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La lotta spirituale: elementi biblici (anche Paolo)

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La lotta spirituale: elementi biblici

Enzo Bianchi, Priore di Bose

Bose, 9 settembre 2009

XVII Convegno Ecumenico Internazionale Enzo Bianchi, Priore di Bose

RELAZIONE

Introduzione
Occorre ripetere quali sono le guerre e le lotte che ci attendono dopo il battesimo? … Si tratta di cercare fuori di sé un campo di battaglia? Forse le mie parole ti stupiranno, eppure sono vere: limita la tua ricerca a te stesso! Tu devi lottare in te stesso … perché il tuo nemico procede dal tuo cuore. Non sono io a dirlo, ma Cristo. Ascoltalo: «Dal cuore provengono i pensieri malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» (Mt 15,19). (Origene, Omelie su Giosuè 5,2)
Queste parole di Origene sintetizzano mirabilmente quell’esercizio così essenziale della vita spirituale che la tradizione cristiana ci ha consegnato sotto il nome di lotta spirituale. Si tratta di una lotta interiore, invisibile, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro «il peccato che ci assedia» (Eb 12,1), contro «le passioni cattive che fanno guerra nelle nostre membra» (cf. Gc 4,1), contro le suggestioni che sonnecchiano nel profondo del nostro cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva, fino ad assumere il volto di tentazioni seducenti. Conosciamo bene come il tema della lotta spirituale sia stato sviluppato in numerosi testi della tradizione patristica e della letteratura ascetica, sia in oriente sia in occidente.
Le radici della riflessione su questo tema si trovano però nelle Sante Scritture. Già l’Antico Testamento, fin dalle prime pagine del libro della Genesi, conosce il comando a dominare l’istinto malvagio che abita il cuore umano: «l’istinto (jezer) del cuore umano è incline al male fin dall’infanzia» (Gen 8,21); «il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua brama, ma tu dominalo» (Gen 4,7). E nella letteratura sapienziale si legge una massima molto eloquente: «Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città» (Pr 16,32).
Il Nuovo Testamento poi – e al suo interno, in particolare, il corpus paolino – presenta la lotta spirituale come un’esigenza insita nel battesimo, come un elemento fondamentale per definire l’identità di fede del cristiano. Ciò emerge con chiarezza, per esempio, dall’esortazione rivolta da Paolo a Timoteo: «Combatti la buona battaglia della fede (ho kalòs agòn tês písteos), cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede» (1Tm 6,12). Ed è lo stesso Apostolo che, ormai vicino alla morte, volgendo uno sguardo riassuntivo alla propria vita afferma di sé quasi con stupore: «È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia (tòn kalòn agôna hegónismai), ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).
Nella seconda parte della mia riflessione tornerò più specificamente sulla presentazione della vita cristiana come lotta, come battaglia incessante, quale è attestata soprattutto negli scritti neotestamentari. Prima però vorrei compiere un percorso biblico meno consueto, ma a mio avviso essenziale per fondare una trattazione della lotta spirituale alla luce delle Scritture.

La lotta spirituale: elementi biblici
1. Alle radici della lotta spirituale
Vi sono tre brani biblici che, letti in parallelo, costituiscono il paradigma delle seduzioni messe in atto dal demonio nei confronti dell’uomo: il racconto della tentazione alla quale soccombono il primo uomo e la prima donna (Gen 3,1-6); la narrazione delle tentazioni affrontate vittoriosamente da Gesù (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13); la descrizione della lotta contro la mondanità cui il cristiano è chiamato (1Gv 2,15-16). Il passo genesiaco, in particolare, può essere collocato nel suo contesto più ampio, in modo da consentire qualche considerazione sulla motivazione profonda che spinge l’essere umano a peccare.
a) La paura della morte e la philautía
La tentazione e il peccato sono certamente da porre in relazione con l’ambiente storico, con l’atmosfera culturale e sociale in cui l’uomo è immerso, con quegli elementi che, prendendo a prestito il linguaggio paolino, si potrebbero definire «potenze dell’aria» (Ef 2,2), «principati e potenze» (Ef 6,12). Vi è però qualcosa di ancor più profondo, che attiene all’interiorità dell’essere umano. Esiste infatti in ogni uomo una tendenza egoistica, un’inclinazione peccaminosa: è quella disposizione interiore che oppone resistenza al dono di Dio, definita dal Nuovo Testamento col termine «carne» (sárx: cf. Gv 3,6; 6,63; 8,15; Rm 6,19; 7,5; ecc.), dalla quale hanno origine «i desideri della carne che fanno guerra alla vita» (1Pt 2,11). La tradizione cristiana ha efficacemente parlato in proposito di philautía, cioè di «amore egoistico di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche senza gli altri e addirittura contro gli altri; una preoccupazione esclusiva per il proprio interesse che induce a considerare il proprio io come misura della realtà; in una parola, tutto ciò che si oppone al desiderio di Dio, quello della comunione tra sé e gli uomini e degli uomini tra di loro.
Ma qual è il movente ultimo della philautía? Un brano della Lettera agli Ebrei lo esprime con grande lucidità:Cristo è divenuto partecipe del nostro sangue della nostra carne, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte (fóbo thanátou), erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (cf. Eb 2,14-15).
Si tratta di una constatazione estremamente vera: noi uomini durante tutta la vita patiamo la paura della morte, e tale esperienza ci domina, ci aliena. La morte è «il re delle paure» (melek ballahot: Gb 18,14), perché è la radice di tutte le altre paure. Essa non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana, che si manifesta come sofferenza, malattia, fine di ciò che per noi è vitale, al punto da causare vere e proprie situazioni di non-vita in chi biologicamente è ancora vivo.
La morte, dunque, non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato: è infatti proprio la paura della morte che ci spinge a cercare vita nel peccato; è la schiavitù in cui ci avvince tale paura ad essere causa del male e del peccato che commettiamo, come ci ricordano anche le parole che, con finezza psicologica, il libro della Sapienza mette in bocca agli empi (cf. Sap 1,16-2,24). In breve: mosso dalla paura della morte, l’uomo vuole preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, vuole possedere per sé i beni della terra, vuole dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante e giunge a considerare giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte…
b) Tre passi scritturistici fondamentali
Il racconto delle origini presente nella Genesi testimonia l’importanza che proprio la paura della morte riveste nel processo di tentazione e caduta dell’uomo e della donna. Dopo averlo creato a sua immagine e a sua somiglianza (cf. Gen 1,26-27), Dio aveva detto all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui ne mangerai, certamente morirai» (Gen 2,16-17). Questo comando, volto a insegnare alla creatura che la sua libertà è tale all’interno di un limite, innesta invece in lei il meccanismo della frustrazione: l’essere privati di una sola possibilità equivale ad essere privati di tutto. È infatti proprio su questo limite, garanzia e alveo della libertà umana, che fa leva la tentazione del «serpente antico» (Ap 12,9; 20,2), di Satana: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5). E così dalla paura che la prospettiva della morte ha immesso nella donna (cf. Gen 3,3: «altrimenti morirete»), passando attraverso il dialogo interiore con la suggestione, si giunge all’elaborazione di una contro-verità, che si accompagna a una nuova visione della realtà: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, appetitoso agli occhi e desiderabile per acquistare sapienza / potere» (Gen 3,6). L’ansia di immortalità, onnipotenza e onniscienza, accresciuta dalla frustrazione per l’incapacità di accettare il proprio limite creaturale, spinge a considerare il mondo esterno come una preda di cui impossessarsi; a questo punto il peccato è già consumato, e il gesto della mano che carpisce il frutto non è che l’inevitabile manifestazione esterna di una realtà che abita il cuore. E così l’uomo e la donna acconsentono alla tentazione di contraddire la comunione voluta da Dio e cadono nella disobbedienza al loro Creatore…
Ad Adamo si contrappone il nuovo Adamo (cf. Rm 5,14), Gesù di Nazaret, nato da donna e da Spirito santo, anche lui tentato come ogni uomo che viene nel mondo, ma «senza commettere peccato» (cf. Eb 4,15): Gesù è l’antitipo dell’Adamo genesiaco, perché là dove Adamo è caduto, Gesù ha lottato e ha vinto. Ora, se Marco ci presenta Gesù che all’inizio del suo ministero pubblico è tentato da Satana per quaranta giorni nel deserto (cf. Mc 1,12-13), Matteo e Luca, meditando su questo evento, sono giunti a esemplificare in numero di tre le tentazioni subite da Gesù (cf. Lc 4,1-13; Mt 4,1-11): mutare le pietre in pane, possedere i regni della terra, gettarsi dall’alto del tempio per essere miracolosamente salvato. Siamo di fronte a una parafrasi della narrazione genesiaca, che presenta tre modalità di attuazione della vocazione nella via della philautía. A tale proposito, è significativo che nell’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) Paolo rilegga la vicenda di Gesù proprio come rigetto della logica auto-centrata di Adamo: a colui che ha voluto farsi «come Dio» (Gen 3,5) risponde il comportamento di Cristo che, «essendo in forma di Dio, non stimò un possesso geloso l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo e diventando partecipe dell’umanità» (Fil 2,6-7). All’innalzamento di sé risponde l’abbassamento, la kénosis, che giunge fino all’umiliazione e alla vergogna della croce (cf. Fil 2,8). Se Adamo ha considerato l’essere come Dio una preda da conquistare e ha cercato di soddisfare la sua brama stendendo la mano verso l’albero per cogliere la qualità divina e renderla suo patrimonio esclusivo, Gesù Cristo ha invece percorso il cammino opposto: ha steso le sue mani sul legno della croce per offrire la sua vita fino alla morte, nella libertà e per amore di Dio e degli uomini. Posto di fronte alle lusinghe di Satana, Gesù reagisce con un atteggiamento di radicale obbedienza a Dio e alla propria creaturalità: egli custodisce austeramente e con vigore la propria umanità, salvaguardando in tal modo anche l’immagine di Dio rivelata dalle Scritture, senza sostituirvi un’immagine «manufatta». Inoltre, l’arma con cui Gesù combatte la sua lotta e perviene alla vittoria è la piena sottomissione alla Parola di Dio, come mostra il fatto che egli risponde all’Avversario solo con parole della Scrittura (cf. Mt 4,4.7.10; Lc 4,4.8.12): «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3); «Solo al Signore tuo Dio ti prostrerai, lui solo adorerai» (Dt 6,13); «Non tenterai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16). Una Parola che Gesù assume e vive nel suo significato profondo, non nella sua semplice lettera, come invece fa Satana (cf. Mt 4,6; Lc 4,10-11). E la lotta di Cristo non può che essere la lotta dei suoi discepoli, i cristiani. Lo mostra bene l’apostolo Giovanni, quando rivolge alla sua comunità un’esortazione costruita mediante un’ulteriore parafrasi della tentazione genesiaca: «Non amate il mondo – ossia la mondanità –, né ciò che è mondano. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è mondano, la voracità della carne, la pretesa degli occhi, e l’arroganza della vita non viene dal Padre, ma dal mondo» (1Gv 2,15-16).
Con queste parole egli fornisce un icastico ritratto della mondanità, così da spronare i cristiani a verificare la qualità della loro lotta anti-idolatrica. E lo fa riferendosi, ancora una volta, a tre ambiti.
La «voracità della carne» (epithymía tês sarkós) indica la concupiscenza quale appare nei comportamenti di chi è teso unicamente a soddisfare il proprio egoismo, e così trasforma ogni desiderio in bisogno impellente; essa riassume le tendenze malvagie che spingono l’uomo ad appartenere a quel mondo di tenebra che si oppone al piano di Dio (cf. 1Gv 1,5-6; 2,8-9.11). La «pretesa degli occhi» (epithymía tôn ophthalmôn) si riferisce alla «suggestione seducente» (Sal 36,2) che cattura gli occhi dell’uomo e lo spinge a orientare tutto ciò che vede alla sua brama di possesso. L’accumulo di beni diventa un fine in sé, in vista del quale tutto è giustificato, e la logica che presiede a tale insaziabile mania è quella mortifera del «tutto e subito». L’«arroganza della vita» (alazoneía toû bíou), infine, è l’atteggiamento di chi si considera l’unico metro della realtà, e pretende che il proprio «io» sia affermato sopra gli altri; è la ricerca del potere, della propria gloria ad ogni costo. In sintesi, è l’esatto contrario della sottomissione reciproca richiesta da Gesù ai suoi discepoli: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35).
Ma il cristiano può affrontare queste tre tentazioni fondamentali nella certezza che la propria lotta si innesta in quella di Cristo, secondo le penetranti parole di Agostino: «Ti preoccupi perché Cristo sia stato tentato, e non consideri che egli ha vinto? In lui fosti tu ad essere tentato, in lui tu riporti la vittoria» (Esposizione sui Salmi 60,3).

