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L’ISRAELE DI DIO (Rm)

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L’ISRAELE DI DIO

Messaggio ai Cristiani a cura del past. Veglio, ministro della Chiesa cristiana evangelica di Trieste

INTRODUZIONE

Ringrazio il Signore perché ha voluto chiamare noi, gli ultimi, i più miseri, per comunicarci la sua parola, la verità. Egli ci ha detto che soltanto la verità ci renderà liberi e che se vogliamo avere libertà abbiamo bisogno della sua parola. Abbiamo bisogno di Gesù, che è la parola di Dio. Questa è la parola che ho ricevuto dal Signore.

Leggiamo quello che è scritto nella Lettera ai Romani, capitolo 11: 1Dico dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? No di certo! Perché anch’io sono Israelita, della discendenza d’Abrahamo, della tribù di Beniamino. 2Dio non ha ripudiato il suo popolo, che ha riconosciuto già da prima. Non sapete ciò che la Scrittura dice a proposito di Elia? Come si rivolse a Dio contro Israele, dicendo: 3″Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno demolito i tuoi altari, io sono rimasto solo e vogliono la mia vita »? 4Ma che cosa gli rispose la voce divina? « Mi sono riservato settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal ». 5Così anche al presente, c’è un residuo eletto per grazia. 6Ma se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia. 7Che dunque? Quello che Israele cerca, non lo ha ottenuto; mentre lo hanno ottenuto gli eletti; e gli altri sono stati induriti, 8com’è scritto: « Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchie per non udire, fino a questo giorno ». 9E Davide dice: « La loro mensa sia per loro una trappola, una rete, un inciampo e una retribuzione. 10Siano gli occhi loro oscurati perché non vedano e rendi curva la loro schiena per sempre ». 11Ora io dico: sono forse inciampati perché cadessero? No di certo! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta agli stranieri per provocare la loro gelosia. 12Ora, se la loro caduta è una ricchezza per il mondo e la loro diminuzione è una ricchezza per gli stranieri, quanto più lo sarà la loro piena partecipazione! 13Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero, 14sperando in qualche maniera di provocare la gelosia di quelli del mio sangue, e di salvarne alcuni. 15Infatti, se il loro ripudio è stato la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione, se non un rivivere dai morti? 16Se la primizia è santa, anche la massa è santa; se la radice è santa, anche i rami sono santi. 17Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non insuperbirti contro i rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. 19Allora tu dirai: « Sono stati troncati i rami perché fossi innestato io ». 20Bene: essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede; non insuperbirti, ma temi. 21Perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neppure te. 22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; ma verso di te la bontà di Dio, purché tu perseveri nella sua bontà; altrimenti, anche tu sarai reciso. 23Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. 24Infatti se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo. 25Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; 26e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: « Il liberatore verrà da Sion. 27Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati ». 28Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l’elezione, sono amati a causa dei loro padri; 29perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili. 30Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31così anch’essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti. 33Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! 34Infatti, « chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere? 35 O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio? » 36Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen.

Dio ci comunica realtà eterne. È scritto che la parola di Dio è sempre « Sì e amèn ». Egli non muta, non è una volta « sì » e l’altra « no » (2Corinzi, 1:19-20). Nel Signor Gesù non c’è né titubanza, né incertezza. Noi siamo insufficienti e imperfetti, per questo Dio ci dà secondo la misura della nostra fede (Romani, 12:6). Ci dà solo quello che possiamo portare e non ci costringe a credere quello che non riusciamo ad accettare. È scritto che i profeti profetizzano secondo la misura della loro fede, ciò significa che parlano di ciò che hanno ricevuto dal Signore nella misura in cui vi hanno creduto. Non possono dire di avere ricevuto da Dio ciò che non credono provenire dal Signore. Quello a cui non credono non lo considerano parola di Dio. Così è anche per tutti noi: quello che non crediamo non lo consideriamo parola di Dio. Il Signore ci parla in tante maniere, Dio ci sta dando tesori immensi, ricchezze meravigliose, infinite, ma noi siamo limitati, e nella nostra limitatezza riteniamo provenire dal Signore soltanto quello che riusciamo ad accettare. Dio non è avaro, ma noi siamo limitati e non siamo in grado di capire cose tanto grandi. Ma grazie a Dio abbiamo accolto la verità. Grazie a Dio abbiamo accettato Gesù, il fondamento della nostra fede e della nostra salvezza, e con Gesù la vita eterna. Su questo viene costruita l’opera di Dio. Tutta la nostra vita, tutto ciò che Dio ci dona viene messo pietra sopra pietra e così veniamo edificati in Cristo. Dio ci ha chiamati a libertà. Ma, se vogliamo piacere a Dio, non possiamo vivere una vita secondo la nostra volontà; dobbiamo vivere una vita conforme alla Sua volontà, conforme cioè a quello che Lui ci ha detto. Ora le cose che abbiamo conosciuto sono parziali: non imperfette ma parziali, perché noi, non siamo in grado di capire tutto. Come ci dice lo Spirito Santo per mezzo dell’apostolo Paolo: « Oggi noi contempliamo come in uno specchio » – cioè come di riflesso – le cose grandi di Dio, ma quando saremo col Signore, allora le vedremo direttamente, « faccia a faccia » (1Corinzi, 13:12). Allora vedremo le cose in una maniera molto più profonda, in una maniera completa. Riusciremo a comprendere la meravigliosa grandezza di Dio, perché vi saremo immersi. Saremo anche noi là, assieme a Lui. La Sacra Scrittura ci dice che non tutti i popoli sono popolo di Dio, ma soltanto uno: il Popolo di Israele. Noi abbiamo accettato Gesù, il Figlio di Dio, e in Lui siamo diventati anche noi figli di Dio. Per accettare Gesù, la Parola di Dio, abbiamo rinunciato (siamo morti) alla nostra vecchia vita e abbiamo cominciato a vivere la nuova vita che è Gesù Cristo stesso in noi. Gesù, che è la progenie d’Israele, è colui che vive in noi (come dice l’apostolo Paolo: « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me »; Galati, 2:20). Essendo Gesù la discendenza d’Israele, tutti coloro che accettano Gesù diventano in lui l’Israele spirituale. Noi sappiamo che Israele non ha accettato Gesù. Il popolo d’Israele, ufficialmente, non ha accettato Gesù come il Messia, cioè l’Unto (Mashiach) di Dio. Non lo ha riconosciuto come figlio di Dio e non lo ha accettato come Salvatore; pertanto il popolo d’Israele non ha ottenuto la salvezza. Gesù è l’unica salvezza, l’unica via, l’unica verità e l’unica vita, l’unico attraverso cui si può essere salvati e ottenere la vita eterna. Certo, anche fra gli Israeliti ci sono coloro che hanno accettato Gesù: anche l’apostolo Pietro e l’apostolo Paolo erano israeliti, praticamente tutta la Chiesa di Gerusalemme era israelita. Quindi non è vero che nessuno del popolo d’Israele abbia accettato Gesù, anzi. Ma non la nazione d’Israele. In effetti, Israele sta ancora spettando il Messia. Ora, avendo rifiutato Gesù come figlio di Dio, ha rifiutato la salvezza e fino a oggi, quindi, il popolo d’Israele non è ancora salvato. Perciò noi che abbiamo accettato Gesù come nostro salvatore siamo diventati popolo di Dio, l’Israele spirituale, mentre il popolo d’Israele, che non ha ancora accettato Gesù, non è ancora entrato a far parte dell’Israele spirituale. Questa è solo la premessa.   L’ELEZIONE DI ISRAELE Abbiamo visto che è scritto: « Ora io dico: sono forse inciampati perché cadessero? No di certo! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta agli stranieri per provocare la loro gelosia » (v. 11). Quindi, il popolo d’Israele non è inciampato per non rialzarsi più, non ha rifiutato per sempre Gesù l’Unto. Neanche Dio li ha rifiutati per sempre. Piuttosto: a causa del loro indurimento, del loro rifiuto, la salvezza è giunta agli altri popoli. Sin dall’inizio, prima ancora della distruzione del Tempio, i fratelli hanno subìto persecuzioni a causa della loro fede. Sono stati tutti dispersi; solo gli apostoli sono rimasti a Gerusalemme (Atti, 8:4e 11:19), gli altri sono dovuti scappare in altre città e così facendo hanno diffuso la parola di Dio, annunciando Gesù in tutti i luoghi dove sono andati. Negli scritti del Nuovo Testamento troviamo che quando l’apostolo Paolo arrivava in una città, prima di tutto entrava nella Sinagoga e lì annunciava la buona notizia della salvezza in Gesù Cristo (Atti, 13:5,14,17:1-3). Ma quando, come purtroppo è avvenuto, questo annuncio è stato rifiutato dagli ebrei, allora Paolo si è rivolto agli altri popoli (ai Gentili). Dicendo agli israeliti: « Era necessario che a voi per primi si annunciasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi ritenete degni della vita eterna, ecco, ci rivolgiamo agli stranieri » (Atti, 13:46). E così è avvenuto, il vangelo è stato annunciato agli stranieri e molti hanno accettato Gesù. Quindi, a causa della caduta del popolo d’Israele, a causa del loro rifiuto, noi che siamo stranieri (estranei alle promesse, al patto, all’elezione) siamo stati raggiunti dalla Parola di Dio e abbiamo potuto ricevere la salvezza nel Signore Gesù e diventare così popolo di Dio. Ma il piano di Dio non si ferma qui. « Ora, – continua la Scrittura – se la loro caduta è una ricchezza per il mondo e la loro diminuzione è una ricchezza per gli stranieri, quanto più lo sarà la loro piena partecipazione! Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero, sperando in qualche maniera di provocare la gelosia di quelli del mio sangue, e di salvarne alcuni. Infatti, se il loro ripudio è stato la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione, se non un rivivere dai morti? » (vv. 13-15). Questa parola scuote profondamente. La loro caduta, il loro rifiuto è stato per noi la salvezza. Non c’era nessuno che offrisse salvezza, come non c’è tuttora nessuna religione, nessuna dottrina, che offra salvezza. Tanti parlano, predicano, insegnano a fare buone opere, penitenze, riti, purificazioni e tante altre cose, ma nessuno assicura: « facendo così sarai certamente salvato ». Dicono: « Facendo questo, diventerai migliore, sarai più gradito a Dio, riceverai l’illuminazione », ma, sino alla venuta del Signor Gesù – e ancora sino a oggi – non c’è stato nessun altro che abbia offerto la salvezza e la vita per l’eternità, gratuitamente. Solo il Signore Gesù. Solo chi accetta Gesù nel suo cuore può dire: « Sì, io sono salvato ». Perché Gesù Cristo è la salvezza. Chiunque ha accettato Gesù Cristo nel proprio cuore, ha ricevuto la salvezza. E così, chi ha accettato Gesù può dire agli altri: « Accetta Gesù nel tuo cuore e sarai salvato anche tu ». Non c’è un altro modo per essere salvati. Cosicché quando quei popoli – in quel tempo, come anche oggi – hanno udito questa parola così certa, così ferma, così chiara, hanno accettato, perché non avevano mai sentito dire che questo fosse possibile. Ma Israele ha rifiutato Gesù Cristo, e a causa di questo rifiuto noi stranieri abbiamo ottenuto grazia, perché abbiamo ricevuto la parola di Dio. E Gesù ci ha rinnovati completamente, abbiamo difatti rinunciato volentieri a tutto ciò che era vergognoso, peccaminoso, iniquo, cioè a tutto il nostro vecchio modo di vivere, le vecchie tradizioni, le nostre vecchie passioni e i vecchi piaceri; e adesso siamo nuove creature. Ora se il rifiuto dell’Unto Gesù da parte del popolo d’Israele è stato per noi la salvezza, e oggi abbiamo la gioia di poter vivere in comunione con Dio e abbiamo pace nel cuore, avendo avuta trasformata la nostra vita, se Dio ha fatto questo in noi a causa del rifiuto del popolo d’Israele, che cosa succederà quando anche il popolo d’Israele accetterà Gesù? Questo è ciò che dice la parola di Dio: « Se il loro rifiuto è stata la riconciliazione del mondo, che sarà la riammissione, se non un rivivere dai morti? » (v. 15). Visto che non c’è un modo per poter esprimere qualcosa di così grande, l’apostolo lo esprime con questa frase interrogativa. Che altro può essere, se non qualche cosa di meraviglioso? Se oggi noi cristiani abbiamo già così tanto, che cosa succederà quando Israele si ravvederà e accetterà Gesù? Essi ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro, le promesse e i padri, e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo (Romani, 9:4-5). Il popolo che ha la cultura di Dio, le tradizioni di Dio. (Mi riferisco alle tradizioni bibliche, non a quelle che ha assimilato dal mondo, corrompendosi, corruzione che poi ha anche pagato amaramente). Io ho visto che queste cose a noi mancano. Lo Spirito di Dio mi ha mostrato una cosa che non conoscevo: il popolo d’Israele ha una ricchezza che a noi cristiani manca. È vero, gli manca Gesù, e senza il figlio di Dio è privo della salvezza e della vita eterna. Ma quando Israele accetterà Gesù, la grande ricchezza che possiede diventerà patrimonio di tutto il popolo di Dio, ebrei e non ebrei. 

