Archive pour la catégorie 'LETTERATURA PAOLINA – CITAZIONI'

Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

dal sito:

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28/05/2010

Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

di Dionigi Tettamanzi, Avvenire 28.5.10

Abramo accoglie tre stranieri e ottiene un figlio, Paolo a Malta vince i pregiudizi…

Vi è un’icona singolarmente evocativa che illustra bene anche l’etimologia del nostro vocabolo «ospite», che deriva da due radici delle lingue indoeuropee: la radice hos/host ovvero «pellegrino, forestiero» e la radice pa/pati cioè «sostenere, proteggere ». L’ospite sarebbe dunque «colui che sostiene o dà da mangiare ai pellegrini, ai forestieri». L’icona biblica che ci svela il senso profondo e insieme originale e affascinante dell’ospitalità (secondo il disegno di Dio e quindi secondo la natura e il dinamismo stessi dell’uomo) si trova nel capitolo 18 di Genesi, dove Abramo viene presentato nella sua generosità di ospite.
Nell’ora più calda del giorno Abramo vede passare tre personaggi sconosciuti, che il narratore ci fa intuire essere un «signore» e due accompagnatori. Corre loro incontro, si prostra e li accoglie con tutte le premure nella sua tenda. Dal momento che i tre acconsentono di fermarsi da lui, Abramo organizza – da efficiente capofamiglia – l’ospitalità. Alla moglie Sara dà ordini di cuocere il pane, all’armento corre egli stesso e prepara un vitello prelibato che offre agli ospiti con panna e latte fresco. Dopo aver mangiato, il personaggio – che rimane senza nome –, quasi come ricompensa dell’ospitalità ricevuta, fa questa promessa ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Quel figlio dovrà essere chiamato Isacco. Per questo il narratore annota che Sara, stando a origliare all’ingresso della tenda, essendo ormai oltre l’età di partorire, sorride («isaccheggia» dovremmo dire in italiano, coniando un neologismo per richiamare in questo sorriso il nome stesso di Isacco). A questo punto il narratore lascia cadere ogni indugio e dà il nome a quel signore con i suoi due accompagnatori: è il Signore stesso, Adonài, che conferma ad Abramo: «Perché Sara ha riso (‘isaccheggiato’) dicendo: ‘Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia’? C’è qualche cosa d’impossibile per il Signore (Adonài)? ». Con questo stupendo quadro narrativo, l’autore del libro di Genesi porta a perfezione il tema della promessa del figlio e introduce, in antitesi, l’esito catastrofico della città inospitale di Sòdoma, ove due degli ospiti di Abramo scendono, dopo essersi fermati da lui. Dice il midrash: uno per distruggere Sòdoma, l’altro per proteggere Lot. Vorrei rilevare come la singolarità e la bellezza della pagina di Genesi stanno proprio nell’incontro, nella fusione di questi due motivi: l’ospitalità e la promessa di un figlio, l’accoglienza dell’altro e il dono che si riceve, come a dire che la «fecondità» (che possiamo intendere nel suo senso più vasto di vita e di pienezza di vita) è il frutto dell’ospitalità. I due motivi e il loro intrecciarsi – che peraltro sono presenti anche in non poche tradizioni extrabibliche – avranno una singolare eco nel seguito della rivelazione biblica, giungendo sino alla loro straordinaria interpretazione cristologica: con l’ospitalità il discepolo – e in un certo senso ogni uomo – accoglie Cristo stesso. (…) Per rimanere ancora nell’ambito delle Scritture vorrei qui ricordare, tra gli altri, il tragico naufragio dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio, che si concluse con un gesto di grande ospitalità da parte della gente di Malta. Così leggiamo negli Atti degli Apostoli : «Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo». Ma ecco un pericolo imprevisto e una reazione inaspettata: «Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra loro: ‘Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere’. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio». Il seguito del racconto ci parla ancora di un’ospitalità che viene ricambiata con l’inaspettato dono di un ‘miracolo’, la guarigione di persone malate. Il racconto si conclude con un rinnovato accenno all’ospitalità: «Ci colmarono di molti onori e, al momento della partenza, ci rifornirono del necessario». Nella cultura antica, il forestiero e l’ospite diventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giungeva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo ‘prodigio’ non avviene più. Nell’antichità l’ospite non solo era accolto, ma addirittura diveniva qualcosa di superiore al cittadino normale. In una società quasi priva di mezzi di comunicazione, egli era anche un messaggero di un altro mondo e aveva sempre qualcosa da insegnare. Certo vi erano, anche nell’antichità, dei casi in cui lo spostamento di gente numerosa poteva dar luogo a difficoltà e conflitti: pensiamo anche solo al racconto biblico dell’insediamento di coloro che sarebbero diventati i padri d’Israele nel territorio occupato dai Cananei. Ma, nel complesso, una certa quantità di nomadi era considerata normale in tutte le terre. Anche l’Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo. Incontrare un cinese o un indiano risvegliava curiosità più che diffidenza. Era un atteggiamento comune tra la nostra gente, parte della nostra cultura, che non fu quasi per niente intaccato dal breve periodo di colonialismo italiano («Italiani, brava gente!») e da quello ancor più breve e meno condiviso del razzismo fascista. (…) È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all’immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell’antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l’accesso di coloro che abitano vicino. Così negli Stati Uniti, alla fine delle guerre contro le tribù autoctone, si costruirono riserve per rinchiudervi gli indiani. Così, ancora, il nazismo cominciò la sua Endlösung, «soluzione finale» contro gli ebrei, richiudendoli tutti nei ghetti. E lo stalinista Ulbricht cancellò il mondo capitalista dietro al muro di Berlino. E il Sudafrica sigillò i confini dell’apartheid con una barriera elettrificata ad alta tensione. È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l’incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un clic un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall’altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei Paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l’Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo ». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell’immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all’asfissia. Proprio come l’avaro, che muore d’inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger: «Quanto più un Paese costruisce barriere per ‘difendere i propri valori’, tanto meno valori avrà da difendere».

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/escatologia/venutanikolai.htm

San Nikolai Velimirovich, vescovo di Ohrid e Zhicha

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

La comprensione ortodossa della Seconda Venuta di Cristo è chiara: il Signore Gesù Cristo veramente tornerà. Il suo secondo avvento, non è un mito, né una promessa vuota, né è una metafora, infatti, ogni volta che si celebra la Divina Liturgia, il sacerdote fa un proclamazione al Padre che rivela come la Chiesa risponde non solo alla Seconda Venuta di Cristo, ma a tutta la Sua opera.

Ricordando questo comandamento di salvezza (il comandamento di Gesù a mangiare la sua carne e bere il suo sangue) e tutto ciò che è stato fatto per noi, la Croce, la Tomba, la Risurrezione il terzo giorno, l’Ascensione al Cielo, l’Assisa alla destra e la Seconda e gloriosa Venuta – noi ti offriamo ciò che è tuo, da ciò che è tuo, in tutto e per tutto*.

I cristiani ortodossi credono anche la rivelazione del Nuovo Testamento della seconda venuta di Cristo è intesa a stimolare la nostra preparazione, non le nostre speculazioni su di essa. Questo spiega la relativa semplicità con cui il Credo di Nicea, la confessione più universale della fede di tutta la cristianità, indirizzi al ritorno di Cristo: “Egli… di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, il cui Regno non avrà fine”. L’enfasi dell’Ortodossia storica è che Gesù tornerà, non quando Egli tornerà.

Così san Paolo scrive: “rinunciando all’empietà e ai desideri mondani, per vivere in questo mondo sobriamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone (Tito 2, 12-14).

Ci sono segni della Venuta di Cristo, per essere sicuri. Gesù profetizzò tanti eventi che avrebbero avuto luogo nel mondo, prima del Suo ritorno (Matteo 24; Luca 21, 7-36). Ma persino qui gli insegnamenti di Gesù in questi evangeli si concludono con la sua esortazione alla virtù, alla giustizia, e alla preparazione per il Giudizio. Cristo e gli apostoli danno ammonimenti severi, impliciti ed espliciti, contro il tirare a indovinare il tempo della sua venuta (Matteo 24, 3-8. 36.43.44.50; Luca 21, 7-9.34; Atti 1, 7; I Tessalonicesi 5, 1-3; II Pietro 3, 8-10).

Gran parte della moderna cristianità ha ceduto alla divisiva speculazione riguardo al ritorno di Cristo. Siamo stati divisi in partiti pre-millenari, post-millenari, e millenari. Suddividendo ancora di più, ci sono aderenti alla pre-tribolazione, medio-tribolazione, e post-tribolazione. Cristiani separati e nuove denominazioni si slanciano intorno a interpretazioni di eventi che non sono ancora nemmeno venuti ad accadere!

Nel corso della storia la Chiesa ortodossa ha fermamente insistito sulla realtà della Seconda Venuta di Cristo come una convinzione consolidata, ma ha concesso libertà sulla questione di quando ciò si verificherà. Nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse Gesù dice le parole: “Io vengo presto”, per tre diverse volte (Apocalisse 22, 7.12.20). La sua Venuta avverrà in un giorno, in un’ora in cui non ci si aspetta, l’apostolo Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, conclude il suo libro con un avvertimento: “Io lo dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della santa città che sono descritti in questo libro” (Apocalisse 22, 18-19).