2. Grammatica della lotta spirituale
Dopo questo lungo percorso archetipico, che ci ha consentito di scoprire le radici di ogni tentazione e di ogni peccato, veniamo ora a esaminare alcune delle indicazioni consegnateci dalle Sante Scritture su come affrontare il combattimento invisibile. Il mio intento sarà quello di tracciare brevemente una sorta di «grammatica della lotta spirituale». Tra le numerose piste che si potrebbero seguire, mi soffermerò solo su due elementi che mi paiono particolarmente rilevanti.
a) Il cuore, luogo della lotta spirituale
Come è già emerso nella prima parte, c’è un luogo preciso in cui si svolge la lotta spirituale. Più in generale, tutta la vita spirituale procede da un organo centrale dell’uomo che la Bibbia chiama «cuore» (lev, kardía). Si tratta di un concetto che va ben oltre il valore quasi esclusivamente affettivo attribuitogli dalla nostra cultura; nell’antropologia biblica, infatti, il cuore è il luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: «sede della vita sensibile, della vita affettiva e della vita intellettuale, il cuore contiene gli elementi costitutivi di ciò che noi chiamiamo “persona”» (Antoine Guillaumont).
Non è facile parlare di questo «luogo impenetrabile» (cf. Sal 64,7), che Dio solo conosce, scruta e discerne in verità, come attestano a più riprese le Scritture:
Signore Dio di Israele, … tu solo conosci il cuore di tutti i figli degli uomini (1Re 8,26.39).
Tu scruti il cuore e il profondo, tu, tu solo Dio giusto (Sal 7,10).
Chi può conoscere il cuore? Io, il Signore, scruto il cuore ed esamino il profondo (Ger 17,9-10).
È nel cuore, la parte più segreta di ogni essere umano, che è impressa l’immagine di Dio in noi. In questo spazio che sfugge al rigore dei concetti, ma che è penetrabile attraverso il linguaggio simbolico, Dio parla all’uomo e lo invita a rispondere, ad aprire con lui un dialogo (cf. Os 2,16-17). Ed è esattamente a questo livello che si situa quotidianamente la scelta tra un «cuore che ascolta» (lev shomea‘: 1Re 3,9), che lotta per accogliere e far fruttificare la Parola di Dio seminata in esso (cf. Mc 4,1-20 e par.), e un cuore insensibile alla Parola, che finisce per cadere in quell’incredulità che il Nuovo Testamento definisce «durezza di cuore» (sklerokardía: Mt 19,8; Mc 10,5; 16,14).
È evidente che è proprio questo il terreno su cui si radica la lotta spirituale. Se infatti il cuore è il luogo dell’incontro intimo e dell’alleanza tra Dio e l’uomo, esso è però anche sede di cupidigie e passioni fomentate dalla potenza del male: «dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini» – ha detto con chiarezza Gesù – «escono le intenzioni (dialoghismoí) cattive» (Mc 7,21). Il cuore diviene così il luogo in cui si scontrano le astuzie di Satana e l’azione della grazia di Dio. È un’esperienza comune, che la Bibbia si limita a registrare: il cuore può essere senza intelligenza, incapace di comprendere e discernere (cf. Mc 6,52; 8,17-21); può chiudersi alla compassione (cf. Mc 3,5), nutrendo rancore e odio (cf. Lv 19,17), gelosia e invidia (cf. Gc 3,14); può essere menzognero e «doppio» (dípsychos: Gc 1,8; 4,8), aggettivo che traspone in greco un’espressione ebraica che suona letteralmente «un cuore e un cuore» (lev va-lev: Sal 12,3). Di più, è possibile estendere a ogni peccato la penetrante sintesi operata da Gesù a proposito dell’adulterio: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28). Sì, prima di essere realizzato esternamente e di condurci sui sentieri mortiferi della dissimiglianza da Dio, ogni peccato è già stato consumato nel nostro cuore…
Il cuore è dunque il luogo della lotta invisibile. È lì che può avere inizio il ritorno a Dio, la conversione (cf. Ger 3,10; 29,13), oppure si può soccombere alla seduzione del peccato e alla schiavitù dell’idolatria. È una lotta durissima quella per tendere ad avere un «cuore unificato» (Sal 86,11), capace di collaborare alla vita nuova operata in noi dal Padre, attraverso la fede in Cristo morto e risorto, nella potenza dello Spirito santo: ma è proprio questa la battaglia fondamentale a cui il cristiano è chiamato.
b) Le armi della lotta spirituale
Ma come il cristiano può affrontare la lotta spirituale? La tradizione cristiana ha individuato alcuni strumenti, alcune «armi» particolarmente indicate per condurre questo combattimento. Le radici di questa riflessione si trovano nel Nuovo Testamento. In particolare, un brano tratto dall’esortazione finale della Lettera agli Efesini, Ef 6,10-18, costituisce un vero e proprio classico riguardo a questo tema. A partire da esso si può ricostruire una costellazione di passi scritturistici che presentano le armi di cui munirsi per fare fronte alle insidie di Satana, nella consapevolezza che «chi combatte nella lotta non riceve la corona se non ha lottato secondo le regole» (2Tm 2,5).
Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza (Ef 6,10).
La parenesi paolina si apre con un imperativo, endunamoûsthe, che può significare sia: «attingete forza, rafforzatevi», sia: «siate fortificati». Nella lotta spirituale avviene cioè una sinergia inestricabile tra l’azione dell’uomo e quella preveniente di Dio. In altre parole, l’uomo è chiamato a predisporre tutto affinché la grazia del Signore Gesù Cristo agisca in lui, a cedere alla grazia che lo attira. L’Apostolo lo ripete altrove con parole inequivocabili: «Sii fortificato (endunamoû) nella grazia che è in Cristo Gesù» (1Tm 2,1); «Mi affatico e lotto con la forza che viene da Cristo e che agisce in me con potenza» (Col 1,29).
Questa forza, questa potenza – si legge all’inizio della Lettera gli Efesini – si è manifestata in modo eminente nella resurrezione di Cristo (cf. Ef 1,19-20). Ovvero, la lotta invisibile del cristiano si fonda sulla fede nella resurrezione di Gesù Cristo, avvenuta nella potenza dello Spirito santo, evento che ha segnato la vittoria definitiva sulla morte e su «colui che della morte ha il potere, il diavolo» (Eb 2,14). Se infatti ogni peccato è in definitiva un tentativo maldestro di affrontare la paura della morte, l’arma più efficace della lotta è proprio la fede nella resurrezione.
Chiarito questo primum imprescindibile, l’Apostolo può dunque proseguire:
Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove (Ef 6,11-13).
Paolo si serve del linguaggio bellico, ammonendo i cristiani a indossare l’armatura (panoplía) di Dio, ossia quella che Dio prepara e mette a disposizione di quanti aderiscono a lui. In questa immagine si possono riconoscere gli influssi di quei passi dell’Antico Testamento in cui viene descritta, con valenza metaforica, l’armatura di cui Dio stesso si cinge per lottare contro i malvagi e far trionfare sulla terra il suo disegno di salvezza (cf. Is 59,17; Sap 5,17-20), oppure l’armatura da lui riservata al suo Messia, il Germoglio di Iesse (cf. Is 11,4-5).
Ancor più interessante per la nostra riflessione è notare che vi è un unico altro passo neotestamentario in cui è attestato il termine panoplía. Nel vangelo secondo Luca, di fronte alle ingiurie degli avversari che lo accusano di «scacciare i demoni in nome di Beelzebul, il capo dei demoni» (cf. Lc 11,15), Gesù replica: «Quando il Forte, bene armato, custodisce la sua dimora, i suoi averi sono al sicuro; ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli toglie l’intera armatura in cui confidava e distribuisce le sue spoglie» (Lc 11,21-22). Sì, Gesù è il più forte rispetto al demonio, che pure con la sua forza cerca di sedurre gli uomini: è solo in lui e attraverso di lui, dunque, che è possibile lottare contro il Nemico e disarmarlo.
L’Apostolo qui ricorre a questa stessa immagine, variando solo i termini per definire l’Avversario: lo definisce «diavolo», cioè «divisore»; poco oltre ne parlerà come del Maligno (Ef 6,16). Al v. 12, dopo aver specificato che la lotta del cristiano non è rivolta contro altri uomini («la carne e il sangue»), fornisce una colorita descrizione al plurale delle dominanti del male e del peccato: i termini impiegati «designano cumulativamente le forze malefiche che tendono a ricondurre il cristiano alla sua situazione pre-battesimale» (Romano Penna).
Di fronte a queste dominanti subdole, che giungono a saturare l’aria (cf. Ef 2,2), il primo atteggiamento richiesto con insistenza al credente è quello dello «stare» (hístemi: Ef 6,11.13.14), del «resistere» (anthístemi: Ef 6,13). Tale saldezza consiste innanzitutto nell’affrontare gli attacchi del Nemico, senza fuggire davanti a lui: in questo senso è nuovamente esemplare la condotta di Cristo, che accettò di dimorare quaranta giorni nel deserto, guardando in faccia senza timore le seduzioni di Satana. Quanti si dispongono a questa dura fatica preliminare, a questa attiva passività senza la quale la lotta è persa in partenza, possono ascoltare l’ultima parte dell’esortazione paolina. In essa l’Apostolo elenca una per una quelle che altrove definisce nel loro insieme «armi di giustizia» (Rm 6,13; 2Cor 6,7), «armi della luce» (Rm 13,12), «armi che ricevono da Dio la loro potenza» (cf. 2Cor 10,4).
State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità (cf. Is 11,5); indosso, la corazza della giustizia (cf. Is 59,17); i piedi, calzati e pronti per il Vangelo della pace (cf,. Is 52,7). Afferrate sempre lo scudo della fede (cf. Sap 5,19), con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza (cf. Is 59,17) e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio.
Le varie armi elencate sono tratte puntualmente dai passi dell’Antico Testamento citati poco sopra. La novità rilevante apportata da Paolo consiste nel descrivere l’armatura del credente attraverso quegli elementi che solitamente compongono l’armatura di Dio. Ciò però non deve stupire il cristiano che ha gli occhi del cuore illuminati dalla fede: egli infatti sa che lui e Dio sono ormai accomunati da una stessa vita, la vita dell’uomo Gesù Cristo. Cristo infatti, narrazione del Dio invisibile (cf. Gv 1,18), è la verità (cf. Gv 14,6; Ef 4,21); è la giustizia di Dio (cf. Rm 3,21-22.26; 1Cor 1,30; Fil 3,9), che giustifica chi crede in lui; è il Vangelo (Mc 8,35; Rm 15,19; 2Cor 2,12; Gal 1,7), la buona notizia che porta shalom, pienezza di vita a tutti gli uomini; è «l’origine e il compimento della nostra fede» (cf. Eb 12,2), colui nella cui fede salda siamo chiamati a deporre la nostra fede sempre vacillante (cf. Gal 2,20; Ef 3,12); è la nostra salvezza (cf. 1Ts 5,9; 2Tm 2,10) e la nostra speranza (cf. 1Tm 1,1), ossia colui nel quale speriamo al fine di partecipare alla salvezza da lui ottenuta (cf. 1Ts 5,8) è la Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,1.14); Parola che «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, capace di scrutare i sentimenti e i pensieri del cuore» (cf. Eb 4,12); Parola che sempre si accompagna al dono dello Spirito. Il cristiano dunque è chiamato a «rivestirsi del Signore Gesù Cristo» (cf. Rm 13,14): questa è l’arma di gran lunga più efficace nella lotta spirituale. E il terreno in cui può germogliare l’esercizio mai finito di assunzione del sentire e del’agire di Cristo, è quello della preghiera, su cui significativamente Paolo termina la sua esortazione: Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi (Ef 6,18).
La preghiera, che è lei stessa una vera e propria lotta (cf. Rm 15,30; Col 4,12), viene qui definita mediante alcune caratteristiche ben precise. Essa deve essere incessante (cf. anche 1Ts 5,17), avvenire «in ogni momento» (en pantì kairô). Ciò non significa impegnarsi nel ripetere continuamente formule, ma vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i Padri chiamavano memoria Dei, il ricordo costante di Dio, ossia lottare per essere sempre consapevoli della sua presenza in noi. L’Apostolo parla inoltre di preghiera «nello Spirito» (en pneúmati). Di nuovo, nessun protagonismo da parte del cristiano: egli è chiamato ad essere sempre in epiclesi, a consentire che lo Spirito preghi in lui e trasformi la sua vita in preghiera. E tutto questo al fine di giungere a una comunione sempre più piena con Dio e con i fratelli, i «santi» a favore dei quali sempre egli innalza a Dio le sue suppliche. E infine la preghiera è preparata dalla grande virtù della vigilanza (verbo agrypnéin, connesso alla preghiera anche in Lc 21,36). La vigilanza, atteggiamento globale di tensione interiore per discernere la presenza del Signore e di apertura per far spazio in sé alla sua venuta, immette il credente in uno stato di lucidità spirituale. Essa è in radice la matrice di tutte le virtù cristiane, perché tempra il credente facendone una persona capace di resistere, di combattere, di trasformare l’energia vitale sviata o bloccata nelle passioni idolatriche in energia per conseguire l’unico vero scopo della lotta spirituale: l’agápe, l’amore verso Dio, verso tutti i fratelli e tutte le creature.

