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LA POESIA DELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.messiev.altervista.org/poesiaanticotestamento.htm

(lascio al grafica così com’è senza « stringere » perché ho paura di alterare il testo)

LA POESIA DELL’ANTICO TESTAMENTO

La poesia ha qualcosa in più della prosa, e questo di più è che essa fa un’impressione su chi legge molto diverso da quello prodotto dalla struttura del discorso normale. Il di più della poesia è prodotto dalla dizione, dalla scelta e dall’accordo delle parole. La poesia, quindi, ha uno spirito interno oltre ad avere una forma esteriore. La poesia aiuta a staccarsi dalla mondanità e trasporta l’animo umano in una sfera superiore.
La poesia della Bibbia non si limita a quei libri che noi normalmente definiamo «libri poetici» – Giobbe, Salmi, il Cantico dei Cantici assieme alla sapienza in versi dei Proverbi e dell’Ecclesiaste. Infatti gran parte dei libri profetici consiste di oracoli in forma poetica, in particolar modo le Lamentazioni; e perfino neI libri storici qui e lì si incontrano passi più o meno lunghi in poesia. E’ detto a volte che questi passi sono desunti da collezioni poetiche quali il «Libro delle Guerre di YHWH» (Num.21:14) o il «libro del Giusto» (Gios.10:13; 2Sam.1:18). Circa il 60% dell’Antico Testamento è scritto in forma poetica.
Anche il Nuovo Testamento contiene in sé degli elementi poetici più di quanto si pensi. I cinque cantici inclusi nella storia della Natività del Vangelo di Luca sono ben noti. Sembra che anche Efes.5:14 sia un verso poetico. Infine anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento è pieno di cantici.
Si può dire che i libri poetici e sapienziali rappresentino, all’interno delle Scritture ispirate da Dio, la voce degli uomini che esprimono verso di Lui i loro sentimenti e i loro pensieri. Ma, come noi diciamo: «Io desidero essere in comunione con Dio», il poeta canta: «Come la cerva anela ai rivi delle acque, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal.42:1). Oggi un innamorato direbbe: «Vieni, andiamo a fare una passeggiata», ma osserviamo come questo stesso concetto è espresso nel Cantico dei Cantici (Cant.2:10-13). Naturalmente anche la tristezza, la rivolta e l’angoscia prendono una forma poetica, perdendo così, allo stesso tempo, una parte del loro potere deprimente.

Forme poetiche
La poesia può prendere molte forme, e le varie lingue utilizzano diverse forme. La poesia greca era dipendente dall’alternanza di sillabe brevi e lunghe. Simile ma leggermente diversa era la poesia latina, che dipendeva dall’enfasi all’interno delle parole. Naturalmente, la rima delle parole è una forma molto comune della poesia italiana, francese, inglese, tedesca e spagnola. La poesia anglo-sassone dipendeva dalla allitterazione (ripetizione di lettere e sillabe, uguali o foneticamente simili, di solito all’inizio di due o più parole successive. Anche certi tipi di poesia inglese e tedesca dipendono dalla relazione tra le sillabe accentate e non accentate. La poesia araba invece dipende dalla lunghezza delle sillabe. La forma comune tra tutte queste forme di poesia è la regolarità, e questa regolarità crea una aspettativa all’orecchio ed alla mente.
I due elementi caratteristici della poesia biblica sono il ritmo del pensiero ed il ritmo del suono. Conosciamo bene il ritmo musicale di buona parte della poesia europea, ma nella poesia dell’Ebraico biblico questo ritmo dipende quasi esclusivamente dalle sillabe accentate. Non si sa se il numero delle sillabe non accentate nel verso avesse qualche ruolo importante nell’antica poesia ebraica (come nel caso di qualche altra poesia semitica). Una certa cadenza si può spesso osservare nel verso poetico. Così nel Salmo 23 i primi versi presentano uno schema di 2+2, vale a dire che ogni mezzo verso è caratterizzato da due accenti. Talora si può anche trovare un gruppo di versi che mostrano uniformità anche nel numero delle sillabe non accentate che cadono tra quelle accentate. Il più delle volte riscontriamo tre accenti per verso, in accordo con altri tre accenti del verso seguente, appaiati a formare un distico. Ma questa forma può essere variata con un distico occasionale più lungo o più corto o da una terzina inserita nel medesimo passo; oppure il ritmo predominante può consistere in distici con un verso a tre accenti e uno a due accenti.
Il senso di appagamento, però, che la nostra poesia offre per mezzo della rima, cioè dell’accostamento fonetico delle parole, è nella poesia ebraica per lo più prodotto da un tipo di ritmo del tutto diverso; il ritmo del pensiero o del senso. Questo ritmo è generalmente noto come parallelismo e lo si trova anche nell’antica poesia Egiziana, Mesopotamica e Cananea. Questo vocabolo indica l’uso di bilanciare il proprio pensiero o la propria frase in modo di suddividerla approssimativamente in più parti con lo stesso numero di vocaboli o di idee corrispondenti. L’idea viene prima proposta e poi ripetuta per impedire la monotonia.
Il merito di aver fissato le caratteristiche della poesia ebraica spetta soprattutto a due inglesi: Robert Lowth, Professore di Poesia di Oxford ed in seguito vescovo di Londra, di cui le famose De Sacra Hebraeorum Praelectiones Academicae (Lezioni Accademiche sulla Sacra Poesia degli Ebrei) furono pubblicate in Latino nel 1753, ed uno studioso di Oxford, Gorge Buchanan Gray, Professore di Ebraico al Mansfield College, la cui opera sulle Forme della poesia Ebraica apparve nel 1905. Più recentemente H. Kosmala ha messo in rilievo l’importanza della sequenza e dell’equilibrio delle singole espressioni nel verso piuttosto che delle sillabe accentate, per la rima e la struttura della poesia ebraica (“Form and Structure in Ancient Hebrew Poetry”, Vetus Testamentum, XIV, 1964, pp.423 ss.).
A differenza della poesia, la prosa ebraica è un insieme di frasi coordinate da congiunzioni (la “waw consecutiva”).
Il parallelismo ebraico si può suddividere in sinonimico, sintetico e antitetico, ma vi sono anche altre varietà, che è meglio spiegare con degli esempi. Il parallelismo lascia al pensiero il tempo di agire sull’uditore e spesso offre anche la possibilità di presentare vari aspetti di una questione. Una tale struttura, basata sul senso, sopravvive alla traduzione in prosa in qualsiasi lingua senza nulla o poco perdere, a differenza della poesia basata su una metrica complessa o su un vocabolario speciale.
Dapprima abbiamo il completo parallelismo (Parallelismo sinonimico), il cui verso o distico consiste in due stinchi (membri), ognuno dei quali controbilancia esattamente l’altro. Esempio di tale distico:

Parallelismo sinonimico (ripetitivo)
Identico
Israele non ha conoscenza
e il mio popolo non ha intendimento

(Isaia 1:3)
in cui Israele controbilancia il mio popolo e non ha conoscenza controbilancia non ha intendimento. In altre parole: il 2° membro del verso ripete l’asserzione del 1° membro, ma usando parole diverse; questo rende la lingua ebraica particolarmente illustrativa.

All’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa,
il mondo e i suoi abitanti
(Salmo 24:1)
Colui che siede nei cieli riderà,
il Signore si farà beffe di loro
(Salmo 2:4)
Quando ha detto una cosa, non la farà?
O quando ha dichiarato una cosa, non la compirà?
(Num.23:19)
Liberami, o Eterno, dagli uomini malvagi;
proteggimi dagli uomini violenti
(Salmo 140:1)

I due stichi sono esattamente sinonimi, dato che ognuno dice la stessa cosa con parole diverse.

Simile
Quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme
e tutti i figli di Dio mandavano gridi di gioia
(Giob.38:7)

Un giorno proferisce parole all’altro,
e una notte rivela conoscenza all’altra
(Salmo 19:2)
Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri
né le vostre vie sono le mie vie
(Is.55:8)

Altri esempi di parallelismo sinonimico: Num.21:28; 23:8; Os.5:14; Sal.38:2-4; 51:2,3,5,7,9,11; 103:1,3; Prov.1:20.

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Parallelismo antitetico Un’altra forma di parallelismo completo è nota come parallelismo antitetico (di contrapposizione), poiché uno stico viene contrapposto all’altro, cioè il 2° membro del verso è in contrasto con il 1° membro; c’è un contrasto tra due asserzioni, atto a confermare l’idea di base. E’ soprattutto nei Proverbi che viene largamente usato questo parallelismo.

La maledizione dell’Eterno è nella casa dell’empio,
ma egli benedice la dimora dei giusti
(Prov.3:33)
Il giusto ha cura della vita del suo bestiame,
ma le viscere degli empi sono crudeli
(Prov.12:10)
La giustizia innalza una nazione,
ma il peccato è la vergogna dei popoli
(Prov.14:34)
La risposta dolce / calma / la collera,
ma la parola pungente / eccita / l’ira
(Prov.15:1)
Il figlio saggio / allieta / il padre,
ma l’uomo stolto / disprezza / sua madre
(Prov.15:20)
I leoncelli soffrono penuria e fame,
ma quelli che cercano l’Eterno non mancano di alcun bene
(Salmo 34:10)

Vedi anche Sal.20:8; Prov.10:1-5,7,9,15-17; 12:4; 15:18,32; Mat.6:24; 8:20; Luca 16:13.