L’OLIVO C’è ancora qualcosa di meraviglioso. Rileggiamo la parola. « Se la primizia è santa, anche la massa è santa. Se la radice è santa, anche i rami sono santi. Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu che sei olivo selvatico sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non insuperbirti contro i rami naturali, ma se ti insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Allora tu dirai: sono stati troncati dei rami perché fossi innestato io. Bene, essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede. Non insuperbirti, ma temi, perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neanche te. Considera dunque la bontà e la severità di Dio. La severità su quelli che sono caduti, ma verso di te la bontà di Dio, sempreché tu perseveri nella sua bontà, altrimenti anche tu sarai reciso. Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati. Perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. Infatti se tu che sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi che sono i rami naturali saranno innestati nel loro proprio olivo. » (vv. 16-24). Ecco cosa ha preparato Dio. Questo indurimento d’Israele, durato per lungo tempo – duemila anni – ha fatto sì che la parola di Dio, cioè l’evangelo, la buona notizia, potesse venir annunciato per tutto il mondo, così che nessuno rimanesse senza la possibilità di conoscere la verità – cioè Gesù – e quindi di ricevere la salvezza e la vita eterna. Ora noi cristiani non dobbiamo giudicare gli israeliti. È vero che loro hanno perseguitato Gesù e gli apostoli, hanno rifiutato il Signore e la salvezza che egli offriva loro. Ma se ci mettiamo a giudicarli per questo, noi, nel nostro cuore per natura malvagio, siamo portati a giudicarli in modo sbagliato. Giudicando così, alcuni hanno gridato: « Perfidi Giudei! ». Per lunghi anni sono echeggiate queste terribili parole e, a causa di questo modo di interpretare e di giudicare le cose, tremende persecuzioni si sono abbattute sul popolo d’Israele. Da quello che è scritto, però, vediamo che lo Spirito ci dice: non ti inorgoglire. Ma come, proprio tu che a causa del loro indurimento hai ricevuto grazia, ora li stai trattando così duramente, giudicandoli e disprezzandoli in questa maniera? Non capisci che proprio il fatto che hanno indurito il loro cuore ha dato a te la possibilità di ricevere la verità? È vero che alcuni rami dell’olivo sono stati recisi per la loro incredulità, perché si può essere salvati solo credendo in Gesù Cristo e in nessun altro modo. Tutti allo stesso modo, ebrei e pagani, senza distinzione. Gesù è il Signore! Non uno dei signori: l’unico Signore. Quindi c’è solo una salvezza: Gesù Cristo, il Signore. Ma per quanto alcuni d’Israele, a causa della loro incredulità, siano stati recisi quali rami dell’olivo, non di meno Dio non si è dimenticato di loro. Invece, noi che eravamo parte dell’olivo selvatico, siamo stati innestati al loro posto. Così ora possiamo ricevere la grazia di Dio, cioè la sostanza grassa della radice dell’olivo. Partecipiamo, cioè, della grazia proveniente dalla salvezza che è in Cristo Gesù, l’olivo di Dio. Se loro sono stati recisi per la loro incredulità – perché non hanno accettato Gesù – e Dio ha potuto innestare noi al posto loro (e l’ha fatto davvero, perché proprio per questo noi abbiamo vita: Gesù ci ha fatto partecipi di questa grazia, e noi sappiamo che cosa è avvenuto nella nostra vita il giorno che lo abbiamo accettato, e come questa è stata veramente trasformata, non esteriormente ma in profondità dentro di noi, per poi manifestarsi anche fuori: noi lo sappiamo e possiamo testimoniarlo), se Dio è stato capace di un’opera così impossibile, innestando noi che eravamo pagani al posto dei rami recisi del popolo d’Israele, quanto più egli potrà prendere di nuovo i rami tagliati, ma naturali, e reinnestarli al loro posto. È opera più facile questa, piuttosto che ciò che il Signore ha fatto per noi. Non è difficile per l’Onnipotente reintegrare il popolo d’Israele nella grazia che ha preparato innanzitutto per loro (come è anche scritto in Romani, 1:6 e 2:10). Prima per loro e poi anche per noi, non solo per l’uno o solo per l’altro. Quindi loro non sono esclusi, anzi vengono prima di noi. Se non perseverano nell’incredulità, saranno innestati di nuovo nell’olivo, cioè in Gesù il Messia. Perché Dio ha la potenza di reinnestarli (v. 23). Vale la pena sottolinearlo: se Dio ha fatto questo con noi, tanto più può farlo con loro. Fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi. Infatti, è facile cadere nella presunzione, e quando questo avviene, ci si inorgoglisce e si giudica in modo errato. Non vorrei dimenticaste che « un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele finché non sia entrata la totalità degli stranieri » (v. 25). Quindi l’indurimento si è prodotto solamente in una parte e soltanto finché non sia entrata la totalità degli stranieri, cioè dei popoli non ebrei. Dio ci ha rivelato che siamo negli ultimi tempi, anzi ci ha rivelato che i tempi sono finiti. Sono stato mandato ad annunciare queste testuali parole: « I tempi sono finiti, ravvedetevi, convertitevi a Gesù Cristo ». Questa è parola di Dio. Perciò, se i tempi sono finiti, ecco che questo « finché non sia entrata la totalità degli stranieri » ora è avvenuto. Questa condizione si concretizza ora, alla fine dei tempi, quando ormai gli stranieri, tutti i popoli, hanno ricevuto la parola di Dio. E tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: il liberatore verrà da Sion. Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati. Per quanto concerne l’evangelo essi sono nemici: per causa vostra, però, per consentire a voi di venire salvati. Ma per quanto concerne l’elezione, sono amati a causa dei loro padri. Perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili (v. 26-29). Cioè, come dice un’altra traduzione: senza pentimento. Dio non si pente di quanto ha dato e noi sappiamo bene che le sue promesse sono per il popolo d’Israele. Noi cristiani non abbiamo soppiantato il popolo d’Israele, come alcuni pensano. Costoro credono che il popolo d’Israele sia stato reciso e che i cristiani siano diventati popolo d’Israele al loro posto. Ma Dio ha un solo popolo, da sempre. Il popolo d’Israele rimane il suo popolo e noi cristiani non l’abbiamo soppiantato: per grazia siamo stati integrati nel popolo di Dio. Certamente nessuno entrerà nel regno dei cieli senza convertirsi e accettare Gesù: su questo non ci possono essere dubbi. Ma ciò non toglie che tutti gli israeliti che accettano Gesù sono il vero popolo d’Israele. Non tutti gli israeliti sono « Israele », come è anche scritto (Romani, 9:6), ma soltanto coloro che credono: solamente coloro che hanno accettato Gesù sono il vero Israele. Perché ci sono tanti della progenie d’Israele che non credono e anzi rifiutano la fede. Questi non saranno salvati, pur essendo nati da genitori israeliti. Ma ciò non ci dà il diritto di dedurre che noi cristiani abbiamo soppiantato Israele. No, noi siamo diventati parte del popolo d’Israele! Siamo diventati parte dell’olivo: « Innestati », come è scritto. Alcuni rami sono stati tagliati; altri, però, non sono stati tagliati. Ma il tronco non è cambiato e le radici non sono mutate: la sacra Scrittura è la stessa, le promesse sono le stesse, le profezie sono le stesse, il Signore è lo stesso. Alcuni rami sono stati tagliati e noi siamo stati innestati al posto loro, ma l’albero è sempre quello. Noi cristiani quindi siamo stati innestati e siamo entrati a far parte del popolo d’Israele. Questo è fondamentale, fratelli: Israele non è stato rifiutato. Noi cristiani non dobbiamo diventare né dei soppiantatori, come Giacobbe, e neanche dei profani, come Esaù. E noi diventiamo tali quando nel nostro inorgoglimento pensiamo di essere diventati il vero Israele. Piuttosto, abbiate l’umiltà necessaria e abbassatevi, perché a Dio non viene difficile reinnestare i rami tagliati del popolo d’Israele; mentre a noi è detto che se non perseveriamo nella verità verremo a nostra volta tagliati. Come Dio non ha esitato a rigettare quelli d’Israele che non hanno creduto, così non esiterà a rigettare neanche noi, se ci inorgogliamo. Quindi, rimani umile e sii riconoscente, perché altrimenti anche tu sarai reciso (v. 22). Fate attenzione, quindi, a non innalzarvi e a non mettervi a giudicare Israele con un cuore altero e gonfio d’orgoglio. Noi cristiani abbiamo il Vangelo, è vero, ed essi sono stati effettivamente nemici del Vangelo: ma questo è avvenuto per causa nostra, come abbiamo visto, cioè perché noi fossimo salvati. Quindi, come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio e ora, per la loro disubbidienza, avete ottenuto misericordia – così, « anch’essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia » (v. 31). Fratelli, è così difficile, ma è meraviglioso. Ecco ciò che dice: Voi che in passato eravate estranei alla vita di Dio, avete ottenuto misericordia, perché Israele ha indurito il suo cuore verso Gesù e non lo ha voluto accettare. Ma, come essi sono stati disobbedienti affinché voi accettaste Gesù, attraverso di voi ora, per la misericordia che voi avete ottenuta, anche loro accetteranno Gesù. Attraverso di voi, perché non c’è nessun altro che possa annunciare Gesù, se non coloro che credono in Gesù. Quindi loro, che aspettano ancora il Messia, hanno bisogno di ricevere la testimonianza da noi. Per la misericordia che è stata fatta a noi, anche loro otterranno misericordia. Così Dio ha deciso, perché nessuno si glori, perché tutti rimaniamo lì dov’è il nostro posto, cioè a terra, nella polvere, ai piedi del Signore. Dio, infatti, ha rinchiuso tutti nella disubbidienza, per fare misericordia a tutti (v. 32). Perché altrimenti Israele si sarebbe inorgoglito, come è successo in passato, perché aveva le promesse ed era il popolo eletto. Essendosi inorgogliti sono scaduti e non possono venire salvati, finché non accettano Gesù. Adesso devono ascoltare, sono costretti ad accettare Gesù attraverso noi cristiani. Ma neanche noi abbiamo motivo di inorgoglirci. Perché è a causa della loro disubbidienza che la salvezza è giunta a noi. Guardate che cosa hanno dovuto sopportare, perché noi fossimo salvati. Hanno dovuto sopportare sofferenze indicibili, perché hanno rifiutato Gesù e lo hanno consegnato ai pagani affinché fosse crocefisso. Questo li h