Confessare il ritorno di Cristo è stare saldamente all’interno della Tradizione Apostolica. Aggiungere il “quando” alla promessa della sua venuta è contrario alle Scritture. Come membri della Sposa di Cristo, dobbiamo invece vigilare per essere pronti.

Tradotto per Tradizione Cristiana da E. M. novembre 2009

Conversione dell’Apostolo Paolo (25 gennaio 2009)

ancora un bel commento sulla conversione di San Paolo, dal sito:

http://www.domenicanipistoia.it

Conversione dell’Apostolo Paolo

di Alessandro Cortesi op – 25 gennaio 2009
 Pistoia – Italia

Festa della conversione di san Paolo – anno paolino

At 22,3-16; Sal 116; 1Cor 7,29-31; Mt 16,15-18

In quest’anno paolino la festa della conversione di san Paolo coincide con la domenica e si può essere celebrata l’Eucaristia con le letture della festa (mentre la seconda lettura è tratta dalla liturgia della III domenica del tempo ordinario).
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La figura di Paolo è affascinante e complessa. Tutta la sua vita trova un momento di svolta nell’evento descritto per tre volte in contesti diversi nel testo degli Atti degli apostoli (ai capitoli 9, 22 e 26) come accaduto sulla via di Damasco. Ma anche Paolo stesso fa riferimento, a suo modo, nella lettera ai Galati, al passaggio fondamentale della sua vita avvenuto a metà degli anni ’30 del I secolo. In questo testo Paolo parla della sua esperienza per affernare che il vangelo da lui annunziato non è ‘modellato sull’uomo’, cioè non è frutto di pensiero o di opera umana ma è un dono. Egli stesso l’ha ricevuto ‘per rivelazione di Gesù Cristo’. Paolo non dice come ciò avvenne, ma gli è chiaro il senso profondo di tale evento: « quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco » (Gal 1,15-17).
In queste poche righe dettate dalla sua voce, viene espressa l’esperienza unica e totalmente gratuita di sentirsi chiamato e oggetto di un dono di benevolenza. La ‘rivelazione’ riguarda non qualcosa, ma qualcuno: ‘colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio’. C’è una centralità di Gesù Cristo, unita al dono di grazia del Padre che segnerà d’ora in poi la vita di Paolo: la bella notizia che dovrà annunziare proviene da Gesù Cristo. In altri testi Paolo dirà che il ‘vangelo’ è l’agire di Dio che ci ha amati gratuitamente, ci ha liberati dal peccato in Cristo e in lui siamo salvati per mezzo della fede (Rom 1,16; 3,21). E’ un rapporto con Gesù nella sua condizione di risorto, in vista di un compito che Paolo avverte inscindibilmente legato a questa chiamata. Da qui ha inizio una missione determinata: annunziare il Cristo in mezzo ai pagani. Paolo sottolinea l’autorità della chiamata e della scelta e con essa la gratuità. Non sente perciò la necessità di andare a Gerusalemme dagli apostoli.
Le pagine degli Atti degli apostoli riprendono questi dati assai sobri e ne offrono una narrazione ampliata: Paolo è presentato come fariseo zelante, in viaggio verso Damasco per ricercare i cristiani di costì – ‘coloro che erano della via’ – e per farli prigionieri. Due elementi segnano l’evento che accade sulla via: la voce e la luce. La voce, appello di Gesù a Paolo, genera un breve dialogo ed è percepita da Paolo solamente (in At 22,7, mentre in At 9,7 è udita anche dagli altri) mentre la luce è vista anche dai presenti: « Saulo Saulo perché mi perseguiti? » « chi sei Signore? ». Nella domanda di Paolo già è racchiusa la professione di fede nel Cristo come Signore, la voce risponde rinviando alla vicenda di Gesù di Nazareth ed al rapporto tra Gesù e i suoi discepoli: « io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti ». Compare qui la stretta identificazione tra Gesù e i suoi discepoli perseguitati. Inoltre in At 22 Paolo riceve il comando di recarsi a Damasco dove avrebbe poi ricevuto indicazioni: la narrazione accentua la cecità di Paolo, condotto per mano dai compagni fino a Damasco: lì l’incontro con il cristiano Anania gli fa riacquistare la vista. At 9 amplia questo momento e narra di una visione di Anania che recandosi da Paolo dice « mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo » (At 9,17). Allora Paolo recuperò la vista e fu battezzato. La luce folgorante aveva causato la cecità, ora la presenza e la compagnia di Anania fa riacquistare la vista e il battesimo è presentato come ‘illuminazione’ e possibilità di sguardo nuovo.
Questi testi ci fanno entrare nell’intimo della vicenda di Paolo. La prima questione è se quella di Paolo fu una vera e propria ‘conversione’. Paolo era un convinto credente nel Dio di Abramo, della promessa e della legge: l’evento di Damasco gli rovescia il modo di considerare la religione e la vita stessa, ma gli fa percepire in modo più profondo la sua stessa tradizione di fede. Nella lettera ai Galati Paolo sottolinea il riferimento a Dio che lo scelse fin dal seno di sua madre: la sua fede rimane ancorata al Dio di Israele. Pur in tale continuità a Damasco irrompe una luce nuova, il Risorto lo investe della sua presenza e lo conduce a concepire in modo nuovo il rapporto con il Dio dei padri. Sta qui l’origine di quella tensione che Paolo vivrà nel sentirsi fratello e membro del popolo d’Israele, interrogandosi sul ruolo del suo popolo nella storia della salvezza, e contemporaneamente nell’avvertire la profonda novità dell’incontro personale con Gesù Cristo e l’apertura del vangelo a tutta l’umanità. Paolo vive la consapevolezza di essere stato chiamato gratuitamente, non per le sue opere, né per il suo zelo religioso, né per la sua cultura raffinata. Credere per lui diviene allora affidamento che sgorga dal sapersi toccato dalla gratuità di Dio senza alcun merito. Il vangelo che Paolo accoglie è la bella notizia del dono di presenza di Gesù il risorto. Tutto ormai nella sua vita ruoterà attorno all’essere ‘in Cristo’.
Da questo incontro deriva quanto Paolo scrive ai Corinzi: ‘il tempo ormai si è fatto breve’. Tutta la vita diviene momento di passaggio in cui stare dentro le situazioni, ma nel contempo guardare all’approdo finale, cioè all’incontro con Cristo. Vivere come se… non è una forma di estraneità e di disimpegno, piuttosto l’attuare una fedeltà al tempo ed alle situazioni con uno sguardo proteso all’orizzonte ultimo della vita che è l’incontro con Cristo che comunica la grazia del Padre.
Nella sua esperienza di essere stato scelto come apostolo (cfr Rom 1,1) Paolo ha compiuto il comando lasciato da Gesù ai suoi: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura’. Non solo gli ebrei, non solo coloro che appartengono ad una religione, non solamente una categoria particolare, ma ogni uomo e donna può aprirsi ad accogliere, nella fede, nella sua vita questo dono di grazia.

http://www.domenicanipistoia.it

“Essere santi” con Paolo: Chi sono i «santi» ai quali si rivolge l’Apostolo? (1Tm)

dal sito:

http://ffz.leonardo.it/lofi/-Essere-santi-con-Paolo/D8890103.html

“Essere santi” con Paolo

Chi sono i «santi» ai quali si rivolge l’Apostolo? (1Tm)

ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di don Carlo Cibien, dottore in teologia con specializzazione in sacramentaria, apparso sul numero di novembre di Paulus, dedicato alla Prima lettera a Timoteo e al tema “Paolo l’organizzatore”.

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La fede dell’apostolo Paolo ha radici profonde nella fede secolare del popolo d’Israele. Quando ci si interroga sulla sua idea di “santità” occorre dunque ripercorrere, almeno a grandi linee, la strada intrapresa dall’Apostolo.

Dio solo è “il Santo”

Il comando del Signore, introdotto in Levitico 11,44: «Santificatevi e siate santi perché io sono santo» è poi ribadito nel cosiddetto “Codice di santità”: «Parla a tutta la comunità dei figli d’Israele e di’ loro: Siate santi, perché santo sono io, il Signore Dio vostro. Ognuno di voi abbia riverenza per sua madre e suo padre e osservate i miei sabati. Io sono il Signore Dio vostro» (Lv 19,2-3). Qualche commentatore si trova imbarazzato di fronte a questo particolare ordine (madre, padre, sabato). Forse gli sfugge che nel brano ci sono, ma in ordine crescente, le tre componenti essenziali della legge di Dio: Dio stesso; il sabato, come spazio cosmico in cui gli uomini s’incontrano con Dio; i genitori: madre e padre, come datori di vita ed educatori alla pratica del sabato e dunque al rapporto con Dio, e come educatori al rapporto con gli altri uomini e con la società nella storia. Quella indicata dal codice di Levitico 19 è dunque una santità densa: la santità che viene da Dio e che Dio chiede al suo popolo, una santità olistica, che investe ogni aspetto della vita. Santità presente e santità futura Nel Nuovo Testamento il plurale “santi” – mentre al singolare è usato solo per Dio – appare nella descrizione della risurrezione di Gesù: «Le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono. Infatti, dopo la risurrezione di lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (Mt 27,52-53). E quindi nelle descrizioni della parusìa: «Il Signore [...] confermi i vostri cuori irreprensibili nella santità davanti a Dio nostro Padre, nella venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,13), assimilando così i santi agli angeli, che nella tradizione giudaica fanno corona al Signore nel giorno della sua venuta (cfr. Zc 14,5). Anche in questo caso la santità è un termine di unione tra Dio e gli uomini e tra il mondo presente e quello futuro. Potremmo allora collegare alla santità quella definizione che san Tommaso dava della grazia: Gratia nihil aliud est quam quaedam inchoatio gloriae in nobis (STh II-II, q 24, a 3, ad 3), la grazia è il canale che alimenta costantemente la nostra santificazione, fino alla glorificazione in Cristo.