Conclusione
Gesù ha detto: «Lottate per entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24), ed egli stesso ce ne ha dato l’esempio quando nell’orto degli Ulivi ha affrontato nella preghiera la lotta, l’agonía decisiva (Lc 22,44). Posto di fronte all’alternativa tra restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte ignominiosa, oppure percorrere le vie suggerite dal demonio, egli è rimasto pienamente obbediente alla volontà di Dio, fino ad accogliere l’arresto senza mutare lo stile di mitezza e di amore che aveva contrassegnato l’intera sua vita. Lo stesso ha fatto sulla croce, dove, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, ha sentito riecheggiare da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto». «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (Lc 23.35.37.39). Gesù però non ha voluto salvare se stesso; al contrario, ha scelto di compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a lui, ossia amando e servendo Dio e gli uomini: ciò è stato causa di morte per Gesù, ma causa di vita per gli uomini tutti! Ed è proprio in risposta a quella vita in cui egli ha lottato per resistere alle seduzioni di Satana e per rimanere sempre capace di amore, che il Padre lo ha richiamato dai morti.
Tutto questo ha per noi una conseguenza determinante: solo Gesù Cristo, che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. Ogni nostra vittoria è nient’altro che un riflesso della vittoria pasquale di Cristo, lui che sa com-patire le nostre debolezze, essendo stato tentato in ogni cosa, come noi, ma senza commettere peccato (cf. Eb 4,15), e ora «è sempre vivente per intercedere a nostro favore» (Eb 7,25).
È dunque Cristo che possiamo invocare con le parole del salmista: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Sal 43,1; 119,154); è con lui e in lui che ogni giorno, pur nella fatica della lotta, possiamo rendere grazie a Dio cantando: «Benedetto il Signore, mia roccia! Egli addestra le mie mani alla battaglia, le mie dita all’arte della lotta» (Sal 144,1).

