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DOMENICA 27 GIUGNO 2010 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 27 GIUGNO 2010 - XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO dans Lettera ai Galati 1396911888

Una foto ingiallita dell’immediato primo dopoguerra descrive una salita a Gerusalemme

http://pierostefani.myblog.it/archive/2007/01/07/salire-a-gerusalemme-01-04-07.html

DOMENICA 27 GIUGNO 2010 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C13page.htm

MESSA DEL GIORNO:

Seconda Lettura  Gal 5, 1.13-18
Siete stati chiamati alla libertà

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!
Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.

http://www.bible-service.net/site/377.html

 Galates 5,1..18
 
À une communauté perturbée et divisée au sujet du salut, Paul rappelle fermement que seule la croix du Christ est la source du salut. Ce ne sont pas les pratiques anciennes du judaïsme (notamment la circoncision) qui libèrent l’homme mais l’accueil gratuit du don de Dieu manifesté en Jésus et répandu en nos cœurs par l’Esprit Saint.
« En vous laissant conduire par l’Esprit, vous n’êtes plus sujets de la Loi. » Pour l’homme, la vraie liberté est de se laisser conduire par l’Esprit, ainsi il échappe au sectarisme d’une application littérale de la Loi, et au laxisme séduisant mais destructeur.

Lorsqu’on vit selon l’Esprit, on ne devient plus esclave de la Loi, de sa lettre, mais on vit la Loi autrement, selon ce qu’elle est réellement. Ce passage, Paul veut que les Galates le fassent pour vivre réellement en enfants de Dieu. Le but de Paul est de faire d’eux des hommes libres : ce n’est pas en se soumettant à la Loi qu’ils se libèrent de leur égoïsme, mais de ce qu’ils doivent se libérer en réalité.

Galati 5,1..18

Ad una comunità turbata e divisa a proposito della salvezza, Paolo ricorda fermamente che solo la croce del Cristo è la sorgente della salvezza. Non sono le pratiche antiche del giudaismo ( particolarmente la circoncisione) che liberano l’uomo ma l’accoglienza gratuita del dono di Dio manifestata in Gesù e diffuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo.

“… se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge «   Per l’uomo, la vera libertà è di lasciarsi condurre dallo Spirito, così sfugge al settarismo di un’applicazione letterale della Legge, ed al lassismo seducente ma distruttore.

Quando si vive secondo lo Spirito, non si diventa più schiavo della Legge, della sua lettera, ma si vive la Legge diversamente, (ossia) secondo ciò che è realmente. In questo passaggio Paolo vuole che i Galati lo facciano per vivere realmente come figli di Dio. Lo scopo di Paolo è di fare di essi degli uomini liberi:  non è nel sottomettersi alla Legge che essi si liberano dal loro egoismo, ma di questo si devono liberare in realtà (secondo lo Spirito, direi)

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa    (Manila, 29 novembre 1970)

(citazioni di Paolo)

Noi predichiamo Cristo a tutta la terra
«Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l’amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura (cfr. Col 1, 15). E’ il fondamento d’ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell’umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l’amico della nostra vita. Egli è l’uomo del dolore e della speranza. E’ colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.

Responsorio   2 Tm 1, 10; Gv 1, 16; Col 1, 16-17
R. Gesù Cristo nostro salvatore ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo. * Dalla sua pienezza, noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia.
V. Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui.
R. Dalla sua pienezza, noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia.

Papa Bendetto: Il martirio e l’eredità di San Paolo (in ricordo di Padre Luigi Padovese)

in ricordo di Padre Luigi Padovese, dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090204_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 4 febbraio 2009  

San Paolo (20)

Il martirio e l’eredità di San Paolo

Cari fratelli e sorelle,

la serie delle nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che Paolo aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta.

La prima testimonianza esplicita sulla fine di san Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: “Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza” (1 Clem 5,2). La pazienza di cui il testo parla è espressione della comunione di Paolo alla passione di Cristo, della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe arrivato fino all’«estremità dell’occidente». Si discute se questo sia un accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).