Paolo “strumento” di santificazione

Su questi ambiti di santità Paolo innesterà la nuova situazione che si è venuta a creare per l’umanità con l’incarnazione del Cristo e con tutti quegli eventi teantropici – cioè divino-umani – che hanno costituito poi il kérygma primitivo. Con l’incarnazione di Cristo, Dio dice una parola nuova sull’umanità, una sorta di “nuova creazione”. La comunità dei “cristiani” (cfr. At 11,26) sarà dunque identificata come comunità di santi. Anania, in dialettica con il Signore circa Saulo, dice: «Ho udito molti parlare di quest’uomo e di quanto male ha fatto ai tuoi santi in Gerusalemme» (At 9,13). E la stessa espressione sarà usata da Paolo nel suo discorso di difesa di fronte al re Agrippa (cfr. At 26,10) quando chiamerà in causa il compimento della promessa fatta da Dio ai padri (At 26,6-8) ed evocherà il suo incontro con il Cristo (At 26,13) che gli dice: «Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali io ti mando, per aprire loro gli occhi perché si convertano dalle tenebre alla luce e [...] ottengano la remissione dei peccati e abbiano l’eredità tra i santificati per la fede in me» (At 17-18). Il “motore” di questa santificazione è subito precisato da Paolo: «Con l’aiuto di Dio fino a questo giorno io ho continuato a rendere testimonianza agli umili e ai potenti, non dicendo nient’altro se non ciò che i profeti e Mosè dissero che doveva avvenire, che il Cristo doveva soffrire e che, risuscitato per primo da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e ai pagani» (At 26,22-23). E quando Agrippa lo riprende con ironia – «Ancora un poco e mi persuadi a farmi cristiano» –, Paolo è pronto a rispondergli: «O poco o molto, Dio volesse che non solo tu, ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano diveniste come io sono, all’infuori di queste catene» (At 26,28-29).

I cristiani: comunità di santi

Paolo è cosciente di non diffondere un messaggio estraneo alla storia del popolo eletto: quel comando contenuto nel Levitico, ora si realizza, ma in un modo nuovo. Paolo non si distacca dal suo passato, non rinnega le proprie radici. Semplicemente è invitato a non fissarsi sulle posizioni raggiunte e lascia che Dio compia in lui il suo disegno: «Per grazia di Dio – dice in 1Corinzi 15,10 – sono quello che sono, e la sua grazia in me non fu vana; anzi, ho faticato più di tutti loro, non io invero, ma la grazia di Dio». Le comunità a cui sono indirizzate le lettere paoline sono spesso chiamate “santi” (Ef 1,4; Col 1,2; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Rm 1,7). Nella Lettera ai Romani, espressione della maturità, l’Apostolo scrive: «Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato apostolo, consacrato al vangelo di Dio [...] a tutti coloro che si trovano in Roma, amati da Dio, chiamati santi». Quindi descrive il proprio mandato: «Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia e la missione apostolica per portare all’obbedienza della fede tutti i gentili a gloria del suo nome, tra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo»; non senza averne spiegato i contenuti: «Vangelo che egli aveva preannunciato per mezzo dei suoi profeti negli scritti sacri riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la natura umana, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti: Gesù Cristo Signore nostro». Come dirà in seguito: «Lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù da morte abita in voi, Colui che risuscitò da morte Cristo Gesù darà la vita anche ai vostri corpi mortali, in forza dello Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). Questa santità si concretizza in un “comportamento santo” molto concreto. Ad esso Paolo richiama a più riprese le sue comunità, spronandole alla carità verso la “comunità santa” per speciale vocazione: «Ora mi metto in viaggio verso Gerusalemme per rendere un servizio ai santi. È parso bene, infatti, alla Macedonia e all’Acaia, di fare una colletta per i poveri che si trovano tra i santi in Gerusalemme. È parso loro bene, poiché sono anche debitori verso di essi. Se, infatti, i gentili sono venuti a far parte dei beni spirituali, devono rendere loro un servizio sacro [= liturgia] nelle loro necessità materiali» (Rm 15,25-27).
Nell’indirizzo della 1Corinzi, Paolo sinteticamente scrive: «Paolo [...] alla chiesa di Dio che è a Corinto, ai santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi con tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, nostro e loro». Egli esprime così le due modalità di santificazione: il cristiano è già oggettivamente santificato in Cristo Gesù, ma deve corrispondere soggettivamente rispondendo lungo tutta la sua vita alla chiamata alla santità. Tra l’azione oggettiva di Dio e la santità parusiaca in Cristo, si colloca dunque l’azione libera di ogni persona/comunità che risponde singolarmente/ comunitariamente al Padre, in Cristo, nello Spirito. Tale impegno è costante e investe ogni momento della vita, anche nel caso di valutazioni e giudizi: «Vi è tra di voi chi, avendo una questione con un altro, ha l’ardire di farsi giudicare dagli ingiusti anziché dai santi?». Ma anche in questo caso, la santità in Cristo lega il mondo terreno a quello celeste: «O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? [...] Non sapete che giudicheremo gli angeli?» (1Cor 6,1ss.). Paolo quindi conclude: «O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? [...] E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!» (1Cor 6,9-11).

Carlo Cibien

19 FEBBRAIO 1917 : DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV AI SACRI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/speeches/documents/hf_ben-xv_spe_19170219_lenten-priests_it.html

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV AI SACRI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