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Parallelismo sintetico o continuativo: il 2° membro del verso non solo completa il 1° membro, ma lo sviluppa aggiungendo un elemento nuovo. In altre parole, il pensiero espresso nella prima linea di un verso si sviluppa nei versi successivi, senza ripetizione o contrasto (cfr. Sal.37:5; Prov.15:7). Nel Sal.19:8-10, lo stesso pensiero è ripetuto sei volte con una idea nuova ad ogni riga. Ma non si deve credere che si tratti di una semplice ripetizione: ogni riga sottolinea sempre una progressione in rapporto alla precedente (ad esempio, Sal.72:1,2: re–figlio del re; giudizi–giustizia; il tuo popolo–i tuoi afflitti. Sal.37:1,2: malvagi–quelli che operano perversamente; affliggerti–portare invidia; falciati–appassiranno; fieno–erba verde.
Tipo completivo (è più un parallelismo di ritmo che di senso):

Ho insediato il mio re sopra Sion,
il mio santo monte
(Salmo 2:6)
(ebr.
wa’anî nasaktî malekî ?al¯tsiyyôn har¯qadešî)

Chi ha trovato moglie ha trovato una buona cosa
e ha ottenuto un favore dall’Eterno
(Prov.18:22)

Altri esempi: Sal.1:3; 19:8; 23:1;29:5; 95:3; 103:2.

Tipo comparativo
Come la cerva anela ai rivi delle acque,
così l’anima mia anela a te, o Dio
(Sal.42:1)
Meglio un piatto di verdura dove c’è amore,
che un bue ingrassato dove c’è odio
(Prov.15:17)

Tipo ragionativo

Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza,
per non diventare anche tu come lui.
(Prov.26:4)

Tipo intensificante (crescente):

Beato l’uomo che non cammina nel consiglio degli empi,
non si ferma nella via dei peccatori
e non si siede in compagnia degli schernitori
(Salmo 1:1)
La sapienza ha costruito la sua casa,
ha intagliato le sue sette colonne.
Ha ammazzato i suoi animali,
ha mescolato il suo vino
e ha imbandito la sua tavola
(Prov.9:1,2)

Gli esempi seguenti mostrano un parallelismo introverso e un parallelismo crescente. Vedi il Salmo 135.

A. Gli idoli (v.15)
B. Loro costruzione (v.15)
C. Bocca senza parole (singolare) (v.16)
D. Occhi senza vista (plurale) (v.17)
D. Orecchie senza udito (plurale) (v.17)
C. Bocca senza fiato (singolare) (v.17)
B. I loro fabbricanti (v.18)
A. Gli idolatri (v.18).

Nell’esempio seguente non solo è fornita l’illustrazione di un parallelismo crescente, ma questo parallelismo mostra come il Salmi 135 e 136 siano strettamente legati fra loro nel pensiero.

Salmo 135
A. Esortazione alla preghiera (vv.1-5)
B. Miracoli della creazione (vv. 6,7)
C. Liberazione dall’Egitto (vv.8,9)
D. Liberazione nel viaggio (vv.12,13)
E. Dono della Terra Promessa (v.14)
F. Benevolenza verso il popolo (v.14)
G. Falsi dei (vv.15-18)
H. Lode (vv.19-21)
Salmo 136
A. Esortazione alla preghiera (vv.1-3)
B. Miracoli della creazione (vv.4-9)
C. Liberazione dall’Egitto (vv.10-15)
D. Liberazione nel viaggio (vv.16-20)
E. Dono della terra Promessa (vv.21,22)
F. Benevolenza verso il popolo di Dio (vv.23,24)
G. Il vero Dio (v.25)
H. Lode (v.26)

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Parallelismo climatico (dal greco «klìma», “zona, inclinazione, direzione, punto cardinale”)

Date all’Eterno, o figli dei potenti,
date all’Eterno gloria e forza
(Salmo 29:1 – vedi anche vv.2,3-5,7,8)

Il 2° membro sviluppa il 1° membro (che è in se stesso incompleto), prendendo spunto da parole chiave lì contenute, e ne sviluppa il pensiero. Questo tipo di parallelismo viene chiamato pure «sistema a cardine» o «girevole», poiché le asserzioni «girano» intorno a un certo concetto. Altri esempi: Sal.92:9; 118:6,7; 118:10,11; 118:15,16; Cant.7:1; Mat.6:34.

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Parallelismo emblematico o simbolico Vi è poi un altro tipo di parallelismo noto come parallelismo «emblematico» o «parabolico», dove compare prima l’immagine e poi l’applicazione, ma senza alcuna parola di contrasto, semplicemente accostando le due linee l’una all’altra. In tal caso la prima linea serve da simbolo per illustrare la seconda.

Come un padre è pietoso verso i suoi figli,
così è pietoso l’Eterno verso quelli che lo temono.
(Salmo 103:13 – vedi )
Una buona notizia da paese lontano
è come acqua fresca a una persona stanca e assetata
(Prov.25:25)
Come un anello d’oro nel grugno di un porco,
così è una bella donna senza senno
(Prov.11:22)
Il ferro affila il ferro,
così l’uomo affila il volto del suo compagno
(Prov.27:17)

Vedi anche Sal.42:1; 103:11.
E’ opportuno qui notare che il genio della poesia ebraica sta nell’impiego di similitudini vivaci e concrete o metafore che (come le parabole, ma più brevemente) comunicano la verità all’ascoltatore con penetrante efficacia.

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Parallelismo per gradazione ascendente: la seconda riga esprime un’idea nuova, più o meno strettamente imparentata con la prima:

Laggiù i malvagi smettono di tormentare,
laggiù riposano gli stanchi
(Giob.3:17)

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A volte il parallelismo può essere più elaborato e prendere una forma introversa o chiastica (dalla lettera greca c «chi». Il parallelismo chiastico è un sottotipo di parallelismo sinonimico, che invece di presentare le idee nel medesimo ordine (a-b, a1-b1) le presenta in ordine opposto (a-b, b1-a1). Si può citare come esempio Salmo 30:8-10:

Io ho gridato a te, o Eterno, ho supplicando l’Eterno, dicendo:
Che utilità avrai dal mio sangue, se scendo nella fossa?
Potrà forse la polvere celebrarti? Potrà essa proclamare la tua verità?
Ascolta, o Eterno, e abbi pietà di me; o Eterno, sii tu il mio aiuto.

Qui lo stico 1 è parallelo allo stico 4, e lo stico 2 è parallelo allo stico 3, mentre lo schema delle sillabe accentate è 5+4:4+5. Un altro chiasmo lo troviamo in Sal.83:1:
O Dio,
non restare in silenzio!
Non tacere, non rimanere inerte,
o Dio!

Un altro esempio lo troviamo nel Salmo 51:1 e Mat.7:6.

Unger descrive un tipo di parallelismo a gradini nel quale la seconda linea riprende e conduce più avanti una parte della prima linea (come ad esempio nel Salmo 139:5-7). Ma questo parallelismo è molto simile a quello climatico (climax indica appunto apice, vertice, sommità di una scala a gradini).

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Finora abbiamo citato esempi di parallelismo completo, in cui ogni unità di pensiero in uno stico ha la sua controparte nell’altro stico e gli stichi paralleli hanno lo stesso numero di sillabe accentate. Dobbiamo però tener conto anche del parallelismo incompleto, in cui, ad esempio, una delle unità di pensiero non ha controparte nell’altro stico. Si prenda ad esempio Salmo 1:5:

Perciò gli empi non reggeranno nel giudizio,
né i peccatori nell’assemblea dei giusti.

Il verbo «non reggeranno» nel primo stico non ha controparte nel secondo stico (il quale non contiene verbo). Tuttavia il numero delle sillabe accentate rimane pari in quanto «giudizio» (con una sillaba accentata) nel primo stico è controbilanciata da «assemblea dei giusti» (con due sillabe accentate) nel secondo stico. Nello stesso modo in Isaia 1:3a:

Il bue riconosce il suo proprietario
e l’asino la mangiatoia del suo padrone

non vi è nulla nello stico 2 che corrisponda a «riconosce» dello stico 1, ma in compenso vi sono due sillabe accentate, «la mangiatoia del suo padrone», nel secondo, mentre nel primo ve n’è solo una, «il suo proprietario». Questo fenomeno, chiamato da Gray «parallelismo incompleto con compenso», è molto comune nella poesia biblica. A volte il parallelismo è così incompleto che non resta altro che il compenso (di una nuova idea), ed allora abbiamo ciò che Lowth chiama «parallelismo sintetico» e Gray, meno esattamente, «parallelismo formale». A dire il vero, non si tratta affatto di parallelismo; vi è solo il ritmo musicale, ma non il ritmo del pensiero. Un esempio ne è il Salmo 27:6a:

E ora il mio capo s’innalzerà
sui miei nemici che mi accerchiano

Abbiamo qui tre sillabe accentate in ciascun stico, ma nessun parallelismo quanto al senso. Il parallelismo si può trovare soltanto in uno o due elementi:

I giorni / dell’uomo / sono come l’erba;
egli fiorisce / come / il fiore dei campi
(Sal.103:15)

Solo il terzo elemento della prima riga e il secondo della seconda sono in corrispondenza, creando una simmetria che attira l’attenzione sugli elementi diversi.
Altre volte quando il parallelismo è incompleto non vi è compenso, e così abbiamo stichi di grandezza disuguale, che possono essere ordinati secondo schemi regolati. Uno di tali schemi corrisponde più o meno al nostro metro, in cui abbiamo alternativamente degli stichi di quattro e tre battute. Un buon esempio di questo schema 4+3 nell’Antico Testamento è Ger.4:23-26:

Guardai la terra, ed ecco era senza forma e vuota;
i cieli, ed erano senza luce.
Guardai i monti, ed ecco tremavano,
e tutti i colli ondeggiavano.
Guardai, ed ecco non c’era uomo
e tutti gli uccelli del cielo erano fuggiti
Guardai, ed ecco la terra fertile era un deserto,
e tutte le sue città erano scrollate davanti all’Eterno

Tuttavia una forma più comune di «parallelismo incompleto senza compenso» è lo schema 3+2, o metro anapestico (l’anapesto è un verso che ha i seguenti piedi o sillabe: breve-breve-lungo). Questo schema è stato chiamato qinah o «metro del lamento» da quando Karl Budde lo individò nel libro delle Lamentazioni.