ENZO BIANCHI

Giovanni Paolo II sulla Resurrezione dei corpi (Tema paolino)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1982/documents/hf_jp-ii_aud_19820127_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 gennaio 1982

1. Durante le precedenti Udienze abbiamo riflettuto sulle parole di Cristo circa “l’altro mondo”, che emergerà insieme alla risurrezione dei corpi.

Quelle parole ebbero una risonanza singolarmente intensa nell’insegnamento di san Paolo. Tra la risposta data ai Sadducei, trasmessa dai Vangeli sinottici (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36) e l’apostolato di Paolo ebbe luogo prima di tutto il fatto della risurrezione di Cristo stesso e una serie di incontri con il Risorto, tra i quali occorre annoverare, come ultimo anello, l’evento occorso nei pressi di Damasco. Saulo o Paolo di Tarso che, convertito, divenne l’“apostolo dei gentili”, ebbe anche la propria esperienza post-pasquale, analoga a quella degli altri Apostoli. Alla base della sua fede nella risurrezione, che egli esprime soprattutto nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15), sta certamente quell’incontro con il Risorto, che divenne inizio e fondamento del suo apostolato.
2. È difficile qui riassumere e commentare adeguatamente la stupenda ed ampia argomentazione del 15° capitolo della prima lettera ai Corinzi in tutti i suoi particolari. È significativo che, mentre Cristo con le parole riportate dai Vangeli sinottici rispondeva ai Sadducei, i quali “negano che vi sia la risurrezione” (Lc 20, 27), Paolo, da parte sua, risponde o piuttosto polemizza (conformemente al suo temperamento) con coloro che lo contestano (I Corinzi erano probabilmente travagliati da correnti di pensiero improntate al dualismo platonico e al neopitagorismo di sfumatura religiosa, allo stoicismo e all’epicureismo: tutte le filosofie greche, del resto, negavano la risurrezione del corpo. Paolo aveva già sperimentato ad Atene la reazione dei Greci alla dottrina della risurrezione, durante il suo discorso all’Areopago – cfr. Act. 17, 32). Cristo, nella sua risposta (pre-pasquale) non faceva riferimento alla propria risurrezione, ma si richiamava alla fondamentale realtà dell’alleanza veterotestamentaria, alla realtà del Dio vivo, che è a base del convincimento circa la possibilità della risurrezione: il Dio vivo “non è un Dio dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Paolo nella sua argomentazione post-pasquale sulla futura risurrezione si richiama soprattutto alla realtà e alla verità della risurrezione di Cristo. Anzi, difende tale verità persino quale fondamento della fede nella sua integrità: “. . . Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede . . . Ora invece, Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15, 14. 20).
3. Qui ci troviamo sulla stessa linea della rivelazione: la risurrezione di Cristo è l’ultima e la più piena parola dell’autorivelazione del Dio vivo quale “Dio non dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Essa è l’ultima e più piena conferma della verità su Dio che fin dal principio si esprime attraverso questa rivelazione. La risurrezione, inoltre, è la risposta del Dio della vita all’inevitabilità storica della morte, a cui l’uomo è stato sottoposto dal momento della rottura della prima alleanza, e che, insieme al peccato, è entrata nella sua storia. Tale risposta circa la vittoria riportata sulla morte, è illustrata dalla prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15) con una singolare perspicacia, presentando la risurrezione di Cristo come l’inizio di quel compimento escatologico, in cui per lui ed in lui tutto ritornerà al Padre, tutto gli sarà sottomesso, cioè riconsegnato definitivamente, perché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Ed allora – in questa definitiva vittoria sul peccato, su ciò che contrapponeva la creatura al Creatore – verrà anche vinta la morte: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15, 26).
4. In tale contesto sono inserite le parole che possono esser ritenute sintesi dell’antropologia paolina concernente la risurrezione. Ed è su queste parole che ci converrà soffermarci qui più a lungo. Leggiamo, infatti, nella prima lettera ai Corinzi 15, 42-46, circa la risurrezione dai morti: “Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale”.
5. Tra questa antropologia paolina della risurrezione e quella che emerge dal testo dei Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36), esiste una coerenza essenziale, solo che il testo della prima lettera ai Corinzi è maggiormente sviluppato. Paolo approfondisce ciò che aveva annunciato Cristo, penetrando, ad un tempo, nei vari aspetti di quella verità che nelle parole scritte dai sinottici era stata espressa in modo conciso e sostanziale. È inoltre significativo per il testo paolino che la prospettiva escatologica dell’uomo, basata sulla fede “nella risurrezione dai morti”, è unita con il riferimento al “principio” come pure con la profonda coscienza della situazione “storica” dell’uomo. L’uomo, al quale Paolo si rivolge nella prima lettera ai Corinzi e che si oppone (come i Sadducei) alla possibilità della risurrezione, ha anche la sua (“storica”) esperienza del corpo, e da questa esperienza risulta con tutta chiarezza che il corpo è “corruttibile”, “debole”, “animale”, “ignobile”.
6. Un tale uomo, destinatario del suo scritto – sia nella comunità di Corinto sia pure, direi, in tutti i tempi – Paolo lo confronta con Cristo risorto, “l’ultimo Adamo”. Così facendo, lo invita, in un certo senso, a seguire le orme della propria esperienza post-pasquale. In pari tempo gli ricorda “il primo Adamo”, ossia lo induce a rivolgersi al “principio”, a quella prima verità circa l’uomo e il mondo, che sta alla base della rivelazione del mistero del Dio vivo. Così, dunque, Paolo riproduce nella sua sintesi tutto ciò che Cristo aveva annunziato, quando si era richiamato, in tre momenti diversi, al “principio” nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-8; Mc 10, 2-9); al “cuore” umano, come luogo di lotta con le concupiscenze nell’interno dell’uomo, durante il discorso della Montagna (cf. Mt 5, 27); e alla risurrezione come realtà dell’“altro mondo” nel colloquio con i Sadducei (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36).
7. Allo stile della sintesi di Paolo appartiene quindi il fatto che essa affonda le sue radici nell’insieme del mistero rivelato della creazione e della redenzione, da cui essa si sviluppa e alla cui luce soltanto si spiega. La creazione dell’uomo, secondo il racconto biblico, è una vivificazione della materia mediante lo spirito, grazie a cui “il primo uomo Adamo . . . divenne un essere vivente” (1 Cor 15, 45). Il testo paolino ripete qui le parole del libro della Genesi 2, 7, cioè del secondo racconto della creazione dell’uomo (cosiddetto: racconto jahvista). È noto dalla stessa fonte che questa originaria “animazione del corpo” ha subìto una corruzione a causa del peccato. Sebbene a questo punto della prima lettera ai Corinzi l’Autore non parli direttamente del peccato originale, tuttavia la serie di definizioni che attribuisce al corpo dell’uomo storico, scrivendo che è “corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .”, indica sufficientemente ciò che, secondo la rivelazione, è conseguenza del peccato, ciò che lo stesso Paolo chiamerà altrove “schiavitù della corruzione” (Rm 8, 21). A questa “schiavitù della corruzione” è sottoposta indirettamente tutta la creazione a causa del peccato dell’uomo, il quale fu posto dal Creatore in mezzo al mondo visibile perché “dominasse” (cf. Gen 1, 28). Così il peccato dell’uomo ha una dimensione non solo interiore, ma anche “cosmica”. E secondo tale dimensione, il corpo – che Paolo (in conformità alla sua esperienza) caratterizza come “corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .” – esprime in sé lo stato della creazione dopo il peccato. Questa creazione, infatti, “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22). Tuttavia, come le doglie del parto sono unite al desiderio della nascita, alla speranza di un uomo nuovo, così anche tutta la creazione attende “con impazienza la rivelazione dei figli di Dio . . . e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).
8. Attraverso tale contesto “cosmico” dell’affermazione contenuta nella lettera ai Romani – in certo senso, attraverso il “corpo di tutte le creature” – cerchiamo di comprendere fino in fondo l’interpretazione paolina della risurrezione. Se questa immagine del corpo dell’uomo storico, così profondamente realistica e adeguata all’esperienza universale degli uomini, nasconde in sé, secondo Paolo, non soltanto la “schiavitù della corruzione”, ma anche la speranza, simile a quella che accompagna “le doglie del parto”, ciò avviene perché l’Apostolo coglie in questa immagine anche la presenza del mistero della redenzione. La coscienza di quel mistero si sprigiona appunto da tutte le esperienze dell’uomo che si possono definire come “schiavitù della corruzione”; e si sprigiona, perché la redenzione opera nell’anima dell’uomo mediante i doni dello Spirito: “. . . Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23). La redenzione è la via alla risurrezione. La risurrezione costituisce il definitivo compimento della redenzione del corpo. Riprenderemo l’analisi del testo paolino nella prima lettera ai Corinzi nelle nostre ulteriori riflessioni.