MEDITAZIONE : « MA IN TUTTE QUESTE COSE NOI SIAMO PIÙ CHE VINCITORI IN VIRTÙ DI COLUI CHE CI HA AMATI » (ROMANI 8:37).

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DA « MEDITAZIONI DEL MATTINO E DELLA SERA »

di C. H. Spurgeon

Meditazione del mattino del 23 aprile

« MA IN TUTTE QUESTE COSE NOI SIAMO PIÙ CHE VINCITORI IN VIRTÙ DI COLUI CHE CI HA AMATI » (ROMANI 8:37).

Noi andiamo a Cristo per ricevere misericordia, e troppo spesso guardiamo alla legge per ottenere forza per vincere i nostri peccati. Paolo ci rimprovera così: « O Galati insensati! Chi vi ha ammaliati per non ubbidire alla verità, voi, davanti ai cui occhi Gesù Cristo è stato ritratto crocifisso fra voi? Questo solo desidero sapere da voi: avete ricevuto lo Spirito mediante le opere della legge o attraverso la predicazione della fede? Siete così insensati che, avendo cominciato nello Spirito, vorreste finire nella carne? » (Galati 3:1-3). Porta i tuoi peccati alla croce di Cristo, poichè il vecchio uomo può solo esservi crocifisso: noi siamo crocifissi con Lui. L’unica arma con cui è possibile combattere il peccato è la lancia che forò il costato di Gesù. Per fare un esempio – se vuoi vincere il tuo temperamento collerico, come puoi fare? È probabile che tu non abbia mai provato a portare a Gesù quel problema nel modo giusto. Come sono stato salvato? Sono andato a Gesù così com’ero, e ho creduto che Lui potesse salvarmi. Allo stesso modo devo comportarmi per liberarmi del mio cattivo carattere. È il solo modo. Devo andare alla croce e dire a Gesù: « Signore, io credo che Tu me ne puoi liberare ». Questo è l’unico modo per dare il colpo di grazia al tuo problema. Sei tentato dalla concupiscenza? Senti che il mondo ti irretisce? Puoi sforzarti di combattere contro questo male quanto vuoi, ma se è un peccato ossessionante non ne puoi essere liberato in altro modo che attraverso il sangue di Gesù. Portalo a Cristo. Digli: « Signore, ho creduto in Te, e il Tuo nome è Gesù, poichè Tu salvi il Tuo popolo dai suoi peccati; Signore, questo è uno dei miei peccati; salvami da esso! » Le ordinanze sono nulla senza Cristo come mezzo di mortificazione. Le tue preghiere, il tuo pentimento, le tue lacrime – tutte queste cose messe insieme – non valgono nulla senza di Lui. Nessuno all’infuori di Gesù può fare del bene ai peccatori sofferenti, come anche ai santi sofferenti. Devi essere vincitore in Colui che ti ha amato, se vuoi vincere. I nostri allori devono crescere tra le Sue olive nel Getsemani.

FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE

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FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE

Editoriale

[Gesù Cristo] è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione. Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. (Rm 4,25-5,1) 

Quando si sente il termine giustificazione la prima cosa che viene in mente a molti è quel foglietto, firmato dai genitori, che ciascuno di noi doveva riportare alla maestra una volta tornato a scuola dopo un’assenza. Non potevamo redigere o firmare da soli la nostra giustificazione, anche se a volte, con l’astuzia innocente dei bambini, abbiamo sognato di farlo per evitare un’interrogazione incombente. Non è inutile partire da questa comune e semplice esperienza, apparentemente insignificante, per cercare di illuminare una parola che segna l’originalità della fede cristiana, ma è anche stata causa di incomprensioni e profonde separazioni tra le chiese in Occidente. Giustificazione, nell’esperienza dello scolaro e in quella del peccatore perdonato, è un essere giustificati, un esser riammessi nel consesso da cui la malattia (e analogamente il peccato) li aveva allontanati. Il mistero della giustificazione è contemplare l’azione misericordiosa di Dio che in Cristo riscatta i peccatori per costituirli figli, fino a renderli «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4). Diceva il teologo A. Birmelé, in un intervento alla XXXVII Sessione del Segretariato attività ecumeniche: «La grazia guarda e sceglie; è parziale, vive di un partito preso. Dio non è imparziale: ha preso partito per gli esseri umani». La dottrina della giustificazione lo afferma: Dio non è imparziale, anzi rende giusti gli ingiusti, figli i nemici. Davanti a questa affermazione non si può fare a meno di chiedersi perché mai Dio faccia una cosa del genere. Rispondeva Agostino: «Avendo un Figlio unigenito, Dio l’ha fatto figlio dell’uomo, e così viceversa ha reso il figlio dell’uomo figlio di Dio. Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo, e vedi se trovi mai altro che grazia» (Disc. 185). Riflettere ancora sulla giustificazione non è quindi facoltativo per i cristiani, soprattutto per quanti sono immersi nella cultura del commercio, dello scambio a pagamento, in cui lo spazio per la gratuità e per il dono immeritato si va riducendo a un mero ricordo. La cultura occidentale è stata e sarà sempre tentata di pelagianesimo: salvarsi da soli, mettersi davanti a Dio con una giustizia propria, ecco il «mito» anticristiano di chi non vuole riconoscere l’extra nos della salvezza. La reazione luterana a ogni forma di pelagianesimo portò a interpretare le opere buone che l’uomo compie come «pagamento» per meritarsi la salvezza, finendo per insistere unicamente sulla passività ricettiva degli esseri umani in ordine all’azione di Dio. Questa presa di posizione condusse poi i teologi della Controriforma a sospettare che i luterani non credessero al reale cambiamento dell’uomo giustificato e alla necessità della libera collaborazione all’opera della grazia. Secoli di condanne e di reciproci fraintendimenti, alimentati da un’apologetica aggressiva, hanno scavato tra le confessioni cristiane d’Occidente un fossato. Ci aiuta a risalire alle origini della frattura fra le chiese l’articolo di Jos Vercruysse, che presenta la posizione delle varie comunità riformate (luterani, calvinisti e anglicani) a confronto con le prese si posizione del concilio di Trento e le reciproche condanne dottrinali. Il 1999 segna una tappa fondamentale nel superamento della divisione. In quell’anno è stata firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione luterana mondiale la prima Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. La novità di questo testo sta nel fatto che l’accordo raggiunto, pur parziale, non è rimasto al livello del dialogo fra teologi, come nel caso di tanti documenti che hanno preceduto la Dichiarazione, ma è stato ufficialmente sottoscritto dalle chiese. L’iter della stesura e della ricezione del documento, che segna una decisiva acquisizione nel progresso dell’ecumenismo, ci viene presentato nell’articolo affidato a PawelHolc. Un’espressione centrale descrive sinteticamente i risultati raggiunti: «Consenso differenziato». Il treno del dialogo viaggia su una coppia di binari che corrono paralleli, senza convergere in una monorotaia né divergere a rischio di tragici deragliamenti. Pur differenziato e parziale il consenso guadagnato è irrevocabile. Le chiese coinvolte nel dialogo si sono sentite chiamate dalla Dichiarazione congiunta a trovare un nuovo linguaggio, capace di rendere comprensibile agli uomini e alle donne del nostro tempo l’essenziale verità della giustificazione. A questo proposito l’articolo di AndreaToniolo cerca di approfondire il ruolo e le conseguenze della dottrina della giustificazione nella società postmoderna. Egli mette in rilievo il «buon annuncio» della giustificazione per grazia, che libera l’uomo dall’impossibile compito moralistico di salvarsi da solo, e afferma invece il primato della persona al di sopra di ogni conquista o insuccesso individuale. Affinché le chiese possano però confessare insieme la verità da comunicare al mondo assetato di salvezza, è necessario che esse arrivino prima a un consenso più ampio e a una comune espressione delle verità fondamentali. Si apre a questo punto il vasto problema del linguaggio, vera chiave di volta del dialogo ecumenico. Ciò comporta una paziente ermeneutica delle affermazioni del partner di dialogo, per giungere non a sopprimere ogni differenza linguistica, di sottolineature o di formulazione teologica, ma piuttosto a cogliere, nell’espressione dell’altro, i riflessi di una «diversità riconciliata». A questo livello si situa il contributo di BasilioPetrà, che sintetizza i risultati del dialogo tra ortodossi e luterani sul tema della giustificazione. Tale colloquio ha prodotto un’intesa che precede quella cattolico-luterana e ne apre la via, componendo il dissidio sui reciproci malintesi della giustizia imputata e della divinizzazione. Ortodossi e luterani riconoscono adesso che le differenze che permangono nelle loro teologie sono date dalle peculiarità dei loro rispettivi linguaggi, entrambi comunque biblicamente fondati. Anche LucianoBordignon, partendo da una analisi dei limiti dell’espressione scolastica della giustificazione, si sofferma sulle categorie linguistiche che descrivono l’offerta divina della giustizia. L’articolo propone un interessante studio delle metafore di salvezza contenute nei testi biblici. Quindi, rilevata una certa «estraneità» della mentalità cristiana attuale, sia cattolica che luterana, riguardo al tema della giustificazione, afferma l’urgenza di trovare una metafora-chiave che permetta di rimettere in contatto i cristiani di oggi con questo tema centrale per la vita di fede. L’immagine del dono, con i suoi corollari della gratuità e della gratitudine, viene colta come una possibile via per ridare senso esistenziale alla sopita coscienza della giustificazione. Se davvero il cammino dell’ecumenismo teologico, come mostra in modo paradigmatico la vicenda della Dichiarazione congiunta, è avviato verso un sempre più ampio consenso nella fede che rispetti la pluralità dei modi di esprimerla, è anche indispensabile approfondire le basi comuni su cui poggia il consenso. In particolare, il recupero della dimensione biblica della giustificazione. AntonioPitta, riflette sulla radice della giustificazione rappresentata dall’offerta gratuita dell’alleanza veterotestamentaria. Essa fiorisce nel Nuovo Testamento nella letteratura paolina, tanto valorizzata dai fratelli luterani;  questo però non deve condurre a trascurare la prospettiva complementare che sottolinea la lettera di Giacomo. Solo così si arriva a una visione completa del rapporto fede e opere in ordine al nostro tema. Il percorso compiuto nel chiarire la questione della giustificazione mostra, tuttavia, che si è solo agli inizi. Certo, si è riusciti ad accordarsi su un articolo di fede assolutamente centrale, ma sono comunque rimaste aperte varie domande e soprattutto non è stato adeguatamente sciolto il nodo che riguarda la posizione di questo articolo di fede nell’ambito delle teologie cattolica e protestante. Se infatti per i luterani esso è il criterio unico attraverso il quale si può giudicare tutto il complesso dottrinale cristiano, per i cattolici, pur rimanendo centrale, deve essere armonicamente collegato alle altre verità gerarchicamente ordinate. Ci espone questi problemi l’articolo di AngeloMaffeis, che in modo equilibrato sottolinea i risultati raggiunti, senza timore di puntualizzare i motivi che non rendono ancora possibile la piena unità visibile. In particolare si riconosce che non è ancora stata raggiunta un’intesa circa le implicazioni ecclesiali della giustificazione. GiampieroBof ci fa riflettere sul contributo che può fornire oggi la teologia nell’aiutare le chiese a farsi promotrici di giustizia a ogni livello. L’articolo di congedo è affidato a GianniColzani che rilegge il tema della giustificazione seguendo il pensiero di Karl Barth. La sua proposta, pur confessionalmente qualificata, è un tentativo sinceramente cristiano di porre con forza la centralità di Gesù Cristo. La giustizia di Cristo, che diviene nostra in virtù della fede, ha per Barth una vera azione trasformatrice dell’uomo, è una ri-creazione. Nel cogliere gli aspetti positivi della teologia barthiana, Colzani ne rileva anche le fragilità. In particolare la debolezza antropologica: il sola fide, sempre fortemente ribadito, mette l’uomo in una condizione di quasi-estraneità all’opera che Dio compie in lui:  è solo spettatore, mai collaboratore attivo. Un grande merito del dibattito tra autori cattolici e protestanti, a partire dalle posizioni di Barth, è stato quello di chiarire definitivamente il rapporto «motivazione-effetto» tra fede e opere, su cui non sussiste più alcuna disputa.