Come mai / siede / solitaria
la città / gremita di popolo?
(Lam.1:1)

Io sono l’uomo / che ha visto / l’afflizione
sotto la verga / del suo furore
(Lam.3:1)

Ma questo ritmo può esprimere anche la gioia:

L’Eterno / è la mia luce / e la mia salvezza
di chi / temerò?
L’Eterno / è la roccaforte / della mia vita
di chi / avrò paura?

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Una forma di parallelismo che non abbiamo ancora menzionato è quello chiamato parallelismo graduale o crescente; esso si trova «dove un membro (o parte di un membro) in un verso è ripetuto nel secondo e diviene a sua volta il punto di partenza per un ulteriore passo avanti» (T. H. Robinson, The Poetry of the Old Testament, 1947, p. 23). Un buon esempio lo troviamo nel Salmo 29, dove il crescendo è prodotto dall’espressione «Date all’Eterno»; un altro esempio è costituito dal Salmo 92:9:

Poiché ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
poiché ecco, i tuoi nemici periranno
e tutti gli operatori d’iniquità saranno dispersi

il quale è particolarmente interessante non solo come esempio di parallelismo graduale, ma anche perché lo schema prende la forma di un tristico e non di un distico. Lo schema ritmico è 3:3:3. Troviamo un altro tristico nel Salmo 24:7-10:

O porte, alzate i vostri capi;
e voi, porte eterne, alzatevi,
e il Re di gloria entrerà

Nel passo completo abbiamo qui una serie di quattro tristici che formano due brevi strofe [Una strofa è l’insieme di più versi connessi tra loro].

Un altro esempio (Sal.93:3):

I fiumi hanno elevato, o Eterno,
i fiumi hanno elevato la loro voce;
i fiumi hanno elevato le loro onde fragorose

La presenza di strofe nella poesia biblica è stata molto discussa e certamente un ordine strofico può essere qui e lì individuato, ma sicuramente non è un elemento essenziale. Un ritornello più volte ripetuto costituisce una prova dell’esistenza di un ordine strofico. Troviamo un tale ritornello nel Salmi 42 e 43 (che probabilmente formavano un solo Salmo; cfr. 42:5,11; 43:5), che mostra che le strofe terminano rispettivamente ai versetti 5 e 11 del Salmo 42 ed al versetto 5 del Salmo 43. Un altro esempio è l’oracolo in Isaia 9:8-10:4 (con Isaia 5:25 ss.), con il suo ritornello: «Malgrado tutto ciò la sua ira non si calma e la sua mano rimane distesa». Il Salmo 46 si compone di tre gruppi di quattro versi ciascuno; ad ogni gruppo segue una pausa (Sela) e ciascuno dei due ultimi termina con un ritornello (vedi vv.7,11).
Troviamo l’ordine strofico anche negli schemi acrostici che a volte ricorrono nella poesia biblica; così in modo puramente formale il Salmo 119 consiste inevitabilmente di ventidue strofe di otto distici ciascuno. Il libro delle Lamentazioni è composto in maniera analoga.
La poesia usa anche le seguenti figure letterarie: la parabola (similitudine), la metafora (allegoria), il simbolo e l’iperbole. La poesia fa anche uso di mezzi stilistico-letterari quali l’enigma, la massima numerica (cfr. Prov.30:15,16; 30:18,19; 30:29-31) e l’acrostico alfabetico; quando si tratta di quest’ultimo, ogni verso o gruppo di versi (strofa) comincia con un’altra lettera dell’alfabeto ebraico. I seguenti testi dell’A.T. formano un acrostico alfabetico: Salmi 9; 10; 25; 34; 37; 111; 112; 119; 145; Prov.31:10-31; Nahum 1:2-8; Lamentazioni 1-4.
I parallelismi non si limitano ai testi poetici della Bibbia. Esempi: Mat.5:39-41; 6:24; 7:7,8; Mar.2:21,22; Luca 16:10.

Parallelismi extra-biblici

Molti critici del secolo diciannovesimo supposero che gli Ebrei siano stati incapaci di coltivare la poesia innica, lirica e didattica sino ad un periodo assai tardivo, quando stettero sotto l’influsso di popoli circonvicini più evoluti. I rappresentanti più radicali non solo negarono l’autenticità davidica dei Salmi, ma giunsero persino a negarne la composizione prima del periodo esilico. Essi non hanno esitato ad assegnare un buon numero di Salmi al periodo dei Maccabei (circa 160 a.C.). Lo stesso si dica per tutti gli altri libri poetici: Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici che essi ritennero di composizione post-esilica.
Nel secolo ventesimo, la scoperta di un numero sempre più crescente di inni accadici o egizi ha chiaramente dimostrato che questo genere letterario era in auge presso i popoli confinanti degli Ebrei già dal secondo millennio a.C. Ancora più recentemente si è aggiunta la poesia ugaritica composta in una lingua Cananea assai affine a quella ebraica e che data del quindicesimo secolo a.C. Perciò anche i critici concedono ora la possibilità che gli elementi poetici più antichi possano risalire al tempo di Davide e forse ancora prima. Il cumulo sempre più crescente di poesia didattica e religiosa da parte di ogni popolo con cui Israele ebbe contatto prima dell’esilio rende impossibile la tesi della composizione postesilica di questi libri, a meno di non ritenere gli Ebrei dei ritardati culturali di fronte ai loro vicini.
Il Sal.92:9 si rassomiglia molto quanto alla forma ad un passo dell’epica di Baal scoperta tra le tavolette di Ras Shamra (C. H. Gordon, Ugaritic Handbook, Testo 68, linea 8 ss.):

Ecco i tuoi nemici, o Baal,
ecco i tuoi nemici ucciderai,
ecco distruggerai i tuoi nemici

La decifrazione e lo studio dei documenti di Ras Shamra (che risalgono al 1400 a.C.) hanno gettato molta luce sulle circostanze dell’antica poesia semitica. Tra l’altro questi documenti hanno completamente confutato la teoria di Gunkel, secondo cui i passi poetici più lunghi della Bibbia sarebbero relativamente recenti, poiché (com’egli pensava) venne prima il periodo delle ballate che fu notevolmente lungo. L’epica di Baal scoperta a Ras Shamra, ad esempio, non aveva meno di 5000 versi. Generalmente si è d’accordo nell’affermare che il cantico di Debora (Giudici 5) è contemporaneo agli eventi ch’esso celebra, ma ora, alla luce delle scoperte di Ras Shamra, chiunque è onesto deve ammettere che anche altri passi poetici che la Bibbia fa risalire a tempi molto antichi, appartengono al periodo in cui la Bibbia li colloca.
Tra gli altri punti di contatto tra la poesia biblica e quella extra-biblica dovremmo notare in particolare le numerose rassomiglianze tra il Salmo 104 e l’Inno di Aton del re egiziano Akhnaton (circa 1377-1360 a.C.). Però assieme a queste ed altre somiglianze dobbiamo notare anche le divergenze; il marchio del monoteismo di Israele conferisce una fondamentale unicità religiosa a tutta la poesia (come a tutta la prosa) dell’Antico Testamento.

Testo ed esegesi

Molti studiosi del secolo diciannovesimo e dei primordi del secolo ventesimo hanno supposto che nella loro forma originaria ciascun testo poetico deve aver seguito determinati schemi sistematici e documentabili. Avendo stabilito lo schema dominante per ciascun brano, i teorici della metrica giunsero ad emendare il testo delle parti poetiche dell’Antico Testamento ogni qualvolta esso non si accordava con il ritmo da loro scoperto. Questo è un criterio per la ricostruzione del testo originale che dovrebbe essere usato con grande cautela. Si può tuttavia concedere che dove abbiamo un acrostico alfabetico quasi completo, possiamo ragionevolmente supporre che esso originariamente era completo, ma ciò non garantisce che un emendamento particolare con lo scopo di ricostruire l’intero acrostico sia quello giusto. Quanto a ricostruire il testo originale tenendo conto del numero delle sillabe accentate negli stichi di un passo poetico, abbiamo dato sopra un esempio di questo procedimento citando Ger.4:23-26. Le ultime parole del passo, così come le abbiamo nel testo («a motivo dell’ardente sua ira») sono state omesse dalla nostra citazione perché esse non quadrano con lo schema metrico 4+3 e sono state considerate come se fossero un’aggiunta in prosa.
Con la scoperta e la valutazione delle tavolette di Ras Shamra, si è mostrato l’inattendibilità della metrica. G. D. Young nel suo articolo Semitic Metrics and the Ugaritic Evidence (in «The Bible Today» Febbraio 1949, pp. 150-155), giunge alla conclusione seguente: «In nessuno di questi aspetti si può trovare uno schema definito nella poesia ugaritica. La ripetizione richiesta per l’espressione poetica non sta né negli accenti né nelle sillabe, ma semplicemente in una assai bella ripetizione di idee in forma parallela… L’idea che la metrica si trovi in questa poesia, è secondo il nostro pensiero una illusione sorta dall’esistenza del parallelismo e della morfologia semitica. Una poesia il cui punto fondamentale è il parallelismo deve necessariamente essere accompagnata da linee che approssimativamente hanno una lunghezza simile; una poesia scritta in una lingua nella quale ogni espressione può essere manifestata in due o tre parole, deve naturalmente dare l’impressione di linee la cui lunghezza metrica è uniforme… I fatti però mostrano la completa assenza di schemi ad ogni livello sopra notato». L’assenza fondamentale di ogni metrica era già stata riconosciuta molto tempo fa da Franz Delitsch nel suo Commentary on Psalms, nel quale così scriveva: «L’antica poesia ebraica non presenta alcun ritmo né alcuna metrica (unità ritmica); fu solo a partire dal settimo secolo dopo Cristo che la poesia ebraica adottò l’uno e l’altro» (p. 28). Un forte senso del ritmo fa sì che la poesia produca versi contenenti lo stesso numero di parole o almeno d’accenti tonici. Il verso ed il senso terminano insieme, tranne casi eccezionali.
Possiamo concludere che la poesia ebraica è molto diversa dalla nostra. Essa non segue le basi del ritmo o la metrica. Dipende, invece, dal parallelismo – dove il secondo verso è l’eco del primo – per la sua forza comunicativa. Il parallelismo della poesia ebraica è anche evidente quando la poesia è tradotta in un’altra lingua. In tal modo possiamo leggere e capire l’enfasi dell’autore.
D’altra parte la conoscenza delle forme fondamentali della poesia biblica, particolarmente del parallelismo, contribuisce notevolmente all’esatta interpretazione del testo. Ad esempio, eviteremo di pensare che lo scrittore stia facendo due asserzioni diverse, mentre in realtà egli dice la stessa cosa due volte. Inoltre, quando una linea di un verso è difficile da comprendere, l’altra linea aiuterà a chiarirla per mezzo del parallelismo del pensiero. Anche quando il significato di un verso è chiaro, la forza del parallelismo poetico comunicherà il messaggio delle Scritture in un modo dinamico.