Molto interessante invece è nella lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando dell’imperatore Nerone scriverà: “Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: “Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa” (ibid. 2,25,6-7). I “trofei” sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.

È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo” (Adv. haer. 3,3,2).

Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi “Tre Fontane” (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in consonanza con l’antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo “fuori della città… al secondo miglio sulla Via Ostiense”, ma più precisamente “nel podere di Lucina”, che era una matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale basilica di San Paolo fuori le Mura.

In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti “ebioniti” – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della liturgia della Parola. Così, grazie a questa “presenza” nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.

E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i teologi si siano nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. Tale commento purtroppo è conservato solo in parte. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili. Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia della grazia, che è rimasta fondamentale per la teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale. Una vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento decisivo nella vita di Lutero, fu il cosiddetto «Turmerlebnis» (forse 1517), nel quale in un attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall’Apostolo, con l’ordine di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) interpretò in modo profondo la questione della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la vera sintesi tra Legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura letta nella sua totalità e unità.

Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore dell’Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall’interpretazione storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietzsche che derideva la teologia dell’umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua filosofia dell’uomo forte e potente: il superuomo. Prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo paolinismo del secolo XX. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale nel pensiero paolino il concetto di libertà: in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la differenziazione tra l’annuncio di san Paolo e l’annuncio di Gesù. E san Paolo appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo. Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio, determinante per l’annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo, si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio nella nuova centralità della cristologia e del mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto, presente, operante l’annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda all’annuncio di Gesù. Nel progresso dell’esegesi, soprattutto negli ultimi duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu all’origine del massimo dissenso storico: la giustificazione. Emerge così una grande speranza per la causa dell’ecumenismo, così centrale per il Concilio Vaticano II.

Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la “Congregazione di san Paolo” detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i “Missionari di san Paolo” o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica “Famiglia Paolina” fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire dell’Istituto Secolare della “Compagnia di san Paolo”. In buona sostanza, resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaura un originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo “non mise insieme delle assi per fabbricare un’arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l’intera ecumene che era sul punto di perire” (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.

MARTEDÌ 25 MAGGIO 2010 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Confessioni» di sant’Agostino, vescovo
(Lib. 10, 1. 1 – 2, 2; 5. 7; CSEL 33, 226-227. 230-231)

A te, o Signore, chiunque io sia, sono manifesto
Conoscerò te, o mio conoscitore, ti conoscerò come anch’io sono conosciuto (cfr. 1 Cor 13, 12). Forza della mia anima, entra in essa e uniscila a te, per averla e possederla «senza macchia né ruga» (Ef 5, 27). Questa è la mia speranza, per questo oso parlare e in questa speranza gioisco, perché gioisco di cosa sacrosanta. Tutto il resto in questa vita tanto meno richiede di essere rimpianto, quanto più si rimpiange, e tanto più merita di essere rimpianto, quanto meno si rimpiange. «Ma tu vuoi la sincerità del cuore» (Sal 50, 8), poiché chi la realizza, viene alla luce (cfr. Gv 3, 21). Voglio quindi realizzarla nel mio cuore davanti a te nella mia confessione e nel mio scritto davanti a molti testimoni.
Davanti a te, o Signore, è scoperto l’abisso dell’umana coscienza: può esserti nascosto qualcosa in me, anche se m’impegnassi di non confessartelo? Se mi comportassi così, io nasconderei te a me, anziché me a te. Ma ora il mio gemito manifesta che io dispiaccio a me stesso, e che tu rifulgi e piaci e meriti di essere amato e desiderato, al punto che arrossisco di me e rifiuto me per scegliere te, e non bramo di piacere né a te né a me, se non in te.
Dunque, o Signore, tu mi conosci veramente come sono. Ho già espresso il motivo per cui mi manifesto a te. Non faccio questo con parole e voci della carne, ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio ben conosce. Quando sono cattivo, l’atto di confessarmi a te non è altro che un dispiacere a me; quando invece sono buono, l’atto di confessarmi a te non è altro che un non attribuire a me questa bontà, poiché, «Signore, tu benedici il giusto» (Sal 5, 13), ma prima lo giustifichi quando è empio (cfr. Rm 4, 5). Perciò, o mio Dio, la mia confessione dinanzi a te avviene in forma tacita e non tacita: avviene nel silenzio, ma è forte il grido dell’affetto.
Tu solo, Signore, mi giudichi; infatti «chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?» (1 Cor 2, 11). Tuttavia c’è qualcosa nell’uomo che non è conosciuto neppure dallo spirito che è in lui. Tu però, Signore, conosci tutto di lui, perché l’hai creato. Io invece, quantunque mi disprezzi davanti a te e mi ritenga terra e cenere, so di te qualcosa che non so di me.
«Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), e perciò, fino a quando sono pellegrino lontano da te, sono più vicino a me stesso che a te, e tuttavia so che tu sei inviolabile in modo assoluto. Ma io non so a quali tentazioni possa resistere e a quali no. Io ho speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione tu ci darai anche la via d’uscita e la forza per sopportarla (cfr. 1 Cor 10, 13).
Confesserò, dunque, quello che so e quello che non so di me; perché anche quanto so di me, lo conosco per tua illuminazione; e quanto non so di me, lo ignorerò fino a quando la mia tenebra non diventerà come il meriggio alla luce del tuo volto (cfr. Is 58, 10).