Nella documentazione non abbiamo voluto far mancare almeno la parte centrale della Dichiarazione (il capitolo 4). L’invito alla lettura, curato da AldoModa,  fa il punto bibliografico sui commenti alla Dichiarazione e aiuta il lettore ad orientarsi nell’approfondimento delle questioni trattate.

CAMMMINO DI FEDE CON GIOVANI SPOSI E COPPIE – CHI CI SEPARERÀ DALL’AMORE DI CRISTO? (RM 8,31B-35.37-39)

http://www.cpm-italia.it/index.php/formazione-e-percorsi/cammmino-di-fede-con-giovani-sposi-e-coppie/289-chi-ci-separera-dall-amore-di-cristo-rm-8-31b-35-37-39

CAMMMINO DI FEDE CON GIOVANI SPOSI E COPPIE

CHI CI SEPARERÀ DALL’AMORE DI CRISTO? (RM 8,31B-35.37-39)  

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, Nostro Signore.

Che cosa dice il testo (LECTIO) Paolo conclude qui, con parole commosse, la sua meditazione sul piano di salvezza e, in particolare, sul dono dello Spirito, effuso nel cuore dei cristiani. Nei vv. 31-33, l’opera di salvezza compiuta da Dio in Cristo è sintetizzata in quel “per noi”, espressione che appare due volte riferita a Dio e una a Cristo. Sapere che Dio e Cristo sono per noi, sono dalla nostra parte, così come lo era lo Spirito (cfr. Rm 8,26), dà coraggio al cristiano. Paolo ripete così il suo messaggio sull’amore di Dio che già appariva nell’indirizzo della Lettera ai Romani, quando definiva i suoi destinatari come «amati da Dio» (cfr. Rm 1,7). Sul tema dell’amore di Dio era poi tornato successivamente, con indimenticabili espressioni: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato ri­versato nei nostri cuori… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,5.8). Ora l’amore di Dio, divenuto visibile nel dono che il Pa­dre fa di suo Figlio nella croce, è contemplato nelle con­seguenze che riguardano la vita presente del cristiano. Anzitutto è sconfitta l’immagine di un Dio adirato, che deve essere temuto dall’uomo e placato con impossibili sacrifici. Il triplice «per noi» (vv. 31.32.34) è sottolineato da Paolo per ribadire come il credente non possa avvicinarsi con angoscia al suo Dio, ma debba essere mosso a fiducia nel suo indefettibile amore. Eliminata così la paura più radi­cale, e cioè che Dio sia un giudice inesorabile per questa umanità peccatrice, vengono superati anche i timori che riguardano gli affanni presenti, come le ansietà per le tri­bolazioni, per le ristrettezze economiche, per l’incertezza del futuro, per la morte (v. 35). Anche le apprensioni per forze misteriose, incontrollabili (vv. 38s.), sono fugate dalla certezza della potenza dell’amore di Dio, manife­statosi in Cristo. Il brano si conclude allora con il tono trionfale di un inno di lode, perché il cristiano non è soltanto “vittorioso”, ma addirittura “stravincitore” (v. 37) nelle varie difficoltà: «Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (v. 39). Ringraziamo sul testo (MEDITATIO) “Trattami pure male”, diceva Lucia al marito: “Dio è dalla mia parte, Dio mi ricompenserà!”. E lui bestemmiava, acido e irraggiungibile. La scena si ripeteva ogni mattino, quando lei faceva suonare la sveglia alle sei per andare a messa; e lui urlava: «Mi svegli e potrei dormire ancora mezz’ora, con la fatica che mi aspetta poi al lavoro!». E giù bestemmie a quello che lui chiamava “il tuo Dio”. Lucia credeva proprio di avere ragione: anzi il livore e le bestemmie del marito, diceva, non la toccavano. Forse le davano l’ebbrezza di essere “perseguitata”. Ma un mattino, su consiglio di un prete attento, la sveglia così perentoria non suonò. «Non ha suonato», lui le disse, quasi se l’aspettasse. «E non suonerà più», disse lei allegramente: «andrò a messa pian piano se per caso mi sveglierò». Lui fece finta di niente: un mattino, due, tre, poi sbottò: «Ma Dio non è più dalla tua parte?». Sì, Dio era dalla parte di Lucia, cioè del suo matrimonio. Quale Dio? Colui che «non ha risparmiato suo Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (v. 32): non il Dio che ci serve per avere ragione (perfino quando l’abbiamo!), non il Dio che si impone con sveglie più o meno perentorie o con le nostre ansie di fare (e far fare) ciò che abbiamo in testa, bensì il Dio che dona, che non risparmia (altro che solo una bella idea!) nemmeno ciò che ama di più: il Figlio. Questo è il Dio che ci fa vincitori nel farci assomigliare a lui: disposti a donare quanto di più prezioso abbiamo o magari anche (soltanto?) un nostro puntiglio, un nostro punto di vista. E così scopriamo che «nulla ci può separare dall’amore di Dio»: nemmeno le (momentanee) incomprensioni dell’altro/a o le provocazioni o i fallimenti di un figlio o le “persecuzioni” di suocero o nuore o cognati o fratelli. Meraviglioso amore che continua ad abilitarci a donare, se lo vogliamo, piuttosto che a pretendere! Preghiamo (ORATIO) Se l’albero conosce la solidità delle proprie radici, resta sicuro anche nella tempesta; se Cristo è morto e risorto per noi e se noi restiamo in lui, come possiamo ancora temere per il nostro amore? Radica, o Signore, in noi questa certezza, rendila più forte di ogni filtro d’amore, più forte della fiducia nei no­stri sentimenti di oggi, più forte di tutte le nostre armi, più forte della morte (cfr. Ct 8,6). Che cosa ha detto la Parola (CONTEMPLATIO) Lo stesso fra Leonardo riferì che un giorno il beato Francesco, presso S.Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Eccomi, sono pronto». «Scrivi », disse, «quale è la vera le­tizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nel­l’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe,arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge an­cora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno conver­titi tutti alla fede oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia». «Ma quale è la vera letizia?». «Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un in­verno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano ghiaccioli d’acqua congelata che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima”. Fonti francescane, Editio Minor, Assisi 1986, 144s.). Mettere in pratica la Parola (ACTIO) Traducete nella vostra vita coniugale questa parola: nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39). PER LA LETTURA SPIRITUALE La vita è un’opportunità, coglila La vita è bellezza, ammirala La vita è beatitudine, assaporala La vita è un sogno, fanne una realtà La vita è una sfida, affrontala La vita è un dovere, compilo La vita è un gioco, giocalo La vita è preziosa, abbine cura La vita è una ricchezza, conservala La vita è amore, godine La vita è un mistero, scoprilo La vita è una promessa, adempila La vita è tristezza, superala La vita è un inno, cantalo La vita è una lotta, afferrala corpo a corpo La vita è una tragedia, accettala La vita è un’avventura, rischiala La vita è felicità, meritala La vita è la vita, difendila (MadreTeresa di Calcutta).