IL TEOLOGO BIFFI: SULL’ASSUNZIONE IN CIELO DI MARIA (molti riferimenti a Paolo )

dal sito:

http://www.cresia.info/it/pages/leggi_articolo.asp?id_articolorubrica=155

IL TEOLOGO BIFFI: SULL’ASSUNZIONE IN CIELO DI MARIA

(molti riferimenti a Paolo )

IN OCCASIONE DELLA FESTIVITA’ DELL’ASSUNTA …

in cui si compie l’umana attesa della resurrezione della carne – pubblichiamo questo interessante commento (tratto da « L’Osservatore Romano », l’organo ufficiale della Santa Sede, di oggi 14 agosto 2011) a firma di don Inos Biffi, teologo di chiara fama che ha fondato e dirige la Facoltà teologica di Lugano.
di DON INOS BIFFI – 14/08/2011

La splendida eccezione

di INOS BIFFI

Con la risurrezione di Cristo appare l’inizio dell’umanità perfettamente corrispondente all’eterno disegno divino: l’umanità, che sulla croce ha vinto definitivamente la morte, entrata nel mondo a motivo del peccato e come impronta del peccato, e ha raggiunto la pienezza della gloria.Si manifesta così nel Crocifisso risuscitato, beato nell’anima e trasfigurato nel corpo, il modello e la riuscita di tutti gli uomini chiamati a comparire sulla terra, la primizia – com’è detta da Paolo (1 Corinzi, 15, 20) – del destino a loro divinamente assegnato fin dall’eternità.
Il terzo giorno, quando Gesù si risvegliò dal sepolcro, fu il giorno della creazione del vero Adamo, l’uomo « celeste » (cfr. 1 Corinzi, 15, 47): Cristo è il Testamento Nuovo, nel quale gli eventi dell’Antico si rinnovano e trovano compimento.
Alla domanda: « Perché Dio crea gli uomini? », c’è una sola risposta: « Perché, commorendo con Cristo, con lui risorgano, con lui siano glorificati e collocati alla destra del Padre », qualunque siano il tempo in cui nascono, la cultura che si ritrovano, le peripezie e quelle che giudichiamo insensatezze e assurde tragedie e irrazionalità che incontrano.
Nessuno è pensato per un destino che sia diverso da quello di Gesù, cioè un destino di gloria, partecipato non solo dall’anima, ma anche dal corpo dell’uomo.
Fin che questo non sia raggiunto, l’uomo è incompiutamente e imperfettamente beato. Ecco perché, in questo stato ancora da ultimare, dimorano gli stessi santi, che pure fruiscono del bene essenziale, che è la visione di Dio. Mancanti della corporeità, essi sono anime, ma non ancora « persone umane » beate.
Questo avverrà, con la risurrezione della carne, quando la gloria rifluirà anche nel loro corpo. Secondo la dottrina di Tommaso d’Aquino, all’anima che possiede per natura la prerogativa della « unibilità » a un corpo, ma di fatto ne sia priva, « non compete né il nome né la definizione di persona » (Summa Theologiae, I, 29, 1, 5m).
Ecco perché, prima della risurrezione dei morti, l’anima beata « è attraversata dal desiderio che la sua stessa fruizione di Dio si riversi e ridondi anche sul corpo » (Summa Theologiae, I-II, 4, 5, 4m).
Vi è però un’eccezione e riguarda la Vergine Maria. La fede della Chiesa, solennemente definita da Pio XII, professa che « l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo »: in Maria, con la glorificazione del suo corpo, già ora la redenzione è perfetta, ed è compiuta la sua conformità con Cristo risorto.
E non fa meraviglia. La grazia della croce aveva attratto e pervaso Maria, prima ancora che il Figlio vi salisse, quando fu concepita immune dalla colpa originale e collocata « più su del perdono ».
Destinata, quale favorita di Dio (« Hai trovato grazia presso Dio » Luca, 1, 30), a essere la madre del Signore, Maria – « la madre del mio Signore », la saluta Elisabetta, prevenendo il concilio efesino (Luca, 1, 43) – appare da subito segnata dall’impronta della santità di Cristo e a lui intimamente congiunta.
L’esistenza della Madonna si svolgerà tutta dentro il mistero del Figlio di Dio, che si è fatto carne in lei. Dichiarandosi « serva del Signore », essa accoglie in totale adesione di fede la maternità verginale, opera dello Spirito Santo che scende su di lei – com’è detto nell’annunciazione – e miracolo dell’onnipotenza dell’Altissimo che la copre della sua ombra, come l’antica nube luminosa, a indicare la presenza di Dio (cfr. Luca, 1, 30-38).
I misteri di Gesù si rifletteranno in Maria, tutta volta a meditarne, nello stupore e nel silenzio, il senso profondo. Non ci sono noti i particolari di questa presenza di Maria accanto al Figlio di Dio, venuto alla luce come uomo dal suo grembo e da lei educato e fatto crescere con sapienza materna.
Certamente la guidava una fede docile, salda e perseverante, fondata sulla divina Parola: ma quella fede neppure per lei equivaleva alla visione, bensì, crederemmo, a un insieme di chiarore e di oscurità. Del resto, più uno è prossimo a Dio, più ne sperimenta la vicinanza e ne patisce le tenebre; ora, nessuno più di Maria ha sperimentato e vissuto la comunione e la convivenza con Dio.
Gesù è nato da poco, ed ecco già Simeone, sollevando profeticamente il velo del futuro, le fa lampeggiare, come in uno squarcio, il destino di passione che le sarà riservato: « Anche a te una spada trafiggerà l’anima » (Luca, 2, 35).
Maria seguirà da vicino le vicissitudini di Gesù.
Sale con lui dodicenne per la festa di Pasqua al tempio di Gerusalemme, dove conosce l’angoscia per la sua scomparsa e le restano avvolte di enigma le parole sul suo doversi « occupare delle cose del Padre ». Anche questi eventi, come le parole dei pastori a Betlemme (Luca, 2, 18-19), la Vergine depone e custodisce, in meditazione, nel cuore (Luca, 2, 51).
La incontriamo a Cana, premurosa fino ad accelerare, con libertà e confidenza materna, l’avvento dell’Ora di Gesù, al quale orienta tutta l’attenzione dei discepoli. L’ »inizio dei suoi segni », l’esordio della fede in lui e la prima manifestazione della sua gloria portano così l’impronta dell’iniziativa di Maria (cfr. Giovanni, 2, 1-11).
La troviamo alla fine, « presso la croce di Gesù » (Giovanni, 19, 25), « Compagna del suo gemito ». Manzoni lo dice della Chiesa, ma vale prim’ancora per Maria.
Dall’alto del legno, con la solennità di un testamento, il Crocifisso affida alla Madre, come suo nuovo figlio, il discepolo che egli amava; e al medesimo discepolo consegna, come nuova Madre, Maria (Giovanni, 19, 25-27). Viene, allora, avverata la figura di Eva. Questa fu « madre di tutti i viventi » (Genesi, 3, 20); Maria sul Calvario è fatta madre di tutti i credenti: Gesù estende, così, a tutta la Chiesa il dono di essere stato figlio di Maria.
Potremmo dire che è Cristo stesso l’autore e l’iniziatore della mariologia e che Paolo VI fu ben più illuminato dei suoi critici, che non mancarono di mugugnare, quando attribuì a Maria il titolo di Madre della Chiesa.
Fedele al mandato di Gesù « da quell’ora il discepolo l’accolse con sé » (Giovanni, 19, 27), così prefigurando l’accoglienza che, proclamandola beata, le avrebbero riservato « tutte le generazioni » (Luca, 1, 48). A partire dalla prima generazione cristiana: ecco, infatti, unita agli apostoli, « perseveranti e concordi nella preghiera », « Maria, la madre di Gesù » (Atti, 1, 14), che rappresenta ai loro occhi l’immagine più connessa e più somigliante al loro Maestro e Signore, la memoria più intensa, o la sua icona vivente.
Considerando la pienezza di grazia, di cui fu arricchita Maria, e il singolare legame che la congiunse col Figlio di Dio, non sorprende che questi l’abbia sottratta a qualsiasi segno o strascico di peccato e subito, al termine dei suoi giorni, l’abbia resa partecipe della sua stessa gloria di Signore risorto, asceso alla destra del Padre.
Per questo, a venerare Maria, non dobbiamo recarci a un sepolcro in cui si siano corrotte le sue spoglie, e attendere anche per lei la redenzione del corpo.
L’istinto spirituale della Chiesa non tardò a intuirlo: il dogma – lo dichiara il Papa che l’ha definito – non ha fatto che coronare « il concorde insegnamento del magistero ordinario della Chiesa e la fede concorde del popolo cristiano ».
Lo stesso popolo che, proprio grazie all’assunzione della Vergine al cielo, ne può sentire l’amore materno più immediatamente vicino. Dal momento che – lo insegna ancora Tommaso d’Aquino – non è il tempo a includere la gloria, ma è la gloria a contenere il tempo.