LUNEDÌ 24 MAGGIO 2010 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 24 MAGGIO 2010 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento al Libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 3, 15-16; PL 75, 606-608)

(anche Paolo)

Se da Dio accettiamo il bene,
perché non dovremo accettare anche il male?
Paolo, osservando in se stesso le ricchezze della sapienza interiore e vedendo che all’esterno egli era corpo corruttibile, disse: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7).
Ecco che nel beato Giobbe il vaso di creta sentì all’esterno i colpi e le rotture, ma questo tesoro internamente rimase intatto. Al di fuori si screpolò a causa delle ferite, ma il tesoro della sapienza all’interno rinasceva inesauribilmente, tanto da manifestarsi all’esterno in queste sante espressioni: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2, 10).
Chiama beni i doni sia temporali che eterni; mali invece i flagelli presenti, dei quali il Signore dice per bocca del profeta: «Io sono il Signore e non c’è alcun altro; fuori di me non c’è dio. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura» (Is 45, 5a. 7).
«Io formo la luce e creo le tenebre», perché, mentre con i flagelli si creano all’esterno le tenebre del dolore, si accende all’interno la luce delle grandi esperienze spirituali. «Faccio il bene e provoco la sciagura», perché alla pace con Dio veniamo riportati quando le cose create bene, ma non bene desiderate, si mutano, per noi, in flagelli e sofferenze. Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. E’ giusto dunque che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla retta via, e l’anima nostra è rigenerata con l’umiltà alla pace del Creatore.
Ma nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
E’ certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamano alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25).
Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell’arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l’una sia sempre sostenuta dall’altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono.
L’uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».

La carità al centro della teologia agostiniana

riferimenti a Paolo, come spesso su Sant’Agostino, dal sito:

http://www.santagostinopavia.it/agostino/caritateoago.asp

La carità al centro della teologia agostiniana

S. Agostino, conosciuto come il dottore della grazia, è anche il dottore della carità. Commentando la prima lettera di Giovanni, la lettera della carità, diceva ai fedeli: “Quanto più godo di parlare della carità, tanto meno vorrei terminare la spiegazione di questa lettera. Nessuna è più calda nella raccomandazione della carità. Niente di più dolce vi può essere predicato, niente di più salutare potete bere” ( Io ep tr 8, 14). La carità è l’oggetto di tutta la rivelazione biblica. Cristo stesso non è venuto nel mondo se non a causa della carità. Con l’incarnazione e la morte in croce Cristo ci ha rivelato non solo che egli ci ha amati fino a dare la sua vita per noi, ma che anche il Padre ci ama, proprio perché, come dice l’Apostolo, “Egli non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per noi tutti”( ib 7, 7). Con tale rivelazione il dio di Platone, il Bene e il Principio impersonale, il dio che non comunica con gli uomini, cede il posto al Dio-Amore. Dio rimane sempre avvolto nel mistero. Ma agli occhi di coloro che credono a Cristo il mistero divino si riveste di una luce abbagliante: nell’unità perfetta del Dio rivelato da Gesù Cristo pulsa dall’eternità un’intensa vita d’amore trinitario. C’è il Padre che per amore genera il Figlio, donandogli tutto ciò che è e tutto ciò che possiede; c’è il Figlio, che riceve tutto dall’amore del Padre, ma che ricambia l’amore ricevuto donandosi a lui con uguale amore; c’è infine lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio, che è il loro mutuo amore, la loro amicizia, la loro comunione consustanziale. Agostino, grande ammiratore di Platone, resta abbagliato dal Dio trino e uno della rivelazione cristiana. Dall’inizio della sua conversione agli ultimi anni di vita spende tutta la forza della sua mente per riflettere sulla Trinità divina, facendosi guidare dalla fede della Chiesa. Il suo contributo più originale alla storia della teologia, riconosciuto anche da S. Bulgakov, sta proprio qui: nell’aver presentato per primo la vita trinitaria come una comunità di amore. Una sua immagine si può trovare anche nell’amore umano: anche nell’amore di un amico “ci sono tre cose: uno che ama, ciò che ama e l’amore ” (Trin 8,10, 14).

Alla luce della rivelazione trinitaria, poi, legge tutta la storia della salvezza, a cominciare dalla creazione. Il mondo è opera della Trinità creatrice ed è opera di amore: “il Padre ha creato insieme tutte le cose ed ogni singola natura per mezzo del Figlio nel dono dello Spirito Santo” (vera rel 7, 13). Dio non ha creato il mondo perché avesse un bisogno da soddisfare, ma per puro amore. Proprio perché Dio ha creato tutto con amore e sapienza, tutte le creature sono buone e belle. In ognuna di esse si possono riconoscere un vestigio della Trinità divina. Un caso del tutto particolare è costituito dall’uomo. L’uomo infatti è l’unica creatura di questo mondo che sia stato creato a immagine di Dio, dotato cioè di ragione e volontà libera per conoscere e amare Dio. Con ciò si comprende la grande dignità dell’uomo, chiamato da Dio a dialogare e cooperare con lui nella storia. L’uomo è l’unico essere sulla terra capace di conoscere il disegno di Dio sulla storia e coinvolgersi liberamente alla sua realizzazione.

Questo disegno, che si è manifestato pienamente in Cristo, è ancora un disegno di amore. Da una parte abbiamo saputo che il Padre “non ha voluto che il suo Unigenito Figlio restasse solo e, affinché avesse dei fratelli, adottò dei figli che potessero possedere con lui la vita eterna”( Io ep tr 8, 14), dall’altra parte che “l’il Figlio unigenito è morto per noi per non rimanere l’unico. L’unico che morì non volle essere il solo. L’unico Figlio di Dio fece molti figli di Dio. Si acquistò dei fratelli con il suo sangue”( S. 171, 5). Così il Padre e il Figlio operano nel mondo per amore l’uno dell’altro e nel loro amore coinvolgono gli uomini. Il disegno divino attraversa tutta la storia dell’uomo e si realizza per tappe. Annunciato in modo oscuro con la promessa fatta ad Abramo, incomincia a prendere piede con l’antico popolo dell’Alleanza, si configura chiaramente con la Chiesa di Cristo e si realizzerà pienamente nel cielo con “la società perfettamente ordinata e concorde, in cui tutti godranno di Dio e l’uno dell’altro in Dio” (Civ Dei 19, 17).

