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VOCAZIONE, BENEDIZIONE, POPOLO E TERRA: UN ITINERARIO TEMATICO ATTRAVERSO GENESI 12 (ABRAMO)
Tiziano Lorenzin
(citazioni di Paolo)
C’è stato un tempo nella storia del popolo ebraico, in cui la figura dell’antico patriarca Abramo ha avuto un’importanza fondamentale. Fu dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia. I rimpatriati si erano mescolati con i fratelli sempre rimasti nella terra santa, i quali non avevano avuto scrupoli nell’unirsi in matrimonio con gente straniera.
In quella situazione era forte il rischio di perdere la propria identità, soprattutto in mancanza di un’indipendenza politica. I sacerdoti, custodi della tradizione – soprattutto della tradizione riletta alla luce del sacerdote e profeta Ezechiele – si resero conto del pericolo che Israele potesse scomparire dalla scena mondiale, divenendo un popolo come gli altri. Perciò l’aiutarono a riscoprire le radici della propria storia, che è una storia di elezione per una missione in favore di tutta l’umanità.
Due realtà distinguevano il vero ebreo da chi non lo era: una vita secondo la legge donata dal Signore mediante Mosè nel deserto e una genealogia che ascendesse fino ad Abramo. Nel libro dell’Esodo la comunità poteva ritrovare gli elementi essenziali della sua costituzione, nel libro della Genesi invece essa poteva riconoscere chi fossero veramente i suoi antichi padri. Sia il cammino del popolo, nato dalle acque del Mar Rosso, attraverso il deserto fino alla terra promessa dove ora si trovano, sia i racconti della chiamata di Abramo, sono preceduti da una lunga storia delle origini (Gn 1-9), che narra come la creazione – e ogni vivente nella creazione – vive solo per la misericordia di Dio, che mantiene il suo sì alla vita, proprio di fronte al peccato della prima coppia umana, e di tutta l’umanità. La parola di Dio è prima delle cose: egli crea e salva parlando[1].
Vocazione
Quello che interessa nel racconto della storia di Abramo è soprattutto l’appello di Dio, che – in un mondo in cammino verso la morte – chiama a vivere come sue creature secondo la sua volontà. Nell’antica storia di Abramo i sacerdoti del post-esilio rileggevano la recente storia del popolo: il Signore dalla massa di ossa aride dei deportati in Babilonia, solo con la parola aveva creato un popolo nuovo che si è messo in cammino verso la terra santa, e aveva ridato la speranza di un futuro agli esiliati (cf. Ez 37).
L’opera della salvezza incomincia, infatti, con le stesse parole con cui inizia l’opera della creazione: «Il Signore disse» (Gn 12,1; cf. 1,3). Secondo la teologia tradizionale ebraica il Signore con dieci parole ha creato tutto il mondo, perché nella prima pagina della Bibbia (Gn 1) per dieci volte ricorre la frase: «Dio disse». Di fronte al ritorno al caos nella storia delle relazioni umane, Dio continua a essere il Dio della vita, intervenendo ancora una volta con la sua parola. È una parola però che mette in movimento la storia.
La parola (dabar) divina, infatti, è presentata nella Bibbia essenzialmente come parola che proclama e si attua nel momento in cui viene pronunciata, oppure chiama chi la ode, ad attuare. L’azione non è qualcosa di distinto dal parlare, ma consiste nell’atto del discorso stesso.
Il Signore e Abramo appaiono di fronte a noi quasi improvvisamente. Dio parla e Abramo si mette in movimento[2]. Abramo e Sara si devono mettere in cammino a occhi chiusi, senza discutere. L’uomo che Dio ha scelto per ridonare la vita al mondo intero non è più l’Adamo che può mangiare dell’albero della vita. È un uomo vecchio, che finora ha condotto un’esistenza insignificante, segnata dalla morte prematura del fratello e dalla solitudine per la mancanza di figli a causa della sterilità della moglie Sara. È una famiglia che è giunta al termine della sua storia e non ha più futuro. La rinuncia alle certezze è l’unica via per uscire dalla morte e dalla sterilità. Rimanere al sicuro sotto la protezione del loro clan, significa per Abramo e Sara rinunciare ad aver speranza (Gn 12,1)[3].