19 febbraio 1917

Ai dilettisimi Nostri figli, che nella imminente Quaresima dovranno annunziare la divina parola ai fedeli di Roma, Noi non facciamo torto ricordando che, nell’esercizio dell’importante ministero ad essi affidato, devono prendere a guida e modello l’Apostolo San Paolo. Camminando sulle orme del Dottore delle Genti, essi non potranno fallire a gloriosa meta, e, come San Paolo, fatti « vasi di elezione », anch’essi porteranno il nome di Gesù « dinanzi alle genti, ai re e ai figliuoli d’Israele » (Act., IX, 15).
Ma perché ai predicatori di Roma, quasi alla vigilia del giorno in cui dovranno intraprendere l’importante loro ministero in quest’Alma Città, perché ricordiamo che devono avere a guida e modello San Paolo? Non per altra ragione, o dilettissimi, se non perché desideriamo che, al termine della vostra predicazione in Roma, voi possiate ripetere con ogni verità ciò che San Paolo diceva dopo di aver predicato ai fedeli di Corinto: « Il mio parlare e la mia predicazione non furono nelle persuasive parole dell’umana sapienza, ma nella manifestazione di spirito e di virtù; Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis » (I Cor., II, 4).
Da Atene il grande Apostolo era passato a Corinto, e per lo spazio di diciotto mesi aveva predicato al « popolo grande », che Iddio aveagli detto di avere in quella città, « quoniam populus est mihi multus in hac civitate » (Act., XVIII, 10); ma, essendosi poi recato ad Efeso, avea quivi ricevuto notizia di alcune divisioni suscitate nella chiesa di Corinto da falsi apostoli, e di vari disordini in essa introdotti dopo la sua partenza. A scagionarne se stesso, San Paolo giudicò opportuno dichiarare quale fosse stata la sua predicazione nell’Acaia, e fu in quell’occasione che, riferendosi appunto al ministero da lui compiuto in Corinto, scrisse le già citate parole: « Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapentiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ». È facile comprendere che con queste parole San Paolo indicava, per escluderlo, un indebito modo di predicare « non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », e significava insieme, per dirla da lui tenuta, una conveniente maniera di ammaestrare il popolo « in ostensione spiritus et virtutis ». Ma se con queste parole il Dottore delle Genti dimostrava non imputabili alla sua predicazione i disordini suscitati in Corinto dopo la sua partenza dall’Acaia, riesce a tutti manifesto che Noi, augurando ai predicatori di Roma di poter ripetere, al termine della loro predicazione, le parole stesse di San Paolo, li scagioniamo fin d’ora da ogni responsabilità in tutto ciò che di meno giusto e di men retto potrà compiersi in Roma dopo la loro partenza da quest’Alma Città.
Voi, o dilettissimi figli, vorreste esserCi grati di avere addotto l’esempio di San Paolo per liberarvi previamente dal sofisma « post hoc, ergo propter hoc ». Ma Noi non sapremmo esimerCi dall’esporvi tutto il Nostro pensiero. Scrivendo da Efeso ai fedeli di Corinto, l’Apostolo faceva appello alla predicazione da lui tenuta in quella nobilissima città dell’Acaia, non solo per escludere che i disordini posteriormente suscitati potessero mai attribuirsi a quella predicazione, ma anche per dimostrare che dalla predicazione stessa erano stati anticipatamente condannati. Allo stesso modo, o dilettissimi, Noi vorremmo che di qualunque delitto o disordine che per avventura si dovesse lamentare in Roma dopo la prossima Pasqua, si potesse sempre affermare essere stato previamente sfolgorato dai predicatori della Quaresima del 1917. Il perché Ci sembra non dover riuscire inutile un più attento esame delle surriferite parole di San Paolo. Noi auguriamo che voi possiate farle vostre al termine della predicazione quaresimale, che ora state per intraprendere: nulla quindi è più naturale che la sollecitudine Nostra di farvene bene apprendere e meglio gustare il senso.
Cominciamo pertanto coll’osservare che, non senza motivo, l’Apostolo ha distinto le due forme di linguaggio da lui tenuto in Corinto, perché altra cosa è discorrere in privato, « sermo meus », e altra predicare in pubblico, « et praedicatio mea ». Ma, poiché nell’una e nell’altra San Paolo escluse l’indebito modo e dichiarò la maniera conveniente da lui tenuta, Noi dobbiamo rilevarne che il predicatore è anzitutto avvertito di non dover mirare solo « a far bene sul pulpito », ma anche ad osservare un lodevole contegno nel tratto familiare, che nei giorni della quadragesimale predicazione gli avvenga di dover usare con ecclesiastici e laici, con giovani e vecchi, con poveri e ricchi, con uomini e donne. San Francesco di Sales diceva che il vero carattere del Vescovo è conosciuto solo dai più intimi familiari di lui, e Noi vorremmo che lo zelo dei predicatori di Roma apparisse non solo negli elaborati discorsi che pronunzieranno dai pulpiti delle Nostre chiese, ma altresì nella gravità della loro condotta, nella loro pietà e devozione al santo altare, e specialmente nella carità e nella pazienza, onde li speriamo pronti ad accogliere chiunque faccia appello al loro ministero. Senza queste disposizioni dell’animo, non potrebbe appropriarsi la prima parola di S. Paolo « sermo meus » nemmeno chi, nel pubblico esercizio del sacro ministero, si accostasse in tal guisa all’Apostolo da poter fare sue le altre parole di lui.
Ma nel sacro oratore i fedeli considerano principalmente la missione pubblica, ossia l’esterno esercizio del ministero a lui affidato. Epperò, senza insistere ulteriormente sulla condotta privata, che voi dovrete osservare e che Noi non dubitiamo sarà in tutti lodevolissima, volgiamo piuttosto lo sguardo alla predicazione pubblica di San Paolo, per argomentarne quale dovrà essere la vostra.
Già abbiamo detto che l’Apostolo dichiara ad un tempo « ciò che non fu » e « ciò che invece è realmente stata » la sua predicazione in Corinto. Laonde, chiunque voglia conoscere l’indole vera della predicazione di San Paolo, deve porre mente così a ciò che l’Apostolo ne esclude come a ciò che egli addita in essa.
« Praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », ecco « ciò che non fu» la predicazione di San Paolo ai Corinti. Si ingannerebbe chi credesse che l’Apostolo abbia voluto con queste parole significare disprezzo della scienza profana o della profana cultura, perché egli stesso in altra occasione, scrivendo ai medesimi fedeli di Corinto, ebbe a dire che, sebbene apparisse « rozzo nel parlare, non lo era però nella scienza; etsi imperitus sermone, sed non scientia » (II Cor., XI, 6). Ma, se non intendeva disprezzare la scienza profana, San Paolo voleva significare che su questa non aveva poggiato il suo insegnamento. Aveva egli a cuore di poter dire che la fede da lui istillata a quei di Corinto dovea posarsi sulla potenza di Dio in opposizione alla sapienza dell’uomo: « ut fides vestra non sit in sapientia hominum, sed in virtute Dei » (loc. cit., v. 5). Si comprende dunque agevolmente che, quando diceva « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », San Paolo escludeva gli argomenti dedotti dalle scienze profane ed escludeva altresì ogni forma di linguaggio, che fosse stata propria di un espositore di cose profane.
È d’uopo infatti non perdere di vista il nesso logico del discorso dell’Apostolo. Volendo dimostrare che non si doveano a lui attribuire i disordini che si erano lamentati a Corinto, egli aveva cominciato col rammentare che, quando si era colà recato, non si era punto presentato « con sublimità di ragionamento o di sapienza; veni non in sublimitate sermonis aut sapientiae ». Questa distinzione, fatta dall’Apostolo tra « la sublimità del ragionamento e quello della sapienza », Ci permette di dire che al memore sguardo di lui si presentavano in quel momento e la materia e la forma della sua predicazione, ed egli poteva affermare che né la forma erane stata sublime, « non in sublimitate sermonis », né ricercata o astrusa ne era stata la materia, « non in sublimitate sapientiae ». E che accennasse a sapienza profana quando escludeva di essersi presentato « in sublimitate… sapientiae », si deduce anche bene dalle parole che San Paolo soggiungeva: « Non enim iudicavi me scire aliquid inter vos nisi Iesum Christum et hunc crucifixum ». Se nel predicare ai fedeli di Corinto avea mostrato di non sapere altra cosa se non Gesù Cristo, ben chiaro apparisce che nessuno sfoggio dovette egli fare delle sue cognizioni di scienze profane. Anzi la cura di affermare che in mezzo ai Corinti si era diportato non solo come se null’altro avesse saputo che Gesù Cristo, ma ancora come se in Gesù Cristo null’altro avesse scorto che l’obbrobrio della croce, senza punto considerare i tesori di sapienza e di scienza infinita in Lui racchiusi, « nisi Iesum Christum et hunc crucifixum », deve persuaderci ognor meglio che, non le deduzioni della scienza del secolo, ma i princìpi della sapienza del Vangelo dovette scegliere l’Apostolo ad argomento della sua predicazione ai fedeli di Corinto. Qual meraviglia pertanto che ad esprimere il disegno dell’opera sua San Paolo cominciasse coll’escluderne i portati dell’umana sapienza: « Sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »?
La meraviglia si avrebbe se i predicatori dell’età nostra mettessero in oblio un così autorevole esempio. Il fine da essi inteso non è diverso da quello a cui mirava l’Apostolo nell’evangelizzare il regno di Gesù Cristo; ma se essi pretendessero raggiungere un tal fine, sia coll’annunziare o difendere tesi profane, sia col portare sul pulpito vane critiche di storia o inutili disquisizioni di politica e di diritto pubblico o privato, Noi non sapremmo astenerCi dal ricordar loro che la predicazione di Colui che essi devono tenere a modello non fu « in persuasibilibus humanae sapientiae verbis ». È inutile dire che nel Nostro ricordo sarebbe implicita la più aperta disapprovazione della loro audacia. E non isfuggirebbero la Nostra disapprovazione nemmeno coloro che, dopo di avere scelto convenientemente i temi delle loro prediche, si illudessero poi di provarli con argomenti profani a preferenza delle ragioni che, come da ricche miniere, potrebbero dedurre dai Libri santi e dalle dotte lezioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Anche a costoro Noi vorremmo ricordare che San Paolo non si è presentato ai fedeli di Corinto « in sublimitate… sapientiae ».