La Chiesa, dunque, è l’altro grande tema della riflessione teologica agostiniana. Essa è vista di preferenza come un mistero di unità : “molti e un solo corpo in Cristo”(ib 10, 6), ma anche come un mistero di carità: la Chiesa è essa stessa Caritas. Nasce il giorno di Pentecoste, quando sui discepoli riuniti nel cenacolo scese lo Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco: “essi furono tutti pieni dello Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue”( At 2, 4). Il prodigio delle lingue per S. Agostino è un chiaro segno della cattolicità della Chiesa, chiamata ad estendersi in tutto il mondo, affinché gli uomini dispersi in una molteplicità di popoli, di lingue e di culture fossero riportati all’unità mediante l’unica fede, l’unica speranza e l’unica carità. La Chiesa, perciò, è un riflesso della Trinità, perché a tenerla unita insieme è lo stesso Spirito Santo, che è il dono che unisce da sempre il Padre e il Figlio: “Essi hanno voluto che noi fossimo in comunione tra noi e con loro con ciò che hanno in comune tra loro e mediante questo dono raccoglierci nell’unità”( S. 71, 12, 18). La vera natura della Chiesa trova la sua prima espressione nella comunità dei credenti descritta dagli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune”(At 4, 32). Sono testi questi di fondamentale importanza per l’ecclesiologia agostiniana. Allo scisma dei Donatisti il vescovo di Ippona oppone costantemente il disegno di Dio di una Chiesa cattolica, diffusa in tutto il mondo, quale si manifesta nella promessa fatta ad Abramo e nel miracolo delle lingue il giorno di Pentecoste. D’altra parte, l’esperienza della comunità di Gerusalemme costituisce per lui un punto di riferimento altrettanto costante per la vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Egli vuole che nella sua chiesa si celebri quotidianamente l’Eucaristia, perché questo è “il sacramento dell’unità” ( Ep 185, 11, 50), “è il sacramento della nostra unità e della nostra pace”( S. 272). Quando si celebra il memoriale del sacrificio della croce, in cui Cristo sacerdote offre se stesso come vittima, la Chiesa si unisce al suo capo, offrendo anche se stessa, la sua vita di reciproca carità, in cui ciascuno porta il peso dell’altro, e impara da lui a offrire se stessa (Civ dei 10, 20).

Ma perché ciò avvenga è necessario che i singoli fedeli siano rinnovati interiormente dallo Spirito Santo. Con il battesimo essi hanno già ottenuto la remissione dei peccati, l’ostacolo che separa da Dio, e sono stati resi figli adottivi di Dio, membri del corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. Sono dunque chiamati a vivere secondo i doni ricevuti, per crescere e progredire nella carità. Non possono più vivere per se stessi, ma come figli amati da Dio, ricambiando l’amore del Padre; come membra del corpo di Cristo, curando gli interessi di Cristo, suo Capo, a beneficio di tutto il corpo, che è la Chiesa; pienamente consapevoli di essere tempio di Dio, per fare della propria vita un’offerta a lui gradita. La vita cristiana così concepita non è che un’esperienza di amore verso Dio e verso i fratelli. Per questo motivo S. Agostino ha combattuto contro ogni tipo di naturalismo e legalismo nella vita morale. Pelagio voleva essere un austero riformatore della Chiesa. Ma nel suo zelo commetteva due errori: da un lato invitava il cristiano a fare pieno affidamento sulla volontà umana, come se tutto il bene dell’uomo dipendesse da lui solo; dall’altro lato dava tanta importanza all’osservanza della legge, senza preoccuparsi affatto dell’amore che deve animare l’osservanza. Così facendo, dimenticava la promessa fatta da Dio per mezzo del profeta che nella nuova Alleanza avrebbe dato ai credenti un cuore nuovo e uno spirito nuovo. La profezia nell’interpretazione dell’Apostolo si è adempiuta con il dono dello Spirito, che ha scritto la legge dell’amore nel cuore dei credenti. Pertanto, conclude S-Agostino, “appartenere al Testamento Nuovo vuol dire avere la legge di Dio scritta non su tavole, ma nel cuore, cioè abbracciare la giustizia della legge negli affetti intimi, dove la fede diventa operosa mediante la carità”(Spir et litt 26, 46). D’altra parte, ancora l’Apostolo aveva detto che “la pienezza o il compimento della legge è l’amore”. Pelagio dimenticava anche questa lezione, rischiando di riportare l’esperienza cristiana al legalismo condannato nel vangelo. Per S. Agostino, invece, quello che conta nell’agire morale è l’amore di Dio e del prossimo. Osservare una legge giusta, fare un’opera di misericordia senza amore o peggio per motivi egoistici, non vale nulla. Il suo invito è che ciascuno interroghi la propria coscienza per sapere qual è la vera motivazione del proprio operare: se la carità o l’amore di sé. Il suo pensiero è racchiuso tutto nel famoso principio: “ama e fa ciò che vuoi”, dove l’amore è quello di benevolenza, che abbraccia il Creatore e le creature.