Abramo ha dovuto fare un taglio netto, abbandonando la terra cioè la sua nazionalità, il suo parentado ossia il luogo di nascita, il suo casato, la famiglia: quando il Signore irrompe nella sua vita, secondo la cronologia, suo padre in realtà era ancora vivo e morirà almeno sessanta anni dopo la partenza del figlio. Lascia un padre conosciuto e amato per seguire un Dio che secondo altre tradizioni ebraiche (cf. Gs 24,2.14; Gdt 5,7-9) egli non aveva mai conosciuto prima di allora, essendo stato un idolatra. Ma questo per lui e sua moglie era l’unica possibilità per trovare un senso al loro vivere.
Le promesse divine, una grande discendenza e una terra, sono legate all’esecuzione dell’ordine: «Vattene». Si tratta di fare la stessa esperienza dell’esodo che in seguito faranno gli Israeliti dalla casa di schiavitù dell’Egitto e poi di Babilonia. Nel suo cammino Abramo è sostenuto dalla promessa divina che sempre lo precede e dalla fedeltà di Dio alla parola data; una parola che a poco a poco si manifesta in tutta la sua portata e fa sì che il futuro diventi presente. Abramo imparerà a credere camminando.
Benedizione
È credendo nella speranza divina contro la speranza umana che Abramo divenne padre di una moltitudine di popoli (Rm 4,18)[4]. Abramo riceve una parola che va al di là di ogni pretesa umana. È una parola che esige una conversione: credere che il dialogo di Dio con lui possa avere un incidenza universale, credere inoltre che la propria storia personale possa essere messa in rapporto alla storia della creazione intera[5]. Al centro del discorso che Dio fa ad Abramo c’è la frase: «Sii una benedizione» (Gn 12,2). La benedizione con la quale Abramo è benedetto è una promessa per la sua vita, ma al tempo stesso essa avrà conseguenze positive per tutti i popoli del mondo.
La parola di Dio: «Sii una benedizione» non è da intendersi come un comando morale, ma come una parola che ha la forza di creare, come la parola di Dio: «Sia la luce» (Gn 1,3). Se Dio promette ad Abramo un grande nome e di essere una benedizione, questo succede: egli riceve una grande nome ed è una benedizione. Egli ascolta la parola del Signore e inizia un esodo. Esce dal mondo globalizzato e imperialista simbolizzato dalla «torre di Babele» ed entra nel mondo dove gli uomini sono diversi per lingua, cultura e religione. In questo mondo si incomincia a sentire la presenza della benedizione divina fatta ad Abramo:
Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (v. 3).
La Bibbia CEI ha tradotto: «Si diranno benedette», ma il testo potrebbe essere inteso anche al passivo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra», come in Gn 17,4; 18,18b, 22,18; 26,4b; 28,14 e come interpreta la traduzione greca dei LXX. Comunque non sembra che la forma riflessiva sia meno universalistica di quella passiva: quando le famiglie della terra si benedicono in Abramo, vuol dire che chiedono una benedizione su di sé invocando il nome di Abramo e, ovviamente, ricevono la benedizione. La grande novità di questo testo è proprio la benedizione promessa per tutti i popoli, vale a dire la salvezza universale per la mediazione e l’intercessione di Abramo, mediante la sua elezione. Con Abramo e la sua discendenza comincia propriamente la salvezza.