il pensiero di Sant’Antonio Abate nella lettera va alle « parole » di Paolo

dal sito:

http://www.monasterovirtuale.it/home/la-patristica/s.-antonio-abate-le-lettere/settima-lettera.html

SANT’ANTONIO ABATE : LE LETTERE – SETTIMA LETTERA

il pensiero di Sant’Antonio Abate nella lettera va alle parole di Paolo

Settima lettera
 
1. Antonio vi saluta nel Signore, cari fratelli. Gioite! Non mi stancherò di ricordarmi di voi, membri di questa chiesa cattolica. Voglio che sappiate che l’amore che nutro per voi non è car­nale, ma spirituale, opera di Dio. L’amore carna­le, infatti, è debole, instabile, sconvolto da venti estranei. Tutti quelli che temono Dio e osservano i suoi comandamenti, sono servi di Dio; non c’è ancora perfezione in questo servizio ma giustizia che conduce allo spirito di figli. Per questo anche i profeti, gli apostoli e tutta l’assemblea dei san­ti, quelli che sono stati eletti da Dio e ai quali è affidata la predicazione apostolica, furono inca­tenati da Gesù Cristo per la bontà del Padre. Di­ce infatti l’apostolo Paolo: «Io Paolo, il prigionie­ro di Cristo» (Ef 3,1).
La legge scritta vi sorregga in questo buon servizio fino a che siamo in grado di vincere tut­te le passioni del corpo e di raggiungere la perfe­zione nella virtù secondo l’insegnamento aposto­lico. A chi è vicino a ricevere la grazia Gesù dirà: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
Quelli che si sono avvicinati alla grazia e sono stati istruiti dallo Spirito Santo, hanno conosciu­to la loro natura spirituale. Perciò Paolo dice lo­ro: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schia­vi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre”» (Rm 8,15). Così riconoscono il dono che hanno ricevuto da Dio. Noi infatti «sia­mo figli, eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17).
2. Fratelli cari, voi siete partecipi dell’eredità dei santi e tutte le virtù vi appartengono, sono vostre. Non vi lasciate contaminare dalla vita se­condo la carne, ma siate sempre presenti davanti a Dio: «La sapienza non entra in un’anima che opera il male né abita in un corpo schiavo del peccato. Il santo spirito, che ammaestra, rifugge dalla finzione» (Sap 1,4 5). In verità, miei cari, scrivo a voi «come a persone intelligenti» (1Cor 10,15). Voi siete ca­paci di conoscere voi stessi e chi conosce se stes­so conosce Dio, e chi ha conosciuto Dio deve adorarlo in modo conveniente. Miei cari nel Si­gnore, conoscete voi stessi. Chi infatti ha cono­sciuto se stesso, conosce anche il tempo in cui vi­ve; e chi ha imparato a conoscere il tempo, resta ben saldo e non si lascia deviare da insegnamen­ti diversi.
Circa Ario che in Alessandria levò la sua voce per sostenere dottrine estranee all’Unigenito po­nendo un tempo a colui che è fuori del tempo e un limite, come a una creatura, a colui che non ha limiti e un movimento a chi è fuori del movi­mento, io dico queste parole: «Se un uomo pecca contro un altro uomo, Dio potrà intervenire in suo favore, ma se l’uomo pecca contro il Signore, chi potrà intercedere per lui?» (1Sam 2,25). Quest’uomo si è accinto ad una grande impresa, ma la sua feri­ta è incurabile. Se costui avesse conosciuto se stesso, la sua lingua non avrebbe detto cose che ignorava. Ma per quel che è accaduto, è evidente che egli non ha conosciuto se stesso.

Giovanni Paolo II: La domanda sul proprio destino è molto viva nel cuore dell’uomo… (1986)

dal sito:

