Non solo contro questo tuo corpo diventato tempio di Dio (1Cor 6,18), ma anche contro il corpo di tutta la Chiesa detta “corpo di Cristo” (Col 1,24). Colui che macchia il proprio corpo risulta peccare contro tutta la Chiesa, perché attraverso un solo membro la macchia si diffonde in tutto il corpo» (Omelia V, 6). L’idea che Paolo aveva del tempio di Dio e dell’assoluta compattezza dell’edificio ecclesiale (cfr. Ef 2,20s.) porta il predicatore a una delle espressioni più luminose della sua ecclesiologia. Il capitolare di un solo membro compromette la bellezza e la stabilità di tutto l’edificio ecclesiale!

Fondamenta messe alla prova

In 1Corinzi 3,12 Paolo ricorda di aver posto, da «saggio architetto», il fondamento nell’edificio della Chiesa, mentre un altro non può che costruire sopra quel fondamento che già si trova, che è Cristo Gesù (vv. 10-11). E perciò ammonisce: «Ciascuno stia attento a come costruisce [...] E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà la ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito» (vv. 12-14). Questa minaccia del fuoco dettata dall’esperienza del «saggio architetto» viene esplicitata da Origene, nel senso di un castigo inflitto non da Dio, ma provocato dalla stessa vita insana dei malvagi: «Esca e alimento di tale fuoco sono i nostri peccati, che l’Apostolo definisce “legno, fieno, paglia”. E ritengo che come nel corpo abbondanza di alimento, e quantità e qualità di cibo dannoso producono le febbri, e febbri di diverso genere e durata in proporzione all’alimento e allo stimolo apportati all’infermità [...], così quando l’anima ha riunito in sé gran numero di opere cattive e abbondanza di peccati, a tempo debito tutta questa raccolta di mali ribolle per il supplizio e divampa per la pena» (Princìpi II, 10, 4). Paolo non pensa solo a una casa o dimora costruita sulla terra: «Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, riceveremo

da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, ma eterna, nei cieli» (2Cor 5,1). Tale sguardo verso una dimora immateriale ed eterna, è colto dall’Alessandrino come chiaro riferimento non soltanto al mondo in cui dimorano i beati e gli esseri completamente purificati (cfr. Princìpi II, 3, 6), ma anche alla condizione dei nostri corpi e di tutto il creato, liberati dalla schiavitù della corruzione (Rm 8,21). «Di questo corpo l’apostolo Paolo ha detto anche: “Abbiamo una dimora non fatta da mani d’uomo, ma eterna, nei cieli” (2Cor 5,1), cioè nella dimora dei beati. Da ciò possiamo immaginare quanto puro, sottile, glorioso sarà quel corpo, se lo confrontiamo con i corpi degli astri che, benché celesti e luminosissimi, pur sono manufatti, mentre di quello è detto dimora non manufatta ma eterna nei cieli» (Princìpi III, 6, 4).

Dal Tempio al Corpo

Concludiamo con un breve richiamo al commento origeniano alle parole di Gesù riportate in Gv 2,19 («Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo riedificherò»), commento che compendia l’essenziale della dottrina del nostro autore sul Tempio. Scrive Origene: «Mi sembra che tanto il Tempio quanto il Corpo di Cristo possano essere interpretati come figura della Chiesa, poiché questa è edificata con “pietre vive, edificio spirituale per un sacerdozio santo” (1Pt 2,5) “sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare Cristo Gesù” (Ef 2,20). Poiché “voi siete il Corpo di Cristo e membri gli uni degli altri” (1Cor 12,27), si può vedere distrutto l’armonico insieme di pietre del Tempio e, come è scritto nel Salmo 21, tutte le ossa di Cristo scompaginate per l’assalto di prove e tribolazioni da parte di coloro che si accaniscono a perseguitare l’unità del Tempio. Ebbene, il Tempio sarà riedificato e il corpo risusciterà il terzo giorno [...]. Allora le ossa, cioè tutta la casa di Israele (cfr. Ez 37,11), si rialzeranno nel grande giorno del Signore e la morte sarà completamente vinta (1Cor 15,26), così che la risurrezione di Cristo, dopo la sua passione e la sua morte, racchiuderà il mistero della risurrezione del corpo intero» (Commento a Giovanni X, 35).

Rosario Scognamiglio op

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