Alla luce di questa concezione della carità, che abbiamo cercato in fretta di illustrare, non meraviglia che S. Agostino finisca per riporre in essa il criterio supremo per interpretare la Scrittura. Poiché tutta la rivelazione, contenuta nelle Scritture, non parla se non dell’amore di Dio, che si manifesta nella creazione e nell’opera della redenzione, e poiché tutto quello che Dio vuole dall’uomo si riassume nel duplice precetto dell’amore di Dio e del prossimo, “chiunque crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l’edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite”(Dott Crist 1, 36, 40).

DOMENICA 9 MAGGIO 2010 – V DOMENICA DI PASQUA, ANNO C

DOMENICA 9 MAGGIO 2010 - V DOMENICA DI PASQUA, ANNO C dans LETTERATURA PAOLINA - CITAZIONI 14%20ANON%20CHRIST%20AND%20THE%20APOSTLES%20AT%20TABLEBIS

The last supper_La Cene

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-26,26_The%20last%20supper_La%20Cene/2nd_15th_Siecle/index5.html

DOMENICA 9 MAGGIO 2010 – V DOMENICA DI PASQUA, ANNO C

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqC/PasqC6Page.htm

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura  At 15, 1-2. 22-29
È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati».
Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.
Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sulla seconda lettera ai Corinzi» di san Cirillo di Alessandria, vescovo     (Cap. 5, 5 – 6; PG 74, 942-943)

Dio ci ha riconciliati per mezzo di Cristo
e ci ha affidato il ministero della riconciliazione
Chi ha il pegno dello Spirito e possiede la speranza della risurrezione, tiene come già presente ciò che aspetta e quindi può dire con ragione di non conoscere alcuno secondo la carne, di sentirsi, cioè, fin d`ora partecipe della condizione del Cristo glorioso. Ciò vale per tutti noi che siamo spirituali ed estranei alla corruzione della carne. Infatti, brillando a noi l’Unigenito, siamo trasformati nel Verbo stesso che tutto vivifica. Quando regnava il peccato eravamo tutti vincolati dalle catene della morte. Ora che è subentrata al peccato la giustizia di Cristo, ci siamo liberati dall’antico stato di decadenza.
Quando diciamo che nessuno è più nella carne intendiamo riferirci a quella condizione connaturale alla creatura umana che comprende, fra l’altro, la particolare caducità propria dei corpi. Vi fa cenno san Paolo quando dice: «Infatti anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5, 16). In altre parole: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), e per la vita di noi tutti accettò la morte del corpo. La nostra fede prima ce lo fa conoscere morto, poi però non più morto, ma vivo; vivo con il corpo risuscitato al terzo giorno; vivo presso il Padre ormai in una condizione superiore a quella connaturale ai corpi che vivono sulla terra. Morto infatti una volta sola non muore più, la morte non ha più alcun potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio (cfr. Rm 6, 8-9).
Pertanto se si trova in questo stato colui che si fece per noi antesignano di vita, è assolutamente necessario che anche noi, calcando le sue orme, ci riteniamo vivi della sua stessa vita, superiore alla vita naturale della persona umana. Perciò molto giustamente san Paolo scrive: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco ne sono nate di nuove!» (2 Cor 5, 17). Fummo infatti giustificati in Cristo per mezzo della fede, e la forza della maledizione è venuta meno. Poiché egli è risuscitato per noi, dopo essersi messo sotto i piedi la potenza della morte, noi conosciamo il vero Dio nella sua stessa natura, e a lui rendiamo culto in spirito e verità, con la mediazione del Figlio, il quale dona al mondo, da parte del Padre, le benedizioni celesti.
Perciò molto a proposito san Paolo scrive: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (2 Cor 5, 18). In realtà il mistero dell’incarnazione e il conseguente rinnovamento non avvengono al di fuori della volontà del Padre. Senza dubbio per mezzo di Cristo abbiamo acquistato l’accesso al Padre, dal momento che nessuno viene al Padre, come egli stesso dice, se non per mezzo di lui. Perciò «tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5, 18).