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 28 maggio 1986

1. La domanda sul proprio destino è molto viva nel cuore dell’uomo….

 È una domanda grande, difficile, eppure decisiva: “Che sarà di me domani?”. C’è il rischio che cattive risposte conducano a forme di fatalismo, di disperazione, o anche di orgogliosa e cieca sicurezza. “Stolto, questa notte morrai”, ammonisce Dio (Lc 12, 20). Ma proprio qui si manifesta l’inesauribile grazia della Provvidenza divina. È Gesù che apporta una luce essenziale. Egli infatti, parlando della Provvidenza divina nel Discorso della Montagna, termina con la seguente esortazione: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33). Nell’ultima catechesi abbiamo riflettuto sul profondo rapporto che esiste tra la Provvidenza di Dio e la libertà dell’uomo. È proprio all’uomo, prima di tutto all’uomo, creato a immagine di Dio, che sono indirizzate le parole sul regno di Dio e sulla necessità di cercarlo prima di ogni cosa.
Questo legame tra la Provvidenza e il mistero del regno di Dio, che deve realizzarsi nel mondo creato, orienta il nostro pensiero sulla verità del destino dell’uomo: la sua predestinazione in Cristo. La predestinazione dell’uomo e del mondo in Cristo, Figlio eterno del Padre, conferisce a tutta la dottrina sulla Provvidenza divina una decisa caratteristica soteriologica ed escatologica. Lo stesso divin Maestro lo indica nel suo colloquio con Nicodemo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
2. Queste parole di Gesù costituiscono il nucleo della dottrina sulla predestinazione, che troviamo nell’insegnamento degli apostoli e specialmente nelle lettere di san Paolo. Leggiamo nella Lettera agli Efesini: “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo . . . in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia” (Ef 1, 3-6).
Queste luminose affermazioni spiegano, in modo autentico e autorevole, in che cosa consiste ciò che in linguaggio cristiano chiamiamo “Predestinazione” (latino: “praedestinatio”). È infatti importante liberare questo termine dai significati erronei o anche impropri e non essenziali, entrati nell’uso comune: predestinazione come sinonimo del “cieco fato” (“fatum”) o dell’“ira” capricciosa di qualche divinità invidiosa. Nella rivelazione divina la parola “predestinazione”, significa l’eterna scelta di Dio, una scelta paterna, intelligente e positiva, una scelta d’amore.
3. Questa scelta, con la decisione in cui si traduce, cioè il piano creativo e redentivo, appartiene alla vita intima della santissima Trinità: è operata eternamente dal Padre insieme col Figlio nello Spirito Santo. È un’elezione che, secondo san Paolo, precede la creazione del mondo (Ef 1, 4) (“prima della creazione del mondo”); e dell’uomo nel mondo. L’uomo, ancor prima di essere creato, viene “scelto” da Dio. Questa scelta avviene nel Figlio eterno (“in lui”) (Ef 1, 4), cioè nel Verbo dell’eterna Mente. L’uomo viene dunque eletto nel Figlio alla partecipazione della sua stessa figliolanza per divina adozione. In questo consiste l’essenza stessa del mistero della predestinazione, che manifesta l’eterno amore del Padre (“nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”). (Ef 1, 4-5)Nella predestinazione è contenuta dunque l’eterna vocazione dell’uomo alla partecipazione alla natura stessa di Dio. È vocazione alla santità, mediante la grazia dell’adozione a figli (“per essere santi e immacolati al suo cospetto”) (Ef 1, 4).
4. In questo senso la predestinazione precede “la fondazione del mondo”, cioè la creazione, giacché questa si realizza nella prospettiva della predestinazione dell’uomo. Applicando alla vita divina le analogie temporali del linguaggio umano, possiamo dire che Dio vuole “prima” comunicarsi nella sua divinità all’uomo chiamato ad essere nel mondo creato sua immagine e somiglianza; “prima” lo elegge, nel Figlio eterno e consostanziale, a partecipare alla sua figliolanza (mediante la grazia), e solo “dopo” (“a sua volta”) vuole la creazione, vuole il mondo, al quale l’uomo appartiene. In questo modo il mistero della predestinazione entra in un certo senso “organicamente” in tutto il piano della divina Provvidenza. La rivelazione di questo disegno dischiude davanti a noi la prospettiva del regno di Dio e ci conduce al cuore stesso di questo regno, dove scopriamo la finalità ultima della creazione.
5. Leggiamo infatti nella Lettera ai Colossesi: “Ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1, 12-14). Il regno di Dio è, nel piano eterno di Dio Uno e Trino, il regno del “Figlio diletto”, in particolare perché per opera sua si è compiuta “la redenzione” e “la remissione dei peccati”. Le parole dell’apostolo alludono anche al “peccato” dell’uomo. La predestinazione, cioè l’adozione a figli dell’eterno Figlio, si opera quindi non solo in relazione alla creazione del mondo e dell’uomo nel mondo, ma in relazione alla redenzione, compiuta dal Figlio, Gesù Cristo. La redenzione diventa l’espressione della Provvidenza, cioè del governo premuroso che Dio Padre esercita in particolare nei riguardi delle creature, dotate di libertà.
6. Nella Lettera ai Colossesi troviamo che la verità della “predestinazione” in Cristo è strettamente congiunta con la verità della “creazione in Cristo”. “Egli – scrive l’apostolo – è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose . . .” (Col 1, 15-16). Così dunque il mondo, creato in Cristo, eterno Figlio, fin dall’inizio porta in sé, come primo dono della Provvidenza, la chiamata, anzi il pegno della predestinazione in Cristo, a cui si unisce, quale compimento della salvezza escatologica definitiva, e prima di tutto dell’uomo, finalità del mondo. “Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza” (Col 1, 19). Il compimento della finalità del mondo, e in particolare dell’uomo, avviene proprio ad opera di questa pienezza che è in Cristo. Cristo è la pienezza. In lui si compie in un certo senso quella finalità del mondo, secondo la quale la Provvidenza divina custodisce e governa le cose del mondo e in particolare l’uomo nel mondo, la sua vita, la sua storia.
7. Comprendiamo così un altro aspetto fondamentale della divina Provvidenza: la sua finalità salvifica. Dio infatti “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). In questa prospettiva è doveroso allargare una certa concezione naturalistica di Provvidenza, limitata al buon governo della natura fisica o anche del comportamento morale naturale. In realtà, la Provvidenza divina si esprime nel conseguimento delle finalità che corrispondono al piano eterno della salvezza. In questo processo, grazie alla “pienezza” di Cristo, in lui e per mezzo di lui viene anche vinto il peccato, che si oppone essenzialmente alla finalità salvifica del mondo, al compimento definitivo che il mondo e l’uomo trovano in Dio. Parlando della pienezza, che ha preso dimora in Cristo, l’apostolo proclama: “Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1, 19-20).
8. Sullo sfondo di queste riflessioni, attinte dalle lettere di san Paolo, diventa meglio comprensibile l’esortazione di Cristo a proposito della Provvidenza del Padre celeste che abbraccia ogni cosa (cf. Mt 6, 23-34 e anche Lc 12, 22-31), quando dice: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33). Con quel “prima” Gesù intende indicare ciò che Dio stesso vuole “prima”: ciò che è la sua prima intenzione nella creazione del mondo, e insieme il fine ultimo del mondo stesso: “il regno di Dio e la sua giustizia” (la giustizia di Dio). Il mondo intero è stato creato in vista di questo regno, affinché si realizzi nell’uomo e nella sua storia. Affinché per mezzo di questo “regno” e di questa “giustizia” si adempia quell’eterna predestinazione che il mondo e l’uomo hanno in Cristo.
9. A questa visione paolina della predestinazione corrisponde quanto scrive san Pietro: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non ci corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi” (1 Pt 1, 3-5). Veramente “sia benedetto Dio”, che ci rivela come la sua Provvidenza sia il suo instancabile, premuroso intervento per la nostra salvezza. Essa è infaticabilmente all’opera fino a quando giungeranno “gli ultimi tempi”, quando “la predestinazione in Cristo” degli inizi si realizzerà definitivamente “mediante la risurrezione in Gesù Cristo”, che è “l’alfa e l’omega” del nostro umano destino (Ap 1, 8).

Papa Paolo VI: «Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica» (1973)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1973/documents/hf_p-vi_aud_19730124_it.html
 
PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 24 gennaio 1973

«Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica»