L’Apostolo non si presentò nemmeno « in sublimitate sermonis »; epperò alieno dall’esempio di San Paolo, anzi contrario ad esso, Noi vorremmo dire il linguaggio di chi, per soverchia ricercatezza di parole o per troppo eccelsi voli di fantasia, non permettesse al volgo di accogliere i suoi insegnamenti. Nelle parole di San Paolo: « in sublimitate sermonis », forse è indicata anche la forma del dire o la maniera del porgere, e poiché il gran Maestro dei predicatori dice di non essersi presentato « in sublimitate sermonis », chi potrà tollerare che i predicatori dell’epoca nostra usurpino ai tribuni la foga del dire e si mostrino così accesi nel volto, così irruenti nella parola, così smaniosi nel gesto da degradarne le scene del teatro? A voi, dilettissimi figli, non vogliamo celare la Nostra amarezza: il Nostro cuore è stato trafitto dalla voce di chi, non ha guari, Ci diceva che alcuni predicatori ai dì nostri non rifuggono da queste forme teatrali perché il popolo sembra gradirle. Fosse anche vero che tale apparisse ai dì nostri il gusto di molti fra quei che vanno a predica, i sacri oratori, che tengono San Paolo a modello, lungi dal secondare un tal gusto, dovrebbero condannare chiunque ha contribuito a corromperlo in così orribile guisa. E non vi ravvisano essi le « persuasive della umana sapienza »? Non ricordano che San Paolo ha detto: « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »? Ricordatelo almeno voi, o dilettissimi, affinché la vostra predicazione in Roma non differisca da quella dell’Apostolo: non sia ciò che la predicazione di San Paolo non fu.
Ma in un quadro non basta l’assenza di macchie, è necessario altresì il positivo concorso di bei lineamenti: epperò a poter bene apprezzare la predicazione di San Paolo, dopo di aver riconosciuto ciò che essa non fu, è d’uopo studiare anche ciò che essa realmente è stata. Noi avventuratissimi! lo abbiamo appreso dalla bocca dello stesso Dottor delle Genti, il quale, dopo di aver detto di non aver predicato ai Corinti con le persuasive parole della umana sapienza, ha soggiunto di averlo bensì fatto « nella manifestazione di spirito e di virtù; sed in ostensione spiritus et virtutis». Queste parole, al dir di San Tommaso, hanno certamente il senso di affermare che ai credenti nella predicazione di San Paolo era dato lo Spirito Santo, appunto come gli Atti degli Apostoli ricordano di coloro che ascoltavano le parole di San Pietro: « adhuc loquente Petro verba haec, cecidit Spiritus Sanctus super omnes qui audiebant verbum » (Act., X, 44). E del pari può dirsi con lo stesso Angelico Dottore che la predicazione di San Paolo era « manifestazione di virtù », perché non di rado era seguita da miracoli (Marc., XVI, 20), in adempimento delle divine promesse: «Domino cooperante et sermonem confirmante, sequentibus signis » (S. Thom., Comm. in Ep. S. Pauli). Ma richiamate, o dilettissimi, un’altra volta il pensiero allo scopo a cui mirava direttamente San Paolo quando indirizzava la sua prima lettera ai fedeli di Corinto. Voi non indugerete a riconoscere che in bocca all’Apostolo il più forte argomento per condannare i disordini introdotti a Corinto doveva essere l’opposizione, diciamo meglio, la contraddizione di essi agli insegnamenti da lui dati nei diciotto mesi della sua dimora in Acaia. Quei disordini costituivano un’aperta violazione delle leggi da lui proclamate ed imposte, per divina missione, ai novelli seguaci della religione cristiana; erano un pratico disprezzo di quelle virtù, che egli aveva additato prezioso e necessario corredo dei discepoli di Gesù Cristo. Nessuna cura perciò avrebbe potuto essere più naturale, nessun ammonimento più opportuno, che il richiamare i fedeli di Corinto allo spirito cristiano da lui inculcato e alla cristiana virtù da lui raccomandata nei giorni della sua predicazione in mezzo ad essi: epperò « praedicatio mea … in ostensione spiritus et virtutis », ecco la parola di San Paolo che, succedendo a quella onde siamo ammaestrati su ciò che la predicazione di lui non fu, ci insegna pure ciò che essa realmente è stata.
Credereste voi però che la predicazione di San Paolo sia stata « manifestazione di spirito cristiano e di cristiana virtù » solo per i primi fedeli di Corinto? Ah! voi non ignorate, dilettissimi figli, che tale dev’essere anche la predicazione di tutti coloro che aspirano a camminare dietro le orme del Dottor delle Genti. Riflettete perciò che la vostra predicazione in quest’Alma Città non sarà simile a quella di Colui che avete scelto a vostra guida e modello, se anch’essa non sarà « in ostensione spritus et virtutis ». Lo spirito del cristiano consiste nel riconoscere Iddio come nostro Padrone assoluto e come nostro Sovrano Legislatore. A questo spirito si informano la fedeltà del servo, la sottomissione e l’obbedienza del suddito. Oh! intendete dunque bene, dilettissimi figli, che nell’imminente Quaresima dovrete anzitutto difendere i diritti di Dio sulle creature, non allontanandone il pensiero se non per insistere sui doveri delle creature stesse verso Iddio. Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio. I sacri oratori che, ad imitazione di San Paolo, vogliano rinnovata nel mondo la manifestazione dello spirito cristiano « in ostensione spiritus », devono dunque esortare i fedeli a ricevere dalle mani di Dio così le private sventure come i pubblici flagelli, senza punto mormorare contro la Divina Provvidenza, ma procurando di placare la Giustizia Divina per le colpe degli individui e delle nazioni.
Lo spirito del cristiano deve inoltre riconoscere in tutti gli uomini altrettanti fratelli, creati ad immagine e somiglianza dello stesso Dio, redenti tutti dal Sangue divino e tutti incamminati alla stessa patria del cielo. Or chi tenga ciò presente non può dimenticare che la carità è il vincolo che unisce tutti gli uomini, epperò il sacro oratore deve « in ostensione spiritus » cantare le glorie di questa regina delle cristiane virtù, senza permettere che l’uman cuore accolga sentimenti di odio e di vendetta, nemmeno quando per avventura si tratti della difesa di cari interessi o di antichi diritti.
Non vi rechi meraviglia, o carissimi, che un lieve accenno sullo spirito del cristiano Ci abbia naturalmente condotti ad entrare nel campo della cristiana virtù. È così intimo il nesso fra le due cose, che anche San Paolo diceva la sua predicazione non essere stata solo « nella manifestazione dello spirito; in ostensione spiritus », ma anche in quella della virtù, « in ostensione spiritus et virtutis ». E non è l’idea del figlio congiunta a quella del padre? il ricordo del padre non trae seco quello del figlio? Non altrimenti il sacro oratore alla dimostrazione della vera essenza dello spirito cristiano deve far succedere l’indicazione della cristiana virtù, che trae da quella la sua forza, anzi l’origine sua.
Vorremmo dire l’importanza di quest’ultima parte della sacra predicazione. Ma certamente voi già Ci avete prevenuto, o dilettissimi figli: senza dubbio il cuor vostro si apre già alla speranza del frutto, che dovrà essere il miglior premio delle vostre fatiche nell’imminente Quaresima. E dovremmo Noi rammentarvi che questo frutto sarà tanto maggiore quanto più sollecita cura voi porrete nell’indicare in concreto la particolare virtù, che i vostri ascoltatori dovranno praticare, in conformità degli insegnamenti da voi ricevuti? San Paolo — già l’abbiamo detto — non si limitava all’« ostensione spiritus », ma passava anche a quella « virtutis ». Oh! i predicatori di Roma non facciano dissertazioni accademiche, ma discorsi morali ed esortazioni alla pratica delle virtù; non si contentino di dar gusto agli orecchi, ricordino di dover giovare all’anima. E all’anima gioveranno se, dopo di avere convenientemente illustrata una verità cattolica, additeranno ai fedeli le pratiche conseguenze che da quella cattolica verità devono trarre per il miglioramento della loro vita individuale, per il più savio indirizzo della famiglia e per il più sicuro avviamento della società ad un verace benessere.
Una dolce e cara fiducia pervade l’anima Nostra e di soave letizia la inonda in questo istante: è la fiducia che appunto così, « in ostensione spiritus et virtutis », voi, o dilettissimi figli, predicherete in Roma nella imminente Quaresima. Da Roma si irradia la fede; esce da Roma la parola che corregge gli abusi: oh! parta pure da Roma l’impulso a restituire alla sacra predicazione la forma apostolica: « sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ».
Al Nostro augurio, che i predicatori di Roma possano al termine della Quaresima ripetere ed appropriarsi queste parole di San Paolo, sono interessati in particolar modo i parroci di quest’Alma Città, perché essi, i quali devono attendere tutto l’anno alla istruzione dei loro fedeli, naturalmente desiderano che questi non abbiano gusti depravati in ordine alla sacra predicazione. A Noi dunque si uniscano i parroci di Roma, che con piacere salutiamo ora adunati alla Nostra presenza sotto l’amorosa guida del Nostro Cardinale Vicario, si uniscano a Noi nel pregare il Signore a rendere conforme a quella di San Paolo la predicazione dei quaresimalisti di Roma nel 1917, perché quanto più sarà apostolica, altrettanto più sarà efficace. Che se all’appagamento del Nostro voto manca ancora qualche cosa, Noi preghiamo il Signore di supplirvi coll’abbondanza della grazia, che copiosa invochiamo da Lui nell’impartire ai predicatori e ai parroci di Roma, nonché a quanti ora Ci fanno gradita corona, l’Apostolica Benedizione.