Per esempio:
Ada / e Tsillah / ascoltate / la mia voce;
mogli / di Lamek, / fate attenzione / alle mie parole!
ho ucciso un uomo perché mi ha ferito,
e un giovane per avermi causato una lividura
(Gen.4:23)

Lamek non ha ucciso due persone, ma una sola (cfr. il metro 4:4 nella prima parte).
La conoscenza di questo parallelismo (sinonimico) permette di afferrare il significato di certi passi ambigui, per esempio Sal.22:20
Libera la mia vita dalla spada,
l’unica mia dalla zampa del cane

L’unica è la vita del salmista, la sua unica vita.
Questo ha permesso di comprendere il senso di certe parole ebraiche che compaiono solo una volta nella Bibbia. Allo stesso modo, il significato di un tema può essere meglio definito se si considera ciò con cui l’autore lo sostituisce nelle righe parallele. Così, in Prov.1:20-33, la Sapienza che parla è messa in parallelo alla conoscenza e al timore del Signore (v.29); la sapienza di cui si parla non ha dunque nulla in comune con la sapienza greca; è la conoscenza di Dio e delle Sue leggi che conducono ad una vita di ubbidienza.

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850) SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

http://www.disf.org/Documentazione/87.asp  

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850)    SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

2955. La cosa è semplicissima. Il Nuovo Testamento è facilissimo da capire. Ma noi siamo dei bricconi matricolati e fingiamo di non capire, perché sappiamo che se lo capissimo sui serio, dovremmo anche subito metterlo in atto. Ma per rifarci un po’ con il Nuovo Testamento — perché esso non se l’abbia a male e non ci accusi di malafede! — ecco che lo lusinghiamo e andiamo raccontando che è tanto meravigliosamente profondo, tanto inscrutabilmente sublime ecc.: press’a poco come quando un bambino fa finta di non capire gli ordini che riceve, e poi ha la furberia di lusingare papà. Dunque noi altri uomini facciamo finta di non capire il Nuovo Testamento: non vogliamo capirlo. Ecco il compito della scienza cristiana. La scienza cristiana è l’invenzione enorme dell’umanità per difendersi contro il Nuovo Testamento, per assicurarsi di poter continuare ad essere cristiani, senza però che il Nuovo Testamento ci venga troppo vicino. La scienza cristiana è stata inventata allo scopo d’interpretare, chiarire, illuminare meglio ecc. ecc. il Nuovo Testamento. Grazie tante! Già, noi uomini siamo dei furfanti matricolati — e Nostro Signore è l’ingenuo; quell’ ingenuo però che non si lascia menare per il naso! Prendi qualsiasi parola del Nuovo Testamento: dimentica tutto il resto e ingègnati a vivere in conformità… Ohibò, si dirà, ma questo sarebbe un far arenare nello stesso momento tutta la mia vita temporale e terrestre… Che fare allora? Oh, scienza impagabile: che sarebbe di noi, poveri uomini, se tu non ci fossi? “è orrendo cadere nelle mani del Dio vivente” [Eb 10,31] — ma è già orrendo star soli con il Nuovo Testamento. Non mi faccio migliore di quel che sono; io confesso (eppure potrebbe darsi che qui da noi io fossi uno dei più coraggiosi) che non ho osato ancora di starmene assolutamente solo con il Nuovo Testamento. Stare solo con esso, significa come se fossi solo in tutto il mondo, e come se Dio mi stesse seduto accanto e mi dicesse: “Vuoi tu avere la compiacenza di osservare ciò che vi sta scritto e riflettere che devi vivere in conformità?”. Solo con esso! … cioè come se io fossi solo in tutto il mondo e come se Cristo stesse in mia compagnia per impedire di svignarmela, dimenticando che quanto sta scritto si deve anche fare, come mostra l’esempio di Cristo. Oh, ma quanti son quelli che in 1800 anni di Cristianesimo hanno usato stare soli con il Nuovo Testamento? A quali tremende conseguenze non potrebbe portarmi questo ribelle e tiranno libro, se si deve stare soli con esso a questo modo. Come la situazione cambia invece completamente, se prendo in mano un libro di concordanze, un dizionario, un paio di commenti, tre traduzioni: il tutto per capire questa cosa profonda, meravigliosamente bella, quest’altezza inaccessibile! “Perché (lo dico candidamente!) basta che io ‘capisca’ il Nuovo Testamento: quanto al farlo… ci penserò poi e saprò ben cavarmela!”. In verità, che fortuna e che consolazione unica, che sia tanto difficile comprendere il Nuovo Testamento! È la causa dell’umanità che io difendo quando dico: “stiamo uniti, impegniamoci per la cosa più sacra e manteniamo questa promessa di nulla risparmiare, non fatiche, né veglie, per rendere il Nuovo Testamento sempre più difficile da comprendere. Se per spiegare e interpretare la S. Scrittura non bastassero le scienze inventate finora, inventiamone delle altre!” Io apro il Nuovo Testamento e leggo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quel che hai e dàllo ai poveri e seguimi” [Mt 19,21]. Gran Dio! Tutti i capitalisti, tutti i funzionari, anche quelli in pensione, tutta l’umanità, eccettuati i mendicanti: tutti saremmo perduti, se qui non ci fosse la scienza. La scienza! Questa parola ha un suono magnifico. Onore a chiunque consacra le sue forze a servizio della scienza! Lodato sia chiunque contribuisce a rafforzare la considerazione della scienza fra gli uomini! La scienza che trattiene il Nuovo Testamento, questo libro – che la scienza afferma “ispirato”; cioè quest’impiastro di libro, che in quattro e quattr’otto ci butterebbe tutti a terra se io si sciogliesse, cioè se la scienza non lo trattenesse! Invano il Nuovo Testamento fa sentire la sua voce, che grida al cielo più alta del sangue di Abele [Eb 12,24], invano comanda con autorità, invano ammonisce, e supplica: noi non lo sentiamo, cioè sentiamo questa voce soltanto attraverso la scienza. Come uno straniero che difende davanti a una Maestà Reale il suo diritto nella sua lingua materna, quando la passione lo spinge a dire la parola audace, l’interprete non osa tradurla al re e vi sostituisce qualcos’altro: così tuona il Nuovo Testamento attraverso la scienza. Come quel grido dei suppliziati nel toro di Falaride aveva il suono di soave musica agli orecchi del tiranno, così l’autorità divina del Nuovo Testamento attraverso la scienza è un lieve tintinnare di sonagli o come un nulla [1Cor 13,1 ss.]. Attraverso la scienza; … sì, perché noi uomini siamo astuti. Come si rinchiude il pazzo perché non abbia a disturbare la gente, come il tiranno allontana l’uomo franco perché non si possa sentire la sua voce, così noi abbiamo rinchiuso il Nuovo Testamento con la scienza. Invano grida, s’arrovella, strepita e gesticola: non serve, noi non lo intendiamo che attraverso la scienza; e per metterci del tutto al sicuro diciamo ch’è precisamente essa ad aiutarci a capirlo meglio e così potremo udirne la voce… Oh nessun pazzo, nessun prigioniero politico è stato mai rinchiuso così! Perché nessuno nega che costoro siano rinchiusi; ma nei riguardi del Nuovo Testamento la cautela è ancora maggiore; lo si rinchiude, ma si dice che si fa il contrario, che si fa di tutto perché possa avere il potere e il dominio. Tuttavia, e questo è intuitivo, nessun pazzo, nessun prigioniero politico sarebbe per noi tanto pericoloso come il Nuovo Testamento se fosse lasciato a piede libero. Veramente noi protestanti facciamo molto perché possibilmente ciascuno abbia il Nuovo Testamento. Ma cosa anche non facciamo per inculcare a tutti che il Nuovo Testamento non sia capito che attraverso la scienza? Voler capire il Nuovo Testamento, cercare di considerare subito ciò che vi si legge come un comando, voler agire subito in conformità: che sbaglio! No, il Nuovo Testamento è una dottrina, ed è necessario il rincalzo della scienza per comprenderlo! Ecco, si tratta di questo, e quel po’ ch’io ho creduto di poter fare, è presto detto. Ho voluto spingere gli uomini a fare ciascuno questa confessione: per parte mia trovo che il Nuovo Testamento è facilissimo da capire, ma finora quando si tratta di dover fare alla lettera secondo quel che non è difficile capire, ho trovato in me stesso difficoltà enormi. Avrei forse potuto prendere un’altra strada, cercar d’inventare una nuova scienza: ma mi soddisfa di aver fatto questa confessione.   Søren Kierkegaard, Diario , a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1981 vol. 7, pp. 184-187 [X3 A 34].