Oggi, Fratelli e Figli carissimi, un pensiero, – un’idea, una Verità, una Realtà – si accende davanti agli occhi dei nostri animi, richiama i nostri sguardi, li assorbe, li riempie, al tempo stesso, d’entusiasmo e di affanno, com’è proprio delle cose che captano l’amore. Qual è questo pensiero? È quello dell’unità della Chiesa. Appena capito nel suo significato generale, esso ci prende, esso ci domina. L’unità: subito si impone per la sua forza logica e metafisica; riferito alla Chiesa, cioè all’umanità chiamata da Cristo ad essere una cosa sola con Lui e in se stessa; esso c’incanta per la sua profondità teologica; esso poi ci tormenta per il suo volto storico, di ieri e ancora di oggi, sanguinante e sofferente come quello di Cristo crocifisso; esso ci rimprovera e ci risveglia, come un suono di tromba, il quale ci chiama con l’urgenza d’una vocazione, che diventa attuale e caratteristica nel tempo nostro; esso, il pensiero dell’unità, irradia sulla scena del mondo cosparso dalle avulse, magnifiche membra e dalle rovine di tante Chiese, isolate alcune come autosufficienti, frantumate altre in centinaia di sette, tutte invase ora da due forze contrastanti in una commovente tensione, centrifuga l’una, fuggente, autonomista, verso mete scismatiche ed eretiche; centripeta l’altra, la quale esige con rinata nostalgia la ricomposizione dell’unità, che Roma, non priva certo di colpe e carica per se stessa d’immensa responsabilità, si ostina, come proprio dovere, che sa di testimonianza e di martirio, materna e impavida, ad affermare ed a promuovere, la forza autenticamente ecumenica ed unitaria, che va cercando il suo principio e il suo centro, la base, che Cristo, la vera pietra d’angolo dell’edificio ecclesiale, scelse e fissò, in sua vece, per significare e perpetuare il cardine del suo regno . . . . e ancora esso, questo pensiero dell’unità, si riverbera nel foro interno di tante anime pensose e religiose, suscitando in esse un problema spirituale: come rispondo io a questo imperativo dell’unità?
«Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica». Quanto spesso queste parole del Credo salgono alle nostre labbra durante le preghiere pubbliche o private; e quanto spesso noi dobbiamo considerarle e meditarle perché esprimono la grande verità che «Cristo ha costituito sulla terra e incessantemente sostenuta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità» (Lumen Gentium, 8) e comunicando il suo Spirito per essa opera in noi e con noi nel mondo per la sua salvezza.
«La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Ibid. 1).
Se ogni parola di questa nostra professione di fede merita di essere meditata, le circostanze particolari di questo momento ci suggeriscono di considerare, oggi insieme, una parte di essa: Credo nella Chiesa Una. Infatti noi siamo oggi impegnati nella celebrazione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, e in questo periodo particolare i Cristiani di tutto il mondo pregano il Signore nostro Padre, affinché l’unità ecclesiale che professiamo nel Credo, si realizzi concretamente e in modo visibile nella nostra vita.
Noi abbiamo letto ed udito frequentemente le parole dell’Apostolo Paolo: «Un solo corpo e un solo Spirito, siccome anche, grazie alla vostra vocazione, siete stati chiamati a una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, e agisce per mezzo di tutti, ed è in tutti» (Eph. 4, 4-6); «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28); «Ora vi è varietà di doni, ma è lo stesso Spirito; vi è varietà di ministeri, ma è lo stesso Signore, vi è varietà di operazioni, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti» (1 Cor. 12, 4-6); «E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, poiché ad essa foste pure chiamati formando un solo corpo» (Col. 3, 15).
E soprattutto le parole sublimi del Signore ci sollecitano irresistibilmente: «Affinché tutti siano una sola cosa, siccome tu, o Padre, sei in me ed io in te, anch’essi siano uno in noi, cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Io. 17, 21).
Queste parole di nostro Signore e del Suo grande Apostolo hanno un valore universale. Esse sono destinate a toccare le menti ed i cuori di tutti i Cristiani, ad essere fonte di ispirazione e a guidare le azioni di tutti coloro che portano il nome di Cristo. Ci ricordano il dono divino dell’unità, ma nello stesso tempo anche l’obbligo che incombe agli uomini, all’unità. Il Concilio Vaticano II, quasi riassumendo la propria dottrina sul mistero della Chiesa, dice: «È questa l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro (Cfr. Io. 21, 17), affidandone a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida (Matth. 28, 18 ss.), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità» (Cfr. 1 Tim. 3, 15; Lumen Gentium, 8).
Le lettere di S. Paolo citate sopra contengono una teologia profonda, ma non costituiscono un trattato teorico. Esse erano dirette alla situazione concreta nelle Chiese di Efeso, Corinto, Colossi. Nella preghiera sacerdotale per l’unità Gesù parlava nell’intimo circolo dei suoi Apostoli, riferendosi però a tutti quelli che per la parola degli Apostoli crederanno in Lui (Cfr. Io. 17, 20).
Perciò se i principii enunciati da Gesù e dall’Apostolo hanno un valore universale, per tutti i Cristiani di ogni tempo, essi ricevono la loro concreta attuazione in comunità particolari e attraverso queste comunità.
L’unità che è un vero dono di Cristo, si sviluppa e cresce nella situazione concreta rappresentata dalla vita delle comunità cristiane. La comprensione dell’importante ruolo delle comunità particolari, delle Chiese particolari è stata formulata chiaramente dal Concilio: «I singoli Vescovi sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, e in esse e da esse è costituita l’una e l’unica Chiesa cattolica» (Lumen Gentium, 23; cfr. BOSSUET, Œuvrer, vol. XI, lettre IV, pp. 114 ss.).
Infatti l’unità della Chiesa, che, come dicevamo, nel carisma storico della Chiesa cattolica intera e romana in ispecie, è già realtà, nonostante le deficienze degli uomini che la compongono, tuttavia non è completa, non è perfetta nel quadro statistico e sociale del mondo, non è universale. Unità e cattolicità non si pareggiano, sia nella sfera che più esige tale corrispondenza, la sfera dei battezzati e dei credenti in Cristo, e sia tanto più in quella dell’intera umanità vivente sulla terra, dove la maggior parte dei viventi ancora non aderisce al Vangelo. Sono questi i due grandi problemi della Chiesa, quello ecumenico e quello missionario, drammatico l’uno e l’altro.
Noi oggi parliamo del primo, cioè dell’unione dei Cristiani in un’unica Chiesa.
E vorremmo indicare come una delle vie di soluzione, anche se già nota, lunga, delicata e difficile, il dovere e la possibilità di interessare alla questione ecumenica le Chiese locali, in armonia, s’intende (se non vogliamo peggiorare, piuttosto che migliorare la situazione), con la Chiesa universale e centrale.
Noi vediamo quanto sia importante che le Chiese particolari della comunione cattolica valutino i loro compiti e le loro responsabilità ecumeniche caratteristiche.
Mediante la Chiesa particolare la Chiesa cattolica è presente nello stesso ambito locale e regionale nel quale vivono ed operano anche altre Chiese e Comunità cristiane. Spesso la instaurazione di contatti e relazioni fraterne si rivela più facile in questo contesto.
Con tutto il nostro cuore, perciò, noi esortiamo tutti i nostri Fratelli e Figli a far sì che l’impegno per l’unità dei Cristiani divenga parte integrale della vita anche delle Chiese particolari.
«Il dialogo di carità», l’espressione tanto cara al nostro venerato e compianto fratello, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, si può realizzare pienamente tra persone e comunità che hanno un frequente contatto reciproco, condividono sofferenze e speranze, si aprono l’una all’altra, e, insieme, allo Spirito operante in loro nel corso delle concrete esperienze della loro vita.
La cattolicità e l’unità della Chiesa si manifestano nella capacità delle Chiese particolari e dell’insieme di radicarsi in mondi, tempi e luoghi diversi; di ritrovarsi in ogni mondo, tempo e luogo in comunione vicendevole.
L’unità a livello locale è sempre un segno e una manifestazione del mistero dell’unità che è il dono del Signore alla Chiesa. Le Chiese particolari possono essere con le loro esperienze di arricchimento per il movimento ecumenico nel suo insieme, possono dare un contributo fecondo per tutta la Chiesa. Nello stesso tempo riceveranno suggerimenti e direttive provenienti dal Centro dell’unità cioè dalla Sede Apostolica, «universo caritatis coetui praesidens» (IGN Ad Rom., Inscr.), per essere aiutate nei loro problemi e per saper giudicare della validità e della fecondità delle proprie esperienze.
«Credo nella Chiesa Una» – questa professione di fede ci sospinge, allora, a consacrare noi stessi alla causa dell’unità dei Cristiani, con tutto l’ardore di cui siamo capaci, e con tutte le possibilità che la vita della Chiesa ci offre a molti livelli.
Cari Figli, in questa settimana di preghiera per l’unità comune a tutti i Cristiani, noi tutti chiediamo perdono per i difetti commessi contro questo grande dono superiore ad ogni nostro merito. Uniamoci di cuore con la sublime preghiera di Gesù, che Egli, come sacerdote e come vittima, rivolse al Padre per la sua Chiesa: «perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, Egli disse, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Io. 17, 21).
Sicuri che questa voce divina trovi eco nelle vostre anime, noi mandiamo oggi ai Fratelli separati un affettuoso, rispettoso saluto; e tutti di cuore vi benediciamo.

LA PREGHIERA E LA VITA SPIRITUALE (riferimenti a San paolo)

dal sito:

http://www.clerus.org/clerus/dati/2002-12/21-999999/10SCITA.html

LA PREGHIERA E LA VITA SPIRITUALE

 di Prof. Michael F. Hull (New York)

« La preghiera è l’ascesa della mente verso Dio, ovvero il perseguimento del bene che viene da lui » (S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 3, 24; cfr. anche S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II, q. 83). La preghiera è la nostra risposta all’amore di Dio; è un atto della virtù della religione con cui noi riconosciamo l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio in conformità con il Primo Comandamento (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II, q. 81). La preghiera è il fondamento della vita spirituale, poiché è nella preghiera che innalziamo le nostre menti verso il Padre nella lodevole aspirazione di condurre una vita su questa terra nell’imitazione del Figlio, sotto la guida dello Spirito Santo, al fine di poter godere l’eternità in compagnia della stessa Santissima Trinità e dei santi. La preghiera può essere vocale (comunitaria o individuale) o mentale (affettiva o contemplativa) sotto forma di adorazione, richiesta, intercessione, rendimento di grazie, lode. Il modello di preghiera è la preghiera del Signore (Mt 6, 9-13; Lc 11, 2-4), che rappresenta il perfetto equilibrio tra il riconoscimento di Dio e la dipendenza da Dio da parte dell’uomo. Il modello della vita spirituale è la vita del Signore, che rappresenta l’esempio perfetto della virtù e della santità.
San Paolo ci ricorda: « State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1 Ts 5, 17). Nella misura in cui la preghiera rappresenta l’elevazione della mente e del cuore in risposta a Dio, la vita spirituale rappresenta la vita di preghiera costante e regolare che ha come fine l’unione con Dio. Tale unione è cominciata in questa vita e prosegue nella vita dell’aldilà. La Chiesa insegna che « tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità » (LG 40). La roccia fresca e il fondamento insostituibile della « pienezza della vita cristiana e della perfezione dell’amore » è la preghiera. In questo modo, è interesse di ognuno di noi radicarsi in una vita di preghiera al fine di condurre una vita spirituale. Quello che intendo dire è che non esiste una vita spirituale che non cominci e non finisca nella preghiera, « nell’ascesa della mente verso Dio, nel perseguimento del bene che viene da lui ». Ecco nuovamente quel che ci ripete San Paolo: « Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno » (Fil 1, 21). La vita spirituale è una partecipazione all’Amore che procede dal Padre e dal Figlio, ovvero, lo Spirito Santo (cfr. Gv 14, 16, 23). L’arte della preghiera, introdotta per la prima volta dal Signore con la preghiera che porta il suo nome, insieme ad un’attenzione zelante alle cose di Dio, inaugura la vita spirituale. Imitando la virtù e la santità del Signore e implorando che lo Spirito venga a dimorare presso di noi, diventiamo idonei ad offrire una lode appropriata e atti di carità nella vita spirituale. Questa vita spirituale ha la sua spinta e i suoi frutti nelle opere di misericordia spirituale. È precisamente in virtù dell’immanenza dello Spirito che siamo resi in grado di usufruire della grazia santificante, che l’anima viene innalzata al di sopra della natura, verso il soprannaturale e che veniamo portati più vicini all’unione con Dio, il cui « amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5, 5). Finché rimaniamo nello Spirito in questa vita, la morte fisica (e qualunque sofferenza concomitante) può essere solo un guadagno, dal momento che ci porta alla visione beatifica in cui null’altro resta se non l’amore.
La preghiera è il marchio della nostra vita spirituale, poiché era il marchio della vita terrena di Gesù. « Nei giorni della sua vita terrena Gesù offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà » (Eb 5, 7). La preghiera rappresenta la nostra risposta alla grazia del Padre nell’imitazione del Figlio per mezzo dello Spirito. Nella vita spirituale, cerchiamo di conoscere Cristo, di sperimentare il potere della sua risurrezione, di condividere la sua sofferenza, di diventare come lui nella sua morte, così da poter guadagnare « la risurrezione dai morti » (Fil 3, 10-11).

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