Publié dans:Lettera ai Romani, MATRIMONIO |on 26 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

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GIOVANNI CRISOSTOMO – OMELIE SULLA LETTERA AI ROMANI (9,2-3)

In quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo decennio dell’era cristiana. Quattro secoli dopo, Antiochia è ancora uno dei centri più importanti della Chiesa d’Oriente. In particolare da quando un giovane sacerdote aveva cominciato a predicare. Il suo nome è Giovanni e i secoli successivi lo chiameranno “Crisostomo”, ovvero “bocca d’oro” per la semplicità ed insieme la profondità e bellezza della sua predicazione. Siamo nel 392 e Giovanni – vista la situazione della sua comunità particolarmente in crisi – sceglie come tema del suo annuncio la speranza. E lo fa attraverso la testimonianza del suo autore prediletto: Paolo e la sua Lettera ai Romani. Tutti si aspettano una lettura inevitabilmente teologica, visto il contenuto della lettera paolina. Al contrario, il Crisostomo parte dalla vita concreta e – alla luce del testo sacro – ne illumina la sfida: «Se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto». Infatti «la nostra speranza è certa e inamovibile perché Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre». Questo genera la fiducia e la pazienza, vero antidoto alla disperazione. «Per mezzo di Cristo abbiamo anche avuto accesso, mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,2). 2. Nota come Paolo precisa sempre tutti e due gli aspetti, ciò che viene da Cristo e ciò che viene da noi. Solo che da Cristo ci vengono molte eIn quella città per la prima volta i seguaci di Gesù di Nazareth vennero chiamati “cristiani” sin dal primo  svariate cose: è morto per noi, ci ha riconciliati, ci ha dato accesso e ci ha comunicato un’ineffabile grazia; per parte nostra invece ci mettiamo solo la fede. Per questo dice: «…mediante la fede, a questa grazia nella quale rimaniamo». Dimmi: quale grazia? Quella di essere resi degni di conoscere Dio, quella di essere liberati dall’errore, di conoscere la verità, di conseguire tutti i beni mediante il Battesimo. Per questo, infatti, ci ha dato accesso alla grazia, perché ottenessimo questi doni; non solo, dunque, per avere la remissione e la liberazione dai peccati, ma per godere di infiniti pregi. E non si ferma qui, perché annuncia anche altri beni, quelli indicibili che superano la mente e la ragione. Infatti, parlando di «grazia» si riferisce alle realtà presenti che abbiamo conseguite, ma quando dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», rivela tutte le realtà future. E giustamente dice: «Nella quale rimaniamo», perché così è la grazia di Dio: non ha fine né limiti ma si espande sempre più, cosa che per gli uomini non si verifica. Facciamo un esempio: uno può prendere il comando, la gloria, il potere, ma non «rimane» stabilmente in essi, perché ben presto ne decade: se anche non lo spodesta un altro, sopraggiungerà la morte a spazzarlo via. Per le cose di Dio non è così: non c’è uomo o tempo o circostanza e neppure lo stesso diavolo o la morte che possa venire a cacciarcene. Anzi, quando moriremo le possiederemo più pienamente e cresceremo sempre più nel loro godimento. Pertanto, se sei scettico sulle realtà future, devi invece crederci in base a quelle presenti che già hai ricevuto. Per questo dice: «E ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio», perché impari quale disposizione d’animo deve avere l’uomo di fede. Questi deve ostentare certezza non solo delle cose che gli sono state date, ma anche di quelle future come se gli fossero già state date. Infatti uno si vanta di ciò che ha già ottenuto. Ora, poiché la speranza delle cose future è sicura e certa quanto le cose già date, noi – dice Paolo – ci vantiamo a pari titolo anche di quelle, e per questo le chiama «gloria». Se infatti concorrono alla gloria di Dio, è certo che accadranno, se non per noi, per Lui. Ma cosa vado dicendo – obietterai – che i beni futuri sono degni di vanto? Quelli presenti sono già di per sé così pieni di mali che possiamo proprio andarne fieri! Ecco allora che Paolo aggiunge: «E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni» (Rm 5,3). Pensa quanto grandi debbono essere le realtà future se andiamo orgogliosi di quelle che sembrano piene di dolore ! Tanto grande è il dono di Dio e nulla vi è in esso di sgradevole. Nelle realtà esteriori i combattimenti comportano fatiche, dolori e tribolazioni, che le corone e i premi convertono in soddisfazione. Nel nostro caso non è così, perché la lotta ci procura non minore soddisfazione del premio. Poiché infatti le prove erano numerose, mentre il regno restava affidato alla speranza; poiché sottomano c’erano realtà funeste, mentre quelle propizie restavano nell’aspettativa – e tutto questo prostrava i più deboli – ecco che dà loro il premio prima ancora della vittoria, dicendo che bisogna vantarsi anche nelle tribolazioni. E si noti che non dice: «Dovete vantarvi», ma: «Ci vantiamo», rivolgendo l’esortazione alla sua propria persona. Quindi, poiché poteva sembrare strano ed assurdo affermare che uno se lotta con la fame, se è in catene o tra i tormenti, se è oltraggiato e schernito, deve vantarsi, si preoccupa di fondare il discorso e, quel che è più, giunge ad affermare che è giusto vantarsi non solo per le realtà future ma anche per quelle presenti. Cioè, le tribolazioni sono per se stesse cosa buona. Per quale motivo? Perché spingono alla pazienza. E infatti dopo aver detto: «Ci vantiamo nella speranza», continua adducendone il motivo: «Ben sapendo che la tribolazione produce pazienza» (Rm 5,3). Osserva ancora una volta la puntigliosità con cui Paolo capovolge la logica del discorso: dato che le tribolazioni provocavano assai spesso la rinuncia ai beni futuri e gettavano nella disperazione, afferma che proprio in forza delle tribolazioni bisogna essere fiduciosi e non disperare dei beni futuri. Dice infatti: «La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude» (Rm 5,3-5). Le tribolazioni, dunque, non solo non distruggono questa speranza, ma la costruiscono. Infatti, anche prima dell’avvento dei beni futuri, la tribolazione produce un frutto eccellente, la pazienza, e rende idoneo chi è sottoposto alla prova. Inoltre dà il suo contributo ai beni futuri, in quanto porta al culmine in noi il vigore della speranza. Niente infatti produce una valida speranza quanto una buona coscienza.

3. Ordunque, coloro che hanno vissuto rettamente non devono perdere la fede nelle realtà future, così come, invece, molti di coloro che di vivere rettamente non si sono curati – e sono quindi oppressi da cattiva coscienza – vorrebbero che non ci fosse né giudizio né remunerazione. Che dire, dunque: i beni promessici sono affidati alla speranza? Certo, ma non alle speranze umane, che spesso vengono a cadere coprendo di vergogna chi vi si era affidato, perché colui da cui ci si aspettava sostegno o è morto o, se è ancora vivo, ha cambiato idea. Per i nostri beni non è così, perché la nostra speranza è certa e inamovibile. Colui che ce l’ha annunciata vive per sempre e noi, che siamo destinati a godere di essi, anche se moriamo risorgeremo, e non c’è niente e nessuno che possa svergognarci come se a caso ci fossimo stoltamente esaltati per fallaci speranze. Dopo aver sgombrato ogni dubbio con queste parole, Paolo non si ferma alle realtà presenti ma chiama in causa di nuovo quelle future, ben sapendo che i più deboli e coloro che spasimano per il presente non si sarebbero accontentati di quanto detto. Egli dunque conferma la fede nei beni futuri in base a quelli già dati. Qualcuno infatti potrebbe dire: «E se Dio non volesse concederci la sua grazia?». Che ne abbia il potere e che duri in eterno e viva lo sappiamo tutti, ma da dove sappiamo che egli anche lo voglia? Da quanto si è già verificato. E cos’è che si è verificato? L’amore che ha mostrato per noi. In che modo? Donandoci lo Spirito Santo. Per questo, dopo aver detto che la speranza non delude, ne dà dimostrazione aggiungendo: «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5). Non ha detto: «È stato dato», ma «È stato riversato nei nostri cuori», sottolineando la prodigalità. Infatti quello che ci ha fatto è stato il dono più sublime; non il cielo e la terra e il mare, ma un dono più prezioso di tutti questi, che da uomini ci ha fatti diventare angeli, figli di Dio e fratelli di Cristo. Qual è questo dono? Lo Spirito Santo! Se dunque Dio non avesse voluto, dopo le nostre pene, incoronarci di una grande vittoria, non ci avrebbe elargito, prima di esse, dei doni così grandi. Ora invece quanto sia ardente il suo amore per noi si rivela in questo, che non ci ha dato una piccola e breve gratificazione, ma ha riversato l’intero flusso dei suoi doni, e questo prima che affrontassimo la lotta. Così, anche se non sei affatto degno, non disperare, perché presso il giudice hai un grande avvocato: l’amore. Per questo, quando dice che la speranza non delude, intende riportare tutto non alle nostre opere ma all’amore di Dio.