DA UNO SCRITTO (DEL 1963) DI THOMAS MERTON SULL’AVVENTO

 http://www.latendadimamre.com/1/upload/3_foglio_informativo_2013.doc.

DA UNO SCRITTO (DEL 1963) DI THOMAS MERTON SULL’AVVENTO

(stralcio da un file doc del sito)

È importante ricordare la profonda e in qualche modo angosciosa serietà dell’Avvento, quando la nostra cultura di mercato si armonizza troppo facilmente con la tendenza a considerare il Natale, consciamente o no, come un ritorno alla nostra infanzia e innocenza. L’Avvento dovrebbe ricordarci che il « re che sta per venire » è ben più di un bambinello grazioso che sorride (o, per chi preferisce una spiritualità dolorosa, che piange) sulla paglia. Non v’è certamente nulla di sbagliato nelle tradizionali gioie di famiglia del Natale, né dobbiamo vergognarci di essere ancora capaci di anticipare tali gioie senza troppe contraddizioni. Infine, tutto questo in sé non è fuori posto. Ma la Chiesa, nel prepararci alla nascita di un « grande profeta », Salvatore e Re della Pace, pensa a qualcosa di più che a un banchetto familiare di stagione. Il mistero dell’Avvento mette a fuoco la luce della fede sul vero significato della storia, dell’uomo, del mondo e della nostra esistenza. Nell’Avvento noi celebriamo la venuta e la presenza di Cristo nel nostro mondo. Noi siamo testimoni della sua presenza anche in mezzo a tutti gli inscrutabili problemi e le profonde tragedie. La nostra fede dell’Avvento non è una fuga dal mondo per rifugiarci in un regno nebuloso di slogan e di conforti che dichiari irreali i nostri problemi d’ogni giorno, inesistenti le nostre tragedie. Il nostro compito è di cercare e trovare Cristo nel nostro mondo così com’è, e non come potrebbe essere. Il fatto che il mondo è diverso da quello che potrebbe essere non altera la verità che Cristo è presente in esso e che il suo piano non è andato frustrato né ha subito modifiche: in verità, tutto si svolgerà secondo il suo volere. Il nostro Avvento è la celebrazione di tale speranza. Quel che è incerto non è tanto la « venuta » del Cristo quanto l’accoglienza che avrà da parte nostra, la nostra risposta a lui, la nostra prontezza e capacità ad « avviarci incontro a Lui ». Il nostro Avvento, quindi, non è una celebrazione di meri valori culturali tradizionali, per quanto grandi e degni di essere perpetuati. L’Avvento non è un puro e semplice ritorno, una ricorrenza, un rinnovo dell’antico. Non può essere certamente un ritorno alla fanciullezza, né personale né sociale. La venuta del Signore, che è lo stesso della sua « presenza », è la venuta del nuovo, non il rinnovo dell’antico. Noi crediamo che colui il quale è venuto e che verrà è già presente qui, ora, e che noi siamo nel suo regno. Non solo, ma noi siamo il suo regno. Il Cristo che si è vuotato prendendo forma di servo, morendo sulla croce per noi, ci ha dato la pienezza dei suoi doni e della sua salvezza. In tal caso l’Avvento del Signore non chiede né più né meno che un ritorno al « vuoto » della fede. Cristo, come dicono i Vangeli è venuto più prontamente e più volentieri per coloro che avevano più bisogno di lui, ossia per gli infelici, i peccatori, i disprezzati: per coloro che erano « vuoti ». Il mistero dell’Avvento è in tal caso un mistero di vuoto, di povertà, di limitazione. Il segreto del mistero dell’Avvento è dunque la consapevolezza che io comincio là dove finisco perché Cristo comincia dove io finisco. In parole più povere: io vivo per Cristo quando muoio per me stesso. 

PAOLO E LE ARTI MAGICHE

http://letterepaoline.net/2009/02/21/paolo-e-la-%E2%80%9Cmagia%E2%80%9D/

PAOLO E LE ARTI MAGICHE

Questa voce è stata pubblicata il 21 febbraio, 2009,

La “magia” – che qui intendiamo semplicisticamente come insieme eterogeneo di saperi e di pratiche di “confine”, basati sul controllo e la manipolazione di forze naturali e “soprannaturali” – era una realtà ampiamente diffusa al tempo di Paolo. Le stesse fonti protocristiane descrivono a più riprese lo scontro ingaggiato dall’apostolo con taumaturghi e guaritori: ma si tratta di un aspetto della biografia paolina che viene spesso trascurato dagli studiosi, anche per effetto di quell’ipoteca sull’indagine concreta delle esperienze religiose che continua a reggere molta esegesi moderna, interessata più a dirimere le complesse questioni teologico-dottrinali presenti nelle lettere che il quadro storico-sociale ad esse soggiacente.
Eppure, come dicevamo, i riferimenti non mancherebbero. Nella lettera indirizzata ai Galati, ad esempio, l’apostolo nomina la pharmakéia, parola che oggi tradurremmo agevolmente con “stregoneria”, annoverandola fra le «opere della carne», indegne della vita nuova dei credenti in Cristo (Gal 5,20), e collegandola ad altri fenomeni come l’astrologia o il culto delle potenze celesti. L’apostolo, su questo punto, resta fedele al proprio retaggio farisaico, e più in generale al vocabolario angelologico ereditato dal giudaismo (basti pensare alla fortunata distinzione fra dynámeis, kosmokrátores, thrónoi, etc.).
La lettera agli Efesini, considerata da molti come pseudepigrafa, proclama in proposito il definitivo de-potenziamento delle forze angeliche, per il tramite invincibile della Croce «e per la straordinaria grandezza della Sua [di Dio] potenza verso di noi che crediamo, come attesta l’efficacia della Sua forza irresistibile, che [Dio Padre] dispiegò nel Cristo risuscitandolo dai morti e insediandolo alla Sua destra nella sommità dei cieli, al di sopra di ogni principio, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che viene nominato non solo in questo secolo, ma anche in quello avvenire…» (Ef 1,19-21).
La crocifissione e la resurrezione di Gesù procurano per Paolo un definitivo “scuotimento delle potenze” (cf. Lc 21,26), potenze che vengono talora presentate come demoniache ed ostili, talaltra come angeliche (Paolo attribuisce ad intermediari celesti anche il dono della Torah, in Gal 3,19), e in alcuni casi come semplicemente umane, quali sono gli «arconti di questo mondo» nominati nella prima lettera ai Corinzi (da identificare probabilmente con le autorità religiose sinagogali), che «hanno crocifisso il Signore della gloria» perché ignoravano la «sapienza divina e avvolta nel mistero, che è rimasta nascosta» sino ai tempi ultimi (i nostri).
Paolo si avvale pure di espressioni che ricorrono frequentemente nei papiri magici dell’epoca, come stoicheîa toû kósmou (lat. elementa mundi, “elementi del cosmo”: Gal 4,3.9; Col 2,8.20), rimandando con ogni probabilità a speculazioni cosmologiche sugli spiriti astrali.
I testi giudaici extra-biblici ci rendono edotti riguardo a svariate concezioni angelologiche, e concordano con la testimonianza di Paolo sull’esistenza e la diffusione, anche in ambiente ebraico, di un culto rivolto agli angeli (cf. Col 2,18, dove l’apostolo critica appunto la threskeía tôn angélôn). In alcuni ambienti, a quanto risulta, l’angelologia era divenuta per così dire il baricentro non solo della cosmologia (con la distinzione diversificata e minuziosa dei cieli), ma anche delle diverse valutazioni sulla storia degli uomini.
Nel Libro dei Giubilei, un testo apocrifo di provenienza palestinese, databile al II sec. a.C. e certamente conosciuto a Qumran, si parla ad esempio di una lotta cosmica fra due schiere angeliche, una composta da angeli buoni (guidati dal cosiddetto “Angelo del Volto”, una figura paragonabile al Sar ha-Orim che ritroviamo nei testi di Qumran e all’arcangelo Michele della tradizione ebraico-cristiana), l’altra di angeli malvagi (guidati dall’angelo Mastema, accostabile ad altre figure angeliche come Beliar, Samaele o Satana): la storia terrena è vista dunque come una manifestazione, quasi una ripetizione “liturgica”, delle vicende di un’immensa lotta che si svolge al di sopra della sfera “storica”.
Non è chiaro, tuttavia, a quale tipo di classificazione angelica possa essersi riferito Paolo, ma il fatto ch’egli condividesse la credenza dei suoi interlocutori nell’esistenza di forze spirituali inframondane è assolutamente indubitabile. Paolo sembra concentrare l’attenzione, in particolare, su potenze di tipo malefico, da lui collocate in una zona del cosmo detta “dell’aria” o “del firmamento”, inferiore a quella delle sfere propriamente celesti. Nella lettera agli Efesini, si dice ancora che «la nostra lotta non è contro la carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro gli spiriti maligni che abitano le regioni celesti» (Ef 6,12).
Anche un testo come l’Ascensione di Isaia, di poco posteriore alla stesura dell’epistolario paolino (almeno per quel che riguarda la sua redazione ultima), suppone la presenza di uno spazio fisico popolato da potenze di segno negativo, intermedio fra i sette cieli superiori e l’abisso degli angeli malvagi.
Un’identificazione precisa di tutte le potenze angeliche nominate dall’apostolo, ciò nonostante, è resa praticamente impossibile dall’assenza di una presentazione sistematica: è necessario prestare attenzione, di volta in volta, al contesto della citazione e alle intenzioni dello scrivente. Ad ogni modo, Paolo si rivela deciso negatore di qualsiasi mediazione angelica nel piano della salvezza: il primato di Cristo è tale da coinvolgere persino la subordinazione degli angeli all’uomo credente («Non sapete che giudicheremo gli angeli?»: 1Cor 6,3).
L’apostolo si oppone pure ad alcune «vane osservanze» diffuse presso i Galati, i quali a suo dire si sarebbero sottomessi a precetti di purità legale e di calendario collegate verosimilmente alla venerazione di potenze astrali personificate (vd. Gal 4,10). In Col 2,15 si afferma poi che Dio «ha spogliato i principati e le potenze e ne ha fatto pubblico spettacolo, dopo aver trionfato (da thriambeúô, “trascinare un prigioniero in corteo trionfale”) su di loro per tramite di Cristo».
Perfettamente coerenti con l’atteggiamento dimostrato da Paolo nelle lettere si rivelano infine i numerosi dettagli biografici desumibili dal testo canonico degli Atti, che riferiscono di un incontro fra l’apostolo e un mago ebreo, un certo Elimas, a Cipro (At 13,6-12), mentre la situazione descritta al capitolo 19, che vede coinvolti alcuni «esorcisti ambulanti giudei» di Efeso che invocavano il nome di Gesù per guarire gli indemoniati, conferma il ruolo di quella città come centro di propagazione e diffusione di pratiche “occulte” nel I secolo.
La conclusione del narratore, al riguardo, è indicativa. Il testo dice che «non pochi di coloro che avevano esercitato le arti magiche (tà períerga) ammucchiavano i loro libri e li bruciavano in presenza di tutti: l’ammontare del loro prezzo fu calcolato in cinquantamila denari d’argento» (At 19,19): una cifra notevole (forse iperbolica), se pensiamo che una moneta d’argento corrispondeva approssimativamente al salario quotidiano d’un bracciante!
Praticare la magia, allora come oggi, era evidentemente un affare molto diffuso, e pure molto costoso.