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 – XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 - XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO dans BIBLE SERVICE (sito francese) scan0029

http://consapevolinellaparola.blogspot.com/2010/04/perche-dio-non-interviene.html

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 – XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C28page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  2 Tm 2, 8-13
Se perseveriamo, con lui anche regneremo.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio,
ricòrdati di Gesù Cristo,
risorto dai morti,
discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,
per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede:
Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.

Canto al Vangelo   1 Ts 5,18
Alleluia, alleluia.
In ogni cosa rendete grazie:
questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
Alleluia.

http://www.bible-service.net/site/380.html

2 Timothée 2,8-13

Paul, au soir de sa vie, exprime à Timothée l’essentiel de sa foi.  » Souviens-toi de Jésus Christ, le descendant de David : il est ressuscité d’entre les morts, voilà mon Évangile.  » Il transmet sa conviction personnelle par une formule liturgique, une hymne pascale, ce qu’il a lui-même reçu et enseigné :  » Si nous sommes morts avec le Christ, nous croyons que nous vivrons aussi avec lui.  » (Romains 6,1-11) Il s’agit de la mort au péché, de la mort du vieil homme : c’est la Pâque chrétienne.
Toutefois un verset est inquiétant, menaçant presque :  » Si nous le rejetons, lui nous rejettera.  » C’est pourtant le résumé de Matthieu 25,31-46 ; c’est le radicalisme évangélique (Matthieu 10,33). Nous ne pouvons édulcorer la parole de Dieu quand elle nous gêne, mais il ne faut pas oublier le pardon accordé par le Christ à Pierre le renégat, au moment de la Passion…

2 Timoteo 2,8-13

Paolo, alla fine della su vita ((alla sera della sua vita, in francese), esprime a Timoteo l’essenziale della sua fede: « ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, (ecco il mio Vangelo, in francese). Egli trasmette la sua convinzione personale attraverso una formula liturgica, un inno pasquale, ciò che lui stesso ha ricevuto ed insegna: « Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui » (Rm 6,8). Si tratta della morte al peccato, della morte dell’uomo vecchio: è la Pasqua cristiana.
Un versetto è, tuttavia, quasi inquietante, minaccioso:  « Se lo rigettiamo, egli ci rigetterà. »  È il riassunto di Matteo 25,31-46;  è il radicalismo evangelico (Matteo 10,33). Non possiamo edulcorare la parola di Dio quando ci disturba, ma non bisogna dimenticare il perdono accordato da Cristo a Pietro, il rinnegato, al momento della Passione

UFFICIO DELLE LETTURE

(CITAZIONE DA PAOLO)

Seconda Lettura
Dal «Commento su Aggeo» di san Cirillo d’Alessandria, vescovo
(Cap. 14; PG 71, 1047-1050)
 
Il mio nome è glorificato tra le genti
Al tempo della venuta del nostro Salvatore apparve un tempio divino senza alcun confronto più glorioso, più splendido ed eccellente di quello antico. Quanto superiore era la religione di Cristo e del Vangelo al culto dell’antica legge e quanto superiore è la realtà in confronto alla sua ombra, tanto più nobile è il tempio nuovo rispetto all’antico.
Penso che si possa aggiungere anche un’altra cosa. Il tempio era unico, quello di Gerusalemme, e il solo popolo di Israele offriva in esso i suoi sacrifici. Ma dopo che l’Unigenito si fece simile a noi, pur essendo «Dio e Signore, nostra luce» (Sal 117,27), come dice la Scrittura, il mondo intero si è riempito di sacri edifici e di innumerevoli adoratori che onorano il Dio dell’universo con sacrifici ed incensi spirituali. E questo, io penso, è ciò che Malachia profetizzò da parte di Dio: Io sono il grande Re, dice il Signore; grande è il mio nome fra le genti, e in ogni luogo saranno offerti l’incenso e l’oblazione pura (Cfr. Ml 1,11).
Da ciò risulta che la gloria dell’ultimo tempio, cioè della Chiesa, sarebbe stata più grande. A quanti lavorano con impegno e fatica alla sua edificazione, sarà dato dal Salvatore come dono e regalo celeste Cristo, che è la pace di tutti. Noi allora per mezzo di lui potremo presentarci al Padre in un solo Spirito (Cfr. Ef 2,18). Lo dichiara egli stesso quando dice: Darò la pace in questo luogo e la pace dell’anima in premio a chiunque concorrerà a innalzare questo tempio (Cfr. Ag 2,9). Aggiunge: «Vi do la mia pace» (Gv 14,27). E quale vantaggio questo offra a quanti lo amano, lo insegna san Paolo dicendo: La pace di Cristo, che sorpassa ogni intelligenza, custodisca i vostri cuori e i vostri pensieri, (Cfr. Fil 4, 7). Anche il saggio Isaia pregava in termini simili: «Signore, ci concederai la pace, poiché tu dai successo a tutte le nostre imprese» (Is 26,12).
A quanti sono stati resi degni una volta della pace di Cristo è facile salvare l’anima loro e indirizzare la volontà a compiere bene quanto richiede la virtù.
Perciò a chiunque concorre alla costruzione del nuovo tempio promette la pace. Quanti dunque si adoperano a edificare la Chiesa o che sono messi a capo della famiglia di Dio (Cfr. Ef 2,22) come mistagoghi, cioè come interpreti dei sacri misteri sono sicuri di conseguire la salvezza. Ma lo sono anche coloro che provvedono al bene della propria anima, rendendosi roccia viva e spirituale (Cfr. 1 Cor 10,4) per il tempio santo, e dimora di Dio per mezzo dello Spirito (Cfr. Ef 2,22).

VOCAZIONE, BENEDIZIONE, POPOLO E TERRA: UN ITINERARIO TEMATICO ATTRAVERSO GENESI 12 (ABRAMO)

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2007/articolo6_27.asp

VOCAZIONE, BENEDIZIONE, POPOLO E TERRA: UN ITINERARIO TEMATICO ATTRAVERSO GENESI 12 (ABRAMO)
 
Tiziano Lorenzin

(citazioni di Paolo)

C’è stato un tempo nella storia del popolo ebraico, in cui la figura dell’antico patriarca Abramo ha avuto un’importanza fondamentale. Fu dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia. I rimpatriati si erano mescolati con i fratelli sempre rimasti nella terra santa, i quali non avevano avuto scrupoli nell’unirsi in matrimonio con gente straniera.
In quella situazione era forte il rischio di perdere la propria identità, soprattutto in mancanza di un’indipendenza politica. I sacerdoti, custodi della tradizione – soprattutto della tradizione riletta alla luce del sacerdote e profeta Ezechiele – si resero conto del pericolo che Israele potesse scomparire dalla scena mondiale, divenendo un popolo come gli altri. Perciò l’aiutarono a riscoprire le radici della propria storia, che è una storia di elezione per una missione in favore di tutta l’umanità.
Due realtà distinguevano il vero ebreo da chi non lo era: una vita secondo la legge donata dal Signore mediante Mosè nel deserto e una genealogia che ascendesse fino ad Abramo. Nel libro dell’Esodo la comunità poteva ritrovare gli elementi essenziali della sua costituzione, nel libro della Genesi invece essa poteva riconoscere chi fossero veramente i suoi antichi padri. Sia il cammino del popolo, nato dalle acque del Mar Rosso, attraverso il deserto fino alla terra promessa dove ora si trovano, sia i racconti della chiamata di Abramo, sono preceduti da una lunga storia delle origini (Gn 1-9), che narra come la creazione – e ogni vivente nella creazione – vive solo per la misericordia di Dio, che mantiene il suo sì alla vita, proprio di fronte al peccato della prima coppia umana, e di tutta l’umanità. La parola di Dio è prima delle cose: egli crea e salva parlando[1].

Vocazione

Quello che interessa nel racconto della storia di Abramo è soprattutto l’appello di Dio, che – in un mondo in cammino verso la morte – chiama a vivere come sue creature secondo la sua volontà. Nell’antica storia di Abramo i sacerdoti del post-esilio rileggevano la recente storia del popolo: il Signore dalla massa di ossa aride dei deportati in Babilonia, solo con la parola aveva creato un popolo nuovo che si è messo in cammino verso la terra santa, e aveva ridato la speranza di un futuro agli esiliati (cf. Ez 37).
L’opera della salvezza incomincia, infatti, con le stesse parole con cui inizia l’opera della creazione: «Il Signore disse» (Gn 12,1; cf. 1,3). Secondo la teologia tradizionale ebraica il Signore con dieci parole ha creato tutto il mondo, perché nella prima pagina della Bibbia (Gn 1) per dieci volte ricorre la frase: «Dio disse». Di fronte al ritorno al caos nella storia delle relazioni umane, Dio continua a essere il Dio della vita, intervenendo ancora una volta con la sua parola. È una parola però che mette in movimento la storia.
La parola (dabar) divina, infatti, è presentata nella Bibbia essenzialmente come parola che proclama e si attua nel momento in cui viene pronunciata, oppure chiama chi la ode, ad attuare. L’azione non è qualcosa di distinto dal parlare, ma consiste nell’atto del discorso stesso.
Il Signore e Abramo appaiono di fronte a noi quasi improvvisamente. Dio parla e Abramo si mette in movimento[2]. Abramo e Sara si devono mettere in cammino a occhi chiusi, senza discutere. L’uomo che Dio ha scelto per ridonare la vita al mondo intero non è più l’Adamo che può mangiare dell’albero della vita. È un uomo vecchio, che finora ha condotto un’esistenza insignificante, segnata dalla morte prematura del fratello e dalla solitudine per la mancanza di figli a causa della sterilità della moglie Sara. È una famiglia che è giunta al termine della sua storia e non ha più futuro. La rinuncia alle certezze è l’unica via per uscire dalla morte e dalla sterilità. Rimanere al sicuro sotto la protezione del loro clan, significa per Abramo e Sara rinunciare ad aver speranza (Gn 12,1)[3].
Abramo ha dovuto fare un taglio netto, abbandonando la terra cioè la sua nazionalità, il suo parentado ossia il luogo di nascita, il suo casato, la famiglia: quando il Signore irrompe nella sua vita, secondo la cronologia, suo padre in realtà era ancora vivo e morirà almeno sessanta anni dopo la partenza del figlio. Lascia un padre conosciuto e amato per seguire un Dio che secondo altre tradizioni ebraiche (cf. Gs 24,2.14; Gdt 5,7-9) egli non aveva mai conosciuto prima di allora, essendo stato un idolatra. Ma questo per lui e sua moglie era l’unica possibilità per trovare un senso al loro vivere.
Le promesse divine, una grande discendenza e una terra, sono legate all’esecuzione dell’ordine: «Vattene». Si tratta di fare la stessa esperienza dell’esodo che in seguito faranno gli Israeliti dalla casa di schiavitù dell’Egitto e poi di Babilonia. Nel suo cammino Abramo è sostenuto dalla promessa divina che sempre lo precede e dalla fedeltà di Dio alla parola data; una parola che a poco a poco si manifesta in tutta la sua portata e fa sì che il futuro diventi presente. Abramo imparerà a credere camminando.