Stupisce il fatto che Dio voglia in tutti i modi contrastare le maledizioni che gli uomini si lanciano l’un l’altro a causa della volontà imperialistica degli abitanti di Babele, non proponendo una conferenza mondiale con un programma universale di riforme. Per creare la comunione tra i popoli, rispettando la lingua di ognuno, egli invece si impegna nell’accompagnamento di un’unica famigliola che è ormai giunta al capolinea della sua vita: una realtà piccola e insignificante. Secondo la Genesi, infatti, per lunghi anni sembra che il Signore non si interessi che di questa famiglia itinerante. Ma questo sembra il suo metodo: salvare i molti (tutte le nazioni) servendosi dei pochi (della discendenza di Abramo, in particolare del resto che aveva sperimentato la sua fede). Più avanti questo programma si concretizzerà quando per salvare Sodoma basterebbero dieci giusti (Gn 18,32).
Questa coscienza della propria missione universale è rimasta nel cuore delle comunità giudaica fino ai tempi di Gesù[6].
Anche per Gesù di Nazaret il regno è come una semente di senape e non come il cedro del Libano di cui parla Ez 17,23. Però esso diventa una pianta sopra la quale vengono a posarsi gli uccelli: le nazioni pagane che sanno riconoscere le manifestazioni minime del regno (Mc 4,32). È il regno a ridare vita a quelli che sono isteriliti (Lc 7,22). Esso è una novità dirompente, perché può far risorgere i morti. In Gesù, figlio di Davide, figlio di Abramo (Mt 1,1), Israele era pronto per la sua elevata missione di portare la benedizione, promessa nella elezione di Abramo, alle nazioni pagane. Mediante la sua azione pasquale di morte e risurrezione, Cristo inserì la sua vita nella missione sacerdotale d’Israele per le nazioni[7]. Per il popolo di Israele si trattava ancora una volta di accogliere la promessa fatta ad Abramo, uscendo dalla presente sterilità, partecipando alla missione salvifica di Gesù, il figlio di Abramo per eccellenza, o di perseverare in quella realtà di morte. È l’invito che fa loro Pietro nel suo kerygma dopo la guarigione del paralitico:
Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità (At 3,26).
E anche Paolo, nella fedeltà di Gesù al Padre, vede realizzarsi l’agire di Abramo che crede alla parola del Signore, abbandonando ogni sicurezza dietro a sé. Questo fatto avrebbe dovuto aprire il cuore di Israele alla propria vocazione altruista e universale ereditata da Abramo:
E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti. Di conseguenza, quelli che hanno la fede vengono benedetti insieme ad Abramo che credette» (Gal 3,8-9).
Anche i credenti in Cristo provenienti dalle nazioni pagane possono entrare nell’ambito della benedizione di Abramo. Il vangelo di Paolo è il compimento della promessa fatta ad Abramo. Israele aveva la missione di portare la fede messianica al mondo, però il suo nazionalismo gli impedì di accettare il modo come il Messia si presentava. Oggi quando esiste una corrente di simpatia per Gesù di Nazaret nel mondo intellettuale ebraico, potrebbe essere il momento per ricordare che i Giudei sono portatori di una benedizione per i molti[8].
Popolo
Il popolo d’Israele ebbe coscienza chiara di essere portatore di una benedizione in favore dell’umanità, soprattutto nell’esilio e nel post-esilio, dopo la catastrofe della caduta di Gerusalemme, della distruzione del tempio, della fine della dinastia di Davide, della perdita della terra. In quella situazione fu necessario un nuovo orientamento della fede nel Signore. Dio che fu in grado di dare un figlio a una donna sterile come Sara e a un uomo anziano come Abramo, era ancora in grado di crearsi un nuovo popolo, che fosse segno della sua presenza e che documentasse la sua azione salvifica presso i popoli pagani.
Questo andavano dicendo i sacerdoti agli esiliati ritornati da Babilonia in seguito alla predicazione del Deuteroisaia. Come Abramo anch’essi erano stati scelti per una missione universale. Questa coscienza di un’elezione è la base sulla quale Israele può ricostruire la sua vita religiosa. È in questo contesto che la comunità si pone una domanda che sarà in seguito ricorrente nella storia del popolo: chi è il vero ebreo?