L’APOSTOLO DELL’UMANESIMO – (IN MARITAIN…IN FILIGRANA L’ISPIRAZIONE DEL PENSIERO PAOLINO)

http://www.stpauls.it/jesus/0904je/0904je92.htm

L’APOSTOLO DELL’UMANESIMO

(IN MARITAIN…IN FILIGRANA L’ISPIRAZIONE DEL PENSIERO PAOLINO)

DI PIERO VIOTTO

In tutte le maggiori opere del filosofo francese si intravvede, in filigrana, l’ispirazione del pensiero paolino. Umanesimo integrale, d’altronde, non è che la traduzione moderna dell’antropologia esistenziale di san Paolo.

Jacques Maritain nel 1944, al Congresso di filosofia a Port-au-Prince (Haiti), indicando la missione del filosofo, ebbe a dire: «Più questa causa è grande, più ci sentiamo piccoli e inadeguati ad essa. È la causa dell’intelligenza e della filosofia nella ricerca della verità e di quell’assoluto nel quale noi siamo, noi viviamo, noi ci moviamo, come diceva Bergson, recuperando un pensiero di san Paolo. È la causa di questo umanesimo integrale che ci attende come il segno e il simbolo di una nuova civiltà, nella quale l’ispirazione democratica e l’ispirazione evangelica saranno riconciliate». Con queste parole Maritain non solo riassume la sua filosofia ma indica anche gli inizi della sua avventura culturale, che prima ancora di incontrare san Tommaso è stata influenzata da Bergson e da san Paolo. Fatte le debite distinzioni concernenti i piani di ricerca, perché le tre saggezze, filosofica, teologica, mistica, si muovano a livelli diversi e complementari, Maritain cita nelle sue opere le Lettere lavorando su quei testi sacri, ma distingue con chiarezza l’approccio della ragione e l’approccio della fede e distingue tra il vocabolario del sapere pratico e il vocabolario del sapere teoretico, perché bisogna tenere presente la natura specifica delle Lettere di San Paolo, e degli Atti degli apostoli che riportano i discorsi e le vicende dell’Apostolo delle Genti. Gli Atti degli apostoli sono una narrazione storica e le Lettere di San Paolo sono lettere pastorali, anche se, implicitamente, veicolano definizioni dogmatiche. Ciò detto, Maritain in Della grazia e della umanità di Gesù (1967) scrive: «Per quanto cari e per quanto venerabili siano per noi i Padri della Chiesa e i Dottori, i più grandi tra di loro, un milione di sant’Agostino, un milione di san Tommaso, non faranno mai un san Luca o un san Paolo».

Rembrandt, San Paolo in meditazione, Museo nazionale di Norimberga
(foto Scala, Firenze).

Maritain interpreta e commenta i numerosi testi paolini, trovando le connessioni tra i diversi gradi del sapere, e prende proprio da un versetto di Paolo l’ispirazione per il suo programma di vita intellettuale. Paolo, presentando la sua missione, aveva scritto «Guai a me se non evangelizzo» (I Corinzi 9, 16); Maritain dichiara «Guai a me se non tomistizzo»; ma in filigrana, sotto le argomentazioni filosofiche, si può cogliere lo zampillare del pensiero di san Paolo. Journet, che in una lunga corrispondenza (quasi 2 mila lettere dal 1920 al 1973) segue il filosofo nelle sue riflessioni, discutendo con lui temi teologici, gli scrive: «Ovunque voi andiate, è un po’ della Chiesa che va con voi, è un po’ di san Paolo, che voi tanto amate e che vi accompagna nella testimonianza che voi date alla verità» (29 giugno 1949).

Maritain dedica un libro all’Apostolo delle Genti: Il pensiero di san Paolo (1941), col sottotitolo « Testi scelti e presentati dall’autore », ma che è una vera ristrutturazione per temi delle Lettere che presenta il pensiero paolino in un modo sistematico. È interessante il giudizio sulla formazione di Paolo: «Il padre di Saulo era fariseo, ed è facile pensare che l’educazione giovanile del futuro apostolo non sia stata ispirata che in piccola parte alla mentalità ellenistica. Il suo greco resterà sempre una lingua viva, immaginifica, popolaresca, mirabilmente espressiva e pratica, ma ben diversa dal linguaggio delle scuole. Ciononostante, egli acquisì, indubbiamente più attraverso la letteratura ellenistica o greco-giudaica che dai maestri greci di Tarso, la cultura ellenistica conveniente a un uomo di educazione umanistica, e di cui troveremo tracce nelle sue lettere».

Seguendo la cronologia degli avvenimenti, Maritain sottolinea come due pensieri abbiano orientato la sua riflessione teologica: la frase di Stefano, che sta per essere lapidato («Voi che avete accolto la legge e non l’avete osservata»); e quella di Gesù, che gli appare sulla via di Damasco («Io sono colui che tu perseguiti»). Il filosofo scorge in questi approcci le due tematiche fondamentali di Paolo: la legge è necessaria, va rispettata, ma non è sufficiente alla salvezza, e i cristiani costituiscono il corpo mistico di Cristo, di cui egli è il Capo.

Predica di San Paolo, opera di Luca di Tommè (1330-1389 ca)
conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena
(foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).

Maritain riscontra un parallelismo tra la passione di Paolo e la Passione di Gesù. Entrambi sono accusati di irreligiosità e di non rispettare le leggi mosaiche e consegnati ai Gentili, al tribunale civile. Entrambi vengono condannati alla flagellazione, ma Paolo riesce ad evitarla perché dichiara di essere cittadino romano. Entrambi sono giudicati dal tribunale religioso, ma Paolo viene liberato dai soldati romani, che lo portano via dal Sinedrio. Entrambi si trovarono di fronte al potere politico locale: Gesù fu trascinato davanti a Erode, Paolo durante la prigionia a Cesarea fu condotto davanti al re Erode Agrippa II. Ma in queste sequenze di avvenimenti si riscontra una diversità di comportamento, perché mentre Gesù rimane silenzioso e risponde brevemente agli interrogatori, immerso già nelle tenebre della morte imminente, Paolo, che dopo la morte di Gesù, vive nel tempo della Chiesa, continua la sua predicazione anche in tribunale.

Maritain individua le caratteristiche della vocazione di san Paolo chiamato a evangelizzare i Gentili, gli infedeli per gli ebrei, quelli che non avrebbero parte all’elezione divina. «Paolo ha ricevuto una consapevolezza straordinaria, chiara e profonda della sua missione, cosciente così della sua debolezza di creatura umana come della potenza della grazia; l’apostolo non è legato a nulla e a nessuno, fuorché a Dio». Maritain considera la natura specifica della saggezza paolina, che si muove tra la teologia e la mistica, più scienza pratica al servizio della pastorale, che una scienza teoretica, che mira a definizioni concettuali.

L’opera più nota di Maritain Umanesimo integrale (1936) non fa che tradurre in termini moderni l’antropologia esistenziale di san Paolo. Infatti, umanesimo integrale non è altro che il cristianesimo integrale, che distingue senza separare il piano dello spirituale dal piano del temporale, la grazia dalla libertà, la soprannatura dalla natura, la politica dalla religione. La conclusione dell’opera, che distingue tra agire da cristiano sul piano della cultura e della politica e agire in quanto cristiano sul piano della religione, è in sintonia col pensiero paolino, tanto che Maritain scrive: «Qualunque cosa facciate, dice san Paolo, fatela in nome di Cristo. Se la grazia ci rigenera, se fa di ciascuno di noi un uomo nuovo, non avviene perché noi mercanteggiamo con l’uomo vecchio… In realtà la giustizia evangelica e la vita di Cristo in noi vogliono tutto in noi, vogliono impadronirsi di tutto ciò che noi facciamo, nel sacro come nel profano».