STANISLAO LYONNET – RIFLESSIONI PAOLINE SULLA STORIA – (Romani 11,30-33)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/lyonnet_meditare_con_paolo10.htm

STANISLAO LYONNET – RIFLESSIONI PAOLINE SULLA STORIA – (Romani 11,30-33)

A conclusione di queste meditazioni che di volta in volta han preso in esame un aspetto particolare della dottrina spirituale di San Paolo, sceglieremo un passo tolto, come il precedente, dalla lettera ai Romani e probabilmente di eguale attualità. L’Apostolo vi ha espresso le sue riflessioni sulla teologia della storia e più precisamente sulla parte che in essa svolge il peccato dell’uomo che Dio, nella sua misteriosa sapienza, utilizza ai fini della sua misericordia. Il passo conclude i lunghi ragionamenti sul problema del rifiuto opposto al vangelo dalla massa del popolo eletto. Davanti all’infedeltà d’Israele, non solo sanguina il cuore dell’Apostolo, che «si augurerebbe di essere anatema, separato dal Cristo per i suoi fratelli, quelli della sua razza secondo la carne» (Rom. 9,3), ma il rifiuto sembra mettere in questione le promesse divine: si tratta di un vero scandalo di ordine religioso. Ora San Paolo comprende che questo rifiuto entra misteriosamente nei disegni salvifici della sapienza divina su tutto il genere umano.
Ecco come si esprime alla fine del cap.11, indirizzandosi alla comunità cristiana di Roma composta in maggioranza da convertiti dal paganesimo.
Come voi una volta avete disobbedito a Dio e ora avete ottenuto misericordia grazie alla loro disobbedienza, così anch’ essi al presente hanno disobbedito grazie alla misericordia usata a voi, affinché essi pure al presente ottengano misericordia. Poiché Dio ha racchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per usare a tutti misericordia. O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Come sono insondabili i suoi decreti e imperscrutabili le sue vie! (Rom. 11,30-33).
San Paolo si era creduto chiamato a convertire al Cristo i suoi vecchi correligionari, e l’ha confidato ai Giudei di Gerusalemme, come ci riferisce San Luca negli Atti (22,17-21). Gli pare che il suo zelo di un tempo per il giudaismo non potesse che rendere più efficace la sua testimonianza. Ora, è ai pagani che Cristo lo manda (v. 21). Di fatto, nonostante tutti i suoi sforzi (1), i Giudei non solo si rifiutano di credere in massa al vangelo (2), ma, gelosi di veder la «parola della salvezza» recata anche agli odiati pagani (cfr. Atti 13,45), fan di tutto per porvi ostacolo, come si lamenta l’Apostolo: «Ci impediscono di predicare ai pagani per la loro salvezza» (3). Così il popolo d’Israele, unico depositario delle promesse della salute per il mondo intero e solo strumento scelto da Dio per portare questa salvezza al genere umano, sembra aver cessato di esser tale a vantaggio dei pagani, nemici di Israele e di Dio. Contraddizione tanto più lampante, se si pensa che le promesse divine riguardo a Israele erano incondizionate, cioè non dipendevano dalla fedeltà degli uomini. Poiché la parola di Dio non può fallire (Rom.9,6), come potrebbe il vangelo di Paolo essere ancora un vangelo autentico, un’ autentica «Parola di Dio», se fosse in opposizione così aperta con la parola di Dio infallibile?
Tre capitoli non sono di troppo per esporre la soluzione complessa e sfumata dell’ Apostolo. Le promesse di Dio verso il popolo d’Israele, per incondizionate che siano, non si oppongono a una infedeltà da parte degli individui: infedeltà che del resto non si estende a tutti, ma è parziale. Soprattutto poi, nonostante le apparenze, essa è «provvidenziale» o, come dice Paolo, è conforme alla «giustizia» salvifica di Dio (Rom. 9,14), ossia ordinata alla salvezza di tutti (vv. 17 e 22-23). Perciò non esita ad affermare che, se i Giudei hanno disobbedito grazie alla misericordia usata ai pagani (la salvezza offerta ai pagani ha di fatto eccitato la loro gelosia, cfr. Atti 13,4 5), i pagani hanno ottenuto misericordia grazie alla disobbedienza dei Giudei o in termini ancor più chiari afferma che «il falso passo dei Giudei ha procurato la salvezza ai pagani» (Rom. 11,11), «ha reso ricco il mondo»; che «la loro diminuzione è stata la ricchezza dei pagani» (v. 12), e «la loro messa a parte una riconciliazione per il mondo» (v. 15).
Infatti San Paolo conosceva più di tutti fino a qual punto Giudei e pagani sì disprezzavano gli uni gli altri. Se tutta la massa dei Giudei si fosse convertita, poteva con ragione domandarsi se i pagani avrebbero accettato di abbracciare una religione che poteva apparir loro come una setta giudaica. Soprattutto, forse, doveva pensare agli ostacoli d’ogni sorta che i convertiti dal giudaismo avevano costantemente opposto alla sua predicazione del vangelo autentico e ai quali così spesso allude nelle lettere. Se il piccolo numero di questi convertiti aveva reso il suo apostolato così difficile, quale ostacolo non avrebbe costituito la conversione in massa di Israele!
Quindi l’infedeltà di Israele, lungi dal mettere in scacco il piano divino di salvezza del mondo, come un tempo la resistenza del Faraone fa risplendere di luce meridiana la potenza salvifica di Dio (Rom. 9, 17.22-23). C’è di più. Nel pensiero divino l’infedeltà attuale dei Giudei non è una «caduta definitiva», ma un semplice «passo falso» che deve facilitare la conversione dei pagani, ordinato in ultima analisi alla conversione stessa dei Giudei. Dio l’ha permessa «affinché la loro gelosia ne fosse provocata» (Rom. 11,11), affinché essi pure a loro volta ottenessero misericordia.
Per accogliere la salvezza come un dono della misericordia divina bisognava che Israele cominciasse a rinunciare a pretenderla come un diritto, che si spogliasse di quella «sufficienza» in cui San Paolo ravvisa in realtà il più grande ostacolo, il solo in fin dei conti, a una conversione vera (cfr.Rom. 3,27). Questo era già l’insegnamento dei primi capitoli della lettera: se Paolo si attarda a descrivere la «rivelazione della collera di Dio» (Rom. 1,18-3,30), lo fa per preparare l’uomo ad accogliere la «rivelazione della giustizia salvifica di Dio in Gesù Cristo» (Rom. 3,21). Dio ha permesso che il peccato soverchiasse il genere umano, senza distinzione di pagani (Rom. 1,18-31) e di Giudei (Rom. 2,1-3,20), «affinché ogni bocca fosse chiusa e il mondo intero riconosciuto colpevole davanti a Dio» (Rom. 3,19). Se l’uomo vuol essere giustificato da Dio, l’unico atteggiamento da prendere è quello del pubblicano della parabola evangelica (Lc. 18,9-14). Giobbe una volta s’era immaginato che, per vedere riconosciuta da Dio la sua ingiustizia, fosse sufficiente che Dio usasse nei suoi confronti una bilancia esatta: «Mi pesi su una bilancia esatta! Lui, Dio, riconoscerà la mia innocenza!» (Giob. 31,6). Proposta stolta: «Ho parlato alla leggera… piuttosto mi metterò la mano alla bocca» (40,4)… «Non ti conoscevo ancora che per sentito dire. Ritiro perciò le mie parole e faccio penitenza in polvere e cenere» (42,5-6). L’uomo per essere giustificato deve, col Salmista citato proprio qui da San Paolo (Rom. 3,19), smettere di invocare il «giudizio» di Dio: «Non entrare in giudizio col tuo servo» (Sal. 143,2) e appellarsi invece unicamente alla fedeltà con cui Dio mantiene le promesse di salvezza, ossia a ciò che il Salmista chiama la sua fedeltà e la sua giustizia: «Ascolta la mia supplica nella tua fedeltà, accogli la mia preghiera nella tua giustizia» (Sal. 143,1).
Dio non può volere il peccato dell’uomo; ma lo permette. L’uomo solo è responsabile del suo peccato; ma San Paolo non esita ad assegnare a questo un posto nel piano di Dio. Tutti hanno disobbedito, tutti hanno peccato, Giudei e pagani: Dio voleva usare a tutti misericordia!
Un disegno così straordinario strappa all’ Apostolo un grido che non è certo di terrore e di spavento come sembrano suggerire certe espressioni di S. Agostino, ma, come ha ben visto Origene, di gioiosa meraviglia e di ringraziamento, davanti all’abisso della ricchezza salvifica di Dio, della sua scienza elettiva, con la quale ha anticipatamente «conosciuto il suo popolo» (Rom. 11,2), e della sua sapienza, sovrana signora della storia: O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! come sono insondabili i suoi decreti e imperscrutabili le sue vie! Esclamazione cui faranno eco le ultime parole della lettera: «A Dio, unico sapiente, per Gesù Cristo, a lui sia gloria nei secoli dei secoli» (Rom. 16,27).
Proprio a proposito del peccato e delle ragioni misteriose per cui Dio lo permette, Paolo evoca in genere – qui e probabilmente anche in 1 Cor.1,21-24 – il tema biblico della «sapienza di Dio», sapienza «dalle risorse infinite» (Ef. 3,10), sorprendente «capacità» che, in una maniera tanto più meravigliosa quanto più sconcerta le nostre intelligenze limitate, sa assicurare il trionfo della misericordia e far servire alla salvezza dell’uomo, purché questo vi acconsenta, persino quel peccato del quale si serve per opporsi alla salvezza stessa.
Questa è una teologia della storia di un ottimismo singolare, che Sant’Ireneo ha magnificamente illustrato in una celebre pagina in cui si riferisce proprio al nostro passo della lettera ai Romani. Egli ci mostra come Dio fin dall’origine, mentre elaborava il suo piano di salvezza, permise che l’uomo fosse inghiottito dall’antico dragone, come più tardi Giona dal mostro marino, non perché rimanesse in quello stato e fosse definitivamente perduto, ma perché risuscitasse dai morti e, ricevendo da Dio una salvezza che non gli era più lecito sperare, rendesse gloria a Dio e così cessasse di credere, nel suo vano orgoglio, di possedere l’immortalità per natura. Così l’esperienza stessa dell’abisso da cui sarebbe stato liberato gli avrebbe rivelato a un tempo e la debolezza sua propria e la grandezza di Dio, capace di conferire l’immortalità al mortale e l’eternità all’effimero. E l’uomo, scoprendo come rivelate nella sua persona tutte le energie divine, avrebbe fatto salire dalla sua anima un canto incessante di ringraziamento: «Come il medico si rivela nei malati, così Dio si manifesta negli uomini. Ecco perché San Paolo ha detto: Dio ha racchiuso ogni cosa nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (4).