Benedizione

È credendo nella speranza divina contro la speranza umana che Abramo divenne padre di una moltitudine di popoli (Rm 4,18)[4]. Abramo riceve una parola che va al di là di ogni pretesa umana. È una parola che esige una conversione: credere che il dialogo di Dio con lui possa avere un incidenza universale, credere inoltre che la propria storia personale possa essere messa in rapporto alla storia della creazione intera[5]. Al centro del discorso che Dio fa ad Abramo c’è la frase: «Sii una benedizione» (Gn 12,2). La benedizione con la quale Abramo è benedetto è una promessa per la sua vita, ma al tempo stesso essa avrà conseguenze positive per tutti i popoli del mondo.
La parola di Dio: «Sii una benedizione» non è da intendersi come un comando morale, ma come una parola che ha la forza di creare, come la parola di Dio: «Sia la luce» (Gn 1,3). Se Dio promette ad Abramo un grande nome e di essere una benedizione, questo succede: egli riceve una grande nome ed è una benedizione. Egli ascolta la parola del Signore e inizia un esodo. Esce dal mondo globalizzato e imperialista simbolizzato dalla «torre di Babele» ed entra nel mondo dove gli uomini sono diversi per lingua, cultura e religione. In questo mondo si incomincia a sentire la presenza della benedizione divina fatta ad Abramo:

Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (v. 3).

La Bibbia CEI ha tradotto: «Si diranno benedette», ma il testo potrebbe essere inteso anche al passivo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra», come in Gn 17,4; 18,18b, 22,18; 26,4b; 28,14 e come interpreta la traduzione greca dei LXX. Comunque non sembra che la forma riflessiva sia meno universalistica di quella passiva: quando le famiglie della terra si benedicono in Abramo, vuol dire che chiedono una benedizione su di sé invocando il nome di Abramo e, ovviamente, ricevono la benedizione. La grande novità di questo testo è proprio la benedizione promessa per tutti i popoli, vale a dire la salvezza universale per la mediazione e l’intercessione di Abramo, mediante la sua elezione. Con Abramo e la sua discendenza comincia propriamente la salvezza.
Stupisce il fatto che Dio voglia in tutti i modi contrastare le maledizioni che gli uomini si lanciano l’un l’altro a causa della volontà imperialistica degli abitanti di Babele, non proponendo una conferenza mondiale con un programma universale di riforme. Per creare la comunione tra i popoli, rispettando la lingua di ognuno, egli invece si impegna nell’accompagnamento di un’unica famigliola che è ormai giunta al capolinea della sua vita: una realtà piccola e insignificante. Secondo la Genesi, infatti, per lunghi anni sembra che il Signore non si interessi che di questa famiglia itinerante. Ma questo sembra il suo metodo: salvare i molti (tutte le nazioni) servendosi dei pochi (della discendenza di Abramo, in particolare del resto che aveva sperimentato la sua fede). Più avanti questo programma si concretizzerà quando per salvare Sodoma basterebbero dieci giusti (Gn 18,32).
Questa coscienza della propria missione universale è rimasta nel cuore delle comunità giudaica fino ai tempi di Gesù[6].
Anche per Gesù di Nazaret il regno è come una semente di senape e non come il cedro del Libano di cui parla Ez 17,23. Però esso diventa una pianta sopra la quale vengono a posarsi gli uccelli: le nazioni pagane che sanno riconoscere le manifestazioni minime del regno (Mc 4,32). È il regno a ridare vita a quelli che sono isteriliti (Lc 7,22). Esso è una novità dirompente, perché può far risorgere i morti. In Gesù, figlio di Davide, figlio di Abramo (Mt 1,1), Israele era pronto per la sua elevata missione di portare la benedizione, promessa nella elezione di Abramo, alle nazioni pagane. Mediante la sua azione pasquale di morte e risurrezione, Cristo inserì la sua vita nella missione sacerdotale d’Israele per le nazioni[7]. Per il popolo di Israele si trattava ancora una volta di accogliere la promessa fatta ad Abramo, uscendo dalla presente sterilità, partecipando alla missione salvifica di Gesù, il figlio di Abramo per eccellenza, o di perseverare in quella realtà di morte. È l’invito che fa loro Pietro nel suo kerygma dopo la guarigione del paralitico:

Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità (At 3,26).

E anche Paolo, nella fedeltà di Gesù al Padre, vede realizzarsi l’agire di Abramo che crede alla parola del Signore, abbandonando ogni sicurezza dietro a sé. Questo fatto avrebbe dovuto aprire il cuore di Israele alla propria vocazione altruista e universale ereditata da Abramo:

E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti. Di conseguenza, quelli che hanno la fede vengono benedetti insieme ad Abramo che credette» (Gal 3,8-9).

Anche i credenti in Cristo provenienti dalle nazioni pagane possono entrare nell’ambito della benedizione di Abramo. Il vangelo di Paolo è il compimento della promessa fatta ad Abramo. Israele aveva la missione di portare la fede messianica al mondo, però il suo nazionalismo gli impedì di accettare il modo come il Messia si presentava. Oggi quando esiste una corrente di simpatia per Gesù di Nazaret nel mondo intellettuale ebraico, potrebbe essere il momento per ricordare che i Giudei sono portatori di una benedizione per i molti[8].

Popolo

Il popolo d’Israele ebbe coscienza chiara di essere portatore di una benedizione in favore dell’umanità, soprattutto nell’esilio e nel post-esilio, dopo la catastrofe della caduta di Gerusalemme, della distruzione del tempio, della fine della dinastia di Davide, della perdita della terra. In quella situazione fu necessario un nuovo orientamento della fede nel Signore. Dio che fu in grado di dare un figlio a una donna sterile come Sara e a un uomo anziano come Abramo, era ancora in grado di crearsi un nuovo popolo, che fosse segno della sua presenza e che documentasse la sua azione salvifica presso i popoli pagani.
Questo andavano dicendo i sacerdoti agli esiliati ritornati da Babilonia in seguito alla predicazione del Deuteroisaia. Come Abramo anch’essi erano stati scelti per una missione universale. Questa coscienza di un’elezione è la base sulla quale Israele può ricostruire la sua vita religiosa. È in questo contesto che la comunità si pone una domanda che sarà in seguito ricorrente nella storia del popolo: chi è il vero ebreo?
Riscrivendo l’antica storia del patriarca Abramo, i sacerdoti spiegano che il vero ebreo è solo chi ha fatto il cammino di fede di Abramo. È colui che come lui ha scoperto di essere chiuso in un cerchio di morte, di avere una vita senza senso, perché senza più una terra dove stabilirsi con i propri figli. Il vero ebreo è colui che come Abramo ha ascoltato l’invito del Signore a uscire da questo luogo di sterilità e di schiavitù e gli ha creduto mettendosi in cammino verso la terra promessa. Non era invece vero ebreo chi non aveva fatto questo itinerario di fede, accettando il compromesso con gli idoli dei popoli vicini.
San Paolo si troverà sulla stessa linea, quando dirà: «Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» (Gal 3,7). Egli mostra poi che Abramo fu giustificato solo per la fede, per cui solo quelli che nascono dalla fede sono i figli di Abramo. Ma per lui si tratta della fede in Cristo:

Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli (Rm 9,6b-7a).

Per essere vero figlio di Abramo ed ereditare le sue benedizioni, sia che si tratti di giudeo o pagano, si deve accettare Gesù Cristo:

Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3,26-29).

Terra

Il popolo portatore di una benedizione per tutti i popoli del mondo vive in una terra concreta che era stata promessa ad Abramo:

Vàttene dalla tua terra, dal tuo parentado e dal tuo casato, verso la terra che io ti farò vedere (Gn 12,1).

Il libro della Genesi si apre con un racconto di una terra (il giardino), donata e perduta. I primi uomini sono posti nel giardino «perché lo coltivino e lo custodiscano» (Gn 2,15)[9]. Ad Abramo Dio promette la terra, ma sarà un dono che rimane sospeso per parecchi secoli, il tempo che lo separa da Giosuè, Dio infatti gli dice: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (Gn 12,7). È importante che la discendenza del patriarca si rafforzi, che diventi un popolo solido e robusto in Egitto prima di poter pretendere di occupare la terra[10]. È come se Dio dicesse: Bisogna diventare figli di Abramo per possedere la terra. Il rinvio non significa però fallimento. La fedeltà del Signore dura di generazione in generazione[11].
Questo cammino spirituale viene narrato dal libro dell’Esodo fino al Deuteronomio. Si tratta di uscire da una terra di schiavitù, dove il popolo è costretto a fare mattoni per il faraone, e di attraversare per quarant’anni un deserto privo di vita, prima di raggiungere i confini della terra promessa. Soltanto in Canaan saranno veramente liberi e autonomi, lavoreranno per se stessi. La terra sarà allora il luogo del riposo dopo vagabondaggio nel deserto, simbolo del caos delle origini.
Anche Abramo desidera questo riposo nella terra promessa da Dio. Egli viene sepolto dai figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, acquistata in Canaan dagli Ittiti. (Gn 25,9). Stranamente solo attraverso la sua morte Abramo entra in possesso della terra per i suoi successori. Egli rimane la santa radice interrata che permetterà ai rami dell’albero di moltiplicarsi e di allungarsi. Sarà però un riposo molto precario, perché il deserto è molto vicino. Il rischio del caos continua come una minaccia lungo la storia del popolo:

Badate che, se contaminate il paese, esso non vi vomiti come ha vomitato le nazioni che vi stavano prima di voi (Lv 18,28).