Hans Süss von Kulmbach, Conversione di San Paolo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).

I testi di san Paolo riguardanti l’uomo carnale, che si contrappone all’uomo spirituale, non vanno letti in senso ontologico, come contrapposizione tra il corpo e l’anima, ma in senso morale, come contrapposizione tra una vita di peccato e una vita nella grazia. Maritain riporta questo testo: «L’uomo naturale non può comprendere le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello spirito; l’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno». (1Corinzi II, 14-15). Ha così assimilato questo testo paolino che, giudicando l’uomo borghese, che separa la morale dalla politica, la coscienza etica dagli affari economici, scrive: «Lo sforzo di Marx, come più tardi quello di Freud, sarà stato quello di denunciare la menzogna di questa falsa coscienza, che ricopre e dissimula profonde correnti incoscienti, non solo gli interessi economici, gli interessi di classe, ma tutto quel mondo della concupiscenza e dell’amore egoistico di sé, dell’irrazionale e del demoniaco, che si è voluto negare e che nessuno caratterizzerà mai meglio di come abbia fatto san Paolo».

Bisogna vivere in questo mondo con spirito di povertà e di sobrietà perché «coloro che vogliono diventare ricchi incappano nella tentazione, e in molte bramosie insensate e funeste… L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali» (1Timoteo VI, 9-10). Maritain commenta: «Quanto san Paolo dice intorno al denaro concerne indubbiamente, in via principale, i mali spirituali che esso genera, ma si riferisce anche ai disordini e ai mali di cui soffre la città terrena».

Per quanto riguarda il lavoro, san Paolo, che praticava il mestiere di tessitore di tende, raccomanda a tutti di lavorare per guadagnarsi da vivere e giunge ad affermare «chi non vuole lavorare non mangi» (II Tessalonicesi III, 10). Se rimanda lo schiavo Onesimo al suo padrone, nella lettera gli raccomanda di riceverlo «non più come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo» (Filemone I, 36).

Hans Süss von Kulmbach, Cattura dei SS. Pietro e Paolo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).

Non c’è in Paolo un disprezzo della natura, perché se la grazia può innalzare la natura, è perché la natura già in sé stessa è qualcosa di buono. Maritain considera anche il matrimonio e la questione femminile. San Paolo che proclama il matrimonio come simbolo dell’unione di Cristo e della Chiesa (Efesini V, 22-33), nella Prima lettera ai Corinzi, in cui sottolinea che lo stato verginale è oggettivamente superiore allo stato sponsale, sembra sconsigliare il matrimonio. Maritain osserva: «Cadrebbe in grave errore chi credesse che tutto il pensiero dell’apostolo a riguardo dell’intero problema si riduca alla visione del matrimonio come rimedio contro la concupiscenza». Anche a riguardo della subordinazione della donna all’uomo nel matrimonio non bisogna equivocare, perché non si tratta di una subordinazione a livello di valore e di dignità ma a livello di funzionalità legata alla natura della sessualità, perché i due sessi non sono intercambiabili. La parità nella reciprocità è da san Paolo esplicitamente dichiarata quando scrive «la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito, allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma la moglie» (1Corinzi, VII, 4).

In due suoi libri – Il contadino della Garonna (1966) e La Chiesa del Cristo (1970), un dittico, l’uno essendo la pars destruens e l’altro la pars costruens della sua analisi ecclesiologica – Maritain riporta e commenta trenta testi dalle Lettere per sostenere la tesi secondo cui la Chiesa è una persona. La Chiesa non è un insieme anonimo, un collettivo di individui che si costituiscono in un ente politico o economico, ma è una persona, che prolunga nella storia l’Incarnazione: «San Paolo ci insegna che la Chiesa è una persona, non una moltitudine dotata, in senso analogico, di una personalità morale, ma veramente una persona, e questo è il suo privilegio, essenzialmente soprannaturale e unico». Maritain analizza la natura di questo organismo, precisando che ha un’anima, la grazia, e una vita, la carità, che sono una partecipazione della vita divina, e un corpo, il grande e complesso organismo visibile, che ha cominciato a prendere forma fin dall’epoca degli apostoli. «Da Colui che è la testa, il Cristo, il corpo intero riceve proporzionata consistenza e coesione, per mezzo delle varie articolazioni, che lo nutrono e lo muovono secondo la funzione di ciascuna parte, operando così la crescita e costruendo sé stesso nella carità» (Efesini IV, 15-16).

Così si costruisce l’uomo nuovo, e Maritain, continuando nel commento alla Lettera agli Efesini, precisa che Paolo ci dice proprio questo: «Il Cristo è la pienezza di tutto, che si riversa nella Chiesa, e la Chiesa è la pienezza di Cristo». E alla fine della storia, la Chiesa «farà ritorno alla pienezza di Dio» in una unità di natura, di grazia, di gloria. Per attuare questo disegno, che l’uomo peccatore ha guastato, Paolo dice che il Cristo si è fatto peccato per salvarci ed è morto crocefisso.

La Chiesa partecipa a questo mistero di redenzione, con una differenza sostanziale, perché essa è santa, ma è fatta di peccatori; e a questo proposito Maritain distingue la persona della Chiesa dal suo personale, chierici e laici compresi. «Il Corpo mistico è composto di giusti e di peccatori, ma il battezzato, che ha perso la grazia, non vive più la vita reale dell’anima del Corpo mistico, è un membro morto, è un morto vivente. Mentre chi non è battezzato, per una fede implicita in Cristo – come i giusti dell’antichità, di cui san Paolo tesse le lodi nella Lettera agli Ebrei, o i Gentili che seguono la retta coscienza di cui si parla nella Lettera ai Romani – appartengono invisibilmente a quel corpo visibile».

Hans Süss von Kulmbach, San Paolo rapito al cielo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).

Il Papa è un uomo, come gli altri membri della Chiesa: il suo carisma d’infallibilità non lo pone sopra la Chiesa, ma agisce come causa strumentale della persona della Chiesa per ammaestrare i suoi fratelli. Maritain si sofferma ad analizzare il ruolo di Pietro e di Paolo, «tutti e due mandano avanti il gregge di Gesù, ciascuno nel suo modo. Pietro, con i suoi fratelli nell’episcopato, costituendo il Magistero e l’organo che regge la vita del Corpo mistico sulla terra; Paolo, con quelli che lo seguono (senza essere investiti per questo di nessun’autorità di magistero, fossero pure dottori in teologia) nell’opera di sapienza, che va continuamente ampliata, essendo il fermento della ricerca intellettuale del progresso del Corpo mistico attraverso i tempi».

Maritain segue san Paolo nella distinzione tra i ministeri e i carismi, tra le funzioni del ministero ordinario e i doni straordinari, molto diffusi nella Chiesa primitiva, ma osserva: «Paolo insiste soprattutto su tali doni perché la debolezza umana rischiava di sviarli verso un disordinato individualismo, e inoltre perché essi richiedono che si distingua tra ciò che viene veramente dallo Spirito di Dio e ciò che è frutto di un’esaltazione meramente umana».

Paolo evidenzia con la sua predicazione l’universalità del messaggio cristiano e Maritain rileva come ci si salvi nel Cristo venturo e nel Cristo venuto, nel Cristo conosciuto e nel Cristo sconosciuto, perché «la chiesa del Cristo a venire, che sostanzialmente è la Chiesa del Cristo venuto, ha iniziato a esistere a partire da Adamo ed Eva, pentiti e rientrati in grazia. Essa è stata nei diversi stati culturali dell’umanità l’insieme invisibile di tutti coloro la cui anima viveva nella grazia e nella carità (penso all’altare « al Dio sconosciuto » di cui san Paolo parla nel suo Discorso agli ateniesi)». Così tutti gli uomini di buona volontà, per una fede implicita, si salvano e appartengono alla Chiesa visibile. La consapevolezza dell’universalità della salvezza non libera il cristiano dal dovere di testimoniare la sua fede e di evangelizzare il mondo, come dice Paolo a Timoteo, responsabile della comunità di Efeso: «Annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Timoteo IV, 2). Ma Paolo sa in speranza che tutti gli uomini di buona volontà saranno salvati.

Nel 1966 si organizza a Parigi un Incontro delle culture all’Unesco sotto il segno del Concilio Vaticano II a cui sono invitati a parlare un cattolico, un ortodosso, un luterano, un musulmano, un ebreo. Maritain rappresenta la posizione dei cattolici e parla su Le condizioni spirituali del progresso e della pace. Commentando la Gaudium et spes, cita san Paolo, per sostenere il primato dello spirituale per il progresso della civiltà umana: «L’amore, ecco la grande parola evangelica pronunciata, oggi, dalla Chiesa… Non vi sarà niente di fatto, anche attraverso il lavoro più ardente di rinnovamento sociale, anche attraverso gli sforzi più generosi di azione apostolica , non vi sarà assolutamente niente di fatto, senza la carità, senza questa agape, che ha più importanza delle tecniche della psicologia di gruppo e di altre metodologie sociali, dal giorno in cui san Paolo scrisse « quando parlassi le lingue degli angeli e degli uomini, se non ho la carità, non sono che un cembalo che risuona » (1Corinzi XIII, 1)».