[1]. Si veda per es. Atti 13,5 (a Salamina); 13,14-41 (ad Antiochia di Pisidia): 14,1 (a Iconio); 16,13-15 (a Filippi); 17,2-4 (a Tessaloni. ca); 7,10-12 (Berea); 18,2-4 (a Corinto); 18,19-20 e 19,8 (a Efeso); 21,33-22,21 (a Gerusalemme); 28,17-24 (a Roma).
[2]. Si confronti specialmente Atti 13,45-47 (ad Antiochia di Pisidia); 18,6 (a Corinto); 19,9 e 20,19 (a Efeso); 21,27-31; 22,22-23 e 23, 12-22 (a Gerusalemme); 28, 24-28 (a Roma).
[3]. 1 Tess. 2,16: Paolo pensa probabilmente a quanto era accaduto ad Antiochia di Pisidia (Atti 13,50), a Iconio (14,2), a Tessalonica (17,5) e a Berea (17,13).
[4]. Iren., Adv. haer.3,20,1-2.

 

Publié dans:Lettera ai Romani, STANISLAO LYONNET |on 14 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA CREAZIONE GEME E SOFFRE COME NELLE DOGLIE DEL PARTO

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LA CREAZIONE GEME E SOFFRE COME NELLE DOGLIE DEL PARTO

19 NOVEMBRE 2013

Da alcuni anni veniamo continuamente colpiti da notizie di sconvolgimenti naturali che avvengono in diverse parti del mondo e che provocano innumerevoli vittime: terremoti, tsunami, cicloni, alluvioni, carestie e altro.
Io credo che la natura sia in sofferenza un po’ per causa nostra ma anche e soprattutto perché è come se contenesse in sé il seme della corruzione.
La morte fa parte della vita e tutti i sistemi, vitali o no, non sono eterni, sono destinati al disfacimento. Dal ‘nulla’ miracolosamente nascono, crescono, arrivano all’apice dello splendore ma poi inevitabilmente decadono, si ammalano, perdono colpi, finché muoiono tornando al ‘nulla’ originario. Così è sia per un fiore che per una Stella.
La Natura, che emerge dal caos a causa dell’intervento divino, ritorna inevitabilmente al caos da cui è nata a causa del fatto che nella materia di cui è composta è insita la corruzione, che come un germe la consuma e rode. Se essa fosse rimasta permeata dall’afflato divino, così come inizialmente era stata concepita, sarebbe durata perfetta per sempre. Ma il Male che è entrato in essa, soprattutto come ribellione, come affermazione superba di autosufficienza, ha fatto sì che essa stessa smarrisse il sostegno del creatore e alla fine fosse destinata alla morte, così come un pallone si sgonfia e raggrinzisce perché perde l’aria che lo teneva in forma.
Ma la Natura non dimentica del suo stato originario, soffre e grida perché ha una immensa nostalgia della perfezione primitiva che la rendeva partecipe della gloria di Dio, perciò a suo modo prega e spera con gemiti sempre più incontenibili che la Grazia divina faccia il suo ritorno e la vivifichi donandole la vera Vita. Per dirla con San Paolo “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Romani 8, 19-23).
E così pure, relativamente all’essere umano, la sua organizzazione sociale sembra al giorno d’oggi sempre più in disfacimento, e questo per un atto di superbia e ribellione, simile al tragico grido ‘Non serviam! Non ti servirò!’ di Lucifero, che ormai è generalizzato e ha portato alla quasi completa scomparsa della Fede e del culto che a Dio è dovuto.
Purtroppo siamo arrivati al punto, di concepire tutte le nostre strutture più per la morte che per la vita. Infatti ciò che aumenta è il soffocamento cosciente e voluto di quelle che sono le vere espressioni superiori, quelle che assicurano il nostro perfetto metabolismo, cioè quelle spirituali. Il Moderno per sua concezione è infatti ateo, relativistico e opposto ad ogni trascendenza, e alla fin fine nichilistico. Ogni eventuale moto residuo di fede o rapporto con l’assoluto viene da esso cancellato, e ciò assicura la perdita dell’orientamento e l’alienazione dell’aiuto divino che conducono la società umana verso il disfacimento finale (1).
E non si può certo accusare l’Altissimo dicendo ‘ma perché Dio ha permesso questo o quest’altro?’ quando invece si rifiuta sdegnosamente il suo aiuto. Il paradosso è che gli alfieri della ribellione per primi dicono ‘Non credo in Dio perché esiste il male’ mentre la risposta sarebbe molto semplice: ‘esiste il male perché si rifiuta Dio’.
E forse per poter risorgere si dovrà giungere alla crisi finale, ad una specie di morte mistica – verso cui d’altronde sembriamo da tempo ben avviati – e che avrà il suo culmine con l’era Anticristica, quella in cui il Mondo sarà come non mai mondo e in cui il Profano si sarà assolutizzato. Ma il Male è per sua natura distruzione, menzogna e morte, per cui il suo regno di cartapesta incollata con il sangue degli innocenti non potrà durare a lungo, anche se si dovrà prima toccare il fondo dell’abisso.
Ma proprio in quella situazione estrema, probabilmente verrà fuori un grido potente dell’anima che pur soffocata, per non morire, non dimentica della sua origine divina, imperiosamente ci farà sentire il bisogno della salvezza, e ci porterà finalmente e in maniera risolutiva ad accettare e cercare Chi la sostiene e la mantiene, Colui che è il solo che può ridarci la vera Vita, cioè il nostro Creatore.
________________________________________________________________________________
Note
(1) In questo post i paragrafi in corsivo sono frasi e concetti da me sintetizzati e tratti dal libro di Giancarlo Marinelli – Il segreto dell’angelo – Fede e apocalisse nel mondo moderno – Edizioni Segno 2002 .

Publié dans:Lettera ai Romani |on 18 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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