Riscrivendo l’antica storia del patriarca Abramo, i sacerdoti spiegano che il vero ebreo è solo chi ha fatto il cammino di fede di Abramo. È colui che come lui ha scoperto di essere chiuso in un cerchio di morte, di avere una vita senza senso, perché senza più una terra dove stabilirsi con i propri figli. Il vero ebreo è colui che come Abramo ha ascoltato l’invito del Signore a uscire da questo luogo di sterilità e di schiavitù e gli ha creduto mettendosi in cammino verso la terra promessa. Non era invece vero ebreo chi non aveva fatto questo itinerario di fede, accettando il compromesso con gli idoli dei popoli vicini.
San Paolo si troverà sulla stessa linea, quando dirà: «Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» (Gal 3,7). Egli mostra poi che Abramo fu giustificato solo per la fede, per cui solo quelli che nascono dalla fede sono i figli di Abramo. Ma per lui si tratta della fede in Cristo:
Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli (Rm 9,6b-7a).
Per essere vero figlio di Abramo ed ereditare le sue benedizioni, sia che si tratti di giudeo o pagano, si deve accettare Gesù Cristo:
Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3,26-29).
Terra
Il popolo portatore di una benedizione per tutti i popoli del mondo vive in una terra concreta che era stata promessa ad Abramo:
Vàttene dalla tua terra, dal tuo parentado e dal tuo casato, verso la terra che io ti farò vedere (Gn 12,1).
Il libro della Genesi si apre con un racconto di una terra (il giardino), donata e perduta. I primi uomini sono posti nel giardino «perché lo coltivino e lo custodiscano» (Gn 2,15)[9]. Ad Abramo Dio promette la terra, ma sarà un dono che rimane sospeso per parecchi secoli, il tempo che lo separa da Giosuè, Dio infatti gli dice: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (Gn 12,7). È importante che la discendenza del patriarca si rafforzi, che diventi un popolo solido e robusto in Egitto prima di poter pretendere di occupare la terra[10]. È come se Dio dicesse: Bisogna diventare figli di Abramo per possedere la terra. Il rinvio non significa però fallimento. La fedeltà del Signore dura di generazione in generazione[11].
Questo cammino spirituale viene narrato dal libro dell’Esodo fino al Deuteronomio. Si tratta di uscire da una terra di schiavitù, dove il popolo è costretto a fare mattoni per il faraone, e di attraversare per quarant’anni un deserto privo di vita, prima di raggiungere i confini della terra promessa. Soltanto in Canaan saranno veramente liberi e autonomi, lavoreranno per se stessi. La terra sarà allora il luogo del riposo dopo vagabondaggio nel deserto, simbolo del caos delle origini.
Anche Abramo desidera questo riposo nella terra promessa da Dio. Egli viene sepolto dai figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, acquistata in Canaan dagli Ittiti. (Gn 25,9). Stranamente solo attraverso la sua morte Abramo entra in possesso della terra per i suoi successori. Egli rimane la santa radice interrata che permetterà ai rami dell’albero di moltiplicarsi e di allungarsi. Sarà però un riposo molto precario, perché il deserto è molto vicino. Il rischio del caos continua come una minaccia lungo la storia del popolo:
Badate che, se contaminate il paese, esso non vi vomiti come ha vomitato le nazioni che vi stavano prima di voi (Lv 18,28).
Il popolo non riandrà in Egitto, ma a Babilonia, sarà sradicato dalla propria terra per non aver saputo difendere la propria libertà. I sacerdoti richiamando la promessa fatta ad Abramo poterono rianimare gli ebrei esiliati. Se era vero che non erano riusciti a conservare la propria libertà, rispettando l’alleanza (Dt 4,40), la promessa di Dio era invece un impegno senza condizioni. Il ritorno alla terra però dovrà passare per il ritorno spirituale al Signore: «Ritorna a me, poiché io ti ho riscattato» (Is 44,22 e 55,7).