Il popolo non riandrà in Egitto, ma a Babilonia, sarà sradicato dalla propria terra per non aver saputo difendere la propria libertà. I sacerdoti richiamando la promessa fatta ad Abramo poterono rianimare gli ebrei esiliati. Se era vero che non erano riusciti a conservare la propria libertà, rispettando l’alleanza (Dt 4,40), la promessa di Dio era invece un impegno senza condizioni. Il ritorno alla terra però dovrà passare per il ritorno spirituale al Signore: «Ritorna a me, poiché io ti ho riscattato» (Is 44,22 e 55,7).
La terra rimane sempre un dono e non una ricompensa. Se la terra è un dono essa è sacra. Non deve essere profanata dalla presenza di idoli e dai sacrifici umani: «Hanno profanato il mio paese con i cadaveri dei loro idoli» (Ger 16,18), essi «versarono sangue innocente, il sangue dei figli e delle figlie, sacrificati agli idoli di Canaan» (Sal 106,38).
La terra d’Israele è un territorio affidato al popolo come un tutto. Le proprietà private in Israele sono frutto di una ripartizione del territorio nazionale, una ripartizione idealmente egualitaria, cioè proporzionale all’ampiezza e al numero dei membri del clan, e tirata a sorte, perché non si verificassero favoritismi (cf. Gs 13 e 21). La terra è affidata da Dio al suo popolo perché essa nutra ogni membro della comunità. I profeti alzeranno la voce in difesa degli emarginati dagli ingiusti accaparratori di terreni:

Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono. Così opprimono l’uomo e la sua eredità (Mic 2,2).

Il Sal 37 aiuta questi diseredati a pregare così:

Confida nel Signore e fa’ il bene; abita la terra e vivi con fede […]. I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande pace (vv. 3.11).

La terra come dono di Dio educa l’Israelita a un profondo senso religioso. Tutto proviene dal Signore e tutto deve ritornare a lui. È questo il senso del gesto del contadino ebreo che si presenta al sacerdote:

Ora, ecco, ho portato le primizie
dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai concesso.
Le deporrai al cospetto del Signore tuo Dio
e ti prostrerai al cospetto del Signore tuo Dio (Dt 26,10).

Le primizie sono deposte davanti al Signore, professato come il Signore della storia. Esse sono in realtà un simbolo delle prime esperienze di libertà nella terra donata dal Signore. La comunità giudaica al tempo della riforma liturgica di Giosia, portando le sue primizie della terra davanti al Signore, riconosceva che senza il Signore non sarebbe stato possibile avere tutto il raccolto promesso. Il raccolto poteva essere devastato da un disastro improvviso. Così in realtà fu dopo pochi anni. Con la morte del re Giosia nel 609 a Meghiddo, e poi con la deportazione della popolazione di Gerusalemme in Babilonia, sembrava che tutto ormai fosse perduto.
Ritornata dall’esilio, la comunità aveva capito che assolutamente non poteva più abbandonare il Signore, per non rischiare di essere ancora una volta cacciata dalla propria terra. Consegnare ora le primizie davanti all’altare del Signore significava presentare i primi frutti della fede purificata dalle sofferenze dell’esilio. Con questa offerta il popolo esprime la propria gratitudine, perché solo per l’intervento del Signore è potuto ritornare nella propria terra. Le parole, che l’Israelita pronuncia, sono il suo credo. In esso non troviamo affermazioni astratte su Dio. La terra dove scorre latte e miele, ma anche le primizie che egli sta offrendo, sono dono del Signore. A questo Dio d’Israele, egli si prostra in adorazione. Egli è il Signore della storia. Nella grande storia della salvezza si inserisce anche lui, l’umile contadino di Israele. La terra è stata concessa personalmente a lui. Egli sembra dire: «Questo è il mio Dio». Non conosce definizioni astratte. È certo che Dio esiste e ha cura di lui, perché oggi egli si trova nella terra promessa, non in esilio:

Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1).

Ora il sogno si è avverato. Dio c’è veramente![12].

La terra per l’Israelita è anche un trampolino per staccarsi dalla terra stessa. Così l’ha sperimentata un devoto ebreo – probabilmente un levita – dopo aver superato una crisi profonda di fede, che l’aveva condotto a un passo dall’apostasia:

Fuori di te nulla bramo sulla terra (Sal 73,25).

Una rilettura della storia attuale di Israele
Infine, meditare sulla pagina della Genesi che ricorda la promessa della terra fatta ad Abramo, può essere anche un’occasione per poter rileggere la situazione odierna del popolo d’Israele ritornato nella sua terra dopo la Shoah. È stato un ritorno non facile. Secondo un profondo conoscitore della storia attuale d’Israele, F. Rossi de Gasperis[13], la riconquista della terra promessa assomiglia molto alla conquista spettacolare del paese ad opera di Giusuè: guerre-lampo, miracolose vittorie militari, prodezze strepitose, rapidissimi spostamenti di confini, ripartizioni di territorio, colonizzazioni esemplari. Tutto come a Gerico, ad Ai, a Gabaon o alle acque di Merom.
Quella di Giosuè fu una conquista lampo, ma molto più precaria del previsto. Israele si trovò subito minacciato e costretto alla difesa come ai tempi di Debora e di Barak e poi ai tempi di Saul e Davide. Fin dagli inizi il popolo scopre che la terra è solamente un dono gratuito e non una ricompensa per le sue opere buone. Nella terra-dono gli ebrei dovettero accettare la presenza dell’altro: i Gabaoniti continuarono ad abitare in Israele (Gs 9,16-22), i Daniti condizionati dalla presenza degli Amorrei (Gdc 1,34-35) e dei Filistei (Gdc 13-16) dovettero cercare a nord un territorio dove stabilirsi (Gdc 17-18). Davide trovò scampo presso i Filistei (1Sam 27).
Il dono che Israele ha ricevuto con la sua elezione in Abramo non è destinato a un’appropriazione gelosa ed esclusiva:

Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini (Lv 25,23).

Ogni relazione con la terra implica una relazione con Dio che l’ha donata e con i fratelli e le sorelle che vi abitano. Gli Israeliti poterono offrire al Signore le primizie dei frutti della terra, che essi impararono a coltivare dai Cananei, i loro nemici per antonomasia[14], e i Cananei impararono da Israele a conoscere il Signore.
Forse oggi si tratta di ritornare ancora una volta alla radice, ad Abramo, che ha trovato finalmente pace il giorno della sua sepoltura a Ebron, in un territorio pagano alla presenza dei suoi due figli Isacco e Ismaele. È una radice che può ridonare vita non solo ai due figli (ebrei e arabi), ma anche all’ulivastro innestato secondo san Paolo nell’antico ulivo.
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[1] Cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento, Paideia, Brescia 1985, 245.
[2] Cf. I. Zatelli, «La chiamata dell’uomo da parte di Dio nella Bibbia al vaglio della “discourse analysis”», in Rivista Biblica 38 (1990) 13-26.
[3] Cf. W. Brueggemann, Genesi, Claudiana, Torino 2002, 149-159.
[4] Cf. M. Conti, «Le vocazioni individuali nel Vecchio Testamento», in A. Favale (ed.), Vocazione comune e vocazione specifiche. Aspetti biblici, teologici e psico-pedagogico-pastorali, LAS, Roma 1993, 101-106.
[5] Cf. A. Sicari, Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura, Jaca Book, Milano 1979, 23-35.
[6] Il Targum Neofiti, più antico della polemica tra il giudaismo e il cristianesimo sopra la fede offerta ai pagani, così traduce il nostro testo: «E nella tua giustizia saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Neofiti Gn 12,3b): la vita di fede di Abramo (e dei discendenti di Abramo) ha un effetto positivo su tutti i popoli.
[7] Cf. J.L. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán para todas las gentes», in Estudios Bíblicos 50 (1992) 418.
[8] Cf. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán», 422.
[9] Cf. A. Marchadour, Grandi temi biblici, Queriniana, Brescia 1990, 41-46.
[10] Cf. L. Alonso Schökel, «I cerchi della promessa e del dono», in Il mondo delle bibbia 40 (5/1997) 43-47.
[11] Cf. L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, EDB, Bologna 1997, 115-124.
[12] Cf. T. Lorenzin, Un cammino con Israele. Lectio per il tempo di Avvento e di Quaresima, Edizioni Paoline, Milano 2003, 65-74.
[13] F. Rossi de Gasperis, «La terra promessa, un dono da condividere», in Rassegna di Teologia 31 (1990) 608-614.
[14] L’inimicizia risale, secondo Gn 10, all’età post-diluviana.

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