DOMENICA 2 MAGGIO 2010 – V DI PASQUA

DOMENICA 2 MAGGIO 2010 – V DI PASQUA

MESSA DEL GIORNO, LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqC/PasqC5Page.htm

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura  At 14, 21b-27
Riferirono alla comunità tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro.
 
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
 
UFFICIO DELLE LETTURE

(anche Paolo)

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Massimo di Torino, vescovo
(Disc. 53, 1-2. 4; CCL 23, 214-216)
 
Cristo è luce
La risurrezione di Cristo apre l’inferno. I neofiti della Chiesa rinnovano la terra. Lo Spirito Santo dischiude i cieli. L’inferno, ormai spalancato, restituisce i morti. La terra rinnovata rifiorisce dei suoi risorti. Il cielo dischiuso accoglie quanti vi salgono.
Anche il ladrone entra in paradiso, mentre i corpi dei santi fanno il loro ingresso nella santa città. I morti ritornano tra i vivi; tutti gli elementi, in virtù della risurrezione di Cristo, si elevano a maggiore dignità.
L’inferno restituisce al paradiso quanti teneva prigionieri. La terra invia al cielo quanti nascondeva nelle sue viscere. Il cielo presenta al Signore tutti quelli che ospita. In virtù dell’unica ed identica passione del Signore l’anima risale dagli abissi, viene liberata dalla terra e collocata nei cieli.
La risurrezione di Cristo infatti è vita per i defunti, perdono per i peccatori, gloria per i santi. Davide invita, perciò, ogni creatura a rallegrarsi per la risurrezione di Cristo, esortando tutti a gioire grandemente nel giorno del Signore.
La luce di Cristo è giorno senza notte, giorno che non conosce tramonto. Che poi questo giorno sia Cristo, lo dice l’Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13, 12). Dice: «avanzata»; non dice che debba ancora venire, per farti comprendere che quando Cristo ti illumina con la sua luce, devi allontanare da te le tenebre del diavolo, troncare l’oscura catena del peccato, dissipare con questa luce le caligini di un tempo e soffocare in te gli stimoli delittuosi.
Questo giorno è lo stesso Figlio, su cui il Padre, che è giorno senza principio, fa splendere il sole della sua divinità.
Dirò anzi che egli stesso è quel giorno che ha parlato per mezzo di Salomone: «Io ho fatto sì che spuntasse in cielo una luce che non viene meno» (Sir 24, 6 volg.). Come dunque al giorno del cielo non segue la notte, così le tenebre del peccato non possono far seguito alla giustizia di Cristo. Il giorno del cielo infatti risplende in eterno, la sua luce abbagliante non può venire sopraffatta da alcuna oscurità. Altrettanto deve dirsi della luce di Cristo che sempre risplende nel suo radioso fulgore senza poter essere ostacolata da caligine alcuna. Ben a ragione l’evangelista Giovanni dice: La luce brilla nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta (cfr. Gv 1, 5).
Pertanto, fratelli, tutti dobbiamo rallegrarci in questo santo giorno. Nessuno deve sottrarsi alla letizia comune a motivo dei peccati che ancora gravano sulla sua coscienza. Nessuno sia trattenuto dal partecipare alle preghiere comuni a causa dei gravi peccati che ancora lo opprimono. Sebbene peccatore, in questo giorno nessuno deve disperare del perdono. Abbiamo infatti una prova non piccola: se il ladro ha ottenuto il paradiso, perché non dovrebbe ottenere perdono il cristiano?   

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