La terra rimane sempre un dono e non una ricompensa. Se la terra è un dono essa è sacra. Non deve essere profanata dalla presenza di idoli e dai sacrifici umani: «Hanno profanato il mio paese con i cadaveri dei loro idoli» (Ger 16,18), essi «versarono sangue innocente, il sangue dei figli e delle figlie, sacrificati agli idoli di Canaan» (Sal 106,38).
La terra d’Israele è un territorio affidato al popolo come un tutto. Le proprietà private in Israele sono frutto di una ripartizione del territorio nazionale, una ripartizione idealmente egualitaria, cioè proporzionale all’ampiezza e al numero dei membri del clan, e tirata a sorte, perché non si verificassero favoritismi (cf. Gs 13 e 21). La terra è affidata da Dio al suo popolo perché essa nutra ogni membro della comunità. I profeti alzeranno la voce in difesa degli emarginati dagli ingiusti accaparratori di terreni:
Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono. Così opprimono l’uomo e la sua eredità (Mic 2,2).
Il Sal 37 aiuta questi diseredati a pregare così:
Confida nel Signore e fa’ il bene; abita la terra e vivi con fede […]. I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande pace (vv. 3.11).
La terra come dono di Dio educa l’Israelita a un profondo senso religioso. Tutto proviene dal Signore e tutto deve ritornare a lui. È questo il senso del gesto del contadino ebreo che si presenta al sacerdote:
Ora, ecco, ho portato le primizie
dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai concesso.
Le deporrai al cospetto del Signore tuo Dio
e ti prostrerai al cospetto del Signore tuo Dio (Dt 26,10).
Le primizie sono deposte davanti al Signore, professato come il Signore della storia. Esse sono in realtà un simbolo delle prime esperienze di libertà nella terra donata dal Signore. La comunità giudaica al tempo della riforma liturgica di Giosia, portando le sue primizie della terra davanti al Signore, riconosceva che senza il Signore non sarebbe stato possibile avere tutto il raccolto promesso. Il raccolto poteva essere devastato da un disastro improvviso. Così in realtà fu dopo pochi anni. Con la morte del re Giosia nel 609 a Meghiddo, e poi con la deportazione della popolazione di Gerusalemme in Babilonia, sembrava che tutto ormai fosse perduto.
Ritornata dall’esilio, la comunità aveva capito che assolutamente non poteva più abbandonare il Signore, per non rischiare di essere ancora una volta cacciata dalla propria terra. Consegnare ora le primizie davanti all’altare del Signore significava presentare i primi frutti della fede purificata dalle sofferenze dell’esilio. Con questa offerta il popolo esprime la propria gratitudine, perché solo per l’intervento del Signore è potuto ritornare nella propria terra. Le parole, che l’Israelita pronuncia, sono il suo credo. In esso non troviamo affermazioni astratte su Dio. La terra dove scorre latte e miele, ma anche le primizie che egli sta offrendo, sono dono del Signore. A questo Dio d’Israele, egli si prostra in adorazione. Egli è il Signore della storia. Nella grande storia della salvezza si inserisce anche lui, l’umile contadino di Israele. La terra è stata concessa personalmente a lui. Egli sembra dire: «Questo è il mio Dio». Non conosce definizioni astratte. È certo che Dio esiste e ha cura di lui, perché oggi egli si trova nella terra promessa, non in esilio:
Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1).
Ora il sogno si è avverato. Dio c’è veramente![12].
La terra per l’Israelita è anche un trampolino per staccarsi dalla terra stessa. Così l’ha sperimentata un devoto ebreo – probabilmente un levita – dopo aver superato una crisi profonda di fede, che l’aveva condotto a un passo dall’apostasia:
Fuori di te nulla bramo sulla terra (Sal 73,25).
Una rilettura della storia attuale di Israele
Infine, meditare sulla pagina della Genesi che ricorda la promessa della terra fatta ad Abramo, può essere anche un’occasione per poter rileggere la situazione odierna del popolo d’Israele ritornato nella sua terra dopo la Shoah. È stato un ritorno non facile. Secondo un profondo conoscitore della storia attuale d’Israele, F. Rossi de Gasperis[13], la riconquista della terra promessa assomiglia molto alla conquista spettacolare del paese ad opera di Giusuè: guerre-lampo, miracolose vittorie militari, prodezze strepitose, rapidissimi spostamenti di confini, ripartizioni di territorio, colonizzazioni esemplari. Tutto come a Gerico, ad Ai, a Gabaon o alle acque di Merom.