Piero Viotto

LA SCOPERTA DI CRISTO – Thomas Merton *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_w.htm#LA SCOPERTA DI CRISTO

LA SCOPERTA DI CRISTO

Thomas Merton *

Il grande scrittore spirituale americano, Thomas Merton (19151968), fervente convertito, si fece monaco cistercense nel 1941. Nel testo che segue, Merton ci porta, con tutto il realismo della sua fede, fino al centro del messaggio cristiano: il Cristo è la prima e l’ultima parola della storia degli uomini e di ogni uomo.

La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col. 3, 3). La scoperta di noi stessi in Dio, e di Dio in noi, attraverso una carità che in Dio trova, con noi stessi, anche tutti gli altri uomini, proprio per questo è la scoperta non di noi stessi ma del Cristo. E’ prima di tutto la presa di coscienza che non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal. 2, 20), ed è, in secondo luogo, la penetrazione di quel tremendo mistero che San Paolo delinea audacemente – e oscuramente – nelle sue grandi epistole: il mistero della ricapitolazione, del convergere di tutto nel Cristo. E’ il vedere il mondo – il suo principio e la sua fine, – nel Cristo: veder scaturire tutte le cose da Dio nel «Logos» che si incarna e scende fin nelle ultime profondità della Sua creazione e riconduce tutto a sé per poi restituire tutto al Padre alla fine del tempo. Trovare «noi stessi» allora, vuoi dire non solo trovare la nostra anima così povera, limitata, insicura; ma trovare la potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dai morti e ci ha coedificati in Lui per divenire abitazione di Dio nello Spirito (Ef. 2, 22).
Questa scoperta di Cristo non è affatto autentica se si limita ad essere una fuga da noi stessi. Non deve essere un’evasione, ma un cammino verso la pienezza. Non riuscirò mai a scoprire Dio in me e me stesso in Lui se non ho il coraggio di guardarmi in faccia così come sono esattamente, con tutti i miei limiti e di accettare gli altri così come sono, con i loro limiti. La risposta religiosa non è religiosa se non è pienamente reale. L’evasione è la risposta della superstizione.
Se la si guarda in modo intuitivo, questa questione della salvezza è una cosa semplicissima: ma quando la si analizza, si trasforma in un groviglio di paradossi. Diventiamo noi, solo morendo a noi stessi. Guadagniamo solo quello a cui rinunciamo, e se rinunciamo a tutto guadagniamo tutto. Non possiamo trovare noi stessi dentro di noi, ma solo negli altri, eppure prima di poter andare verso gli altri dobbiamo trovare noi stessi. Se vogliamo veramente prender coscienza di chi siamo, dobbiamo dimenticare noi stessi. Amare gli altri è il modo migliore di amare noi stessi, eppure non possiamo amare gli altri se non amiamo noi stessi, poiché è scritto Amerai il tuo prossimo come te stesso (Mt. 19, 19). Ma se noi ci amiamo in modo sbagliato, diventiamo incapaci di amare chiunque altro. Quando noi non ci amiamo rettamente, in realtà ci odiamo; e se odiamo noi stessi, finiremo inevitabilmente per odiare gli altri. E’ vero tuttavia che in un certo senso dobbiamo odiare gli altri e lasciarli, se vogliamo trovare Dio. Gesù ha detto Se qualcuno viene a me e non odia suo padre e sua madre… e la sua vita stessa, non può essere mio discepolo (Lc. 14, 26).
Quanto al nostro «trovare» Dio, è certo che non potremmo neppure cercarlo se non lo  avessimo già trovato, e non potremmo trovarlo se Lui non ci avesse già trovato.

* No Man Is an Island, Harcourt, Brace and Company, New York 1955, pp. XV-XVII – Edizione italiana: Garzanti – IV ediz., pp. 13-15.

Publié dans:LETTERATURA |on 14 mars, 2013 |Pas de commentaires »

Il Natale nei testi letterari

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=130492

Il Natale nei testi letterari

Si sente dire in giro che questo sarà un Natale triste, perché c’è la crisi, perché ci sono troppe tasse da pagare, come se il Natale fosse allegro solo a condizione di poter spendere un po’ di soldi. Ma è davvero così? Riscoprirne il senso attraverso le storie di ogni tempo. Da Collodi a Calvino, i racconti natalizi.
          Finalmente un Natale senza soldi! Finalmente perché, anche se può sembrare banale e retorico e senza voler sdrammatizzare la gravità della crisi, questo Natale ci costringerà, ob torto collo, a concentrarci su cose che non siano i regali, i cenoni e tutte le altre classiche consuetudini festive. Ma anche a riscoprire certi aspetti della festa di cui ormai si sente parlare solo nei racconti dei nonni o nelle storie di Collodi.

La Festa di Natale di Collodi
          I tre figli della contessa Maria, racconta lo scrittore fiorentino nella Festa di Natale, arrivato il Natale, avevano facoltà di rompere il salvadanaio personale e destinare il gruzzolo risparmiato a soddisfare un proprio desiderio. Arrivato il gran giorno, il più grande acquistò un’elegante gualdrappa e una briglia nuove per il suo adorato cavallo di legno. La più piccola investì i suoi risparmi in scarpe da ballo per la sua bambola. Il mezzano, Alberto, che pur sognava di comprare vesti nuove per il suo amico burattino, donò invece la somma ad una donna perché acquistasse abiti caldi ad un piccolo orfano, salvato dalla strada, meritando così il regalo più bello ed ambito: il bacio della mamma.

I Figli di Babbo Natale di Calvino
          E non serve andare indietro nel tempo fino al 1800, anche la letteratura più recente offre spunti di riflessione ed inviti a riscoprire il vero senso del Natale.
          Nel novembre del 1963 Calvino scrisse Le stagioni in città, una raccolta di novelle il cui protagonista è Marcovaldo, un manovale con problemi economici. Nella storia intitolata I figli di Babbo Natale Michelino, suo primogenito, è intenzionato a fare un regalo ad un bimbo povero e sceglie, per questo, il figlio di un noto industriale, viziato e ricchissimo quanto solo e triste. In lui Michelino, figlio di un uomo non abbiente, vede un vero bambino povero e gli dona un martello, un tirasassi e una scatola di fiammiferi.

Un Lieto Natale di Alcott
          Tra le pagine più suggestive della letteratura natalizia, non si può tralasciare il romanzo di Louisa May Alcott, Piccole donne. L’autrice nel capitolo intitolato Un lieto Natale descrive la mattina di Natale delle sorelle March e della loro madre che, rinunciando ai regali e all’attesa colazione, decidono di andare a dare conforto ad una famiglia molto povera.
          « Buon Natale a voi, figlie mie! … prima di sederci, devo dirvi una cosa. Poco lontano da qui, una donna ha appena avuto un bimbo. Ne ha già altri sei, che stanno rannicchiati in un unico letto per non gelare. Infatti, non hanno né legna per il fuoco, né qualcosa da mangiare… Bambine mie, vorreste donare loro la vostra colazione come regalo di Natale? » L’indecisione durò per poco… “Vengo io ad aiutarti?”, chiese Beth con premura. “Io porto la crema e le focaccine”, soggiunse Amy. “Sapevo che le mie bambine avrebbero fatto questo piccolo sacrificio – disse sorridendo la signora March. – Verrete tutte con me e” … in pochi minuti tutte furono pronte per uscire”.

L’agrifoglio di Noventa
          Gina Marzetti Noventa scrive di un pastorello che si sveglia all’improvviso nel cuore della notte. “In cielo v’è una luce nuova: una luce mai vista a quell’ora….Ecco sopraggiungere molta gente e tutti, a passi affrettati, si dirigono verso una grotta. “Dove andate?”, chiede il pastorello.
“Non lo sai? – risponde, per tutti, una giovane donna. – È nato il figlio di Dio: è sceso quaggiù per aprirci le porte del Paradiso”.
          Il pastorello si unisce alla comitiva: anch’egli vuole vedere il Figlio di Dio. A un tratto, si sente turbato: tutti recano un dono, soltanto lui non ha nulla da portare a Gesù. Triste e sconvolto, ritorna alle sue pecore. Non ha nulla; nemmeno un fiore; che cosa si può donare quando si così poveri?
Il ragazzo non sa che il dono più gradito a Gesù è il suo piccolo cuore buono.
          Ahi! Tanti spini gli pungono i piedi nudi. Allora il pastorello si ferma, guarda in terra ed esclama meravigliato: – Oh, un arbusto ancor verde! È una pianta di agrifoglio …il pastorello andrà alla divina capanna; un ramo d’agrifoglio sarà il suo omaggio”.

Racconto di Natale di Tolstoj
          Nel Racconto di Natale Leone Tolstoj narra di un ciabattino che, avendo avuto in sogno l’anticipazione di una visita del Signore per il girono seguente, si mette in sua attesa dal mattino e si prepara a riceverlo nel migliore dei modi.
          Ma quel dì davanti alla sua casa passarono solo un uomo infreddolito e una donna sola con un neonato. E lui, che aveva preparato la minestra per accogliere Gesù ed accesso il fuoco, non mancò di accogliere, sfamare e scaldare i due viandanti. A fine giornata prese il Vangelo e lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. … Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.

Sogno di Natale di Pirandello
          Insomma, si sente dire in giro che questo sarà un Natale triste, perché c’è la crisi, perché ci sono troppe tasse da pagare, come se il Natale fosse allegro solo a condizione di poter spendere un po’ di soldi. Ma è davvero così? Nessuna risposta può essere migliore di quella contenuta nel Sogno di Natale di Pirandello. “Cerco un’anima, in cui rivivere” disse Gesù “Tu vedi ch’ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà”.

Publié dans:LETTERATURA, NATALE (QUALCOSA SUL) |on 18 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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