Quella di Giosuè fu una conquista lampo, ma molto più precaria del previsto. Israele si trovò subito minacciato e costretto alla difesa come ai tempi di Debora e di Barak e poi ai tempi di Saul e Davide. Fin dagli inizi il popolo scopre che la terra è solamente un dono gratuito e non una ricompensa per le sue opere buone. Nella terra-dono gli ebrei dovettero accettare la presenza dell’altro: i Gabaoniti continuarono ad abitare in Israele (Gs 9,16-22), i Daniti condizionati dalla presenza degli Amorrei (Gdc 1,34-35) e dei Filistei (Gdc 13-16) dovettero cercare a nord un territorio dove stabilirsi (Gdc 17-18). Davide trovò scampo presso i Filistei (1Sam 27).
Il dono che Israele ha ricevuto con la sua elezione in Abramo non è destinato a un’appropriazione gelosa ed esclusiva:
Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini (Lv 25,23).
Ogni relazione con la terra implica una relazione con Dio che l’ha donata e con i fratelli e le sorelle che vi abitano. Gli Israeliti poterono offrire al Signore le primizie dei frutti della terra, che essi impararono a coltivare dai Cananei, i loro nemici per antonomasia[14], e i Cananei impararono da Israele a conoscere il Signore.
Forse oggi si tratta di ritornare ancora una volta alla radice, ad Abramo, che ha trovato finalmente pace il giorno della sua sepoltura a Ebron, in un territorio pagano alla presenza dei suoi due figli Isacco e Ismaele. È una radice che può ridonare vita non solo ai due figli (ebrei e arabi), ma anche all’ulivastro innestato secondo san Paolo nell’antico ulivo.
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[1] Cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento, Paideia, Brescia 1985, 245.
[2] Cf. I. Zatelli, «La chiamata dell’uomo da parte di Dio nella Bibbia al vaglio della “discourse analysis”», in Rivista Biblica 38 (1990) 13-26.
[3] Cf. W. Brueggemann, Genesi, Claudiana, Torino 2002, 149-159.
[4] Cf. M. Conti, «Le vocazioni individuali nel Vecchio Testamento», in A. Favale (ed.), Vocazione comune e vocazione specifiche. Aspetti biblici, teologici e psico-pedagogico-pastorali, LAS, Roma 1993, 101-106.
[5] Cf. A. Sicari, Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura, Jaca Book, Milano 1979, 23-35.
[6] Il Targum Neofiti, più antico della polemica tra il giudaismo e il cristianesimo sopra la fede offerta ai pagani, così traduce il nostro testo: «E nella tua giustizia saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Neofiti Gn 12,3b): la vita di fede di Abramo (e dei discendenti di Abramo) ha un effetto positivo su tutti i popoli.
[7] Cf. J.L. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán para todas las gentes», in Estudios Bíblicos 50 (1992) 418.
[8] Cf. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán», 422.
[9] Cf. A. Marchadour, Grandi temi biblici, Queriniana, Brescia 1990, 41-46.
[10] Cf. L. Alonso Schökel, «I cerchi della promessa e del dono», in Il mondo delle bibbia 40 (5/1997) 43-47.
[11] Cf. L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, EDB, Bologna 1997, 115-124.
[12] Cf. T. Lorenzin, Un cammino con Israele. Lectio per il tempo di Avvento e di Quaresima, Edizioni Paoline, Milano 2003, 65-74.
[13] F. Rossi de Gasperis, «La terra promessa, un dono da condividere», in Rassegna di Teologia 31 (1990) 608-614.
[14] L’inimicizia risale, secondo Gn 10, all’età post-diluviana.